Bruto Secondo (Alfieri, 1946)/Atto terzo

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Atto terzo

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Atto secondo Atto quarto

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ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Cesare, Antonio.

Anton. Cesare, sí; fra poco a te vien Bruto

in questo tempio stesso, ove a te piacque
gli arroganti suoi sensi udir pur dianzi,
e tollerarli. Il riudrai fra breve
da solo a sol, poiché tu il vuoi.
Cesare   Ten sono
tenuto assai: lieve non era impresa
il piegar Bruto ad abboccarsi or meco;
né ad altri mai, fuorché ad Antonio, darne
osato avrei lo incarco.
Anton.   Oh! quanto duolmi,
che a’ detti miei tu sordo ognor, ti ostini
in sopportar codesto Bruto! Il primo
de’ tuoi voler fia questo, a cui si arrenda
di mala voglia Antonio. In suon d’amico
pregar pur volli, e in nome tuo, colui,
che mortal tuo nemico a certa prova
esser conosco, e come tale abborro.
Cesare Odian Cesare molti: eppur, sol uno
nemico io conto, che di me sia degno:
e Bruto egli è.
Anton.   Quindi or, non Bruto solo,

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ma Bruto prima, e i Cassj, e i Cimbri poscia,

e i Tullj, e tanti uccider densi, e tanti.
Cesare Quant’alto è piú, quanto piú acerbo e forte
il nemico, di tanto a me piú sempre
piacque il vincerlo; e il fea, piú che con l’armi,
spesso assai col perdono. Ai queti detti
ricorrer, quando adoprar puossi il ferro;
persúader, convincere, far forza
a un cor pien d’odio, e farsi essere amico
l’uomo, a cui torre ogni esser puossi; ah! questa
contro a degno nemico è la vendetta
la piú illustre; e la mia.
Anton.   Cesare apprenda
sol da se stesso ad esser grande: il fea
natura a ciò: ma il far securi a un tempo
Roma e se, da chi gli ama ambo del pari
oggi ei l’apprenda: e sovra ogni uom, quell’uno
son io. Non cesso di ridirti io mai,
che se Bruto non spegni, in ciò ti preme
piú assai la vana tua gloria privata,
che non la vera della patria; e poco
mostri curar la securtá di entrambi.
Cesare E atterrir tu con vil sospetto forse
Cesare vuoi?
Anton.   Se non per se, per Roma
tremar ben può Cesare anch’egli, e il debbe.
Cesare Morir per Roma, e per la gloria ei debbe;
non per se mai tremar, né mai per essa.
Vinti ho di Roma io gl’inimici in campo;
quei soli eran di Cesare i nemici.
Tra quei che il ferro contro a lei snudaro,
un d’essi è Bruto; io giá coll’armi in mano
preso l’ebbi, e perire allor nol fea
col giusto brando della guerra; ed ora
fra le mura di Roma, inerme (oh cielo!)
col reo pugnal di fraude, o con la ingiusta

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scure, il farei trucidar io? Non havvi

ragion, che trarmi a eccesso tal mai possa:
s’anco il volessi,... ah! forse... io nol... potrei. —
Ma in somma, ai tanti mie’ trionfi manca
quello ancora dei Parti, e quel di Bruto:
questo all’altro fia scala. Amico farmi
Bruto voglio, a ogni costo. Il far vendetta
del trucidato Crasso, a tutto innanzi
per ora io pongo; e può giovarmi assai
Bruto all’impresa, in cui riposta a un tempo
fia la gloria di Cesare e di Roma.
Anton. Puoi tu accrescerti fama?
Cesare   Ove da farsi
altro piú resta, il da me fatto io stimo
un nulla: è tal l’animo mio. Mi tragge
or contra il Parto irresistibil forza.
Vivo me, Roma rimanersi vinta?
Ah! mille volte pria Cesare pera. —
Ma, di discordie, e d’atri umor perversi,
piena lasciar pur la cittá non posso,
mentre in Asia guerreggio: né lasciarla
piena di sangue e di terror vorrei;
benché a frenarla sia tal mezzo il certo.
Bruto può sol tutto appianarmi...
Anton.   E un nulla
reputi Antonio dunque?
Cesare   — Di me parte
sei tu nelle guerriere imprese mie:
quindi terror dei Parti anche te voglio
al fianco mio. Giovarmi in altra guisa
di Bruto io penso.
Anton.   In ogni guisa io presto
sono a servirti; e il sai. Ma, cieco troppo
sei, quanto a Bruto.
Cesare   Assai piú cieco è forse
ei quanto a me. Ma il dí fia questo, io spero,

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che il potrò tor d’inganno: oggi mi è forza

ciò almen tentare...
Anton.   Eccolo appunto.
Cesare   Or, seco
lasciami; in breve a te verronne.
Anton.   Appieno,
deh! tu d’inganno trar te stesso possa;
e in tempo ancor conoscer ben costui!


