Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia/Appendice al capitolo III

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Capitolo III Capitolo IV


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APPENDICE AL CAPITOLO III.





Esame de’ fatti allegati dal professor Romagnosi (nell’opera Dell’indole e dei fattori dell’incivilimento), per dimostrare che, sotto i Longobardi, gl’Italiani conservarono i loro municìpi, ed ebbero giudici della loro nazione.


Nel paragrafo III del capo III della parte seconda, intitolato: In qual senso, rispetto all’incivilimento, considerar si possa il longobardico dominio, il celebre autore scrive così: Volendo ridurre a brevi termini la situazione del popolo sotto i Longobardi, pare che i conquistatori abbian detto agl’Italiani: Noi siamo stanziati presso di voi, e voi sarete nostri tributarii e dipendenti, e noi, come statuto vostro sanzioniamo le leggi romane con cui a voi piace di vivere. Noi lasciamo che i vostri corpi municipali amministrino l’interna economia di cui non sarebbe a noi possibile di occuparci. I giudizii saranno tenuti sotto la presidenza di un giudice da noi deputato, ma col concorso e voto collegiale di vostri sapienti, sia ecclesiastici, sia laici, italiani quando i litiganti siano italiani, e di giudici misti quando la questione si agiti fra italiani e Longobardi.

Oso credere che, tra i lettori di quell’opera, nessuno il quale avesse qualche nozione dello stato dell’Italia sotto i Longobardi, sia arrivato a quelle parole: concorso e voto collegiale di sapienti italiani, e: giudici misti, senza provare un vivissimo desiderio di vedere su cosa siano fondate. Dico il desiderio, perchè il passo in cui si trovano, e che abbiamo trascritto, non è, come potrebbe parere a chi lo legge staccato, una conclusione, un sunto di fatti già esposti, ma una proposta affatto nova, e senza relazione con le cose antecedenti. Una nota avverte che le prove di questa particolarità e delle altre qui ricordate si vedranno nel seguente paragrafo. In esso poi, tra le circostanze che mantennero le radici dell’italica civiltà iniziata, e ne associarono l’azione col susseguente [p. 128 modifica]ordine di cose, sotto i Longobardi, l’autore pone: La conservazione dei Comuni con la loro economica amministrazione, e: La pubblicità dei giudizj 1 collegiali con assessori votanti nazionali. Un’altra nota contiene la dimostrazione promessa.

Avremmo voluto lasciar da una parte tutto ciò che riguarda la conservazione de’ municipi o, come dice l’autore, de’ comuni: questione non punto legata necessariamente con la nostra, e di più questione discussa a fondo da uomini dottissimi, e sulla quale gli argomenti addotti nella Nota non darebbero l’occasione di dir nulla di novo e d’importante, anche a chi n’avesse i mezzi. Ma non c’è stato possibile. Chè, quantunque nel testo l’autore ponga le due questioni come distinte, quali sono in effetto: nella Nota ne fa una sola, riunendo in una dimostrazione comune gli argomenti dell’una e dell’altra; dimanierachè, dopo avere nella proposizione enunciata solamente la conservazione de’ municipi, nella conclusione mette anche la nazionalità de’ giudici. Anderemo dunque dietro alla Nota medesima, trascrivendola a brano a brano, e frammettendoci le nostre osservazioni.

La più parte de’ fatti allegati in essa sono già stati ridotti alla loro vera significazione dall’illustre signor Troya, ma con brevi cenni, come conveveniva in un’opera 2 dove tant’altri fatti sono raccolti, con una erudizione non meno ingegnosa che vasta. Noi, proponendoci di trattar solamente di que’ pochi, potremo esaminar più minutamente e la maniera con cui il Romagnosi gli ha esposti, e le conseguenze che ha creduto di poterne cavare.

NOTA.


Nel parlare dei Longobardi ho creduto col Muratori e con altri moderni che sotto al dominio dei Longobardi i Municipj Romani modificati siano rimasti in piedi ed indi conservati e trasmessi alla francese dominazione. La forza stessa delle cose suggeriva questa disposizione, non solamente a motivo dell’inettitudine rozza dei Longobardi all’amministrazione economica comunale, ma eziandio alla niuna gelosia data a loro da quest’oggetto. Se nelle loro leggi prima compilate e dappoi tanto aumentate e che provvedono in piccoli oggetti, non troviamo menzione di gestioni longobardiche municipali: se i loro legislatori furono così larghi nel lasciare agl’Italiani le loro leggi civili e religiose, quanto più presumere si deve avere loro lasciato il regime comunale?

OSSERVAZIONI.


Costretti, come s’è detto, a principiar dalla questione de’ municipi, non possiamo a meno d’osservare quanto sia non solo inconcludente, ma logicamente vizioso l’argomento cavato dall’inettitudine rozza dei Longobardi all’amministrazione comunale, per provare la conservazione di quelli. Inconcludente, perchè l’inettitudine impedisce bensì di far bene, ma non di fare in qualsiasi maniera; e sarebbe stata una prerogativa singolare de’ Longobardi su tutti i barbari e su tutti i civilizzati, quella di non fare, se non le cose alle quali avevano attitudine. E cosa c’era poi in quell’amministrazione di così arduo, di così impraticabile per un [p. 129 modifica]popolo, che aveva pure una forma generale e coordinata di governo, cariche non solo militari e giudiziarie, ma anche amministrative, leggi su tutto questo materie, e che provvedono in piccoli oggetti? E del resto, perchè con avrebbe potuto accomodarla alla sua capacità o al suo genio, due cose che si prendono tanto facilmente l’una per l’altra? Il vizio logico poi di quell’argomento è d’inchiudere una petizione di principio. Dall’essere i Longobardi inetti all’amministrazione de’ municipi, vuol l’autore inferire che questi dovessero essere amministrati dagl’Italiani; con che suppone che fossero rimasti in piedi, che è appunto, la questione. Egli domanda chi mai, se non gl’Italiani, avrebbe potuto amministrare questi municipi, e lo domanda a quelli i quali dicono che non ce n’era più. Dicono forse una cosa assurda in principio? Un paese senza municipi è forse un’idea contradittoria, e per conseguenza un fatto senza esempio? Bisognava dimostrarlo, poichè s’aveva a far con gente che non se ne dava per intesa. O piuttosto (giacchè l’assunto sarebbe stato troppo strano, e la questione non poteva cadere che sul fatto particolare) bisognava combattere le ragioni per le quali essi negavano la conservazione de’ municipi italiani sotto i Longobardi; non supporla. Lo stesso si dica del non trovarsi nelle leggi menzione di gestioni longobardiche municipali. Cosa si può inferirne? Che questi non avevano gestioni municipali? Sia pure; e poi? Che dunque dovevano averlo gl’Italiani? Sì, di nuovo, se fosse dimostrato che qualcheduno le aveva, cioè se fosse dimostrato ciò che si tratta di dimostrare. E la fallacia del ragionamento, come abbiamo già accennato, è passata anche nelle denominazioni, voglio dire in quell’uso promiscuo de’ termini municipio e comune, come se fosse cosa intesa che sia tutt’uno; mentre la questione è appunto se i comuni siano stati una trasformazione de’ municipi, o un fatto novo.

L’altro argomento, cioè la niuna gelosia data a loro (Longobardi) da quest’oggetto, è fondato su un altro paralogismo, cioè sulla supposizione arbitraria, che i municipi non potessero cessare se non per una sola cagione, mancando la quale, dovessero necessariamente, per la forza stessa delle cose, rimanere in piedi. E di più questa cagione è enunciata con un termine generalissimo e relativo, e quindi inapplicabile quando non sia determinato l’oggetto a cui si deva riferire. Gelosia di che? Di dominio, questo s’intenda; ma per giudicar fin dove siano potuti arrivare gli effetti di questa gelosia, c’è bisogno di sapere di qual sorte di dominio si tratti. Si direbbe che tutte le conquiste procedano in una sola maniera, che tutte vogliano e facciano tanto e non più; e che quindi, avendo a cercare quali siano state le conseguenze d’una conquista qualunque, non importi punto di conoscere i fatti speciali di essa. Si direbbe che, in regola generalissima, per la forza stessa delle cose, ogni conquistatore, con una deliberazione ponderata, e per mezzo di leggi, levi ai vinti per l’appunto quanto è necessario per stabilire su di essi il suo dominio; e si direbbe di più, che ci sia una sola specie, una sola e universale misura di dominio. Ma, nè questa è la forza delle cose, nè la questione è di quelle che si possano sciogliere con argomenti cavati dalla forza generalissima delle cose, anche vera: si tratta, non delle cose, ma di certe date cose. La questione (cioè quella parte della questione, che riguarda le cagioni) è se i fatti speciali, i fatti legislativi o non legislativi dell’invasione longobardica, del regno di Clefo, della dominazione dei duchi, siano stati tali da poterne rimanere in piedi i municipi italiani, se la specie e la misura del dominio che i Longobardi hanno voluto e potuto stabilire sugl’Italiani, fossero compatibili con la continuazione di quelli. È vero che l’autore vuol confermare quell’argomento con un altro, a fortiori, cavato da fatti positivi; ma lo fa attribuendo a questi fatti un valore [p. 130 modifica]arbitrario. Se i loro legislatori, dice, furono così larghi nel lasciare agl’Italiani le loro leggi civili e religiose, quanto più presumere si deve avere loro lasciato il regime comunale? Anche prendendo la questione ne’ termini in cui è posta, cioè ammettendo che la distruzione de’ municipi non potesse venire che da gelosia di dominio, e d’un dominio meramente governativo, e per opera di legislatori; ammettendo di più che il non avere i Longobardi ariani proibito con decreti l’esercizio della religione cattolica, basti per poter dire che lasciarono in fatto agl’Italiani le loro leggi religiose; chi potrà mai intendere che le leggi civili, ristrette a relazioni private, e le leggi religiose, non aventi forza materiale d’esecuzione, dovessero dar più gelosia del regime municipale, che costituiva una gerarchia politica, conferiva un potere effettivo, era in qualche maniera una parte del governo? Anzi una parte importantissima, se si dovesse ammettere ciò che la Nota aggiunge immediatamente dopo, e che passiamo a trascrivere.


NOTA.


Ciò non è ancor tutto. Come osservò il Giannone, i Franchi che succedettero ai Longobardi non sovvertirono il regime che trovarono stabilito, ma vi aggiunsero miglioramenti. Ora che cosa troviamo noi sotto i primi re d’Italia francesi per l’Italia? Leggasi la legge 48 di Lotario, nipote di Carlo Magno, fatta per l’Italia. Che cosa dispone? Che i messi regj depongano gli Scabini (ossia giudici inferiori) malvagi, et cum totius populi consensu bonos eligant. Qui Muratori soggiunge «adunque all’elezione degli Scabini concorreva il consenso del popolo. Ed essendo eglino stati un Magistrato particolare del popolo, sembra pure che questo ritenesse qualche specie di autorità. — Ma come poteva il popolo eleggerli se non vi era qualche ordine o collegio, od università dove presiedessero Magistrati che regolassero questa faccenda? — Apparteneva anche al popolo il rifacimento viarum, portuum et pontium, e talvolta del palazzo regio, come apparisce dalla legge 41 del medesimo Lotario.» (Antichità Italiane, Diss. 18).


