Critica della ragion pura (1949)/Prefazione alla seconda edizione

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Prefazione alla seconda edizione

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Prefazione alla seconda edizione
Prefazione alla prima edizione Introduzione
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PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

(1787)


Se l’elaborazione delle conoscenze, che appartengono al dominio della ragione, segua o pur no la via sicura di una scienza, si può giudicare subito dal risultato. Quando essa, dopo aver fatto molti apparecchi e preparativi, appena viene allo scopo, cade in imbarazzo, o, per raggiunger quello, deve di nuovo e più volte rifarsi da capo e mettersi per altra via; se a un tempo non è possibile mettere d’accordo i diversi collaboratori sul modo col quale debba essere perseguito lo scopo comune; allora sempre si può esser convinti, che un tale studio è ancor ben lontano dal seguire la via sicura propria di una scienza, ed è invece un semplice brancolamento; ed è merito della ragione scoprire possibilmente questa via, dovesse pure ripudiarsi come inutile ciò che era contenuto nello scopo, quale prima veniva senza riflessione concepito.

Che la logica abbia seguito questo sicuro cammino fin dai tempi più antichi, si rileva dal fatto che, a cominciare da Aristotele, non ha dovuto far nessun passo indietro, se non si vogliano considerare come correzione l’abbandono di qualche superflua sottigliezza o la più chiara determinazione della sua esposizione; ciò che appartiene più all’eleganza, che alla sicurezza di una scienza. Notevole è ancora il fatto che sin oggi la logica non ha potuto fare un passo innanzi, di modo che, secondo ogni apparenza, essa è [p. 16 modifica]da ritenersi come chiusa e completa. Infatti, se taluni moderni han preteso di estenderla aggiungendovi alcuni capitoli, o psicologici, sulle diverse facoltà conoscitive (l’immaginazione, lo spirito); o metafisici, sull’origine della conoscenza o sulle specie diverse di certezza seconda la diversità degli oggetti (idealismo, scetticismo, ecc.); o antropologici, sui pregiudizi (loro cause e rimedi): ciò prova la loro ignoranza della natura propria di questa scienza. Non è un accrescimento, ma uno storpiamento delle scienze, quando se ne oltrepassano i reciproci confini; ma il confine della logica è a sufficienza determinato da ciò, che essa è una scienza, la quale espone per disteso e rigorosamente prova soltanto le regole formali di tutto il pensiero, sia questo a priori od empirico, abbia qualsivoglia origine ed oggetto, trovi nel nostro spirito ostacoli accidentali o naturali.

Se la logica è tanto ben riuscita, deve questo vantaggio semplicemente alla sua delimitazione, ond’essa è autorizzata, o, meglio, obbligata, ad astrarre da tutti gli oggetti della conoscenza e dalla loro differenza; sicchè l’intelletto non deve nella logica occuparsi d’altro che di se stesso e della propria forma. Doveva naturalmente riuscire assai più difficile per la ragione entrare nella via sicura della scienza, quando avesse avuto da fare non solo con se stessa, ma ancora cogli oggetti; quindi la logica, in quanto propedeutica, non costituisce quasi altro che il vestibolo delle scienze, e, quando si parla di conoscenze, si presuppone bensì una logica pel giudizio di esse, ma il loro contenuto deve cercarsi nelle scienze propriamente ed oggettivamente dette.

Ora, in quanto in queste deve aver parte la ragione, è necessario che in esse qualcosa sia conosciuto a priori; e la loro conoscenza si può riferire al loro oggetto in doppia maniera: o semplicemente per determinar questo e il suo concetto (che deve esser dato d’altronde), o per realizzarlo. L’una è conoscenza teoretica della ragione, l’altra pratica. Dell’una e dell’altra è necessario che la [p. 17 modifica]parte pura, ampio o ristretto che ne sia il contenuto, cioè quella, nella quale la ragione determina il suo oggetto interamente a priori, sia esposta dapprima da sola, e ciò che proviene da altre fonti non vi sia menomamente mescolato; giacchè è cattiva amministrazione spendere alla cieca tutti gl’introiti, senza poter poi distinguere, quando vengano meno le rendite, qual parte di esse possa sopportare le spese e quale richieda che si limitino.

La matematica e la fisica sono le due conoscenze teoretiche della ragione, che devono determinare a priori il loro oggetto: la prima in modo del tutto puro, la seconda almeno in parte, ma tenendo conto ancora di altre fonti di conoscenze oltre a quella della ragione.

La matematica dai tempi più remoti, a cui giunge la storia della ragione umana, è entrata, col meraviglioso popolo dei Greci, sulla via sicura della scienza. Soltanto, non bisogna credere che le sia riuscito così facile come la logica, dove la ragione ha da fare solo con se stessa, per trovare, o meglio aprire a se medesima, la via regia; io credo piuttosto che a lungo (specialmente presso gli Egizi) sia rimasta ai tentativi incerti, e che questa trasformazione definitiva debba essere attribuita a una rivoluzione, che mise in effetto la felice idea d’un uomo solo, con una ricerca tale che, dopo di essa, la via da seguire non poteva più essere un’incognita, e la strada sicura della scienza era ormai aperta e tracciata per tutti i tempi e per infinito tratto. La storia di questa rivoluzione della maniera di pensare, la quale è ben più importante della scoperta della via al famoso Capo, e quella del fortunato mortale che la portò a compimento, non ci è stata tramandata. Ma la leggenda che ci riferisce Diogene Laerzio, il quale nomina il supposto scopritore dei più elementari principii di dimostrazione, prova che il ricordo della rivoluzione che si compì col primo passo nella scoperta della nuova via, dovè sembrare straordinariamente importante ai matematici, e perciò divenne indi[p. 18 modifica]menticabile. Il primo che dimostrò il triangolo isoscele1 (si chiamasse Talete o come si voglia), fu colpito da una gran luce, perchè comprese ch’egli non doveva seguire a passo a passo ciò che vedeva nella figura, nè attaccarsi al semplice concetto di questa figura per apprenderne le proprietà; ma, per mezzo di ciò che per i suoi stessi concetti pensava e rappresentava a se stesso (per costruzione), produrla; e che, per apprenderne qualche cosa a priori, non doveva attribuire alla cosa se non ciò che scaturiva necessariamente da quello che, secondo il suo concetto, vi aveva posto egli stesso.