SCENA SECONDA

Bruto, Cesare.

Bruto Cesare, antichi noi nemici siamo:

ma il vincitor sei tu finora, ed anco
il piú felice sembri. Io, benché il vinto
paja, di te men misero pur sono.
Ma, qual che il nostro animo sia, battuta,
vinta, egra, oppressa, moribonda, è Roma.
Pari desir, cagion diversa molto,
tratti quí ci hanno ad abboccarci. A dirmi
gran cose hai tu, se Antonio il ver narrommi;
ed io pure alte cose a dirti vengo,
se ascoltarle tu ardisci.
Cesare   Ancor che Bruto
stato sia sempre a me nemico, a Bruto
non l’era io mai, né il son; né, se il volessi,
esserlo mai potrei. Venuto io stesso
a favellarti in tua magion saria;
ma temea, che ad oltraggio tel recassi;
Cesare osarne andar, dove consorte
a Bruto sta del gran Caton la suora:
quind’io con preghi a quí venirne invito
ti fea. — Me sol, senza littori, e senza
pompa nessuna, vedi; in tutto pari

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a Bruto; ove pur tale ei me non sdegni.

Quí non udrai, né il dittator di Roma,
né il vincitor del gran Pompeo...
Bruto   Corteggio
sol di Cesare degno, è il valor suo:
e vieppiú quando ei si appresenta a Bruto. —
Felice te, se addietro anco tu puoi,
come le scuri ed i littor, lasciarti
ed i rimorsi e il perpetuo terrore,
di un dittator perpetuo!
Cesare   Terrore?
Non che al mio cor, non è parola questa,
nota pure al mio orecchio.
Bruto   Ignota ell’era
al gran Cesare in campo invitto duce;
non l’è a Cesare in Roma, ora per forza
suo dittatore. È generoso troppo,
per negarmelo, Cesare: e, senz’onta,
può confessarlo a Bruto. Osar ciò dirmi,
di tua stessa grandezza è assai gran parte.
Franchi parliam: degno è d’entrambi. — Ai molti
incuter mai timor non puote un solo,
senza ei primo tremare. Odine, in prova,
qual sia ver me il tuo stato. Uccider Bruto,
senza contrasto il puoi: sai, ch’io non t’amo;
sai, che a tua iniqua ambizíone inciampo
esser poss’io: ma pur, perché nol fai?
Perché temi, che a te piú danno arrechi
l’uccidermi ora. Favellarmi, intanto,
e udirmi vuoi, perché il timor ti è norma
unica omai; né il sai tu stesso forse;
o di saperlo sfuggi.
Cesare   Ingrato!... e il torre
di Farsaglia nei campi a te la vita,
forse in mia man non stette?
Bruto   Ebro tu allora

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di gloria, e ancor della battaglia caldo,

eri grande: e per esserlo sei nato:
ma quí, te di te stesso fai minore,
ogni dí piú. — Ravvediti; conosci,
che tu, freddo pacifico tiranno
mai non nascesti, io te l’affermo...
Cesare   Eppure,
misto di oltraggi il tuo laudar mi piace.
T’amo; ti estimo: io vorrei solo al mondo
esser Bruto, s’io Cesare non fossi.
Bruto Ambo esser puoi; molto aggiungendo a Bruto,
nulla togliendo a Cesare: ten vengo
a far l’invito io stesso. In te sta solo
l’esser grande davvero: oltre ogni sommo
prisco Romano, essere tu il puoi: fia il mezzo
semplice molto; osa adoprarlo: io primo
te ne scongiuro; e di romano pianto,
in ciò dirti, mi sento umido il ciglio... —
Ma, tu non parli? Ah! tu ben sai, qual fora
l’alto mio mezzo: in cor tu ’l senti, il grido
di veritá, che imperíosa tuona.
Ardisci, ardisci; il laccio infame scuoti,
che ti fa nullo a’ tuoi stessi occhi; e avvinto
ti tiene, e schiavo, piú che altrui non tieni.
A esser Cesare impara oggi da Bruto.
S’io di tua gloria invido fossi, udresti
or me pregarti ad annullar la mia?
Conosco il ver; me non lusingo: in Roma,
a te minor di dignitade, e d’anni,
e di possanza, e di trionfi, io sono,
come di fama. Se innalzarsi il nome
di Bruto può col proprio volo, il puote
soltanto omai su la rovina intera
del nome tuo. Sommessa odo una voce,
timida, e quindi non romana affatto,
Bruto appellar liberator di Roma,

