Chi l'ha detto?/Parte prima/41

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Parte prima - § 41. Ira, collera, ingiurie, offese, vendetta

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Parte prima - § 41. Ira, collera, ingiurie, offese, vendetta
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§ 41.

Ira, collera, ingiurie, offese, vendetta



Beato chi sa vivere con l’animo sempre sereno, senza preoccupazioni, senza sdegni, senza fiele,

762.   Amandosi e vivendo lemme lemme.

come Veneranda e Taddeo, i due tipi così freschi nella memoria anche del popolo, i quali:

          Così di mese in mese e d’anno in anno,
               Amandosi e vivendo lemme lemme,
               È certo, cara mia, che camperanno
               A dieci doppi di Matusalemme:
               E noi col nostro amore agro e indigesto,
               Invecchieremo, creperemo e presto.

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Ma quelle sono creature privilegiate: e il maggior numero degli abitanti di questo basso mondo è soggetto alle mille debolezze del genere umano, alla collera in special modo. La definizione dell’ira ci è data dal cantore di Laura, nel sonetto che comincia col noto verso anfibologico: Vincitore Alessandro l’ira vinse:

763.             Ira è breve furor....

(Petrarca, Sonetto sopra varj argomenti,
son. XIX: son. CXCVI sec. il Mestica).

Ed è reminiscenza oraziana: infatti nelle Epistole d’Orazio. lib. I, ep. II, v. 62-63, si legge:

Ira furor brevis est: animum rege, qui, nisi paret,
Imperat: hunc frenis, hunc tu compesce catena.

Troviamo di frequente nei nostri melodrammi accenni alla passione dell’animo irato, passione che al pari dell’amore, è eminentemente teatrale. Ricordo i seguenti:

764.   Spenta è l’ira nel mio petto.

(Lucia di Lammermoor, parole di Salvatore Cammarano,
mus. di Donizetti, a. II. sc. 2).

765.   Ah! perchè non posso odiarti,
     Infedel, com’io vorrei!
     Ah! del tutto ancor non sei
     Cancellata dal mio cor.

(La sonnambula, melodr. di F. Romani, mus. di V. Bellini, a. II. sc. 4).

Ma di tutti offusca il ricordo la piacevole imagine del

766.   Bouillant Achille. 1

dell’ameno couplet nell’atto I, sc. 11 della Belle Helèn di Henry Meilhac e Ludovic Halévy, musica di Offenbach.

L’animo irato si manifesta in più modi, negli atti pieni di rabbia e mal talento, come nell’astuta Armida, [p. 248 modifica]

767.   Tutta negli atti dispettosa e trista.

(Tasso, Gerusalemme liberata, c. IV. ott. 74).

ovvero come Niccolò III che, confitto nella tomba affocata, ai fieri rimbrotti di Dante scalciava con tutt’e due i piedi:

768.   Forte spingava con ambo le piote.

e anche con le lacrime:

769.                  Inde iræ et lacrymæ.2

(Giovenale, Satira I, v. 168).

L’uomo cui è stata fatta ingiuria, sfugge la presenza incresciosa di chi l’ha offeso, cui può dire giustamente:

770.   Gli sia concesso il non vedervi almeno.

(V. Alfieri, Sofonisba, tragedia, a. I, sc. I).

Nella sua bocca risuonano non di rado le minacce: e se desso è un nume, o si atteggia a tale, potrà ripetere la famosa minaccia di Nettuno ai venti tardi nell’obbedirlo:

771.                  Quos ego....3

(Virgilio, Eneide, lib. I, v. 135).

che il Tasso imitò nella oscura reticenza del mago Ismeno invocante i demoni:

772.                  Che sì? che sì?...

(Gerusalemme liberata, c. XIII, ott. 10).

Nel medesimo poema si trova un altro classico esempio d’ira minacciante, ed è quello di Plutone che manda i demoni in guerra contro l’odiato esercito dei Crociati, gridando loro:

773.   Pera il campo e ruini, e resti in tutto
Ogni vestigio suo con lui distrutto.

(Gerusalemme liberata, c. IV, ott. 17).
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Ma l’ira è cieca, e molte volte il destino lascia cadere vuote e irrite le sue minaccie. Come rimasero vane quelle d’Ismeno e dell’Inferno, e come nella cantica In morte di Ugo Bassville del Monti (c. I, v. 3) lo «spirto d’Abisso» se ne parte.

