Demetrio/Atto primo

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Atto primo

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Interlocutori Atto secondo

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ATTO PRIMO

SCENA I

Gabinetto illuminato, con sedie e tavolino da un lato con sopra scettro e corona.

Cleonice, che siede appoggiata al tavolino, ed Olinto.

Cleonice. Basta, Olinto, non piú. Fra pochi istanti

al destinato loco
il popolo inquieto
comparir mi vedrá. Chiede ch’io scelga
lo sposo, il re? Si sceglierá lo sposo;
il re si sceglierá. Solo un momento
chiedo a pensar. Che intolleranza è questa
importuna, indiscreta? I miei vassalli
sí poco han di rispetto? A farmi serva
m’innalzaste sul trono, o v’arrossite
di soggiacere a un femminile impero?
Pur l’esempio primiero
Cleonice non è. Senza rossore
a Talestri, a Tomiri
serví lo Scita, ed in diverso lido
Babilonia a Semira, Africa a Dido.
Olinto. Perdonami, o regina:
di noi ti lagni a torto. I pregi tuoi
non conosce la Siria? Estinto appena
il tuo gran genitor, t’innalza al trono;
al tuo genio confida
la scelta del suo re; tempo concede

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al maturo consiglio; affretta invano,

invan brama il momento
giá promesso da te per suo conforto:
e ti lagni di noi? Ti lagni a torto.
Cleonice. E ben, se tanto il regno
confida a me, di pochi istanti ancora
non mi nieghi l’indugio.
Olinto.   Oh Dio! regina,
tante volte deluse
fûr le nostre speranze,
che si teme a ragion. Due lune intere
donò Seleucia al tuo dolor pietoso
dovuto al genitor. Del terzo giro
il termine è vicino,
e non risolvi ancor. Di tua dimora
quando un sogno funesto,
quando un infausto di timida accusi.
Or dici che vedesti
a destra balenar; or che su l’ara
sorse obliqua la fiamma; or che i tuoi sonni
ruppe d’augel notturno il mesto canto;
or che dagli occhi tuoi
cadde improvviso e involontario il pianto.
Cleonice. Fu giusto il mio timor.
Olinto.   Dopo sí lievi
mendicati pretesti, in questo giorno
sceglier prometti. Impaziente e lieto
tutto il regno raccolto
previene il dí. Ciascun s’adorna, inteso
con ricca pompa a comparirti avanti.
Chi di serici ammanti,
sudati giá dalle sidonie ancelle;
chi di sanguigne lane,
che Tiro colori, le membra avvolge.
In su la fronte a questi
vedi tremar fra i lunghi veli attorti

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di raro augel le pellegrine piume;

dalle tempie di quelli
vedi cader multiplicata e strana
serie d’indiche perle. Altri di gemme,
altri d’oro distingue i ricchi arredi
di partico destrier. Quanto ha di raro,
tutto espone la Siria; e tornan tutti
a riveder la luce i preziosi
dall’avaro timor tesori ascosi.
Cleonice. Inutile sollievo a mia sventura.
Olinto. Ma che pro tanta cura,
tanto studio che pro? Se, attesa invano
dall’aurora al meriggio,
dal meriggio alla sera, e dalla sera
a questa della notte
giá gran parte trascorsa, ancor non vieni?
Irresoluta, incerta
dubiti, ti confondi; a’ dubbi tuoi
sembra ogn’indugio insufficiente e corto:
e ti lagni di noi? Ti lagni a torto.
Cleonice. Pur troppo è ver, pur troppo
convien ch’io serva a questa
dura necessitá. Vanne; precedi
il mio venir. Sará contento il regno:
lo sposo sceglierò.
Olinto.   Pensa, rammenta
che suddito fedele
Olinto t’ammirò; che il sangue mio...
Cleonice. Lo so: d’illustri eroi
per le vene trascorse.
Olinto.   Aggiungi a questo
i merti di Fenicio...
Cleonice.   A me son noti.
Olinto. Sai de’ consigli suoi...
Cleonice.   De’ suoi consigli
io conosco il valor; distinguo il pregio