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come oppressor ten chiama. A farmi io tale,

ch’io ti sconfigga, o ch’io ti spenga, è d’uopo.
Lieve il primo non è; piú che nol credi
lieve il secondo: e, se a me sol pensassi,
tolto il signor giá mi sarei: ma penso,
romano, a Roma; e sol per essa io scelgo
di te pregar, quando te uccider debbo.
Cesare, ah! sí, tu cittadin tornarne
a forza dei, da me convinto. A Roma
tu primo puoi, tu sol, tu mille volte
piú il puoi di Bruto, a Roma render tutto;
pace, e salvezza, e gloria, e libertade:
quanto le hai tolto, in somma. Ancor per breve
tu cittadin tua regia possa adopra,
nel render forza alle abbattute leggi,
nel tor per sempre a ogni uom l’ardire e i mezzi
d’imitarti tiranno; e hai tolto a un tempo
a ogni uom, per quanto ei sia roman, l’ardire
di pareggiarti cittadino. — Or, dimmi:
ti estimi tu minor di Silla? Ei, reo
piú assai di te, piú crudo, di piú sangue
bagnato e sazio; ei, cittadin pur anco
farsi ardiva, e fu grande. Oh! quanto il fora
Cesare piú, che di possanza è giunto
oltre a Silla di tanto! Altra, ben altra
fia gloria a te, se tu spontaneo rendi
a chi si aspetta, ciò che possa ed arte
ti dier; se sai meglio apprezzar te stesso;
se togli, in somma, che in eterno in Roma
nullo Cesare mai, né Silla, rieda.
Cesare — Sublime ardente giovine; il tuo ratto
forte facondo favellar, pur troppo!
vero è fors’anche. Ignota forza al core
mi fan tuoi detti; e allora che a me ti chiami
minore, io ’l sento, ad onta mia, di quanto
maggior mi sei. Ma, il confessarlo io primo,

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e il non n’essere offeso, e il non odiarti,

sicure prove esser ti denno, e immense,
che un qualche strano affetto io pur nudrisco
per te nel seno. — A me sei caro, il credi;
e molto il sei. — Ciò ch’io di compier, tempo
omai non ho, meglio da te compiuto
vo’ ch’ei sia, dopo me. Lascia, ch’io aggiunga
a’ miei trionfi i debellati Parti;
ed io contento muojo. In campo ho tratto
di mia vita gran parte; il campo tomba
mi fia sol degna. Ho tolta, è vero, in parte
la libertá, ma in maggior copia ho aggiunto
gloria a Roma, e possanza: al cessar mio,
ammenderai di mie vittorie all’ombra
tu, Bruto, i danni, ch’io le fea. Secura
posare in me piú non può Roma: il bene
ch’io vorrei farle, avvelenato ognora
fia dal mal che le ho fatto. Io quindi ho scelto,
in mio pensiero, alle sue interne piaghe
te sanatore: integro sempre, e grande,
stato sei tu; meglio di me, puoi grandi
far tu i Romani, ed integri tornarli.
Io, qual padre, ti parlo;... e, piú che figlio,
o Bruto mio, mi sei.
Bruto   ... Non m’è ben chiaro
questo tuo favellare. A me non puote
in guisa niuna mai toccar la ingiusta
sterminata tua possa. E che? tu parli
di Roma giá, quasi d’un tuo paterno
retaggio?...
Cesare   Ah! m’odi. — A te piú omai non posso
nasconder cosa, che a te nota, or debbe
cangiarti affatto in favor mio.
Bruto   Cangiarmi
puoi, se ti cangi; e se te stesso vinci;
trionfo sol, che a te rimanga...

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Cesare   Udito

che avrai l’arcano, altro sarai.
Bruto   Romano
sarò pur sempre. Ma, favella.
Cesare   ... O Bruto,
nel mio contegno teco, e ne’ miei sguardi,
e ne’ miei detti, e nel tacer mio stesso,
di’, non ti par che un smisurato affetto
per te mi muova e mi trasporti?
Bruto   È vero;
osservo in te non so qual moto; e parmi
d’uom piú assai, che di tiranno: e finto
creder nol posso; e schietto, attribuirlo
a che non so.
Cesare   ... Ma tu, per me quai senti
moti entro al petto?
Bruto   Ah! mille: e invidia tranne,
tutti per te provo a vicenda i moti.
Dir non li so; ma, tutti in due gli stringo:
se tiranno persisti, ira ed orrore;
s’uom tu ritorni e cittadino, immenso
m’inspiri amor di maraviglia misto.
Qual vuoi dei due da Bruto?
Cesare   Amore io voglio:
e a me tu il dei... Sacro, infrangibil nodo
a me ti allaccia.
Bruto   A te? qual fia?...
Cesare   Tu nasci
vero mio figlio.
Bruto   Oh ciel! che ascolto?...
Cesare   Ah! vieni,
figlio, al mio seno...
Bruto   Esser potria?...
Cesare   Se forse
a me nol credi, alla tua madre istessa
il crederai. Questo è un suo foglio; io l’ebbi

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in Farsaglia, poche ore anzi alla pugna.