OSSERVAZIONI


S’ammetta, dico, come fa la Nota, l’induzione del Muratori; s’ammetta di più che, a motivo dell’inettitudine rozza dei Longobardi all’amministrazione economica comunale, questa apparteneva agl’Italiani, come vuole la Nota medesima; e s’avrà che de’ magistrati italiani regolavano l’elezione degli scabini. Par egli una cosa di poco, e da non dar gelosia? È vero che la Nota chiama quell’amministrazione semplicemente economica; ma l’averla qualificata in una maniera non toglie che la rappresenti in un’altra. È vero che, nel paragrafo seguente l’autore fa nascere il poter politico de’ municipi molto più tardi: un poter politico, dice espressamente, per l’addietro mai posseduto; ma veda il lettore se il presiedere e regolare l’adunanze d’un popolo che dà il suo suffragio per la nomina di giudici, sia un’attribuzione economica o politica. E qual era poi questo popolo?

Ma una tal questione, anzi tutta quest’argomentazione sulla legge di Lotario I vuol essere esaminata più particolarmente e da sè; tanto più che quella legge riguarda direttamente i giudici, che sono l’oggetto principale, non potendo esser l’unico, di queste osservazioni. Lasciamo dunque da una parte la gelosia, e la questione de’ municipi, che qui c’entrano [p. 131 modifica]solamente per un’induzione del Muratori, e vediamo se da quella legge possano uscire giudici italiani sotto i Longobardi.

Chi chiedesse sul serio, una ragione per poter credere che una legge promulgata da un re di razza franca, cinquanta o più anni dopo la conquista di Carlomagno, attesti un’usanza dell’epoca anteriore, non sarebbe rispondergli sul serio l’addurre l’osservazione generale che: I Franchi che succedettero ai Longobardi non sovvertirono il regime che trovarono stabilito, ma vi aggiunsero miglioramenti. L’osservazioni generali, in materia di storia, possono esser vere, belle, importanti, quando siano ricavate dai fatti; ma non sono il mezzo buono per conoscere i fatti medesimi. Se ne può bensì ricavar delle congetture, ma dopo avere esaurite tutte le ricerche dirette e positive: condizione tanto evidentemente necessaria, che può quasi parere strano l’enunciarla espressamente. Dell’epoca longobardica prima de’ Franchi ci rimangono leggi, storie o cronache, atti pubblici e privati; in que’ documenti si dovrebbe cercare se ci sia qualche prova o qualche indizio di messi reali delegati a eleggere giudici inferiori, d’un consenso di tutto il popolo a queste elezioni. E si dovrebbe, non solo per veder se si trova ciò che si desidera, ma anche per veder se non ci sono invece indizi o prove del contrario. Fare come se tutto questo non ci fosse, voltar le spalle alla cosa che si tratta di conoscere, per guardarne un’altra che le deve somigliare più o meno, omettere ogni osservazione diretta, per decider la questione con un argomento d’analogia, può parere una strada corta, se per strada corta s’intende una dove ci sia da camminar poco, non già se s’intenda quella che faccia arrivar più presto dove si vuole.

Un’altra condizione non meno essenziale e non meno evidente è che quelle osservazioni generali siano espresse in termini d’un significato distinto e preciso, tanto più quando devono servire, non a qualificar semplicemente fatti già noti, ma a indurne de’ fatti incogniti. Qual criterio si può mai cavare da quelle parole: I Franchi non sovvertirono il regime stabilito, ma vi aggiunsero miglioramenti? Qual è il limite o la differenza, tra questi due modi o generi di fatti, per poter vedere in quale delle due categorie si possa collocare un dato fatto? Chi è che, volendo saper davvero, per quanto sia possibile, cosa abbiano i Franchi mantenuto o cambiato del regime longobardico, e non avendo (supponiamo) altra materia d’esame che le nuove leggi de’ Franchi medesimi, credesse di poter arrivare a una conclusione fondata, anzi vedesse come condurre la ricerca, con un aiuto di quella sorte? È, se mi si passa quest’espressione, una misura di pasta, che s’allenta, si spezza, s’appiccica alle mani e alla cosa che si vorrebbe misurare.

Ma tutto questo sia detto solamente per occasione, e perchè, in verità, non si poteva lasciare senza osservazione un modo di ragionare in fatto di storia, il quale se fosse adottato e applicato generalmente, ci sarebbero tante storie quanti voleri, che è quanto dire non ce ne sarebbe più nessuna. Per ciò che riguarda la nostra questione, la data della legge è affatto indifferente. Si può anzi concedere più di ciò che la Nota chiede, e supporre addirittura che quella legge sia dell’epoca longobardica prima de’ Franchi, e di quel re che uno voglia, da Alboino fino a Desiderio. Sia dunque che, fino da quell’epoca, de’ giudici fossero eletti da messi reali, o da chi altro si voglia, col consenso di tutto il popolo. Intorno al significato che si possa attribuire in questo caso alla parola consenso, noi proporremo, in fine di questa appendice, alcuno riflessioni, o alcani dubbi; ma anche questo per occasione semplicemente. Qui ammetteremo, senza fare eccezione veruna, che la legge parli d’un consenso formale; e domandererno solamente in qual maniera quelle parole: di tutto il popolo, [p. 132 modifica]si possano riferire agl’Italiani. La Nota non lo dice punto: fa come se nel paese dove era promulgata quella legge non ci fossero stati altri che Italiani, nel quale caso s’intenderebbe subito, che la legge dicendo: tutto il popolo, parlasse di loro; anzi non si potrebbe intendere che parlasse di altri. Ma si tratta d’un caso ben diverso: c’erano questi altri: non si può intendere che la legge parli degl’Italiani soli, che attribuisca ad essi il privilegio esclusivo di confermare col loro consenso l’elezione degli scabini: la Nota non ha potuto voler questo. Ha voluto solamente che la legge si riferisca anche agl’Italiani; ma in questo caso era necessario d’indicare il come; perchè, in qual maniera una legge la quale dice: tutto il popolo, voglia parlare e di Longobardi e d’Italiani, non è una cosa che si faccia, intender da sè.

S’ha egli a intendere, domandiamo dunque, che la legge abbia voluto con quelle parole significare tutti gli abitanti del paese, senza distinzione di nazioni? L’autore medesimo, in quel libro medesimo, c’interdice una tale interpretazione. I Longobardi, dice, rimasero sempre stranieri finchè dominarono; ma nello stesso tempo lasciarono l’intero stato dell’Italia come terreno abbandonato a sè stesso 3. Sarebb’egli stato rimanere stranieri all’Italia, abbandonarla a sè stessa; l’unirsi, il confondersi con gl’Italiani, per formare un consenso comune, in materia d’elezione di giudici? Di più, quell’interpretazione non s’accorderebbe nè anche con la tesi. I giudizj, dice questa, saranno tenuti sotto la presidenza di un giudice da noi deputato, ma col concorso e voto collegiale di vostri sapienti, sia ecclesiastici, sia laici, italiani quando i litiganti siano italiani, e e di giudici misti, quando la questione si agiti fra Italiani e Longobardi. Ora, se i giudici dovevano esser distinti, perchè l’elezioni sarebbero state confuse? Perchè, dico, e come mai, se Italiani e Longobardi erano due popoli nell’avere ognuno i suoi giudici, sarebbero stati un popolo solo nel concorrere all’elezioni? Per nominar giudici longobardi, i quali non dovevano giudicare che le cause de’ Longobardi tra di loro, ci sarebbe voluto il consenso degl’Italiani? Si può egli immaginare una ragione per cui i conquistatori avessero voluta, sofferta una cosa simile? Ma che dico? Sarebbe stato quasi ugualmente strano che avessero preso parte alla nomina di giudici italiani per gl’Italiani. Che il vincitore dia de’ giudici ai vinti, non c’è nulla di straordinario; ma eleggerli insieme, che conclusione c’è? Se la Nota avesse voluto che Longobardi e Italiani concorressero insieme alla nomina di giudici comuni, non vedo come la cosa si potesse ammettere, ma s’intenderebbe. Il consenso dato in comune all’elezione di due ordini diversi e separati di giudici, è una cosa che non si può nè ammettere nè intendere.

Qual altra maniera rimane dunqne d’interpretar le parole della legge in un senso favorevole alla tesi? Nessuna, per quello che noi possiamo vedere; meno che, per totius populi consensu, si volesse intendere: col consenso rispettivo di ciaschedun popolo, dell’italiano, trattandosi di giudici italiani, del longobardo, trattandosi di giudici longobardi. Ma chi vorrà supporre che il legislatore si sia espresso in una maniera così strana, così ambigua, o piuttosto contraria alla sua supposta intenzione, mentre era così necessario e insieme così facile il distinguere, se fosse stato il caso? Ci voleva tanto a far come Liutprando, che disse: sive ad legem Langobardorum, sive ad legem Romanorum 4? come Pipino zio [p. 133 modifica]di Lotario, che disse: ut Langobardus aut Romanus 5? Ma di più nelle leggi franco‑longobardiche, e in quelle stesse di Lotario, le adunanze del popolo sono menzionate spesso sotto il nome di placiti. Ora, c’è egli in queste leggi, o in qualche altro documento, qualcosa che indichi o permetta di congetturare due sorte di placiti, gli uni di Longobardi e Franchi, gli altri d’Italiani? E se nelle leggi puramente longobardiche, c’è pure qualche traccia sicura d’adunanze popolari, c’è egli la minima traccia di adunanze distinte per le due nazioni?

Sicchè, al quesito: Che cosa troviamo noi sotto i primi re d’Italia francesi per l’Italia?, e alla soluzione: Leggasi la legge 48 di Lotario, si può rispondere con tutta sicurezza che, per trovare in quella legge de’ giudici italiani, quando i litiganti siano italiani, bisogna far come fece il maestro di casa di Giuseppe per trovar la coppa nel sacco di Beniamino: metterceli 6.


NOTA.


Altro argomento risulta dalle Epistole di S. Gregorio, al tempo di Teodolinda dirette all’ordine, al popolo e al clero di Milano.


OSSERVAZIONI.