La fisica giunse ben più lentamente a trovare la via maestra della scienza; giacchè non è passato più di un secolo e mezzo circa dacchè la proposta del profondo Bacone di Verulamio, in parte provocò, in parte, poichè si era già sulla traccia di essa, accelerò la scoperta, che può allo stesso modo essere spiegata solo da una rapida rivoluzione precedente nel modo di pensare. Io qui prenderò in considerazione la fisica solo in quanto è fondata su principii empirici.

Quando Galilei fece rotolare le sue sfere su di un piano inclinato, con un peso scelto da lui stesso, e Torricelli fece sopportare all’aria un peso, che egli stesso sapeva di già uguale a quello di una colonna d’acqua conosciuta, e, più tardi, Stahl trasformò i metalli in calce, e questa di nuovo in metallo, togliendovi o aggiungendo qualche cosa2, fu una rivelazione luminosa per tutti gl’investigatori della natura. Essi compresero che la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno, e che, con principii de’ suoi giudizi secondo leggi immutabili, deve essa entrare innanzi e costringere la natura a rispondere [p. 19 modifica]alle sue domande; e non lasciarsi guidare da lei, per dir così, colle redini; perchè altrimenti le nostre osservazioni, fatte a caso e senza un disegno prestabilito, non metterebbero capo alla legge necessaria, che la ragione cerca e di cui ha bisogno. È necessario dunque che la ragione si presenti alla natura avendo in una mano i principii, secondo i quali soltanto è possibile che fenomeni concordanti abbian valore di legge, e nell’altra l’esperimento, che essa ha immaginato secondo questi principii, per venir istruita da lei; ma non in qualità di scolaro che stia a sentire tutto ciò che piaccia al maestro; anzi di giudice, che dal suo seggio costringa i testimoni a rispondere alle domande che egli loro rivolge. La fisica pertanto è debitrice di così felice rivoluzione, compiutasi nel suo metodo, solo a questa idea, che la ragione deve (senza fantasticare intorno ad essa) cercare nella natura, conformemente a quello che essa stessa vi pone, ciò che deve apprenderne, e di cui nulla potrebbe da se stessa sapere. Così la fisica ha potuto prima d’ogni altra disciplina esser posta sulla via sicura della scienza, laddove da tanti secoli essa non era stato altro che un semplice brancolamento.

Alla metafisica, conoscenza speculativa razionale, affatto isolata, che si eleva assolutamente al di sopra degli insegnamenti dell’esperienza, e mediante semplici concetti (non, come la matematica, per l’applicazione di questi all’intuizione), nella quale dunque la ragione dev’essere scolara di se stessa, non è sinora toccata la fortuna di potersi avviare per la via sicura della scienza; sebbene essa sia più antica di tutte le altre scienze, e sopravviverebbe, anche quando le altre dovessero tutte quante essere inghiottite nel vortice di una barbarie che tutto devastasse. Giacchè la ragione si trova in essa continuamente in imbarazzo, anche quando vuole scoprire (com’essa presume) a priori quelle leggi, che la più comune esperienza conferma. In essa si deve innumerevoli volte rifar la via, poichè si trova che quella già seguita non conduce alla meta; e, quanto all’accordo dei suoi cultori nelle loro affermazioni, essa è [p. 20 modifica]così lontana dall’averlo raggiunto, che è piuttosto un campo di lotta: il quale par proprio un campo destinato ad esercitar le forze antagonistiche, in cui nemmeno un campione ha mai potuto impadronirsi della più piccola parte di terreno e fondar nella sua vittoria un durevole possesso. Non v’è dunque alcun dubbio, che il suo procedimento finora sia stato un semplice andar a tentoni e, quel che è peggio, tra semplici concetti.

Da che deriva dunque che essa non abbia ancora potuto trovare il cammino sicuro della scienza? Egli è forse impossibile? Perchè dunque la natura ha messo nella nostra ragione questa infaticabile tendenza, che gliene fa cercare la traccia, come se fosse per lei l’interesse più grave tra tutti? Ma v’ha di più: quanto poco motivo abbiamo noi di ripor fede nella nostra ragione, se essa non solo ci abbandona in uno dei più importanti oggetti della nostra curiosità, ma ci attira con lusinghe, e alla fine c’inganna? Oppure, se fino ad oggi abbiamo deviato, di quali indizi possiamo profittare, per sperare di essere più fortunati che gli altri finora non siano stati, rinnovando la ricerca?

Io dovevo pensare che gli esempi della matematica e della fisica, che sono ciò che ora sono per effetto di una rivoluzione, fossero abbastanza degni di nota, per riflettere sul punto essenziale del cambiamento di metodo, che è stato loro di tanto vantaggio, e per imitarlo qui, almeno come tentativo, per quanto l’analogia delle medesime, come conoscenze razionali, con la metafisica ce lo permette. Sinora si è ammesso che ogni nostra conoscenza dovesse regolarsi sugli oggetti; ma tutti i tentativi di stabilire intorno ad essi qualche cosa a priori, per mezzo di concetti, coi quali si sarebbe potuto allargare la nostra conoscenza, assumendo un tal presupposto, non riuscirono a nulla. Si faccia, finalmente, la prova di vedere se saremo più fortunati nei problemi della metafisica, facendo l’ipotesi che gli oggetti debbano regolarsi sulla nostra conoscenza: ciò che si accorda meglio colla desiderata possibilità d’una [p. 21 modifica]conoscenza a priori, che stabilisca qualcosa relativamente agli oggetti, prima che essi ci siano dati. Qui è proprio come per la prima idea di Copernico; il quale, vedendo che non poteva spiegare i movimenti celesti ammettendo che tutto l’esercito degli astri rotasse intorno allo spettatore, cercò se non potesse riuscir meglio facendo girar l’osservatore, e lasciando invece stare gli astri. Ora in metafisica si può veder di fare un tentativo simile per ciò che riguarda l’intuizione degli oggetti. Se l’intuizione si deve regolare sulla natura degli oggetti, non vedo punto come si potrebba saperne qualcosa a priori; se l’oggetto invece (in quanto oggetto del senso) si regola sulla natura della nostra facoltà intuitiva, mi posso benissimo rappresentare questa possibilità. Ma, poichè non posso arrestarmi a intuizioni di questo genere, se esse devono diventare conoscenza; e poichè è necessario che io le riferisca, in quanto rappresentazioni, a qualcosa che ne sia l’oggetto e che io determini mediante quelle; così non mi rimane che ammettere: o che i concetti, coi quali io compio questa determinazione, si regolino anch’essi sull’oggetto, e in questo caso io mi trovo nella stessa difficoltà, del modo cioè in cui possa conoscerne qualche cosa a priori; oppure gli oggetti o, ciò che è lo stesso, l’esperienza, nella quale soltanto essi sono conosciuti (in quanto oggetti dati), si regolino su questi concetti; ed io vedo subito una via d’uscita più facile, poichè l’esperienza stessa è un modo di conoscenza, che richiede il concorso dell’intelletto, del quale devo presupporre in me stesso la regola, prima che gli oggetti mi sieno dati, e perciò a priori; e questa regola si esprime in concetti a priori, sui quali tutti gli oggetti dell’esperienza devono necessariamente regolarsi, e coi quali devono accordarsi. Per ciò che riguarda gli oggetti, in quanto essi sono semplicemente pensati dalla ragione, ossia necessariamente, ma non possono esser dati punto nell’esperienza (almeno come la ragione li pensa), i tentativi di pensarli (devono pur potersi pensare!) forniranno quindi una eccellente pietra di paragone di quel che noi [p. 22 modifica]assumiamo come il mutato metodo nel modo di pensare, ed è: che noi delle cose non conosciamo a priori, se non quello stesso che noi stessi vi mettiamo3.