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della sua fedeltá. Tutto pensai,

tutto, Olinto, io giá so.
Olinto.   Tutto non sai.
Giá da lunga stagion tacito amante,
all’amorose faci
mi struggo de’ tuoi lumi...
Cleonice.   Ah! parti e taci.
Olinto. Come tacere?
Cleonice.   E ti par tempo, Olinto,
di parlarmi d’amor? (s’alza da sedere)
Olinto.   Perché sdegnarti
s’io, chiedendo mercé...
Cleonice.   Ma taci e parti.
Olinto.   Di quell’ingiusto sdegno
     io la cagion non vedo:
     offenderti non credo,
     parlandoti d’amor.
          Tu mi rendesti amante;
     colpa è del tuo sembiante
     la libertá del labbro,
     la servitú del cor. (parte)

SCENA II

Cleonice e poi Barsene.

Cleonice. Alceste, amato Alceste,

dove sei? Non m’ascolti? Invan ti chiamo;
t’attendo invan. Barsene, (a Barsene che sopraggiunge)
qualche lieta novella
mi rechi forse? Il mio diletto Alceste
forse tornò?
Barsene.   Volesse il cielo! Io vengo,
regina, ad affrettarti. Il popol tutto
per la tardanza tua mormora e freme.

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Non puoi senza periglio

piú differir.
Cleonice.   Misera me! Si vada
  (in atto di partire, e poi si ferma)
dunque a sceglier lo sposo. Oh Dio! Barsene,
manca il coraggio. Io sento
che alla ragion contrasta
dubbio il cor, pigro il piè. Chi mai si vide
piú afflitta, piú confusa,
piú agitata di me! (si getta a sedere)
Barsene.   Qual arte è questa
di tormentar te stessa, ove non sono
figurando sventure?
Cleonice.   È figurato
forse il dover, che mi costringe a farmi
serva fino alla morte a chi non amo?
a chi, forse chiedendo
con finto amor della mia destra il dono,
si duol che compra a caro prezzo il trono?
Barsene. È ver; ma il sacro nodo,
i reciprochi pegni
del talamo fecondo, il tempo e l’uso,
di due sposi discordi
il genio avverso a poco a poco in seno
cangia in amore o in amicizia almeno.
Cleonice. E se, tornando Alceste,
mi ritrovasse ad altro sposo in braccio,
che sarebbe di lui,
che sarebbe di me? Tremo in pensarlo.
Qual pentimento avrei
dell’incostanza mia! Qual egli avrebbe
intollerabil pena
di trovarmi infedele!
Le sue giuste querele,
le smanie sue, le gelosie, gli affanni,
ogni pensier sepolto,
tutto il suo cor gli leggerei nel volto.

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Barsene. Come sperar ch’ei torni? Omai trascorsa

è un’intera stagion da che trafitto
fra le cretensi squadre
cadde il tuo genitor. Sai che al suo fianco
sempre Alceste pugnò; né piú novella
di lui s’intese. O di catene è cinto,
o sommerso è fra l’onde, o in guerra estinto.
Cleonice. No, mel predice il core. Alceste vive,
Alceste tornerá.
Barsene.   Quando ritorni,
piú infelice sarai. Se a lui ti doni,
di cento oltraggi il merto; e se l’escludi,
presente al duro caso,
uccidi Alceste: onde il di lui ritorno
t’esporrebbe al cimento
d’esser crudele ad uno o ingiusta a cento.
Cleonice. Ritorni, e, a lui vicina,
qualche via troverò...

SCENA III

Mitrane e dette.

Mitrane.   Che fai, regina?

Il periglio s’avanza. A poco a poco
la lunga tolleranza
degenera in tumulto. Unico scampo
è la presenza tua.
Cleonice.   Questo, Barsene,
è il ritorno d’Alceste?... Andar conviene.
  (s’alza da sedere)
Barsene. E scegliesti?
Cleonice.   Non scelsi.
Barsene. Ma che farai?
Cleonice.   Non so.

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Barsene.   Dunque t’esponi

irresoluta a sí gran passo?
Cleonice.   Io vado
dove vuole il destin, dove la dura
necessitá mi porta,
cosí senza consiglio e senza scorta.
          Fra tanti pensieri
     di regno e d’amore,
     lo stanco mio core,
     se tema, se speri,
     non giunge a veder.
          Le cure del soglio,
     gli affetti rammento:
     risolvo, mi pento;
     e quel che non voglio
     ritorno a voler. (parte)

SCENA IV

Barsene e Mitrane.