Lettere di san Gregorio all’ordine, al popolo e al clero di Milano? E come mai i dotti, i quali hanno fatte così varie e così diligenti ricerche per raccogliere argomenti della conservazione de’ municipi romani sotto i Longobardi, non n’hanno parlato mai? Certo, quella parola ordine, marca, per dir così, del municipio, e a proposito di Milano, farebbe molto per la loro causa. Ma se non n’hanno parlato, è perchè non ce n’è nessuna. Ce n’è una ai preti, ai diaconi e al clero della Chiesa milanese 7, e due altre al popolo, ai preti, ai diaconi, al clero, l’una: della Chiesa milanese, l’altra: milanese 8; che son cose molto diverse. E del resto, per ricavarne qualcosa intorno allo stato delle città italiane sotto i Longobardi, quel titolo, se ci fosse, non basterebbe punto: ci vorrebbero anche tutt’altre lettere; perchè queste (la prima e la seconda [p. 134 modifica]l’ultima, secondo ogni probabilità) sono dirette, non a Milano, ma a quella parte del clero e del popolo milanese che, all’invasione d’Alboino, s’era rifugiata a Genova, dove non c’eran Longobardi 9 Dimanierachè, se anche quel titolo ci fosse davvero, non si potrebbe altro che, o dirlo apocrifo addirittura, o spiegarlo col supporre che i milanesi [p. 135 modifica]dimoranti in Genova avessero, per quell’attaccamento al passato, e per quella fiducia nell’avvenire, che abbandona così tardi gli emigrati politici, conservato là, tra di loro, un simulacro di curia: parvam Troiam, simulataque magnis Pergama.... solatia victis 10 .

Ma come mai potè il Romagnosi immaginare quell’Ordine in titoli dove non si trova? È lecito, anzi conveniente il credere che non gli abbia guardati: la svista sarebbe certamente stata più strana. È, dico, da credere che, trovandoli nella Dissertazione del Muratori11, citati insieme coi [p. 136 modifica]titoli di lettere dirette ad altre città, nei quali la parola c’è, l’abbia trasportata da questi a quelli, inavvertentemente, e senza pensare quanto importasse qui la differenza de’ luoghi.

Se poi tra quelle città d’Italia alle quali san Gregorio scrisse davvero col titolo: Clero, Ordini et Plebi, ce ne fosse alcuna soggetta in quel tempo al regno longobardico, è cosa molto controversa tra quelli che, come abbiam detto, discutono a fondo la questione de’ municìpi. Noi ne facciamo menzione solo per osservare che non sono fatti tali, che l’accennarli semplicemente, quand’anche fossero accennati giusti, sia, come dice la Nota, un argomento.

NOTA

Un ultimo argomento ci viene somministrato da una scoperta fatta recentemente dal signor Carlo Troya, erudito napoletano, e pubblicata nel Giornale ivi stampato dal Porcelli sotto il titolo Il progresso delle scienze, delle lettere e delle arti. Opera periodica di G. R. Napoli, 1832.

OSSERVAZIONI

L’altro argomento, riguardava esclusivamente i municìpi; quest’ultimo e ciò che vien dopo, fino alla conclusione, riguarda esclusivamente la nazionalità de’ giudici. L’autore, facendo, come s’è accennato da principio, delle due questioni una sola, ha unite con un nesso verbale cose che non hanno alcun nesso logico. Qui dovevamo notare anche il fatto in particolare, affinchè il lettore sia avvertito che, fino alla conclusione, la Nota tratta d’una questione sola, e di quella alla quale avremmo voluto poter restringere le nostre osservazioni.

NOTA

Dal famoso Codice Cavense esplorato dal Pellegrini e dal Giannone, il signor Troya trasse due leggi ed un prologo del Re lombardo Rachi, ed altre nuove leggi di Astolfo, che mancano alla collezione delle longobardiche leggi. Nella legge X di Rachi ki dice: «Propterea praecipimus omnibus ut debeant ire unusquisque causam habentes ad civitatem suam simulque ad judicem suum, et nunciare causam ad ipsos judices suos.» La parola omnibus, pare riferibile a tutti i sudditi lombardi e italiani. Il dubbio pare tolto dalla locuzione ad civitatem suam unita ad judicem suum. La città indica la sede del tribunale e quindi il circondario giurisdizionale. Il giudice suo indica la giurisdizione personale a norma della diversa nazione.

OSSERVAZIONI

Sarebbe, certo, una cosa singolare, che l’uomo veramente erudito, citato qui, fosse andato a scovare un documento che, con due parole, buttasse a terra tutto il suo sistema, fondato su tanto ricerche e su tanti confronti; e lui non avvedersene. E non sarebbe meno singolare la cosa in sè: cioè che un fatto di due secoli, e d’un’intera popolazione, e del quale dovrebbero rimaner tante tracce, si trovasse dimostrato accidentalmente e indirettamente, non dal testimonio, ma dall’interpretazione d’alcune parole; là un totius populi (anzi questo nemmeno interpretato, ma lasciato da interpretare al lettore), qui un suum e un [p. 137 modifica]omnibus. Ma se si esamina il documento, non si trova altro di singolare, che l’interpretazione.

La legge X di Rachi (secondo il codice Cavense) è composta di due parti che riguardano oggetti affatto diversi: ne diamo qui, tradotta come si può, quella che ha che fare con la questione presente.

«Qualunque Arimanno o uomo libero porterà una causa davanti a noi prima d’essersi rivolto al suo giudice, e d’aver ricevuta da lui la sua sentenza, paghi per composizione al detto suo giudice cinquanta soldi. Per ciò ordiniamo a tutti, che ognuno il quale abbia una causa da far decidere, vada alla sua città e dal suo giudice, e gli esponga la sua causa. Che se non gli è fatta giustizia, allora venga alla nostra presenza: chi si farà lecito di venirci prima d’andare dal suo giudice, paghi cinquanta soldi, e se non è in caso ....

Perciò vogliamo che ognuno vada dal suo giudice, e riceva la sentenza che gli sarà data 12

Può egli essere più chiaro che quel suo tante volte aggiunto a giudice, non c’è per altro, se non perchè la legge parlava ad uomini che non erano tutti soggetti a un giudice medesimo? Supponiamo che in tutto il regno non ci fossero stati altro che Longobardi: quel suo ci andava ugualmente. Doveva la legge dire semplicemente: ad judicem, quando le giudicerìe (iudiciariae) erano molte? — Ma, dice la Nota, la sede del tribunale era già indicata dalla parola: ad civitatem suam; dunque l’altro suum aggiunto a judicem deve significare qualcosa di diverso. — S’osservi prima di tutto, che, per poter fare una tale illazione, la Nota ha dovuto staccar dalla legge e riferire quel solo brano nel quale si trova quella locuzione, come la chiama. Ora, il lettore ha potuto vedere che nella legge il suo, aggiunto a giudice, c’è tre volte prima di quel brano, e due volte dopo. E in questi luoghi, cosa indica? S’insiste forse, e si domanda perchè mai la legge avrebbe nominata anche una sola volta la città? quando non fosse stato necessario? Se si rispondesse che l’ha fatto per un di più, potrebbe bastare. Infatti, non sarebb’egli strano il voler applicare la regola del necessario a un documento nel quale trionfa tanto il superfluo? C’è egli da maravigliarsi che quello scrittore, oltre la persona, abbia indicato anche il luogo? che abbia detto una volta: vada alla sua città, sottintendendo: non venga a palazzo 13, come aveva detto tante volte: vada dal suo giudice, per opposizione a da noi? Anzi non sono pleonasmi comunissimi? Se, per esempio, si trovasse che un papa, a chi fosse ricorso inopportunamente a lui, avesse detto: andate alla vostra diocesi, esponete la cosa al vostro vescovo; ci sarebbe ragion di credere che in ogni diocesi ci fossero diversi vescovi per diverse classi di persone?

Ma per dimostrare quanto sia lontana dal vero quell’interpretazione, non c’è bisogno di ricorrere ad argomenti generali, e ad esempi ideali. Abbiamo due leggi longobardiche nelle quali si trovano accozzati insieme [p. 138 modifica]la città e il giudice, anzi il suo giudice: vediamo cosa n’uscirebbe, a interpretar quel suo nel senso della Nota. Una di queste leggi è di Liutprando: ne diamo qui la parte che fa al proposito, tradotta, diremo di nuovo, come si può. «Se qualcheduno, in qualsisia città, senza il comando del re, ecciterà una sedizione contro il suo giudice, o farà qualche guasto, o cercherà di scacciare il giudice suddetto; o se altri uomini d’un’altra città faranno lo stesso contro un’altra città o contro un altro giudice, o cercheranno di scacciarlo; chi ne sarà il capo, sia punito di morte, e ogni suo avere ricada al Palazzo» cioè alla cassa del re: «i complici paghino la loro composizione al Palazzo medesimo 14.» L’altra legge è la sesta del nostro Rachi, quella di cui, come s’è accennato or ora, dovremo parlare di nuovo: qui basterà citarne il principio. «Siamo informati, che nelle diverse città, degli uomini malvagi fanno ammutinamenti contro il loro giudice 15.» Se qui, dico, vogliamo intendere il judicem suum nel senso della Nota, ne verrà che la legge non proibiva d’ammutinarsi, se non contro il giudice della propria nazione; ne verrà che, se un Italiano fosse stato complice o capo d’una sommossa contro un giudice longobardo, e viceversa, se un Longobardo avesse fatto lo stesso contro il supposto giudice italiano, non era nulla. E s’osservi che la legge di Liutprando prevede il caso d’ammutinamenti fatti contro un altro giudice; ma a chi riferisce queste parole? Agli uomini d’un’altra città. Solamente l’ammutinarsi contro un giudice della propria città, ma non della propria nazione, sarebbe stato un fatto impunito: quando non si trovasse più ragionevole il dire che la legge non n’ha parlato, perchè lo riguardava come un fatto impossibile.

In queste due leggi poi, anche chi non abbia alcuna idea del sistema giudiziario de’ Longobardi, vede subito che, in quel sistema, tra città e giudice c’era una relazione speciale; e quindi, che l’accompagnare que’ due vocaboli, come era qualche volta necessario, così poteva accader facilmente anche quando non ci fosse necessità; appunto come s’è detto di diocesi e vescovo, e si potrebbe dire di cent’altre cose. Ma per chi abbia una qualche idea di quel sistema, e del suo particolare vocabolario, questa relazione è tanto ovvia, che, in verità, non si sa intendere come mai all’autore della Nota non sia venuta in mente addirittura, e in maniera da non lasciar luogo ad altre congetture. Essendo condotti a dirne qualcosa di più, dobbiamo per conseguenza chiedero il permesso di rammentar cose notissimo.