774.   Vôta stringendo la terribil ugna.

così a’ giorni nostri si spersero al vento quelle di chi tentava opporsi al fatale andare dei destini d’Italia. Fra le molte che restano nella memoria dei presentì in quella fortunosa età, ricordo questa, narrata in due versi di uno stornello di Francesco Dall’Ongaro intitolato Maria Antonia:

775.   Vo’ colle trecce delle livornesi
     Farmi le materasse e gli origlieri.

che dicesi (ma forse è leggenda) riproducano veramente le parole dette da quella superba granduchessa di Toscana nell’aprile 1859 dopo la sollevazione di Livorno. Se non avesse avuto altro da porre sul letto nell’esilio di Salisburgo, poteva dormire per terra!

Nasce l’ira d’ordinario dalle ingiurie ricevute. Disse di queste Giacomo Leopardi nei suoi Pensieri, che:

776.   Gli uomini si vergognano, non delle ingiurie che fanno, ma di quelle che ricevono. Però ad ottenere che gl’ingiuriatori si vergognino, non v’è altra via, che di rendere loro il cambio.

Ecco un classico esempio di invincibile rancore per un’antica offesa:

777.   Manet alta mente repostum
Judicium Paridis spretæque injuria formæ.4

(Virgilio, Eneide, lib. I. v. 26-27).

È il risentimento di Giunone contro Paride e la casa di lui pei l’offesa fatta alla sua bellezza nel famoso giudizio fra le tre Dee. [p. 250 modifica]

Un altro classico ammonisce che è delle donne il pianto, ma degli uomini il ricordarsi delle patite offese:

778.   Feminis lugere honestum est, viris meminisse,5

(Tacito, De moribus Germaniae, § XXVII).

Sono le ingiurie rimaste impunite che eccitano il cuore umano alla vendetta. In quante anime esacerbate non ebbe un’eco profonda la terribile apostrofe di Rigoletto nel melodramma omonimo di F. M. Piave, il capolavoro musicale di Verdi (a. II, sc. 8):

779.        Sì, vendetta, tremenda vendetta,
          Di quest’anima è solo desio....
          Di punirti già l’ora s’affretta,
          Che fatale per te tuonerà!

Il pensiero della vendetta può far sembrare dolce anche la morte, se chi scende nel sepolcro porta seco la speranza che

780.   Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor!6

(Virgilio, Eneide, lib. IV, v. 625).

Essa è la imprecazione di Didone contro Enea. Una leggenda abbastanza diffusa vuole che scrivesse questo verso col suo sangue sulle mura della prigione, dove era stato rinchiuso da Cosimo I de’ Medici, Filippo Strozzi prima di uccidersi; ma il fatto, se pure vero nel fondo, non è narrato esattamente, poichè in modo ben diverso è esposto il caso nella Vita che di Filippo Strozzi scrisse il fratello Lorenzo (Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiæ del Grevio, to. VIII, parte II). Filippo, caduto prigione dei Medici dopo la rotta di Montemurlo (1538), e rinchiuso nel castello di Firenze, era stato per ordine di Carlo V messo alla tortura perchè confessasse la complicità sua o di altri nell’uccisione del Duca Alessandro: e avendo sopportato con forte animo 15 tratti di corda, dovendo essere ancora tormentato, si sarebbe ucciso con la spada di una delle guardie, lasciando di sua mano scritte le sue ultime volontà, così firmate: [p. 251 modifica] «Philippus Strozza jamjam moriturus:

«Exoriare aliquis ex ossibus meis met sanguinis ultor.».

Ma gli ultimi studi sopra Filippo Strozzi mettono in dubbio il suicidio; e del testamento che a lui si attribuisce, dubitarono anche i contemporanei, poichè nessuno ne vide mai l’originale, e molti lo crederono opera di Pier Francesco Riccio da Prato, pedante di Cosimo de’ Medici. Vedi uno studio di Alessandro Barbi nell’Archivio Storico Italiano, serie V, to. XIV, disp. 3a del 1894.