Questo tentativo è riuscito conforme al desiderio, e promette alla metafisica, nella sua prima parte, dove ella si occupa dei concetti a priori, di cui possono esser dati nell’esperienza gli oggetti corrispondenti ad essi adeguati, il cammino sicuro di una scienza. Si può infatti spiegare benissimo, secondo questo mutamento di metodo, la possibilità di una conoscenza a priori, e, ciò che è più, munire delle prove sufficienti le leggi che a priori sono a fondamento della natura, come complesso degli oggetti dell’esperienza; due cose che, col metodo fin oggi seguito erano impossibili. Ma da questa deduzione della nostra facoltà di conoscere a priori, nella prima parte della metafisica, ne viene uno strano risultato, in apparenza assai dannoso allo scopo generale cui essa mira nella seconda parte, cioè: che noi con essa non possiamo oltrepassare i limiti della esperienza possibile, che è tuttavia proprio l’assunto più essenziale di questa scienza. Per altro, l’esperimento d’una controprova alla verità del risultato di questo primo apprezzamento della nostra conoscenza a priori della ragione, sta in ciò, che essa giunge solo fino ai fenomeni; laddove lascia che la cosa in sè sia bensì per se stessa reale, ma [p. 23 modifica]sconosciuta a noi. Giacchè quel che ci spinge a uscire necessariamente dai limiti dell’esperienza e di tutti i fenomeni, è l’incondizionato, che la ragione necessariamente e a buon diritto esige nelle cose in se stesse, per tutto ciò che è condizionato, a fine di chiudere con esso la serie delle condizioni. Ora, ammettendo che la nostra conoscenza sperimentale si regoli sugli oggetti come cose in sè, si trova che l’incondizionato non può esser pensato senza contraddizione; al contrario, se si ammette che la nostra rappresentazione delle cose, quali ci son date, non si regola su di esse, come cose in se stesse, ma piuttosto che questi oggetti, come fenomeni, si regolano sul nostro modo di rappresentarceli, la contraddizione scompare; e, se perciò l’incondizionato non deve trovarsi nelle cose in quanto noi le conosciamo (esse ci son date), ma nelle cose in quanto noi non le conosciamo, come cose in sè, si vede che è ben fondato ciò che noi abbiamo ammesso prima, soltanto in via di tentativo4. Resta ora a vedere, dopo aver negato alla ragione speculativa ogni passo nel campo del soprasensibile, se non si trovino nella sua conoscenza pratica dati, per determinare quel concetto trascendentale dell’incondizionato proprio della ragione, e per oltrepassare in tal modo, secondo i desiderii della metafisica, i limiti di ogni esperienza possibile mediante la nostra conoscenza a priori, possibile, per altro, solo dal punto di vista pratico. Con questo procedimento la ragione speculativa ci ha almeno procurato un campo libero per tale estensione della ricerca, sebbene essa abbia dovuto lasciarlo vuoto; e ci resta così, e noi vi siamo autorizzati da lei [p. 24 modifica]stessa, la possibilità di occuparlo, se ci riesce, con i dati pratici della medesima5.

In quel tentativo di cambiare il procedimento fin qui seguito in metafisica, e di operare così in essa una completa rivoluzione seguendo l’esempio dei geometri e dei fisici, consiste il compito di questa critica della ragion pura speculativa. Essa è un trattato del metodo, e non un sistema della scienza stessa; ma essa ne traccia tutto il contorno, sia riguardo ai suoi limiti, sia riguardo alla sua completa struttura interna. Giacchè la ragion pura speculativa ha in sè questo di peculiare, che essa può e deve misurare esattamente il suo proprio potere secondo il diverso modo col quale sceglie gli oggetti pel suo pensiero; e dare così una enumerazione completa di tutti i differenti modi di porsi i problemi; e così, pure, delineare tutto il disegno per un sistema di metafisica; infatti, per ciò che concerne il primo punto, nella conoscenza a priori nulla può essere attribuito agli oggetti, all’infuori di ciò che il soggetto pensante trae da se medesimo; e, per ciò che riguarda il secondo punto, essa, rispetto ai principii della conoscenza, è un’unità affatto separata e per sè stante, nella quale ciascun membro, come in un corpo organizzato, esiste per gli altri, e tutti esistono per ciascuno; e nessun principio può essere assunto con certezza da un punto di vista, se non sia stato investigato nell’insieme dei suoi rapporti, in tutto l’uso puro della ragione. Ma perciò la [p. 25 modifica]metafisica ha anche la rara felicità, della quale nessun’altra scienza razionale, che abbia da fare con oggetti (giacchè la logica si occupa solo della forma del pensiero in generale), può partecipare: che, se per mezzo di questa critica, vien messa sulla via sicura della scienza, essa può abbracciare completamente tutto il campo delle conoscenza che le appartengono, e può quindi lasciare la sua opera compiuta, e tramandarla alla posterità come un’opera da servirsene, non da accrescere con aggiunte importanti, poichè essa ha che fare semplicemente con principii e con limitazioni del loro uso, determinate da lei stessa. A questa compiutezza quindi essa, in quanto scienza fondamentale, è anche obbligata, e di essa si deve poter dire: nil actum reputans, si quid superesset agendum6.