Nelle leggi longobardiche anteriori alla conquista di Carlomagno, la parola Judex ha spessissimo (non dico sempre, perchè non sarebbe cosa da affermarsi incidentemente e senza discussione) un significato speciale: indica, non un giudice di qualunque grado, ma, come per antonomasia, il giudice supremo d’un distretto, giudice che aveva sotto di sè altri giudici inferiori, e sopra di sè il re solo. Tra le leggi da cui questo risulta, n’accenneremo una sola, ma espressissima. «Se uno porterà una causa davanti al suo sculdascio,» giudice inferiore, «e questo tarderà più di [p. 139 modifica]quattro giorni a fargli giustizia.... paghi il detto sculdascio la composizione di sei soldi al ricorrente, e d’altrettanti al suo giudice.... Che se la causa passa la sua competenza, rimetta le parti al giudice suddetto... E se anche questo non si crede autorizzato a decidere, mandi le parti davanti al re 16.» Le sedi poi di questi giudici supremi, i capoluoghi, come ora si direbbe, delle loro province, chiamato, dal loro nome, judiciariae, erano appunto le città: che è quanto dire, in ogni città non c’era altro che un giudice. Questo risulta già manifestamente dalle due leggi contro i sediziosi, citate or ora: ne accenneremo, per un di più, due altre. «Se alcuno,» prescrive Liutprando, «ha una causa in un’altra città, vada con una lettera del suo giudice, al giudice di quella,.... E se questo non crede di poter dare una sentenza, rimandi il ricorrente dalla sua giudicerìa, e lo diriga al re 17.» Un’altra legge di Liutprando medesimo prescrive che «ogni giudice faccia fabbricare nella sua città una prigione sotto terra per i ladri 18

Ora, cos’ha fatto qui l’autore? Senza darsi pensiero d’alcuna circostanza particolare e positiva, senza metter nemmeno in avvertenza il lettore, ha preso quel judex nel senso generico che ha per noi la parola giudice; e perchè, intesa in questo senso, non ha effettivamente alcuna relazione particolare e necessaria con la parola città, ha trovato che nella loro unione ci dovesse essere qualche mistero. Ma, trattandosi d’una legge longobardica, ognuno vede che, per escludere da quella parola il senso che le leggi longobardiche le danno almeno abitualmente, ci voleva qualche ragione particolare al caso. Noi, in verità, non sapremmo immaginarne veruna: troviamo piuttosto delle ragioni per credere che, anche in questo caso, non si possa intendere altro che il giudice supremo dopo il re, il giudice unico in ogni città. Infatti, che qualcheduno o molti, saltando irregolarmente quest’ultimo scalino, per dir così, della gerarchia giudiziaria, andassero ad appellarsi al re contro la sentenza d’un giusdicente inferiore, o portassero addirittura davanti al re medesimo qualche causa grave bensì, ma non riservata a lui 19, è una cosa che s’intende facilmente: non par verisimile che ad alcuno venisse in mente di rivolgersi al re in prima istanza, per fargli decidere le cause che potevano esser di competenza di que’ giusdicenti minori. Se anche l’abuso e l’ignoranza fosso arrivata fin là, non si vede perchè la legge non gli avrebbe nominati espressamente, o almeno accennati, come fanno tant’altre 20, [p. 140 modifica]invece di ripeter tante volte quel nome che abitualmente indicava una sola specie di giudice. Ma c’è un argomento ancor più particolare e, dirò così, più aderente al fatto. Abbiamo un’altra legge, nella quale si trova la medesima proibizione di ricorrere al re prima d’andar dal giudice, e con la medesima multa, e in parte ne’ medesimi termini, e nella quale questo giudice è manifestamente il supremo. Ed è quella legge VI di Rachi medesimo, della quale abbiamo citato il principio poco fa; legge relativa, come s’è visto, agli «ammutinamenti, che nelle diverse città alcuni fanno contro il loro giudice.» In essa il legislatore viene a parlare delle facoltà che ognuno (o, come dice dopo, ogni Arimanno 21) aveva di ricorrere al re, non essendogli fatta giustizia dal giudice; e aggiunge: «Se però quell’Arimanno avrà mentito, e trattato frodolentemente, se sarà venuto a palazzo prima d’essere stato davanti al suo giudice, pagherà cinquanta soldi, metà al re e metà al suo giudice 22;» il quale è sempre quello di cui la legge ha parlato fin da principio. Ora, o si vuole che la legge novamente scoperta non sia altro che una ripetizione, un richiamo all’osservanza di quest’altra, e si dovrà credere che lo stesso termine abbia nelle due leggi lo stesso significato; o si vuole che sia una legge in parte diversa, e fatta appunto per estendere la proibizione a un maggior numero di casi; e allora come si spiega che il termine sia quel medesimo?

Noi, per dirla, non potremmo volere nè l’uno nè l’altro, giacchè crediamo, o almeno sospettiamo fortemente, che quella del codice Cavense non sia punto una nova legge, ma solamente una nova lezione. E la ragion principale di questo sospetto è che le due parti eterogenee di cui è composta, come abbiamo accennato, sopra, non fanno in sostanza altro che ripetere cose già prescritte in due diverse leggi già conosciute e, ciò che è più, in due leggi vicine. S’è visto in questo momento quanto la prima parte somigli alla fine della legge VI di Rachi: la seconda somiglia di più, anche materialmente, al principio della VII di Rachi medesimo 23. [p. 141 modifica]E forse anche al lettore parrà più verisimile che un copista abbia fatto d’una coda e d’un capo che si toccavano, un corpo solo, di quello che il legislatore abbia emanata una legge nova per ridire ciò che aveva già detto in due leggi separate, e separate, con ragione 24.

Se ora ci si domanda perchè abbiamo fatti tutti questi ragionamenti sopra un documento, dell’autenticità del quale credevamo d’aver tanta ragione di dubitare, risponderemo che, per ciò che riguarda la questione presente, era come se fosse autentico. Sono di quelle cose nelle quali un copista, levando, aggiungendo, mutando, riman fedele all’originale, perchè si trova nelle medesime circostanze dell’autore. Quell’aggiunta: ad civitatem suam poteva esser suggerita tanto a un legislatore quanto a un amplificatore dalla relazione particolare che c’era tra il giudice e la città. Perciò, in vece di ricusar quel testimonio, abbiamo creduto che convenisse cercar d’intenderlo, confrontandolo con altri testimoni, la veracità dei quali non è dubbia per nessuno.

Sarebbe più che superfluo l’interrogarne degli altri ancora; ma ce ne troviamo, per dir così, tra’ piedi uno, da non poterlo scansare. Per una combinazione curiosa, l’altra legge di Rachi ritrovata nel codice Cavense (e questa certamente nova) par fatta apposta per avvertirci di non pensare a Italiani, quando nelle leggi longobardiche troviamo nominati de’ giudici, e anche con quel benedetto suo. «Vogliamo e ordiniamo che ogni arimanno il quale sia chiamato a cavalcare col suo giudice, porti con sè scudo e lancia; e il medesimo, se verrà con lui a palazzo. E questo, perchè non sa cosa gli possa sopravvenire, nè che ordine sia per ricevere, o da noi, o nel luogo dove si radunerà la cavalcata 25.» Che presso i Longobardi, il giudice fosse, nel suo distretto, il capo della milizia insieme e della giustizia, è cosa nota e non controversa. E non abbiamo citata questa legge affine di confermarla, ma perchè la mette, per dir così, in atto. Se si vuole che nella legge antecedente il judicem suum indichi rispettivamente anche un giudice italiano, bisogna vedere in [p. 142 modifica]questa degl’Italiani a cavallo, con lancia e scudo, che accorrono di qua e di là, alla chiamata di comandanti italiani, per andare a qualche spedizione militare. Sotto i Longobardi!

Non dobbiamo però dimenticare che in quella legge la Nota ha trovato un altro argomento. La parola omnibus pare riferibile a tutti i sudditi lombardi e italiani. Ma perchè dovremo cercar quello che pare, quando abbiamo quello che è? Quella parola può indicare diverse totalità: perchè ne prenderemo una, come a sorte, senza esaminare cosa richieda il caso speciale? A tutti, vuol dire naturalmente a tutti quelli per cui la legge era fatta. E chi erano quelli per cui la legge era fatta? Quando non lo sapessimo da tante parti, e in tante maniere, lo troveremmo nel prologo generale delle leggi di Rachi medesimo. «Abbiamo determinate e stabilite le cose che convengono alla nazione che c’è confidata dalla Provvidenza, cioè....» si direbbe che prevedesse il pericolo di non essere inteso da qualcheduno de’ posteri, «cioè alla cattolica e diletta a Dio nazione de’ Longobardi 26.» Ecco fin dove si stende, e dove si ferma la significazione di quell’omnibus.

NOTA

Il fatto corrisponde all’interpretazione. In una causa portata avanti Liutprando, re longobardo, pendente fra il Vescovo di Siena e quello di Arezzo sulla proprietà di certe terre, il Re commise il giudizio a quattro Vescovi e ad un Notajo per nome Gumeriano, tutti italiani, notando che i Vescovi sotto i Longobardi erano considerati sudditi come gli altri, nè godevano di privilegio alcuno. Il placito ossia Processo verbale di questo giudizio dell’anno 715 si legge in Muratori pag. 454 del Tom. I. Antiq. Medii Aevi, Dissert. IX.

OSSERVAZIONI

Come mai potrebbe un tal fatto corrispondere a una tale interpretazione? Mettiamo pure che il fatto sia, in tutto e per tutto, quale è rappresentato qui. Avremo giudici italiani, e giudici in materia di proprietà, cosa certamente a proposito; ma giudici creati apposta, in una circostanza particolare, per una causa particolare. E cosa ci dava l’interpretazione? Giudici italiani, anch’essa; ma giudici permanenti, preesistenti alle cause, già conosciuti dai litiganti, giacchè il re non ha avuto bisogno, se non di dire: andate da loro: vadat unusquisque ad judicem suum. Noi non vorremmo che l’esposizione la più semplice, la più propria, la più necessaria dell’argomento paresse una derisione; ma è evidente che, per trovar corrispondenza tra quelle due cose, bisognerebbe fare un ragionamento di questa sorte: Dalla legge di Rachi risulta che gl’Italiani avevano giudici propri, ai quali, venendo il caso, potevano ricorrere immediatamente; e questo risulta anche dall’avere il re Liutprando nominata apposta una commissione d’Italiani, per decidere una causa tra Italiani. Ne risulterebbe anzi il contrario; e, non che corrispondere all’interpretazione, un tal fatto potrebbe servire a combatterla. Chi non [p. 143 modifica]vede che dall’essere stati, in una circostanza, creati de’ giudici italiani, per decidere sulla proprietà di certe terre, e tra uomini che non godevano di privilegio alcuno, si potrebbe inferire molto ragionevolmente, che non ci dovevano dunque essere i giudici italiani bell’e preparati, che voleva l’interpretazione?

Si dirà forse che, se il fatto non prova ciò che voleva questa, potrà almeno provare un’altra cosa, e una cosa relativa alla questione?