Barsene. Infelice regina,

quanto mi fa pietá!
Mitrane.   Tanta per lei
pietá sente Barsene,
e sí poca per me?
Barsene.   S’altro non chiedi
che pietá, l’ottenesti. Amor se speri,
indarno ti lusinghi.
Mitrane.   E non son io
giá misero abbastanza?
Perché toglier mi vuoi fin la speranza?
Barsene.   Misero tu non sei:
     tu spieghi il tuo dolore,
     e, se non dèsti amore,
     ritrovi almen pietá.

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          Misera ben son io,

     che nel segreto laccio
     amo, non spero e taccio,
     e l’idol mio nol sa. (parte)

SCENA V

Mitrane, poi Fenicio.

Mitrane. Inutile pietá!

Fenicio.   Mitrane amico,
Cleonice dov’è?
Mitrane.   Costretta, alfine
s’incammina alla scelta.
Fenicio.   Ecco perdute
tutte le cure mie.
Mitrane.   Perché?
Fenicio.   Conviene
ch’io sveli alla tua fede un grande arcano.
Tacilo e mi consiglia.
Mitrane.   A me ti fida:
impegno l’onor mio.
Fenicio.   Giá ti sovviene
che ’l barbaro Alessandro,
di Cleonice genitor, dal trono
scacciò Demetrio, il nostro re.
Mitrane.   Saranno
omai sei lustri, e n’ho presente il caso.
Fenicio. Sai che Demetrio oppresso
morí nel duro esilio, e inteso avrai
che pargoletto in fasce
seco il figlio morí.
Mitrane.   Rammento ancora
che Demetrio ebbe nome.
Fenicio.   Or sappi, amico,

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che vive il real germe,

ed a te non ignoto.
Mitrane.   Il ver mi narri,
o pur fole son queste?
Fenicio. Anche piú ti dirò. Vive in Alceste.
Mitrane. Numi, che ascolto!
Fenicio.   In queste braccia il padre
lo depose fuggendo. Ei mi prescrisse
di nominarlo Alceste. Al sen mi strinse,
e, dividendo i baci
tra il figlio e me, s’intenerí, mi disse:
— Conserva il caro pegno
al genitore, alla vendetta, al regno. —
Mitrane. Or la ragion comprendo
del tuo zelo per lui. Ma per qual fine
celarlo tanto?
Fenicio.   Avventurar non volli
una vita sí cara. Io sparsi ad arte
che Demetrio vivea:
tacqui che fosse Alceste. E questa voce
contro Alessandro a sollevar di Creta
sai che l’armi bastò, sai che ’l tiranno
nella pugna morí. Ma vario effetto
il nome di Demetrio
produce in Siria. Ambiziosi i grandi
niegan fede alla fama, onde bisogna
soccorso esterno a stabilirlo in soglio.
Da’ cretensi l’attendo,
ma invano giungerá. Lontano è Alceste;
non so s’ei viva; e Cleonice intanto
elegge un re.
Mitrane.   Ma Cleonice elegga:
sempre, quando ritorni e che ’l soccorso
abbia di Creta, Alceste
vendicar si potrá.
Fenicio.   Questo non era,

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Mitrane, il mio pensier. Sperai che un giorno,

fatto consorte a Cleonice, Alceste
ricuperasse il regno
senza toglierlo a lei. L’eccelsa donna
degna è di possederlo. A tale oggetto
alimentai l’affetto
nel cor d’entrambi; e se il destin... Ma perdo
l’ore in querele. Io di mie cure, amico,
ti chiamo a parte. Avrem dell’opra il frutto,
sol che tempo s’acquisti. Andiam: si cerchi
d’interromper la scelta. Al caso estremo
s’avventuri il segreto. In faccia al mondo
tu mi seconda; e, se coll’armi è d’uopo,
tu coll’armi m’assisti.
Mitrane. Ecco tutto il mio sangue. In miglior uso
mai versar nol potrò. Chiamasi acquisto
il perdere una vita
a favor del suo re. Sí bella morte
invidiata saria.
Fenicio.   Vieni al mio seno,
generoso vassallo. Ai detti tuoi
sento per tenerezza
il ciglio inumidir, sento nel petto
rinvigorir la speme, e veggo un raggio
del favor degli dèi nel tuo coraggio.
          Ogni procella infida
     varco sicuro e franco
     colla virtú per guida,
     colla ragione a fianco,
     colla mia gloria in sen.
          Virtú fedel mi rende,
     ragion mi fa più forte;
     la gloria mi difende
     dalla seconda morte
     dopo il mio fato almen. (parte)