Ma si chiederà, che tesoro è mai dunque questo, che noi pensiamo di lasciare in eredità ai posteri con una siffatta metafisica, epurata dalla critica, e ridotta quindi a stabile stato? Da uno sguardo fuggevole a quest’opera si crederà di argomentare che l’utilità di essa sia soltanto negativa: che cioè noi con la ragione speculativa non potremo mai avventurarci di là dai limiti dell’esperienza; e questo è infatti il primo vantaggio. Ma essa diventerà anche positiva appena si scorgerà che i principii, sui quali si fonda la ragione speculativa per spingersi di là dai suoi limiti, nel fatto non sono un allargamento; anzi, se si considerano più da vicino, portano, come inevitabile conseguenza, una restrizione del nostro uso della ragione, in quanto essi in realtà minacciano di estendere a tutti i limiti della sensibilità, alla quale propriamente appartengono, e a soppiantare così l’uso puro (pratico) della ragione. Perciò una critica, che limiti la prima, è in ciò veramente negativa; ma, in quanto nello stesso tempo con ciò toglie pur via un ostacolo, che ne limita o tenta di distruggere affatto l’uso indicato da ultimo, in realtà è di vantaggio positivo e [p. 26 modifica]grandissimo, quando si sia riconosciuto che vi è un uso pratico (morale) della ragion pura, assolutamente necessario; nel quale la ragione inevitabilmente si estende di là dai limiti della sensibilità, e non ha bisogno di sussidi speculativi, ma solo di assicurarsi contro le loro opposizioni, per non cadere in contraddizione con se medesima. Negare a questo servizio della critica l’utilità positiva, sarebbe come negare che la polizia renda alcun vantaggio positivo, poichè il suo ufficio principale è quello di chiudere la porta alla violenza che i cittadini possono temere dai cittadini, affinchè ciascuno possa sicuro e tranquillo attendere alle proprie faccende. Nella parte analitica della critica sarà provato che lo spazio e il tempo non sono se non forme della intuizione sensibile, e perciò soltanto condizioni dell’esistenza degli oggetti come fenomeni; e che inoltre noi non abbiamo punto concetti dell’intelletto, e perciò nessun elemento per la conoscenza delle cose, se non in quanto può esser data una intuizione corrispondente a questi concetti; e che per conseguenza non c’è dato d’aver conoscenza di un oggetto come cosa in se stessa, ma solo come oggetto dell’intuizione sensibile, vale a dire come fenomeno; donde evidentemente deriva la limitazione di ogni possibile conoscenza speculativa della ragione ai semplici oggetti della esperienza. Tuttavia, e questo dev’esser ben notato, in tutto ciò si deve far sempre questa riserva: che noi possiamo pensare gli oggetti stessi anche come cose in sè, sebbene non possiamo conoscerli7. Giacchè altrimenti ne seguirebbe l’assurdo che ci sarebbe una ap[p. 27 modifica]parenza8 senza qualche cosa che in essa appaia. Ora, supposto che non fosse punto fatta la distinzione, fatta necessariamente dalla nostra critica, delle cose come oggetti dell’esperienza dalle medesime come cose in sè, ne nascerebbe la conseguenza, che il principio di casualità, e con esso il meccanismo naturale, nella determinazione delle cose dovrebbe valere per tutte le cose stesse in generale, come cause efficienti. Dello stesso ente, dunque, come per es., dell’anima umana, io non potrei dire che la sua volontà sia libera e che sia a un tempo soggetta alla necessità naturale, cioè che non sia libera, senza cadere in una contraddizione manifesta; giacchè in ambedue le proposizioni, avrei preso l’anima nell’identico significato, cioè come cosa, senz’altro (cosa in se stessa); e senza una critica precedente non avrei potuto prenderla diversamente. Ma se la critica non ha errato quando c’insegna a prendere l’oggetto in un duplice significato, cioè come fenomeno o come cosa in sè; se è esatta la sua deduzione dei concetti dell’intelletto; e se inoltre anche il principio di causalità conviene solo alle cose nel primo senso, in quanto cioè sono oggetti dell’esperienza, ma le cose nel secondo significato non sono soggette a tale principio; allora la stessa volontà è pensata nel fenomeno (azione visibile) come necessariamente conforme alla legge naturale e pertanto non libera; e pure d’altra parte, in quanto appartenente a una cosa in sè, è pensata come non soggetta a quella, e quindi libera, senza che in ciò vi sia contraddizione. Ora, sebbene io non possa conoscere la mia anima, considerata sotto il secondo rispetto, per mezzo della ragione speculativa (e tanto meno per osservazione empirica), e perciò nemmeno la libertà come proprietà di un essere, al quale attribuisco azioni nel mondo sensibile, giacchè dovrei conoscere un tale essere determinato nella sua esistenza e pur fuori del tempo (la qual cosa è impossibile, non po[p. 28 modifica]tendo io mettere a base del mio concetto alcuna intuizione); pure posso, ciò malgrado, pensare la libertà, — cioè l’idea di essa per lo meno non racchiude alcuna contraddizione in se stessa, — ove prima sia stata fermata la nostra distinzione critica dei due modi di rappresentarmi le cose9 (sensibile ed intellettuale), e la limitazione che ne segue dei concetti puri dell’intelletto, e perciò anche dei principii che ne derivano. Ora, posto che la morale necessariamente supponga la libertà (nel senso più rigoroso) come proprietà del nostro volere, giacchè essa ammette immanenti a priori nella nostra ragione, come suoi dati, principii pratici originari, i quali senza il presupposto della libertà sarebbero assolutamente impossibili; ove però la ragione speculativa avesse provato che questi principii non sono pensabili, di necessità quel presupposto, cioè il presupposto morale, dovrebbe cedere a quell’altro, il cui contrario importa una evidente contraddizione; e, per conseguenza, libertà e con lei moralità (il cui contrario non racchiude alcuna contraddizione, se non si presuppone già la libertà) dovrebbero cedere il posto al meccanismo della natura. Ma, poichè per la morale io ho bisogno soltanto che la libertà non sia in sè contradittoria, e si possa almeno pensare senza che, a un esame più profondo, essa debba creare un ostacolo al meccanismo naturale dello stesso operare (preso sotto altro rapporto), così la dottrina della moralità mantiene il suo posto, e altrettanto fa la scienza della natura: il che non avverrebbe, se la critica della moralità non ci avesse in precedenza istruiti della irrimediabile nostra ignoranza rispetto alle cose in sè, e se non avesse limitato ai semplici fenomeni tutto ciò che possiamo conoscere teoricamente. La stessa discussione appunto dell’utilità positiva dei principii critici della ragion pura si presenta ove si consideri il concetto di Dio, della natura semplice della nostra anima, su che non insisto per brevità. Io dunque non posso ammettere mai Dio, la libertà, l’immortalità per l’uso pra[p. 29 modifica]tico necessario della mia ragione, senza togliere a un tempo alla ragione speculativa le sue pretese a vedute trascendenti; giacchè, per arrivare a questo, bisogna che essa impieghi tali principii; che non si estendono in realtà se non agli oggetti di esperienza possibile, e quando tuttavia si vogliano applicare a ciò che non può essere oggetto di esperienza, lo trasformano realmente subito in fenomeno, e così dimostrano impossibile ogni estensione pratica della ragion pura. Io dunque ho dovuto sopprimere il sapere per sostituirvi la fede; e del resto, il dommatismo della metafisica, cioè il pregiudizio di progredire in questa scienza senza una critica della ragion pura, è la vera fonte dello scetticismo che si contrappone alla moralità, la quale è sempre mai fortemente dommatica. — Se dunque è impossibile lasciare ai posteri una metafisica sistematica, costruita a seconda della critica della ragion pura, questo non sarà un dono di scarso prezzo; sia che si consideri semplicemente la coltura lungo le vie sicure di una scienza in generale, anzi che per tentativi a casaccio e per scorrerie fatte alla leggiera senza critica; o che si badi anche al miglior impiego del tempo per una gioventù avida di sapere, che trova nell’ordinario dommatismo un incentivo, così precoce e così efficace, a ragionare alla leggiera di cose di cui non comprende nulla, e delle quali essa, come nessuno al mondo, intenderà mai nulla, o a correre alla ricerca di pensieri o di opinioni alla moda, trascurando lo studio delle scienze solide; o soprattutto che si tenga in conto l’inestimabile vantaggio di finirla una volta per sempre con tutte le obbiezioni contro la moralità e la religione al modo di Socrate, cioè con la più evidente prova dell’ignoranza dell’avversario. Giacchè nel mondo c’è sempre stata e ci sarà sempre anche in avvenire una metafisica, ma accanto ad essa si troverà anche sempre una dialettica della ragion pura, poichè le è naturale. Il primo e il più importante bisogno della filosofia è dunque quello di sottrarla a ogni pernicioso influsso, facendo cessare le fonti degli errori.