Non lo dirà di certo chiunque badi che la questione è generale, riguarda un complesso di fatti; e che questo è un fatto solo. La questione domanda: c’erano giudici italiani per gl’Italiani?; e questo fatto (sempre supponendolo quale è rappresentato) risponderebbe: ce ne fu in un caso. È vero che la Nota lo chiama il fatto, che è appunto la maniera usata anche per significare un complesso di fatti; ma in questo caso è un abuso manifesto di parole, è un concludere dal particolare al generale, anzi è un cambiare addirittura, e per mezzo d’un articolo, il particolare in generale. So bene che in un fatto particolare si possono trovare argomenti di generalità; ma c’è qui forse qualcosa di simile? Forse che nel placito, o in qualcheduno de’ molti altri atti relativi alla causa medesima, non citati dall’autore, è detto o accennato che quella commissione fosse istituita in virtù e per applicazione d’una regola generale praticata in tutte le cause tra Italiani? Non ce n’è il più piccolo cenno, come il lettore può assicurarsene osservando que’ documenti. Anzi come mai in que’ documenti ci potrebb’essere una cosa simile?, o chi mai, se ci fosse, vorrebbe accettarli per autentici? Chi, dico, vorrebbe credere che, quando degl’Italiani avevano una lite tra di loro, i re longobardi nominavano apposta una commissione d’Italiani per deciderla? Sicchè il fatto allegato, non essendo altro che un fatto particolare, e non si potendo, senza cader nell’assurdo, riguardarlo come una mostra, dirò così, d’un fatto generale, è indifferente alla questione; e quindi non ci sarebbe bisogno d’esaminarlo. Non intendiamo però di dispensarcene.

A quattro vescovi e ad un Notajo per nome Gumeriano, tutti italiani. Tutti italiani? Con quale argomento, e su quale indizio? La Nota non ne adduce veruno; e, in verità, è una cosa singolare questo dar come prova una nova affermazione. Se l’autore ha creduto che la proposizione = C’erano, sotto i Longobardi, de’ giudici italiani = aveva bisogno d’esser dimostrata, come ha potuto immaginarsi che quest’altra = I giudici istituiti in una circostanza dal re Liutprando erano italiani = fosse evidente per sè? E se aveva delle ragioni positive per crederla vera, come fa il lettore a indovinarle? Forse il placito allegato? Non c’è, nè in questo, nè in alcun altro de’ documenti accennati sopra, una sillaba che si possa riferire alla nazionalità di quegli uomini. Forse i loro nomi? Sarebbe un indizio incertissimo; giacchè poteva bensì essere un caso raro, ma non era un caso impossibile, nè un caso inaudito, che ad uomini d’una nazione si dessero nomi dell’altra. D’Italiani non so; ma di Longobardi ch’ebbero nomi, o italiani, o almeno non germanici, e usati dagl’Italiani, non mancano esempi, sicuri quanto noti 27. E c’era infatti [p. 144 modifica]per quelli, come per gli altri barbari, una ragione particolare, cioè quella di dare a’ loro bambini il nome di qualche santo. Ma a ogni modo, nel placito allegato, insieme con Massimo, Specioso e Telesperiano, vescovi di Pisa, di Firenze e di Lucca, troviamo il vescovo di Fiesole, Teudaldo, nome evidentemente germanico 28. Del resto, che de’ vescovi fossero italiani, non è, certamente, un fatto notabile; bensì che fossero giudici: cosa che esamineremo or ora.

E del nome del notajo, cosa si può dire? In verità, quel Gumeriano non ci pare, nè carne, nè pesce. E infatti, se un Italiano o un Longobardo ha mai avuto un tal nome, non fu, di certo, l’uomo di cui si tratta. Questo, nel placito, è scritto: Guntheramo; nell’esame de’ testimoni fatto da lui, e in un decreto di Liutprando, che conferma il placito (altri documenti pubblicati ugualmente dal Muratori) è scritto: Guntheram, nome germanichissimo anch’esso 29. E con ciò vogliam dire solamente, che non si vede nè una ragione, nè un pretesto di metterlo in un: tutti italiani.

Del rimanente, non fu il Romagnosi che trasformò quel nome in Gumeriano: lo trovò così nella Dissertazione IX del Muratori, citata da lui, dove è scappato per errore, o di copista, o di tipografo. La qual cosa ci fa credere che abbia letta solamente questa, e non il placito, dove avrebbe scoperto l’errore. E ciò che ce lo fa creder di più, è l’aver lui detto che il placito si legge in quella Dissertazione medesima, pag. 454 del Tom. I. Ecco cosa si legge in quel luogo: In Dissertatione LXXIV de Parochiis egregium Placitum evulgabo, abitum Liutprando Rege regnante Anno DCCXV in Tuscia, ubi quatuor Episcopi, una cum Misso excellentissimi Domni Liutprandi Regis nomine Gumeriano Notario controversiam cognoverunt agitatam inter Episcopos Arretinum atque Senesem. Il placito si legge infatti nella Dissertazione LXXIV (Tom. VI), e dopo il placito, gli atti accennati or ora, e vari altri giudicati posteriori, qualcheduno di molto; dai quali apparirebbe che la causa, benchè decisa, non fu finita.

Ma da cosa risulta che que’ vescovi fossero giudici? Che abbiano giudicato è un fatto 30; ma di cosa giudicarono? Sulla proprietà di certe [p. 145 modifica]terre, dice il Romagnosi. Questo però non è altro che un nuovo argomento, e il più forte, che non vide il placito, nè alcuno degli atti suddetti. Trovò nella Dissertazione che cita, quelle parole: controversiam cognoverunt agitatam; e non essendoci indicato l’oggetto di essa, ne suppose uno, quello che gli parve più probabile. È una supposizione anche la nostra, ma, diremo di nuovo, la più conveniente; giacchè come si potrebbe spiegare che avesse parlato così, se avesse letto il placito, e visto, per conseguenza necessaria, di cosa si trattava? Si trattava della giurisdizione spirituale sopra certe parrocchie e monasteri. «Diceva Luperziano, vescovo d’Arezzo: Questo chiese e questi monasteri, con ogni loro oratorio, appartennero, dalla loro fondazione, alla sede d’Arezzo: noi e i nostri antecessori ci abbiamo sempre fatte l’ordinazioni e le consacrazioni; e per conseguenza devono rimanere soggette a noi. Rispondeva Adeodato, vescovo di Siena: Queste chiese e questi monasteri sono nel territorio senese: se ci avete fatte funzioni vescovili, è perchè Siena allora era senza vescovo. Ora devono ritornare a noi, perchè, come ho detto, sono nel nostro territorio 31.» La sentenza, che fa in favore del primo, non parla d’altro appunto, che d’ordinazioni e di cresime, di chiese e di batisteri 32 di questo e d’altre cose ugualmente attinenti all’autorità spirituale parlano pure esclusivamente i molti testimoni esaminati da Gunteramo, e il decreto di Liutprando, e gli altri atti posteriori, accennati sopra, e il breve racconto dell’origine della lite, scritto nel 1057 da un Gerardo, primicerio della cattedrale d’Arezzo, e pubblicato dal Muratori negli Annali 33, e finalmente due giudicati anteriori a quello in questione, pubblicati dall’Ughelli nell’Italia Sacra, e ristampati dal Brunetti, nel Codice Diplomatico Toscano 34. Di proprietà di terre non è fatta in veruno di questi documenti (siano o non siano tutti genuini, qui non importa) menzione veruna. Sicchè noi non troviamo qui Italiani giudici d’Italiani, ma vescovi, italiani o no, che giudicano tra due vescovi: [p. 146 modifica]troviamo, dico, de’ vescovi a cui è commesso un giudizio, non per ragione della loro nazione, nè di quella delle parti; ma perchè vescovi confinanti, come accenna incidentemente il Muratori 35, e come suggerisce la cosa medesima. Non troviamo, come le premesse dovevano farci aspettare, de’ giudici in materia civile o criminale; ma un giudicato in una materia affatto estranea alla questione, e alla quale di certo nessun lettore pensava. E possiamo quindi concludere che, se il fatto quale è rappresentato nella Nota non provava punto che ci fossero giudici italiani; il fatto quale risulta dai documenti non prova nemmeno che ce ne siano stati in una circostanza particolare.

È certamente inutile l’osservare quanto sia strano quel: notando che i vescovi sotto i Longobardi erano considerati sudditi come gli altri, nè godevano di privilegio alcuno, a proposito d’una causa nella quale i giudici, se si possono chiamar tali, non lo furono appunto per altro che per esser vescovi. In vece, giacchè abbiamo citato di nuovo quelle parole, osserveremo di passaggio, che deve essere una cosa molto difficile il conciliarle con altre che si trovano nell’opera medesima, e poco lontano. Dopo la prosopopea de’ conquistatori agl’Italiani, che abbiamo riferita al principio di queste osservazioni, l’autore introduce anche il clero a parlare al popolo, e, tra l’altre cose, gli fa dire: Se vedete le immunità nostre, pensate che i coloni agricoli sono sollevati dal peso delle tasse fiscali, e non soggiacciono che alle prestazioni fisse dominicali. De’ vescovi senza alcun privilegio, e un clero con delle immunità, sono due cose che, per concepirle come una cosa sola, ci vorrebbe un grand’aiuto; e l’autore non fa altro che dirle, una in un luogo, l’altra in un altro. Certo, non ogni privilegio è anche un’immunità 36; ma ogni immunità, secondo l’intelligenza comune del vocabolo, è, per ragione della cosa stessa, un privilegio. Cos’erano dunque queste immunità di nova specie? Qualcosa di grande, pare; giacchè il clero ha bisogno di scusarsene in certa maniera col popolo, e di rammentargli che la bazza del regime longobardico non era solamente per lui. Ma, di novo, cos’erano? Ecco ciò che sarebbe molto curioso da sapersi, ma che non è facile da indovinarsi. Questa parola: immunità, applicata alle cose ecelesiastiche, si trova forse nelle leggi, o in qualche altro documento longobardico dell’epoca anteriore alla conquista di Carlomagno? Era bene avvertirne il lettore, giacchè sarebbe, se non m’inganno, una scoperta: resterebbe poi da spiegare come queste immunità fossero tutt’altra cosa che privilegi. E perchè poi il clero, volendo rammentare al popolo i vantaggi che il popolo godeva, non parla che de’ coloni agricoli? Non si può certamente intendere che, secondo l’autore, non ci fossero più proprietari italiani, ma solamente [p. 147 modifica]coloni agricoli: sarebbe troppo il contrario di ciò che vuole, e qui e per tutto. Ma nello stesso tempo non pare che si possa intender altro; giacchè, se l’autore credeva che ci fossero proprietari italiani, come mai avrebbe potuto lasciarli fuori qui? come dimenticare che il non pagar tasse fiscali, dato che, con quella condizione, fosse un sollievo, lo era principalmente, se non esclusivamente, per loro? Di più, le prestazioni fisse dominicali non si possono riferire ad altro che al celebre e disputato passo di Paolo Diacono: per hostes divisi, ut tertiam partem frugum suarum Langobardis persolverent 37; giacchè queste sole si potevano considerare come sostituite alle tasse fiscali. Ora, il dire ch’erano a carico de’ coloni agricoli, è un dire di nuovo che non c’erano più proprietari italiani. Anche il dare a quel tributo il nome di prestazioni dominicali, è quanto dire (se le parole hanno un valore) che i Longobardi, a cui si pagavano, erano diventati i padroni de’ fondi. O quelle parole messe in bocca al clero hanno un senso ben profondo e superiore all’intelligenza comune, o bisogna dire che non ne abbiano nessuno.