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SCENA VI

Mitrane.

Non poteva un Alceste

nascer fra le capanne. Il suo sembiante,
ogni moto, ogni accento
palesava abbastanza il cor gentile
negli atti ancor del portamento umíle.
          Alma grande e nata al regno
     fra le selve ancor tramanda
     qualche raggio, qualche segno
     dell’oppressa maestá:
          come il fuoco — in chiuso loco
     tutto mai non cela il lume;
     come stretto — in picciol letto
     nobil fiume — andar non sa. (parte)

SCENA VII

Luogo magnifico, con trono da un lato, e sedili in faccia al suddetto trono per li grandi del regno. Vista in prospetto del gran porto di Seleucia con molo. Navi illuminate per solennizzare l’elezione del nuovo re.

Cleonice, preceduta dai grandi del regno,
seguita da Fenicio e da Olinto; guardie e popolo.

Coro.   Ogni nume ed ogni diva

  sia presente al gran momento,
  che palesa il nostro re.
Primo coro.   Scenda Marte, Amor discenda
  senza spada e senza benda;
Secondo coro.   coll’ulivo e colla face
  Imeneo venga e la Pace.

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Primo coro.   Venga Giove ed abbia a lato

  gli altri dèi, la Sorte e ’l Fato;
Secondo coro.   ma non abbia in questa riva
  i suoi fulmini con sé.
Coro.   Ogni nume ed ogni diva
  sia presente al gran momento,
  che palesa il nostro re.

Nel tempo che si canta il suddetto coro, Cleonice, servita da Fenicio, va in trono a sedere.

Olinto. Dal tuo labbro, o regina, il suo monarca

la Siria tutta impaziente attende.
Risolvi. Ognuno il gran momento affretta
con silenzio modesto.
Cleonice. Sedete. (Oh dèi, che gran momento è questo!)
  (siedono Fenicio, Olinto e gli altri grandi)
Fenicio. (Che mai farò?)
Cleonice.   Voi m’innalzaste al trono:
son grata al vostro amor; ma troppo è il peso
che uniste al dono. E chi, fra tanti uguali
di merti e di natali,
incerto non saria? Ne’ miei pensieri
dubbiosa, irresoluta, or questo, or quello
ricuso, eleggo; e mille faccio e mille
cangiamenti in un’ora.
A sceglier vengo e sono incerta ancora.
Fenicio. E ben, prendi, o regina,
maggior tempo a pensar.
Olinto.   Come!
Fenicio.   T’accheta.
Teco tanto indiscreta (a Cleonice)
non è la Siria; e ognun di noi conosce
quanto è grande il cimento.
Olinto.   È dunque poco
il giro di tre lune? In questa guisa,
Cleonice, potrai
prometter sempre e non risolver mai.

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Fenicio. Audace! e chi ti rese

temerario a tal segno?
Olinto.   Il zelo, il giusto,
il periglio di lei. Se ancor delusa
oggi resta la Siria, io non so dirti
dove giunger potrebbe
l’intolleranza sua.
Fenicio.   Potrebbe forse
pentirsi dell’ardir. Chi siede in trono
leggi non soffre. Il numero degli anni,
se mi scema vigore,
non mi toglie coraggio. Il sangue mio
per la sua libertá
tutto si verserá...
Cleonice.   Fenicio, oh Dio!
non risvegliar, ti prego,
nuove discordie. Il differir che giova?
Sempre incerta sarei.
Udite. Io sceglierò...
Fenicio.   Sceglier non dèi.
(S’avventuri l’arcano.)
Cleonice.   A noi che porta
frettoloso Mitrane? (vedendo venir Mitrane)

SCENA VIII

Mitrane, poi Alceste dal porto e detti.