Malgrado questo importante cambiamento nel campo [p. 30 modifica]delle scienze, e la perdita che la ragione speculativa deve risentirne nei possessi, che sino ad ora s’era figurato d’avere, ogni cosa resta nel vantaggioso stato di prima, per ciò che concerne il fatto generale dell’umanità e il frutto che il mondo traeva dalle teorie della ragion pura; e la perdita tocca soltanto il monopolio delle scuole, ma non già punto gl’interessi degli uomini. Io domando ai più rigidi dommatici, se la prova della sopravvivenza della nostra anima dopo la morte, ricavata dalla semplicità della sostanza, o quella della libertà del volere, fondata, di contro al meccanismo universale, sulle sottili ma impotenti distinzioni della necessità pratica soggettiva e oggettiva, o se quella dell’esistenza di Dio desunta dal concetto di un essere realissimo (dalla contingenza del mutevole e necessità di un primo motore); — se, uscite dalle scuole, queste prove abbiano mai potuto arrivare al pubblico, ed esercitare il minimo influsso sulle sue convinzioni. Ora, se ciò non è accaduto, nè si può mai sperare che accada, a causa dell’incapacità intellettuale degli uomini per così sottili speculazioni; se, inoltre, per ciò che riguarda il primo punto, questa notevole disposizione, propria d’ogni uomo, a non poter mai restar soddisfatto, dal temporale (come insufficiente al bisogno di tutto intero il suo destino) può far nascere la speranza di una vita futura; se, per ciò che riguarda il secondo punto, la semplice idea chiara dei doveri, in contrasto con tutte le esigenze delle nostre inclinazioni, basta da sola a far nascere la coscienza della libertà; se, da ultimo, per ciò che riguarda il terzo punto, l’ordine sovrano, la bellezza, la provvidenza che traspare da ogni cosa naturale, sono da sole sufficienti a suscitare la fede che ci sia un sapiente e grande creatore del mondo, fede che si diffonde nel pubblico, perchè riposa su fondamenti razionali; è da concludere, che non soltanto questo dominio resta intatto, ma, inoltre, guadagna d’importanza, dal fatto che le scuole avranno imparato finalmente a non accampar le pretese per una cognizione più vasta e più alta di quella, alla quale può arrivare facilmente la [p. 31 modifica]gran maggioranza degli uomini (per noi degnissima di stima); e a limitarsi quindi unicamente per la cultura e trattare quelle prove che sono alla portata di tutti e sufficienti dal punto di vista morale. Questa riforma dunque colpisce soltanto le arroganti pretese delle scuole, che in questo punto (come spesso a ragione in parecchi altri) si vantano volentieri d’esser sole capaci di conoscere e di custodire la verità; delle quali alla folla lasciano solo l’uso, ma delle quali serbano gelosamente la chiave (quod mecum nescit, solus vult scire videri)10. Nondimeno io ho avuto cura di alcune pretese più legittime del filosofo speculativo. Egli rimane sempre il depositario esclusivo di una scienza, che è utile al pubblico senza che questo lo sappia; voglio dire della critica della ragione. Essa non può, infatti, diventar mai popolare, ma nemmeno è necessario che sia tale; giacchè, se al popolo i sottili argomenti, filati in sussidio delle verità utili, entrano poco in testa, tanto meno gli vengono in mente le obbiezioni, altrettanto sottili, in contrario; d’altra parte, poichè la scuola, come ogni uomo che s’innalzi alla speculazione, casca inevitabilmente nell’una cosa e nell’altra, la critica è tenuta a prevenire una volta per sempre, mediante l’esame profondo dei diritti della ragione speculativa, lo scandalo che presto o tardi deve provenire anche al popolo dalle dispute, nelle quali si avventurano i metafisici (e, in quanto tali, infine anche molti dei teologi), non infrenati dalla critica, e che finiscono per falsare le loro dottrine. Soltanto dalla critica possono esser tagliati alla radice il materialismo, il fatalismo, l’ateismo, l’incredulità dei liberi pensatori, il fanatismo, la superstizione, che possono diventare perniciosi a tutti, e infine anche l’idealismo e lo scetticismo, che sono dannosi più specialmente alle scuole, e difficilmente possono passare nel pubblico. Se i governi trovano conveniente mescolarsi nelle faccende dei dotti, sarebbe più conveniente alla loro savia sollecitudine [p. 32 modifica]per le scienze come per gli uomini, favorire la libertà di una tale critica, per cui soltanto le produzioni della ragione potrebbero essere messe su un solido piede, anzi che sostenere il ridicolo dispotismo delle scuole, che manda alte grida annunziando un pubblico danno, quando si strappano quelle sue ragnatele, delle quali il pubblico non ha avuto mai notizia e non può avvertire perciò la perdita.