FINE DELLA NOTA

Da ciò lice conchiudere che i Comuni italiani godevano la franchigia di avere giudici proprj eletti o presentati da loro, e confermati o eletti dai Duchi o dai Re lombardi, e questi furono dopo gli Scabini, de’ quali parla Lotario, da eleggersi totius populi consensu, corrispondenti agli Sculdascj longobardi.

OSSERVAZIONI

Nel ribattere apertamente, come abbiam fatto, asserzioni e ragionamenti d’uno scrittore di gran fama, c’è nato più volte il dubbio di poter essere da qualche lettore tacciati d’irriverenza. Se ciò fosse accaduto, non avremmo a far altro per la nostra giustificazione, che allegare un principio incontrastato e incontrastabile, cioè il diritto comune a tutti gli uomini, d’esaminare l’opinioni d’altri uomini, senza distinzione di celebri e d’oscuri, di grandi e di piccoli. Fu anzi, ed è forse ancora, opinione di molti, che il riconoscimento d’un tal diritto sia stata una conquista e una gloria di tempi vicini al nostro: cosa però, che ci par dura da credere, perchè sarebbe quanto dire che il senso comune non sia perpetuo e continuo nell’umanità, ma abbia potuto morire in un’epoca, e resuscitare in un’altra: due cose, delle quali non sapremmo quale sia più inconcepibile. S’è bensì creduto in diversi tempi, che l’autorità, ora d’uno, ora d’un altro scrittore, costituisce una probabilità eminente; non s’è mai creduto (meno il caso non impossibile, ma che non deve contare, di qualche pazzo, ma pazzo a rigor di termini) che fosse un criterio infallibile di verità. Quel celebre e antico: amicus Plato, amicus Aristoteles, sed magis amica veritas, non fu che una formola particolare e nova d’un sentimento universale e perenne: formola più o meno ripetuta d’allora in poi, ma non mai rinnegata. Esagerando, come si fa qualche volta, gli errori de’ tempi passati, ci priviamo del vantaggio di cavarne degl’insegnamenti per noi: ne facciamo de’ deliri addirittura; e allora non si può cavarne altro che la sterile compiacenza di trovarci savii se guardando più attentamente, vedessimo ch’erano miserie, potremmo esserne condotti a osservare che [p. 148 modifica]abbiamo bisogno anche noi, o di preservarcene, o di curarcene. No, non si dichiarava espressamente infallibile uno scrittore; ma si chiamava a buon conto irriverenza, temerità, stravaganza, il trovar da ridere alle sue decisioni, senza voler esaminare con che ragione si facesse. Non era un delirio, era una contradizione; ed è appunto d’una contradizione di questo genere, che abbiamo paura. Chè se i tempi moderni non hanno inventata quella libertà sacrosanta, non hanno nemmeno distrutta quella schiavitù volontaria. Come mai levar dal mondo, rendere impossibile ciò che non è altro che l’abuso e l’eccesso d’un sentimento ragionevole? giacchè chi vorrebbe negare che il giudizio d’una mente superiore alla comune costituisca una probabilità? Può dunque ancora, come in qualunque tempo, nascere il bisogno di ricorrere a quel principio, per prevenire de’ rimproveri non meritati, e di rammentare che i grandi scrittori ci sono dati dalla Provvidenza per aiutare i nostri intelletti, non per legarli, per ingegnarci a ragionar meglio del solito, non per imporci silenzio.

Vogliam forse dire con questo che ai grandi scrittori, o per tenerci a un ordine di fatti molto più facili da verificarsi, agli scrittori di gran fama si possa contradire senza riguardo veruno? Dio liberi! Ce ne vuole con chi si sia, tanto più con loro; perchè cos’è quella fama, se non l’assentimento di molti? e se si può ingannarsi nel dar torto a chi si sia, quanto più a uno il quale molti credono che veda più in là e più giusto degli altri? Si deve dunque in questi casi usare un’attenzione più scrupolosa per accertarsi che non si contradice senza buone ragioni; si deve, non già esprimere meno apertamente un giudizio che, più si guarda, più si trova fondato, ma limitarlo più rigorosamente che mai alla causa trattata; e se, come appunto in questo caso, non s’è esaminato altro che un brano d’un’opera, guardarsi più rigorosamente che mai da ogni parola che esprima un giudizio sull’opera intera, molto più sull’autore. Ed è appunto per avere strettamente osservate queste condizioni, che crediamo d’aver conciliati i riguardi particolari dovuti alla fama con l’uso legittimo d’una libertà che è sempre un diritto, e qualche volta un dovere; è, dico, per ciò, che, accettando di buona voglia la taccia (so è taccia) di balordaggine, quando, con tutta la nostra diligenza, ci fossimo ingannati, protestiamo contro l’accusa possibile d’irreverenza.

Diremo di più (cose ugualmente vecchie, ma opportune) che l’autorità d’uno scrittore, non che essere un impedimento ragionevole al contradirgli, n’è anzi un ragionevole motivo. Certo, se gli argomenti che abbiamo esaminati si trovassero in un libro dimenticato d’uno scrittore oscuro, non ci sarebbe da far altro che tasciarceli stare: la fama dell’opera e dell’autore è, in questo caso, la sola cosa che possa dar peso all’errore, e quindi motivo alla confutazione. Non si dica che sono questioni di poca importanza: la critica anderebbe contro il celebre autore che ha creduto di doverlo trattare. E a ogni modo, per quanto una verità sia piccola, è sempre bene sostituirla all’errore; chè, se una materia è tale che l’averne un’idea giusta sia poca cosa, che sarà l’averne un’idea falsa?

Ma, del resto, c’è un altro motivo, e il più forte ne’ casi appunto in cui l’errore non cada in una materia importante; ed è che negli scrittori di gran fama tutto può diventare esempio. Ora, la maniera con cui il Romagnosi ha trattato quel punto di storia, sarebbe bensì molto facile, ma tutt’altro che utile da imitarsi. Indipendentemente dagli errori materiali, non è bene che, sull’autorità del suo nome, si creda che, con qualche ritaglio di documento, trovato, per dir così, nella cenere, con l’interpretazione di qualche parola presa isolatamente, separata dal [p. 149 modifica]complesso de’ materiali, con delle sintesi sostituite alla ricerca de’ fatti, sintesi non discusse, ma poste semplicemente come osservazioni d’un altro scrittore, e nemmeno precise, si possa ridurre a brevi termini la situazione d’un popolo, in un’epoca caratteristica, come quella della convivenza d’un altro popolo nello stesso paese, per effetto della conquista; o, per dir meglio, in un’epoca qualunque, giacchè tutte l’epoche sono caratteristiche, e que’ mezzi non sono buoni in nessun caso. Non vogliamo certamente negare (e sarebbe negare uno de’ più manifesti come de’ più felici effetti dello studio) che si possa qualche volta con una notizia, anche piccola riguardo a sè, dare un nuovo lume a un complesso intero, nè che ciò riesca più facilmente ai grand’ingegni. Ma riesce quando s’abbia presente quel complesso, quando s’abbiano lì raccolte e preparate le cose che devono ricever quel lume. E infatti, vedete come quelli a cui riesce davvero si diano premura di farvi osservare le relazioni della loro scoperta con questa e con quella parte del complesso, col complesso intero, di dimostrarvi prima di tutto come essa s’accordi con ciò che già si sapeva di certo, e poi come lo rischiari e lo accresca. I grand’ingegni corrono dove noi altri non possiamo se non camminare; ma la strada è una sola per tutti: dal noto all’ignoto. La prerogativa di veder più lontano degli altri non è una dispensa dal guardare. Il poco può servire, in qualche caso, a spiegare un tutto, ma non mai a farne le veci; e quando non s’attacca al molto, il poco, o non è altro che ciò che tutti sanno, o risica molto d’esser cose in aria. E questo, in ogni materia come nella storia, perchè il metodo, in ultimo, è uno per ogni cosa. La verità e l’errore hanno due maniere di procedere opposte e costanti, qualunque sia l’oggetto: sono come due orditi ben diversi, sui quali si possono tessere due indefinite varietà di tele. Quindi gli errori di metodo sono sempre gravi, quando ci sia pericolo d’imitazione. Certo, non può esser altro che un piccolissimo inconveniente l’ingannarsi sulle questioni puramente storiche, trattate dal Romagnosi ne’ luoghi che abbiamo esaminati: ma se la maniera con cui le ha trattate venisse, e per la sua facilità, e per la fiducia che ispira l’esempio, applicata a materie importanti e feconde di conseguenze pratiche, produrrebbe naturalmente inconvenienti proporzionati a quell’importanza medesima.

Dopo aver giustificata la libertà che abbiamo usata fin qui, dobbiamo usarne ancora un momento nell’esaminare la conclusione che abbiamo trascritta. Se fosse veramente una conclusione, non avremmo a far altro che rimettere il giudizio a chiunque abbia avuta la pazienza di leggere queste osservazioni; ma c’è qui qualcosa di particolare, e che ne richiede una nova. Per conclusione, in materia di ragionamenti, s’intende sempre qualcosa che risulti da ciò che s’è dimostrato e, per conseguenza, trattato. Ora, noi troviamo qui una proposizione nova, inaspettata, che salta fuori non si sa di dove, cioè che gli Scabini, de’ quali parla Lotario, fossero corrispondenti ogli Sculdasci longobardi. È forse una di quelle cose note e certe, che, all’occorrenza, basta rammentare? Tutt’altro. Se non c’inganniamo, fu messa la prima volta in campo dal Sismondi, il quale l’affermò incidentemente, e senza prova veruna, in due luoghi della Storia delle repubbliche italiane. In una nota a un passo dove tratta del governo de’ re Carolingi in Italia, dice: «I re de’ Franchi usarono di preferenza il nome di Scabini o Schöppen, e i re longobardi quello di Sculdaesi (Schulteiss) 38.» E altrove, parlando de’ municìpi e d’Ottone I: «Le città avevano sempre avuti de’ magistrati popolari, chiamati [p. 150 modifica]Schul-teiss dalle leggi de’ Longobardi, e èchevins da quelle de’ Franchi 39.» Dopo il Sismondi, non so se d’una cosa simile abbiano parlato altro che due scrittori, cioè il Romagnosi che l’ha presa probabilmente da lui, giacchè par più difficile che due intelletti arrivino, l’uno indipendentemente dall’altro, a un punto dove nessuna strada conduce; e il sig. de Savigny, il quale dice solamente, in fine d’una nota: «È un’idea infelicissima quella del Sismondi, che gli Scabini de’ Franchi fossero lo stesso che gli Sculdaesi de’ Longobardi 40.» E non c’era bisogno di più in un libro, nel quale essendo trattato degli uni e degli altri, quell’asserzione gratuita si trovava già confutata implicitamente. E per confutarla pienamente anche qui, senza entrare in una lunga discussione, basterà accennare due delle principali e più incontrastabili differenze che correvano tra quelle due specie di giudici.