Mitrane.   In questo punto

sopra picciolo legno Alceste è giunto.
Cleonice. (Numi!)
Fenicio.   (Respiro!)
Cleonice.   Ove si trova?
Murane. (accennando verso il porto)  Ei viene.
Cleonice. (s’alza dal trono, e seco s’alzano tutti)
Fenicio, Olinto (ah! ch’io mi perdo), andate

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l’amico ad abbracciar, che s’avvicina.

(Io quasi mi scordai d’esser regina.)
(torna a sedere. Fenicio e Mitrane vanno ad incontrare Alceste, che in picciola barca si vede approdare, e l’abbracciano)
Olinto. (Inopportuno arrivo!)
Cleonice.   (Ecco il mio bene.
  (verso Alceste, che s’avvicina)
Tu palpiti, o cor mio,
ché riconosci, oh Dio! le tue catene.)
Alceste. Pur mi concede il fato
il piacer sospirato
di trovarmi a’ tuoi piedi, o mia regina.
Pur il ciel mi concede
che a te della mia fede
recar sui labbri miei possa il tributo.
Felice me, se ancora
fra le cure del regno
d’un regio sguardo il mio tributo è degno.
Cleonice. E privata e sovrana,
l’istessa Cleonice in me ritrovi.
Oh quanto, Alceste, oh quanto
atteso giungi, e sospirato e pianto!
Fenicio. (Torno a sperar.)
Cleonice.   Ma qual disastro a noi
sí gran tempo ti tolse?
Olinto.   (Oh sofferenza!)
Alceste. Sai che la mia partenza
col re tuo genitor...
Olinto.   Sappiamo, Alceste,
la pugna, le tempeste,
di lui la morte e le vicende...
Cleonice.   Il resto
dunque giovi ascoltar. Siegui.
Olinto.   (Che pena!)
Alceste. Al cader d’Alessandro, in noi l’ardire
tutto mancò. Giá le nemiche squadre

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balzan sui nostri legni; orrido scempio

si fa de’ vinti; in mille aspetti e mille
erra intorno la morte. Altri sommerso,
altri spira trafitto, e si confonde
la cagion del morir tra ’l ferro e l’onde.
Io, sfortunato avanzo
di perdite sí grandi, odiando il giorno,
su la scomposta prora
d’infranta nave, a mille strali esposto,
lungamente pugnai, finché, versando
da cento parti il sangue,
perdei l’uso de’ sensi e caddi esangue.
Cleonice. (Mi fa pietá.)
Alceste.   Quindi in balia dell’onde
quanto errai non so dirti. Aprendo il ciglio,
il lacero naviglio
so che piú non rividi. In rozzo letto
sotto rustico tetto io mi trovai.
Ingombre le pareti
eran di nasse e reti, e curvo e bianco
pietoso pescator mi stava al fianco.
Cleonice. Ma in qual terra giungesti?
Alceste.   In Creta, ed era
cretense il pescator. Questi sul lido
mi trovò semivivo; al proprio albergo
pietoso mi portò; ristoro al seno,
dittamo alle ferite
sollecito apprestò: questi provvide,
dopo lungo soggiorno,
di quel picciolo legno il mio ritorno.
Fenicio. Oh strani eventi!
Olinto.   Alfine
l’istoria terminò. Tempo sarebbe...
Cleonice. T’intendo, Olinto. Io sceglierò lo sposo:
ciascun sieda e m’ascolti.
  (Fenicio, Olinto e gli altri grandi siedono)