La critica per altro non è contraria al procedimento dommatico della ragione nella sua conoscenza pura in quanto scienza (giacchè questa sempre deve essere dommatica, cioè rigorosamente dimostrativa, per sicuri principii a priori); ma al dommatismo, cioè alla pretesa di procedere innanzi con una conoscenza pura ricavata da concetti (la conoscenza filosofica), secondo principii come quelli, di cui la ragione fa uso da molto tempo, senza ricercare in che modo e con qual diritto essa vi sia arrivata. Il dommatismo dunque è il procedimento dommatico che segue la ragion pura, senza una critica preliminare del suo proprio potere. Questa opposizione non deve quindi prender partito per quella ciarliera superficialità che impropriamente prende nome di popolarità, nè per questo scetticismo, che fa giustizia sommaria di ogni metafisica; la critica è piuttosto la preparazione necessaria allo svolgimento di una metafisica bene fondata, come scienza che dev’esser trattata necessariamente in modo dommatico e secondo rigorosissime esigenze sistematiche e però scolasticamente (non in maniera popolare); poichè tale esigenza, in essa, è impreteribile, dal momento che prende l’impegno di adempiere il suo ufficio del tutto a priori, e però con piena soddisfazione della ragione speculativa. Nell’esecuzione dunque del disegno, che la critica traccia, cioè nel sistema futuro della metafisica, ci toccherà un giorno di seguire il metodo del celebre Wolff, il più grande dei filosofi dommatici, il quale per primo diede l’esempio (e per questo esempio divenne in Germania il creatore di quello spirito di sistema11, che non s’è ancora smarrito) [p. 33 modifica]come si possa prendere il sicuro cammino di una scienza, stabilendo regolarmente i principii, definendo nettamente i concetti, cercando il rigore nelle dimostrazioni, e rifiutandosi ai salti temerari nel trarre le conseguenze: ed era perciò mirabilmente capace di mettere una scienza come la metafisica su questa via; ma non ebbe l’idea di prepararsi in precedenza il terreno, con la critica dell’organo, cioè della stessa ragion pura: difetto da attribuire piuttosto alla maniera dommatica di pensare del tempo suo, che a lui stesso: e pel quale i filosofi, del suo e di tutti i tempi anteriori, non han nulla da rimproverarsi l’un l’altro. Quelli che respingono il suo metodo e a un tempo i procedimenti della critica della ragion pura, non possono aver in animo, se non di spezzare le catene della scienza o trasformare in giuoco il lavoro, in opinione la certezza, e la filosofia in filodossia.