Prima differenza: gli Scabini de’ quali parla Lotario giudicavano collegialmente. È una cosa riconosciutissima; e nondimeno, per non lasciarla affatto senza prove, rammenteremo due leggi di Carlomagno, nella prima delle quali, prescrivendo che gli uomini liberi non siano costretti ad assistere ai placiti straordinari, se non sono interessati personalmente in alcuna delle cause che ci si devono trattare, eccettua dall’esenzione «gli Scabini che devono sedere coi giudici 41;» e nella seconda più particolarmente, «i sette Scabini che devono trovarsi a ogni placito 42.» Gli sculdasci longobardi in vece (i quali, del rimanente, continuano a figurare nelle leggi longobardiche, anche dopo la conquista, anzi figurano in una di Lotario medesimo 43) non formavano punto un tribunale collettivo; ma ognuno esercitava la sua giurisdizione in un particolare distretto, sezione di quello del giudice, e chiamato Sculdascia, come quello Judiciaria. Cosa riconosciutissima anch’essa, e in prova della quale non si potrebbero addurre testimonianze che non siano già citate da tutti quelli che hanno trattato del regime longobardico: per esempio, il celebre passo di Paolo Diacono: Rector loci illius, quem Sculdahis lingua propria dicunt 44. Tra le leggi poi, basterà rammentare quella di Liutprando, citata sopra 45, nella quale è prescritto allo sculdascio di non tardar più di quattro giorni a decider le cause portate davanti a lui.

Altra differenza: la carica dello sculdascio era, come quella del giudice, e sotto quella del giudice, una carica giudiziaria insieme e militare. Cosa, dobbiamo ripetere anche qui, riconosciutissima. Argaid, quello sculdascio di cui parla Paolo nel luogo citato or ora, rende conto d’una sua spedizione militare a Ferdulfo, duca (che qui è quanto dir giudice) del Friuli; è rimproverato da lui (a torto; ma non è una di quelle circostanze che [p. 151 modifica]rendano improbabile un fatto), e combatte nel di lui esercito 46. E ci sono poche leggi longobardiche citate più spesso di quella di Liutprando, che determina quanti uomini aventi un cavallo potrà il giudice, in caso di leva, lasciare a casa loro, quanti lo sculdascio; quanti uomini d’inferior condizione potranno l’uno e l’altro far lavorare come opere ne’ loro poderi, tre giorni della settimana, fino al ritorno della spedizione; quanti cavalli menarsi dietro, per i loro bagagli 47. Che Scabino fosse un grado della milizia, non se ne trova, credo, nè menzione o indizio in alcun documento, nè congettura in alcuno scrittore.

Con questo s’è dimostrato, fors’anche troppo, che la nuova proposizione: essere stati gli Scabini de’ quali parla Lotario, da eleggersi totius populi consensu, corrispondenti agli Sculdasci longobardi, non ha alcun fondamento. Ma prima di finire, dobbiamo fare anche qui un’osservazione già fatta più d’una volta, cioè che quella proposizione, oltre all’esser gratuita e erronea, e in contradizione con gli argomenti che la precedono, e de’ quali si vuole che sia la conclusione. Quando s’ammettesse e questa nova proposizione, e le conseguenze che la Nota vorrebbe cavarne, val a dire che gli Sculdasci Longobardi fossero eletti con un consenso formale di tutto il popolo; che in questo popolo fossero, in qualsisia maniera, compresi gl’Italiani; che, per un tal mezzo, ci fossero sculdasci italiani (che è tutto dire, e sono parole che stridono); tutto questo non s’accorderebbe, nè con l’interpretazione della legge di Rachi, nè con quello che la Nota chiama il fatto.

Infatti, secondo l’interpretazione, il re, con quelle parole: debeant ire unusquisque ad judicem suum, si sarebbe inteso di rimandare a de’ giudici rispettivamente longobardi o italiani quelli che volessero ricorrere indebitamente a lui: la qual cosa suppone che ciascheduna delle due nazioni avesse giudici propri per tutti i casi ne’ quali poteva aver luogo quel ricorso irregolare. Secondo la nova proposizione invece, gl’Italiani non avrebbero avuto giudici propri, se non d’un ordine, e come ora si direbbe, d’un’istanza inferiore, cioè giudici per alcuni casi solamente. Dimanierachè, in tutti gli altri (e, come abbiamo fatto osservare, dovevano essere almeno i più frequenti), la legge, stando all’interpretazione, avrebbe intimato all’Italiano d’andar da un giudice italiano che, stando alla nova proposizione, non c’era. L’interpretazione dava al vocabolo giudice un senso generico; la nova proposizione gli dà, riguardo agl’Italiani, un senso speciale, e, sia detto incidentemente, molto più strano. Infatti, anche ne’ pochi brani di leggi longobardiche che abbiamo avuta l’occasione di citare, si è visto lo sculdascio distinto dal giudice, opposto al giudice quanto mai si possa dire; s’è visto che dallo sculdascio c’era appello al giudice, che quello pagava multe a questo, che sotto un giudice c’erano più sculdasci, che il giudice dispensava dalle spedizioni militari tanti cavalieri, prendeva tanti cavalli, metteva tante opere ne’ suoi poderi; lo sculdascio, tanti e tante meno. Ed era certamente strano il volere che la denominazione di giudice avesse un senso generico, e venisse così [p. 152 modifica]a comprendere anche lo sculdascio; ma è, dico, più strano ciò che vorrebbe a nova proposizione, cioè che, per gl’Italiani, quella denominazione dovesse indicare esclusivamente lo sculdascio medesimo. Per gl’Italiani, secondo la nova proposizione, il legislatore, dicendo: Vadat unusquisque ad judicem suum, avrebbe voluto dire: andate dal vostro sculdascio; poichè, da una parte il giudice suo indica la giurisdizione personale a norma della diversa nazione, e dall’altra, i giudici propri degl’Italiani erano gli sculdasci.

In quanto al fatto, la discordanza tra esso e la conclusione è ancor più evidente: evidente a segno che non si saprebbe come farla osservare. Il lettore può rammentarsi che quel fatto era un giudizio di quattro vescovi. Ora, s’ha egli a fare osservare che i vescovi non erano sculdasci?

È accaduto (lo diremo apertamente, perchè c’è una ragione manifesta, e un fine utile di dirlo), è accaduto al Romagnosi, nel trattar questo punto di storia, ciò che accade naturalmente a chiunque abbia un attaccamento più vivo e fermo, che considerato, per un’ipotesi non ben determinata o, come si dice, vaga: cioè di gradir subito ogni argomento che paia favorevole ad essa in qualunque maniera, dimenticando che le diverse maniere costituiscono diverse specie, e che queste possono essere incompatibili. Ha fatto come uno che, vedendo da lontano un albero, e avendo fissato che deva essere un albero da frutto, e non un albero boschivo, dicesse prima, fondandosi su un’apparenza qualunque, che su quell’albero ci sono delle mele; poi, cambiando posto, senza però avvicinarsi di più all’albero, dicesse, su un’apparenza diversa, che ci sono delle pesche; poi, girando ancora, concludesse da ciò, che ci sono de’ fichi. Voleva a ogni costo giudici italiani sotto i Longobardi, e li volle giudici stabili insieme e creati all’occorrenza, li volle per tutte le cause e solamente per alcune, vescovi e sculdasci. E di più, eletti o presentati dai Comuni italiani, e confermati o eletti dai Duchi o dai Re lombardi; in qualunque maniera, a piacer di chi legge, pur che siano giudici italiani: come se il saper che ci fossero non dipendesse appunto dal veder quali fossero, e come ci fossero, poichè non è allegato, nè credo che ci sia alcun documento il quale attesti in genere che ci fossero giudici italiani, nè è addotto alcun argomento il quale dimostri che ci dovevano essere. Esempio notabile di quanto importi il non fissarsi in un’opinione prima, non dico d’averla riconosciuta vera, ma d’essersela rappresentata in una forma distinta.

Non abbiamo parlato, nè parleremo d’un altro fatto asserito nella tesi, cioè de’ giudici misti, quando la questione si agiti fra Italiani e Longobardi; perchè quantunque la nota citata al principio di queste osservazioni: Le prove di questa particolarità e delle altre, qui ricordate si vedranno nel seguente paragrafo, sia messa appunto a quelle parole, l’autore non parla più di ciò, nè nel paragrafo accennato, nè altrove. Omissione importante; giacchè, se fosse stata provata questa mistura, sarebbe stato provato implicitamente anche quello de’ due elementi, che n’aveva tanto bisogno. È omissione irreparabile; giacchè, in questo caso, non ci par possibile di congetturare, nemmeno alla lontana, quali potessero esser queste prove.

Proporremo qui in vece, per occasione, come abbiamo detto, una congettura sul significato delle parole: totius populi consensu, che si trovano nel capitolo francico già citato, di Lodovico Pio, e nella legge longobardica di Lotario I, che ne è la copia quasi letterale, e che trascriviamo qui: Ut missi nostri, ubicumque malos scabinos invenerint, ejiciant et cum totius Populi consensu, in eorum loco bonos eligant, et cum electi fuerint, iurare faciant ut scientes injuxte judicare non habeant. L’interpretazione [p. 153 modifica]che, a prima vista, può parer più naturale e che, per quanto sappiamo, è accettata generalmente, o almeno non è stata messa in dubbio da nessuno, è che le nomine degli scabini, attribuite in questo caso ai messi reali, fossero sottoposte a uno scrutinio generale di tutti gli uomini liberi (di quale o di quali razze, qui non importa) delle diverse circoscrizioni del territorio. Ecco ora i motivi che ci fanno dubitar fortemente della verità di quest’interpretazione, e parer molto più verisimile un’altra affatto diversa.