L’eroico e doloroso caso di Filippo Strozzi richiama alla memoria qualcosa di molto simile seguito ai tempi nostri. I due versi:

781.   Risorgerò nemico ognor più crudo,
Cenere anco sepolto e spirto ignudo.

(Tasso, Gerusalemme liberata, c. IX, ott. 99).

sono parole di Solimano ferito e fuggitivo; ma le bisbigliava all’orecchio di Giulio Favre suo avvocato, Felice Orsini dopo aver udito la sentenza di morte pronunziata contro di lui per l’attentato del 14 gennaio 1858. Nello stesso poema vi ha un altro verso che esprime idee molto analoghe ed è questo:

782.   Noi morirem, ma non morremo inulti.

(Gerusalemme liberata, c. II, ott. 86).

Esempio noto di spaventosa vendetta è quello ricordato nei versi, soliti a ripetersi ora più per celia che sul serio:

783.   ....A me chiedesti sangue;
E questo è sangue;... e sol per te il versai.

detti da Oreste agitato dalle furie dopo il matricidio, nella tragedia omonima (a. V, sc. 13) di Vittorio Alfieri.

Invece un esempio notissimo di vile vendetta e di cieco odio è ricordato dalla frase:

784.   Tu ammazzi un uomo morto.

che sarebbero le famose parole di Francesco Ferrucci a Fabrizio Maramaldo, il quale avutolo prigione nelle mani dopo la rotta di Gavinana (3 agosto 1530) «volle che gli fosse condotto [p. 252 modifica] dinanzi, e fattolo disarmare in sulla piazza, e dicendoli tuttavia villane e ingiuriose parole, alle quali il Ferruccio rispose sempre animosamente, gli ficcò, chi dice la spada, chi dice il pugnale e chi una zagaglia, chi dice nel petto e chi nella gola, e comandò a’ suoi (avendo egli detto, tu ammazzi un uomo morto) che finissero d’ammazzarlo, o non conoscendo o non curando l’infinita infamia, che di così barbaro e atroce misfatto seguitare gli doveva.» Così narra Benedetto Varchi nel lib. XI della Storia Fiorentina, ed è il solo storico fiorentino che accenni a queste parole: gli altri seguono piuttosto Paolo Giovio, il quale nelle Histories sui temporis, lib. XXIX (ediz. origin. del Torrentino, 1552, to. II, pag. 137) così riporta la risposta del Ferruccio:
«Haec non iniqui semper Martis sors est, quæ tibi bellum gerenti obvenire potest. Sed tu si me occidas, neque utilem, neque decoram ex mea nece laudem feres.» Sull’autenticità del racconto del Varchi e sulla tentata riabilitazione del Maramaldo vedansi due libri, uno di Edoardo Alvisi, La battaglia di Gavinana (Bologna, 1881; notevoli confutazioni di P. Villari nella Rassegna settimanale, vol. VIII, p. 278 e di R. Renier nel Preludio, anno V, p. 237), l’altro di Alessandro Luzio, Fabrizio Maramaldo (Ancona, 1883).

Ma c’è finalmente anche una santa ira, cioè quella contro il vizio e l’ingiustizia, ed a questa ira allude il Salmista là dove dice:

785.   Irascimini et nolite peccare.7

(Salmo IV, v.4).

Ma il Martini così interpreta questo passo: «Se voi siete sdegnati contro di me, guardatevi però dal ribellarvi contro lo stesso Dio; pentitevi nel riposo e nella quiete della notte de’ cattivi disegni, che l’ira vi mette in cuore contro di me.»

  1. 766.   Bollente Achille.
  2. 769.   Da ciò le ire e il pianto.
  3. 771.   Che io.... (sottintendi: potrei punire gravemente, o simili).
  4. 777.   Sta riposta nel profondo dell’animo la memoria del giudizio di Paride, e dell’ingiuria fatta alla sua spregiata bellezza.
  5. 778.   Conviene alle donne di piangere, ma agli uomini di ricordare.
  6. 780.   Sorga dalle nostre ossa un qualche vendicatore!
  7. 785.   Adiratevi, ma guardatevi dal peccare.