Per quel che riguarda questa seconda edizione, io non ho voluto, com’era giusto, lasciarmi sfuggire l’occasione di togliere, fin dove ciò m’era possibile, le oscurità e difficoltà, dalle quali possono aver preso origine parecchie false interpretazioni, in cui son caduti, forse non senza colpa mia, uomini d’acuto ingegno nel giudicare di questo libro. Nelle tesi e nelle loro dimostrazoni, come nella forma e nell’insieme della costruzione, non ho trovato necessario di mutar nulla; e questo è spiegato, in parte, dal lungo esame a cui aveva sottoposto l’opera mia prima di presentarla al pubblico; in parte, è da attribuire alla natura stessa dell’argomento, cioè alla natura di una ragion pura speculativa, che possiede una vera struttura organica, nella quale tutto è organo, cioè il tutto è per ciascun membro e ciascun membro pel tutto; e nella quale perciò ogni imperfezione, per piccola che sia, difetto, errore od omissione, deve immancabilmente apparire nell’uso. In questa sua immodificabilità questo sistema si affermerà, spero, anche in avvenire. Mi autorizza a questa fiducia, non una vana presunzione, ma solo l’evidenza che produce l’esperimento della identità del risultato movendo dai più pic[p. 34 modifica]coli elementi all’insieme della ragion pura, e ridiscendendo dal tutto a ciascuna parte (giacchè questo tutto è anche dato in se stesso dallo scopo finale della ragione nella pratica), laddove il tentativo di mutare solo il più piccolo particolare riconduce a contraddizioni, che toccano non solamente il sistema, ma anche tutta la ragione umana in generale. Soltanto, resta ancor molto da fare nell’esposizione; e in questa seconda edizione ho tentato correzioni che debbono rimediare, sia al fraintendimento dell’estetica, soprattutto nel concetto del tempo, sia alla oscurità della deduzione dei concetti dell’intelletto, sia al difetto di sufficiente evidenza nelle prove dei principii dell’intelletto puro, sia infine alla psicologia razionale. Soltanto fino a questo punto (vale a dire, sino alla fine del primo capitolo della dialettica trascendentale), e non più oltre, si estendono i mutamenti che ho arrecati nel modo dell’esposizione12, poichè il tempo era troppo breve, e rispetto [p. 35 modifica]al resto non mi fu segnalato fraintendimento di nessuno dei lettori competenti e imparziali; i quali, senza che io abbia bisogno di nominarli con le lodi che meritano, [p. 36 modifica]vedranno da sè ai loro luoghi il conto da me fatto dei loro avvertimenti. Ma queste correzioni importanto per il lettore una piccolissima perdita, che non si poteva evitare senza rendere il libro troppo voluminoso; cioè che diverse cose, che non erano per vero essenziali alla compiutezza del tutto, ma di cui tuttavia qualche lettore non avrebbe volentieri fatto a meno, potendo per altri rispetti essere utili, si son dovute sopprimere o abbreviare per dar luogo a una esposizione ora, spero, più piana; la quale, in fondo, rispetto alle proposizioni e alle stesse prove di queste, non è assolutamente mutata, ma pure nel metodo di trattazione qua e là si allontana tanto dalla precedente, che non si poteva fare per intercalazioni. Piccola perdita, alla quale ognuno può metter riparo, quando gli piaccia, col confronto della prima edizione, e che sarà compensata, come spero, da una maggior chiarezza. In vari scritti a stampa (sia occasionalmente in recensione di qualche libro, sia in articoli speciali) ho notato, con gioia riconoscente, che lo spirito di sistema non è morto in Germania, ma solo è stato soffocato per un po’ di tempo dalla moda d’una libertà di pensiero, che aveva pretese di genialità; e che gli spinosi sentieri della critica, conducenti a una scienza scolastica della ragion pura, ma, appunto perchè tale, durevole e necessaria, non hanno scoraggiato gli spiriti arditi e perspicaci che vi si sono incamminati. A questi valentuomini, che accoppiano così felicemente alla profondità dell’ingegno il talento d’una lucida esposizione (della quale io non mi sento capace), lascio di compiere ciò che, rispetto all’ultima, vi ha qua e là di difettoso; giacchè, in questo caso, il pericolo non è di esser contraddetto, ma di non essere inteso. Per mio conto, io non posso d’ora innanzi impegnarmi in controversie, se dovrò premurosamente tener conto di tutti gli avvertimenti di amici e di avversari, per utilizzarli in un ulteriore svolgimento del sistema, conforme a questa propedeutica. Poichè durante questo lavoro mi sono già inoltrato piuttosto a dentro nella vecchiaia (questo mese entro nel 64° anno), se voglio svolgere il mio disegno, di [p. 37 modifica]lasciare la metafisica della natura e quella dei costumi a conferma della legittimità della critica, sì della ragione speculativa e sì della ragion pratica, mi tocca di far economia del mio tempo, e attendere lo schiarimento delle oscurità, incorse in quest’opera e a principio appena evitabili, come la difesa del tutto, dagli uomini di merito, che se ne sono assunti il carico. Ogni trattazione filosofica presta il fianco a critiche in qualche sua parte (giacchè non può procedere ben corazzata, come avviene della matematica); e sebbene in fondo la struttura del sistema, considerata nella sua unità, non corra il minimo pericolo, pure, data la sua novità, poche persone hanno sufficiente agilità di spirito per impadronirsi del suo insieme, e meno ancora son quelle che vi prendono gusto, poichè ogni novità riesce loro sgradita. Inoltre, apparenti contraddizioni, quando i singoli luoghi vengano avulsi dall’insieme che li collega, e messi a fronte l’uno dell’altro, si possono rilevare in ogni scritto, specie se condotto in forma di discorso libero; e possono gettare su tutto lo scritto una luce sfavorevole agli occhi di coloro che si affidano all’altrui sentenza; ma, per chi si è reso padrone dell’idea centrale, sono facili a dissipare. Tuttavia, quando una teoria ha in sè la sua solidità, tutte le azioni e reazioni che da principio paiono minacciarla di grave pericolo, col tempo non servono ad altro che a fare scomparire le disuguaglianze e a darle anche la desiderabile eleganza, ove se ne occupino uomini d’imparzialità, d’ingegno e di vera popolarità.

Koenigsberg, nel mese di aprile 1787.