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Alceste.   (Io ritornai

opportuno alla scelta.)
  (Alceste, volendo sedere, è impedito da Olinto)
Olinto.   Olá! che fai?
Alceste. Servo al cenno real.
Olinto.   Come! al mio fianco
vedrá la Siria un vil pastore assiso?
Alceste. La Siria ha giá diviso
Alceste dal pastor. Depose Alceste
tutto l’esser primiero,
allor che di pastor si fe’ guerriero.
Olinto. Ma in quelle vene ancora
scorre l’ignobil sangue.
Alceste.   In queste vene
tutto si rinnovò: tutto il cangiai,
quando in vostra difesa io lo versai.
Olinto. Ma qual de’ tuoi maggiori
a tant’oltre aspirar t’aprí la strada?
Alceste. Il mio cor, la mia destra e la mia spada.
Olinto. Dunque...
Fenicio.   Eh! taci una volta.
Olinto.   Almen si sappia
la chiarezza qual è degli avi sui.
Fenicio. Finisce in te, quando comincia in lui.
Cleonice. Non piú: nel mio comando
si nobilita Alceste.
Olinto.   In questo loco
solo ai gradi supremi
di sedere è permesso.
Cleonice.   E bene! Alceste
sieda duce dell’armi,
del sigillo real sieda custode:
ti basta, Olinto? (Alceste siede, e Olinto si alza)
Olinto.   Ah! questo è troppo. A lui
dona te stessa ancor. Conosce ognuno
dove giunger tu brami.

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Fenicio.   In questa guisa,

temerario! rispondi? Al braccio mio
lascia il peso, o regina,
di punir quell’audace.
Cleonice.   Ai merti suoi,
all’inesperta etá tutto perdono;
ma taccia in avvenir.
Fenicio.   Siedi e raffrena,
tacendo almeno, il violento ingegno.
Udisti? (ad Olinto)
Olinto.   Ubbidirò. (Fremo di sdegno.) (torna a sedere)
Cleonice. Scelsi giá nel mio cor; ma, pria che faccia
palese il mio pensiero, un’altra io bramo
sicurezza da voi. Giuri ciascuno
di tollerar del nuovo re l’impero,
sia di Siria o straniero,
o sia di chiaro o sia di sangue oscuro.
Olinto. (Come tacer!)
Fenicio.   Su la mia fé lo giuro.
Cleonice. Siegui, Olinto.
Fenicio.   Non parli?
Olinto. Lasciatemi tacer.
Cleonice.   Forse ricusi?
Olinto. Io n’ho ragion; né solo
m’oppongo al giuramento. Altri vi sono...
Cleonice. E ben, su questo trono (s’alza dal trono, e seco tutti)
regni chi vuole. Io d’un servile impero
non voglio il peso.
Fenicio.   Eh! non curar di pochi
il contrasto, o regina, in faccia a tanti
rispettosi vassalli.
Cleonice.   In faccia mia
l’ardir di pochi io tollerar non deggio.
  (scende dal trono)
Libero il Gran consiglio
l’affar decida. O senza legge alcuna

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sceglier mi lasci, o soffra

che da quel soglio, ove richiesta ascesi,
volontaria discenda. Almen, privata,
disporrò del cor mio. Volger gli affetti
almen potrò dove piú il genio inclina;
ed allor crederò d’esser regina.
          Se libera non sono,
     se ho da servir nel trono,
     non curo di regnar,
     l’impero io sdegno.
          A chi servendo impera,
     la servitude è vera,
     e finto il regno.
(parte Cleonice, seguita da Mitrane, dai grandi, dalle guardie e dal popolo)

SCENA IX

Fenicio, Olinto ed Alceste.

Fenicio. Cosí de’ tuoi trasporti

sempre arrossir degg’io? Né mai de’ saggi
il commercio, l’esempio
emendar ti fará?
Olinto.   Ma, padre, io soffro
ingiustizia da te. Potresti al soglio
innalzarmi, e m’opprimi.
Fenicio.   Avrebbe invero
la Siria un degno re: torbido, audace,
violento, inquieto...
Olinto.   Il caro Alceste
saria placido, umile,
generoso, prudente... Ah, chi d’un padre
gli affetti ad acquistar l’arte m’addita!
Fenicio. Vuoi gli affetti d’un padre? Alceste imita.

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          Se fecondo e vigoroso

     crescer vede un arboscello,
     si affatica intorno a quello
     il geloso agricoltor.
          Ma da lui rivolge il piede,
     se lo vede in su le sponde
     tutto rami e tutto fronde,
     senza frutto e senza fior. (parte)

SCENA X

Olinto ed Alceste.