Mira; a te nota è la sua mano: ah! leggi.
Bruto1 «Cesare (oh ciel!) stai per combatter forse,
«Pompeo non pure, e i cittadini tuoi,
«ma il tuo proprio figliuolo. È Bruto il frutto
«de’ nostri amori giovenili. È forza,
«ch’io te lo sveli; a ciò null’altro trarmi
«mai non potrebbe, che il timor di madre.
«Inorridisci, o Cesare; sospendi,
«se ancor n’è tempo, il brando: esser tu ucciso
«puoi dal tuo figlio; o di tua man tu stesso
«puoi trucidarlo. Io tremo... Il ciel, deh! voglia,
«che udito in tempo abbiami un padre!... Io tremo...
«Servilia.» — Oh colpo inaspettato e fero!
Io di Cesare figlio?
Cesare   Ah! sí, tu il sei.
Deh! fra mie braccia vieni.
Bruto   Oh padre!... Oh Roma!...
Oh natura!... Oh dover!... — Pria d’abbracciarti,
mira, a’ tuoi piè prostrato Bruto cade;
né sorgerá, se in te di Roma a un tempo
ei non abbraccia il padre.
Cesare   Ah! sorgi, o figlio. —
Deh! come mai sí gelido e feroce
rinserri il cor, che alcun privato affetto
nulla in te possa?
Bruto   E che? credi or tu forse
d’amar tuo figlio? Ami te stesso; e tutto
serve in tuo core al sol desio di regno.
Mostrati, e padre, e cittadin; che padre
non è il tiranno mai: deh! tal ti mostra;
e un figlio in me ritroverai. La vita
dammi due volte: io schiavo, esser nol posso;
tiranno, esser nol voglio. O Bruto è figlio

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di liber’uom, libero anch’egli, in Roma

libera: o Bruto, esser non vuole. Io sono
presto a versar tutto per Roma il sangue;
e in un per te, dove un Roman tu sii,
vero di Bruto padre... Oh gioja! io veggo
sul tuo ciglio spuntare un nobil pianto?
Rotto è del cor l’ambizíoso smalto;
padre or tu sei. Deh! di natura ascolta
per bocca mia le voci; e Bruto, e Roma,
per te sien uno.
Cesare   ... Il cor mi squarci... Oh dura
necessitá!... Seguir del core i moti
soli non posso. — Odimi, amato Bruto. —
Troppo il servir di Roma è omai maturo:
con piú danno per essa, e men virtude,
altri terralla, ove tenerla nieghi
Bruto di man di Cesare...
Bruto   Oh parole!
Oh di corrotto animo servo infami
sensi! — A me, no, non fosti, né sei padre.
Pria che svelarmi il vil tuo core, e il mio
vil nascimento, era pietá piú espressa
me trucidar, tu, di tua mano...
Cesare   Oh figlio!...
Bruto Cedi, o Cesare...
Cesare   Ingrato,... snaturato...
che far vuoi dunque?
Bruto   O salvar Roma io voglio,
o perir seco.
Cesare   Io ravvederti voglio,
o perir di tua mano. Orrida, atroce
è la tua sconoscenza... Eppure, io spero,
ch’onta ed orror ne sentirai tu innanzi
che in senato ci vegga il dí novello. —
Ma, se allor poi nel non volermi padre
ti ostini, ingrato; e se, qual figlio, sdegni

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meco divider tutto; al dí novello,

signor mi avrai.
Bruto   — Giá pria d’allora, io spero,
l’onta e l’orror d’esser tiranno indarno,
ti avran cangiato in vero padre. — In petto
non puommi a un tratto germogliar di figlio
l’amor, se tu forte e sublime prova
pria non mi dai del tuo paterno amore.
D’ogni altro affetto è quel di padre il primo;
e nel tuo cor de’ vincere. Mi avrai
figlio allora, il piú tenero, il piú caldo,
il piú sommesso, che mai fosse... Oh padre!
Qual gioja allor, quanta dolcezza, e quanto
orgoglio avrò d’esserti figlio!...
Cesare   Il sei,
qual ch’io mi sia: né mai contro al tuo padre
volger ti puoi, senza esser empio...
Bruto   Ho nome
Bruto; ed a me, sublime madre è Roma. —
Deh! non sforzarmi a reputar mio vero
genitor solo quel romano Bruto,
che a Roma e vita e libertá, col sangue
de’ proprj suoi svenati figli, dava.


SCENA TERZA

Cesare.

Oh me infelice!... E fia pur ver, che il solo

figliuol mio da me vinto or non si dica,
mentr’io pur tutto il vinto mondo affreno?


  1. Legge il foglio.