Note

  1. Vedi Euclide, Elem., lib. I, prop. 5. In tutte le edizioni originali, per un trascorso di penna, si legge gleichseitigen (equilatero) invece di gelichschenklichten (isoscele), come avverte lo stesso Kant in una lettera a Cristoforo Gottofredo Schütz del 25 gennaio (giugno?) 1787.
  2. Non seguo qui, in maniera precisa, il filo storico del metodo sperimentale, i cui primi inizi non sono del resto ben noti. (N. di K.)
  3. Questo metodo, imitato dal fisico, consiste, dunque, in ciò: ricercare gli elementi della ragion pura in quello che si può confermare o contraddire per mezzo di un esperimento. Ora, non v’è esperienza possibile (come c’è in fisica), che permetta di verificare, quanto ai loro oggetti, le proposizioni della ragion pura, soprattutto quando queste si avventurano di là dai limiti di ogni esperienza possibile; non si potrà dunque far verifica se non con concetti e principii, che noi ammettiamo a priori, prendendoli in tal maniera, che questi medesimi oggetti possano essere considerati, da un lato come oggetti del senso, dall’altro come oggetti che soltanto si pensa, tutt’al più per la ragione isolata, e sforzantesi di elevarsi al di sopra dei limiti dell’esperienza; e perciò da due diversi punti di vista. Ora, se si trova che, considerando le cose da questo duplice punto di vista, ha luogo l’accordo col principio della ragion pura, e che, considerandoli da un solo punto di vista, la ragione viene necessariamente in conflitto con se stessa, allora l’esperimento decide per la esattezza di tal distinzione. (N. di K.)
  4. Questo esperimento della ragion pura ha molto di simile con quello, che i chimici chiamano qualche volta prova di riduzione e in generale, procedimento sintetico. L’analisi del metafisico scompone la conoscenza a priori in due elementi assai differenti, cioè: quello delle cose come fenomeni e quello delle cose in se stesse. La dialettica li riunisce da capo in accordo con l’idea necessaria, propria della ragione, dell’incondizionato, e trova che questo accordo non si ha mai altrimenti che mediante tale distinzione, la quale, per conseguenza, è vera. (N. di K.)
  5. Così le leggi centrali dei movimenti dei corpi celesti conferirono certezza assoluta a quel che Copernico da principio aveva ammesso soltanto come una ipotesi, e provarono nello stesso tempo la forza invisibile che lega il sistema del mondo (l’attrazione di Newton); la quale sarebbe rimasta per sempre ignota, se Copernico non avesse per primo osato cercare, in modo del tutto opposto alla testimonianza dei sensi, e pur vero, la spiegazione dei movimenti osservati, non negli oggetti dei cielo, ma nel loro spettatore. In questa prefazione io presento come una ipotesi il cambiamento di metodo che espongo nella critica, e che è analogo a quella ipotesi; sebbene, nel corso della trattazione, sarà dimostrato, non più ipoteticamente, ma apoditticamente, della natura delle nostre rappresentazioni dello spazio e del tempo; ma egli è solo per far notare che i primi tentativi di una riforma di questo genere sono sempre ipotetici. (N. d. K.)
  6. Lucano, Fars., II, 657 dice: Nil actum credens, quum quid superesset agendum.
  7. Per conoscere un oggetto si richiede che io possa provare la sua possibilità (sia per il testimonio dell’esperienza della sua realtà, sia a priori per mezzo della ragione). ma io posso pensare ciò che voglio, alla sola condizione di non contraddire a me stesso, cioè quando il mio concetto è solo un pensiero possibile, sebbene io non possa stabilire punto se, nel complesso di tutte le possibilità, gli corrisponda o no un oggetto. Per attribuire a un tal concetto validità oggettiva (reale possibilità, poichè la prima era solo logica) è richiesto qualcosa di più. Ma questo qualcosa di più non serve che sia cercato nelle fonti teoretiche della conoscenza; può anche trovarsi nelle pratiche. (N. di K.)
  8. Erscheinung = apparenza, o fenomeno, come sarà pure tradotto per solito.
  9. Verstellungsarten = modi di rappresentazione.
  10. Orazio, Epist., II, i, 87: Quod mecum ignorat, ecc.
  11. Gründlichkeit, abito di pensare secondo principii, e quindi solidamente.
  12. La sola vera e propria aggiunta che potrei menzionare, ma non si tratta d’altro che del modo della dimostrazione, è quella nella quale (a p. 27512 1) faccio una nuova confutazione dell’idealismo psicologico, e dò una prova rigorosa (e anche, come io credo, la sola possibile) della realtà obbiettiva della intuizione esterna. Sebbene l’idealismo possa parere innocuo rispetto ai fini essenziali della metafisica (ciò che, nel fatto, non è), rimane sempre uno scandalo per la filosofia e per il senso comune in generale, che l’esistenza delle cose esteriori (dalle quali pure noi ricaviamo tutta la materia delle nostre stesse conoscenze per il nostro senso interno), si debba ammettere semplicemente per fede, e che se ad alcuno venisse in mente di dubitarne noi non potremmo opporgli una prova sufficiente. Poichè c’è una certa oscurità nell’esposizione di questa prova, dal terzo al sesto rigo, prego che si modifichi questo periodo come segue:
    «Ora questo che di permanente non può essere punto in me una intuizione. Giacchè tutti i principii determinativi della mia esistenza, che possono essere in me, sono rappresentazioni, ed han bisogno, appunto perchè tali, di qualcosa di permanente, distinto da esse, e rispetto al quale il loro cambiamento — e perciò la mia esitenza nel tempo nel quale esse si mutano — possa essere determinato.»
    Mi si potrà obbiettare a questa prova, che io ho soltanto coscienza immediata, di ciò che è in me, della mia rappresentazione delle cose esterne, e che, per conseguenza, resta sempre a dimostrare se ci sia o no qualcosa di corrispondente fuor di me. Ma io ho coscienza della mia esistenza nel tempo (e perciò della sua determinabilità in questo), per mezzo della mia esperienza interna; ciò che è più che aver coscienza semplicemente della mia rappresentazione, ed equivale alla coscienza empirica della mia esistenza, la quale non può essere determinata se non per rapporto a qualcosa che, legato con la mia esistenza, sia fuor di me. Questa coscienza della mia esistenza nel tempo è dunque identicamente legata con la coscienza di un rapporto a qualche cosa fuori di me; ed è perciò l’esperienza e non la finzione, il senso e non l’immaginazione, che lega inseparabilmente l’esterno al mio senso interno; poichè il senso esterno è già in sè relazione dell’intuizione a qualcosa di reale fuor di me, e la realtà di questo qualcosa — a differenza della immaginazione — non riposa se non su ciò che è inseparabilmente legato alla stessa esperienza interna, come la condizione della sua possibilità; e così è nel nostro caso. Se io alla coscienza intellettuale del mio esistere, nella rappresentazione Io sono, che accompagna tutti i miei giudizi e le operazioni del mio intelletto, potessi unire anche una determinazione della mia esistenza mediante una intuizione intellettuale, a questa non apparterrebbe necessariamente la coscienza di un rapporto a qualcosa fuori di me. Se non che quella coscienza intellettuale procede veramente; ma l’intuizione interna, nella quale soltanto può esser determinato il mio esistere, è sensibile, e legata alla condizione del tempo; e questa determinazione, e con essa l’esperienza interna, dipende da qualcosa di immutabile, che non è in me, e per conseguenza è solo in qualche cosa fuori di me; per modo che la realtà del senso esterno è necessariamente collegata, perchè possa esservi una esperienza in generale, con quella del senso interno: cioè io sono consapevole con tanta certezza che fuori di me esistono cose, che vengono in rapporto coi miei sensi, con quanta certezza sono consapevole che esisto io stesso determinato nel tempo. Ma, a quali intuizioni date corrispondano realmente fuor di me degli oggetti, che appartengono perciò al senso esterno, cui debbono attribuirsi piuttosto che all’immaginazione, è cosa da stabilire in ciascun caso particolare, secondo regole per cui l’esperienza in genere (anche interna) vien distinta dall’immaginazione; laddove il principio, che c’è realmente una esperienza esterna, rimane immutabile come fondamento. A questo si può ancora aggiungere l’osservazione, che la rappresentazione di qualche cosa di permanente nell’esistenza non è tutt’uno con la rappresentazione permanente; giacchè questa può essere mutevolissima e instabilissima, come le nostre rappresentazioni tutte, comprese quella di materia, e aver tuttavia rapporto con qualcosa di permanente, che perciò dev’essere alcunchè di esterno e di diverso da tutte le nostre rappresentazioni; la cui esistenza, compresa necessariamente nella determinazione della mia propria esistenza, costituisce con essa un’unica esperienza, che non sarebbe interna, se a un tempo non fosse (in parte) anche esterna. Come? Noi qui non lo possiamo spiegare, come non ci è possibile spiegare in generale ciò che nel tempo permane, e dalla cui simultaneità con ciò che cambia sorge in concetto del cangiamento (N. di K.)
    1. Della seconda ediz. originale.