Olinto. Nelle tue scuole il padre

vuol ch’io virtude apprenda. E bene, Alceste,
comincia ad erudirmi. Ah! renda il cielo
cosí l’ingegno mio facile e destro,
che non faccia arrossir sí gran maestro.
Alceste. Signor, quei detti amari
soffro solo da te. Senza periglio
tutto può dir chi di Fenicio è figlio.
Olinto. Io poco saggio invero
ragionai col mio re. Signor, perdona
se offendo in te la maestá del soglio.
Alceste. Olinto, addio. Piú cimentar non voglio
la sofferenza mia. Tu scherzi meco,
m’insulti, mi deridi,
e del rispetto mio troppo ti fidi.
          Scherza il nocchier talora
     coll’aura che si desta;
     ma poi divien tempesta,
     che impallidir lo fa.
          Non cura il pellegrino
     picciola nuvoletta;
     ma, quando men l’aspetta,
     quella tonando va. (parte)

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SCENA XI

Olinto.

Chi di costui l’oscura

origine ignorasse, ai detti alteri,
di Pelope o d’Alcide
progenie il crederebbe. E pure, ad onta
del rustico natale,
Alceste per Olinto è un gran rivale.
          Che mi giova l’onor della cuna,
     se, nel giro di tante vicende,
     mi contende — l’acquisto del trono
     la fortuna — d’un rozzo pastor?
          Cieca diva, non curo il tuo dono,
     quando è prezzo d’ingiusto favor. (parte)

SCENA XII

Giardino interno nel palazzo reale.

Cleonice, Barsene, poi Fenicio.

Cleonice. Dunque, perch’io l’adoro,

tutto il mondo ad Alceste oggi è nemico?
Questo contrasto appunto
piú impegna l’amor mio.
Barsene.   Ma in questo istante
forse il Consiglio a tuo favor decise.
Che giova innanzi tempo...
Cleonice.   Eh! ch’io conosco
dell’invidia il poter. Forse a quest’ora
terminai di regnar; ma non per questo
misera mi fará l’altrui livore.
È un gran regno per me d’Alceste il core.

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Barsene. (Oh gelosia!)

Cleonice.   Decise
il Consiglio, o Fenicio? (a Fenicio, che sopraggiunge)
Fenicio.   Appunto.
Cleonice.   Il resto,
senza che parli, intendo.
Il mio regno finí.
Fenicio.   Meglio, o regina,
giudica della Siria. I tuoi vassalli
per te, piú che non credi,
han rispetto ed amore. Arbitra sei
di sollevar qual piú ti piace al trono.
Il tuo voler sovrano,
in qualunque si scelga,
di chiara stirpe o di progenie oscura,
ciascuno adorerá, ciascuno il giura.
Cleonice. Come! in sí brevi istanti
sí da prima diversi?
Fenicio.   Ah! tu non sai
quanta fede è ne’ tuoi: nel gran consesso
tutto si palesò. Chi del tuo volto,
chi del tuo cor, chi della mente i pregi
a gara rammentò; chi tutto il sangue
offerse in tua difesa; e, in mezzo a questo
impeto di piacer, regina, oh come
s’udia sonar di Cleonice il nome!
Barsene. (Infelice amor mio!)
Cleonice.   Vanne: al Consiglio
riporta i sensi miei. Di’ che ’l mio core
a tai prove d’amore
insensibil non è; che fia mia cura
che non si penta il regno
di sua fiducia in me: che grata io sono.
Fenicio. (Ecco in Alceste il vero erede al trono.) (parte)
Barsene. Vedi come la sorte
i tuoi voti seconda. Ecco appagato

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appieno il tuo desio,

ecco finito ogni tormento.
Cleonice.   Oh Dio!
Barsene. Tu sospiri? Io non vedo
ragion di sospirar. L’amato bene
in questo punto acquisti, e ancor non sai
le luci serenar torbide e meste?
Cleonice. Cara Barsene, ora ho perduto Alceste.
Barsene. Come «perduto»?
Cleonice.   E vuoi
che siano i miei vassalli
di me piú generosi? Il genio mio
sará dunque misura
de’ merti altrui? Senza curar di tanti
il sangue illustre, io porterò sul trono
un pastorello a regolar l’impero?
Con qual cor, con qual fronte? Ah! non fia vero.
La gloria mia mi consigliò sinora
l’invidia a superar; ma, quella oppressa,
or mi consiglia a superar me stessa.
Barsene. Alceste che dirá?
Cleonice.   Se m’ama Alceste,
amerá la mia gloria: andrá superbo
che la sua Cleonice
si distingua cosí co’ propri vanti
dalla schiera volgar degli altri amanti.
Barsene. Non so se in faccia a lui
ragionerai cosí.
Cleonice.   Questo cimento,
amica, io fuggirò. Non so se avrei
virtú di superarmi. È troppo avvezzo
ad amarlo il mio cor. Se vincer voglio,
non veder piú quel volto a me conviene.

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SCENA XIII

Mitrane e dette, poi Alceste.

Mitrane. Chiede Alceste l’ingresso.

Cleonice.   Oh Dio! Barsene.
Barsene. Or tempo è di costanza.
Cleonice. Va’; non deggio per ora... (a Mitrane)
Mitrane.   Egli s’avanza. (parte)
Cleonice. (Resisti, anima mia!)
Alceste.   Senza riguardi
la mia bella regina
dappresso vagheggiar posso una volta.
Posso dirti che mai
pace non ritrovai da te lontano:
posso dirti che sei
sola de’ pensier miei cura gradita,
il mio ben, la mia gloria e la mia vita.
Cleonice. Deh! non parlar cosí.
Alceste.   Come! Uno sfogo
dell’amor mio verace,
che ti piacque altre volte, oggi ti spiace?
In questa guisa, oh Dio!
l’istessa Cleonice in te ritrovo?
Son io quello che tanto
atteso giunge, e sospirato e pianto?
Cleonice. (Che pena!)
Alceste.   Intendo, intendo:
bastò la lontananza
di poche lune a ricoprir di gelo
di due lustri l’amor.
Cleonice.   Volesse il cielo!
Alceste. «Volesse il ciel»! Qual colpa,
qual demerito è in me? S’io mai t’offesi,
mi ritolga il destin quanto mi diede

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la tua prodiga man: sempre sdegnati

sian per me que’ begli occhi,
arbitri del mio cor, del viver mio.
Guardami, parla.
Cleonice.   (Ah! non resisto.) Addio. (parte)

SCENA XIV

Alceste e Barsene.

Alceste. Numi, che avvenne mai! Que’ dubbi accenti,

quel pallor, quei sospiri
mi fanno palpitar. Qual è, Barsene,
la cagion di sí strano
cangiamento improvviso? È invidia altrui?
E incostanza di lei?
È ingiustizia degli astri? È colpa mia?
Barsene. Le smanie del tuo core
mi fan pietá. Forse con altra amante
piú felice saresti.
Alceste.   Ah! giunga prima
l’ultimo de’ miei giorni. Io voglio amarla
a prezzo ancor di non trovar mai pace;
ché piú soffrir mi piace
per la mia Cleonice ogni tormento,
che per mille bellezze esser contento.
          Dal suo gentil sembiante
     nacque il mio primo amore,
     e l’amor mio costante
     ha da morir con me.
          Ogni beltá piú rara,
     benché mi sia pietosa,
     per me non è vezzosa,
     vaga per me non è. (parte)

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SCENA XV

Barsene.

Infelice cor mio, qual altro attendi

disinganno maggiore? Indarno aspiri
ad espugnar la fedeltá d’Alceste.
Ma pur, chi sa? la tolleranza, il tempo
forse lo vincerá. Vince de’ sassi
il nativo rigor picciola stilla
collo spesso cader. Rovere annosa
cede ai colpi frequenti
d’assidua scure. E se m’inganno? Oh Dio!
Temo che l’idol mio,
nel conservarsi al primo amor costante,
sia piú fermo de’ sassi e delle piante.
          Vorrei da’ lacci sciogliere
     quest’alma prigioniera:
     tu non mi fai risolvere,
     speranza lusinghiera:
     fosti la prima a nascere,
     sei l’ultima a morir.
          No, dell’altrui tormento
     no, che non sei ristoro;
     ma servi d’alimento
     al credulo desir.