Ciò che può dar più lume in una tale ricerca sono certamente gli altri atti legislativi che riguardino la stessa materia: sono anzi i soli che possano dar qualche lume, se, come crediamo, non ci sono documenti d’altro genere relativi al punto speciale dell’elezione degli scabini. Ora, nella legislazione francica, e nella franco‑longobardica (le leggi longobardiche anteriori, come s’è accennato un’altra volta, non parlano mai di scabini) c’è, se non c’inganniamo, un solo capitolo diverso da quello in questione, nel quale, a proposito dell’elezione degli scabini sia fatta menzione del popolo; ma in diversa maniera, e a proposito anche d’altre elezioni. Ed è il seguente di Carlomagno: Ut judices, Vicedomini, Praepositi, Advocati, Centenarii, Scabinei, boni et veraces et mansueti, cum Comite et populo eligantur et constituantur ad sua ministeria exercenda 48. Quale è qui la parte del popolo? S’ha egli a intendere che le parole: cum populo significhino una cooperazione effettiva, richiedano un consenso formale del popolo medesimo? Non pare, se si riflette, alla qualità della più parte di quelle cariche. Per restringerci a una sola, giacchè crediamo che possa bastare, gli Avvocati de’ quali parla questo capitolo di Carlomagno, e altri capitoli e leggi di lui e de’ suoi figli e nipoti, erano patrocinatori e rappresentanti de’ vescovi e delle chiese, nominati per lo più dai vescovi medesimi, o da altri prelati. Ora, non si saprebbe vedere il perchè tali nomine dovessero essere approvate formalmente e confermate dal popolo. Ma la cosa diventa piana, se s’intende che le parole: cum comite et populo indicavano la presenza dell’uno e dell’altro, cioè che le nomine e degli Avvocati e degli scabini e di tutte quell’altre cariche dovessero, da chi toccava, esser fatte e promulgate in un placito tenuto dal conte; o con la presenza del conte, se il placito era presieduto da un messo reale. I placiti si tenevano in pubblico, e gli uomini liberi dovevano qualche volta e potevano sempre esserci presenti: quella forma solenne d’elezioni era quindi un mezzo di farle conoscere a tutti, come sarebbe ora il pubblicarlo con le stampe. E che l’interpretazione proposta da noi delle parole: cum comite et populo non sia arbitraria, si vede da una legge di Carlomagno medesimo, relativa ai soli Avvocati, nella quale, in vece di cum, è detto appunto: in praesentia. «Vogliamo che gli Avvocati siano eletti alla presenza de’ conti, e che non siano persone di cattiva riputazione, ma quali la legge li richiede 49.» Un’altra di Lotario I, sullo stesso argomento, e fatta probabilmente per essere allora poco osservata quella del grand’uomo morto, dice il medesimo in un’altra forma: «Vogliamo che i vescovi eleggano i loro Avvocati col conte 50.» In queste due leggi il popolo non è neppur nominato; la qual cosa non vuol però dire che fosso escluso, e che una formalità così importante si trovasse alterata così gravemente con una semplice omissione. L’intento principale e diretto di [p. 154 modifica]quelle leggi era anzi di prescrivere la pubblicità della nomina, e d’impedire che si presentassero a trattar le cause de’ vescovi e delle chiese, persone delegate con un atto privato, e non conosciute da’ magistrati e dal pubblico. Le formole: In praesentia comitum, Una cum comite, indicavano il placito del conte, dove la presenza del popolo veniva da sè. Il capitolo di Carlomagno, citato poco fa, e che si riferisce a diverse cariche, fu da lui inserito nelle leggi longobardiche, ma omesse le parole: «col conte e col popolo,» e aggiunte quest’altre: «e timorati di Dio 51.» In questi due casi, l’intento diretto del legislatore era di comandare, o piuttosto di raccomandare che le nomine cadessero sopra persone di buona qualità: la forma dell’elezione diventava una circostanza meramente accessoria. Perciò è solo accennata incidentemente, e per un di più nel capitolo; nella legge è passata sotto silenzio, e sottintesa. Anzi, quel capitolo era stato promulgato di nuovo anche in Francia da Carlomagno medesimo in un secondo capitolare dell’anno medesimo; e ugualmente senza le parole: cum comite et populo 52.

Se, come ci pare sufficientemente provato, il popolo, al tempo di Carlomagno, faceva bensì una parte nell’elezione degli scabini e di tutte quell’altre cariche, ma la parte di spettatore, non deve parer verisimile che la formola: totius populi consensu, usata da Lodovico, suo figlio, significhi una parte così importantemente diversa, come sarebbe il cooperare effettivamente all’elezione medesima con un consenso formale. Per intenderla così, bisognerebbe volere, o che Lodovico avesse, in quell’occasione, conferita formalmente al popolo quella nova attribuzione, o che non avesse fatto altro che riconoscere implicitamente una nova consuetudine; e l’uno e l’altro sono ugualmente inverisimili. L’oggetto del capitolo di Lodovico era d’autorizzare i messi reali a deporre i cattivi scabini, e a sostituirne de’ buoni: se avesse di più voluto introdurre una novità così essenziale nella forma dell’elezione, è egli credibile che l’avrebbe fatto con una frase incidente, accennando piuttosto che prescrivendo, e senza indicare nessuna norma, per una cosa che n’avrebbe avuto tanto bisogno 53? E sarebbe forse anche più strano il supporre che si fosse fatta, da sè, e fosse diventata consuetudine, in que’ vent’anni ch’erano corsi dopo il capitolo di Carlomagno. Chè non era certamente quello, e non era nemmeno vicino, il tempo in cui il popolo (nel senso d’una totalità d’uomini liberi) fosse per la strada d’acquistare novi poteri: era invece ciò che facevano i primati secolari e ecclesiastici: s’andava verso il feudalismo. E, del resto, non sono gli acquisti d’una moltitudine quelli che si fanno senza fracasso, e senza che ne rimangano memorie dirette nella storia. [p. 155 modifica]

Un senso, almeno più verisimile, di quella formola ci pare indicato da alcuni dei testi che abbiamo già allegati ad altro fine; ed è un senso molto consonante con lo spirito della legislazione carolingia. In essa, insieme con espressioni che hanno un intento strettamente legale, e prescrivono o proibiscono atti positivi, si trovano, molto più spesso che in quelle degli altri barbari, espressioni che hanno una forza puramente morale, e sono in effetto avvertimenti e consigli, piuttosto che ordini. Un capitolo di Carlomagno, inserito da lui nelle leggi longobardiche, prescrive che l’uomo stato condannato a morte, e poi graziato, non possa essere scabino 54: ecco una condizione positiva, e capace di prove giuridiche. E insieme s’è visto in altri capitoli o leggi, che gli scabini dovevano eleggersi «buoni, veraci, mansueti, timorati di Dio, i meglio che si possano trovare.» S’è visto che, per Avvocati, una legge di Carlomagno vuole uomini «che non abbiano cattiva riputazione:» una del nostro Lotario li vuole «di fama non sospetta, ma che abbiano un buon nome, e un merito riconosciuto 55.» Ora, ci pare che, nel caso in questione, la formola: totius populi consensu abbia un significato analogo a questi ultimi esempi, anzi identico con alcuni; cioè che la legge comandi o, dirò di novo, raccomandi ai messi reali, di nominare scabini degli uomini buoni per consenso universale, e indicati, per dir così, dalla stima pubblica.

Non dobbiamo trascurare un’obiezione che, a prima vista, può parer concludente. La formola: consensu populi si trova, col significato indubitabile d’un consenso formale, in un altro luogo della legislazione carolingia, voglio dire nella celebre frase incidente dell’Editto Pistense di Carlo il Calvo: Et quoniam lex consensu populi fit et constitutione Regis 56, Ma s’osservi che la parola populus ha qui un tutt’altro significato, e non vuol dire altro che la radunanza delle persone costituite in certe dignità. Il dotto Baluze adduce in prova di questa interpretazione diversi capitolari in cui quel consenso è attribuito ai Fedeli 57. E un argomento non meno perentorio è la formalità del consenso medesimo, quale è specificata in un capitolo di Carlomagno: «S’interroghi il popolo intorno ai capitoli aggiunti alla legge» salica; «e quando tutti acconsentano, li sottoscrivano di proprio pugno 58.» Se non foss’altro, le difficoltà materiali che presenta la radunanza, la deliberazione, il consenso autenticato in quella maniera, d’un popolo inteso nell’altro significato non permettono di supporre che, in questo caso, per popolo si possa intender altro che alcuni.

Ma non si potrebb’egli intendere che anche la legge di Lotario abbia voluto parlare di quel popolo aristocratico, e richiedere un suo consenso formale all’elezione degli scabini? Lasciando da una parte le ragioni particolari che non s’accorderebbero con una tale interpretazione, crediamo che, per rifiutarla, basti riflettere che quel popolo non si trovava [p. 156 modifica]ne’ placiti minori 59, dove si facevano tali elezioni. Populus, ne’ due luoghi de’ capitolari citati in questo momento (e, sono, credo, i soli in cui la parola abbia un tal significato), vuol dire la radunanza generale degli ottimati secolari e de’ prelati ne’ placiti reali; e non si può quindi intendere di quella più o meno piccola parte di essi, che assistesse agli altri. Così, per prendere un esempio da cose attuali e note, una legge francese non darebbe il nome di Camere a que’ tanti pari e deputati che intervenissero nel capo-luogo d’un dipartimento a un’elezione di consiglieri dipartimentali. Il totius aggiunto a populi fa sentire ancor più, che non si trattava d’una frazione accidentale d’un popolo. Se, in vece, questa parola s’intende nel senso di pubblico, o ancor meglio, di gente, nel senso che ha conservato in inglese, trasformandosi in people, l’aggiunto totius non ha nulla di contradittorio, non è altro che un’espressione enfatica, analoga al parlar comune degli uomini, e che ha un’analogia speciale con altre espressioni della legislazione carolingia.

Chè, appunto perchè la parola populus c’è adoprata a significar cose molto diverse, ci si trova, in alcuni casi, accompagnata con altre parole che determinano e circoscrivono, più o meno precisamente, il senso a una di esse. Qualche volta sono parole esprimenti inferiorità, e per le quali populus, invece d’alcuni governanti, viene a significare la moltitudine de’ governati; come: vulgaris populus 60, minor populus 61. Qualche altra volta sono parole esprimenti generalità, ma con questo stesso intento limitato, cioè la generalità de’ governati. Così in una legge di Pipino, è detto che «al popolo universale sia fatta pronta giustizia dai conti, dai gastaldi, dagli sculdasci, da ogni magistrato 62;» in un’altra di Lodovico II, che «s’ascoltino i richiami di tutto il popolo in genere 63.» Qualche volta, finalmente, sono ancora parole esprimenti generalità, ma in un senso più esteso; come in quel capitolare di Lodovico Pio, dove, tra i fini che dice d’essersi proposti nel suo governo, mette: «che la pace e la giustizia si mantengano in tutta la generalità del popolo 64.» E in altri atti solenni di re franchi: «il popolo cristiano 65, il popolo di Dio 66:» espressioni che indicano egualmente una totalità morale, senza distinzione di classi. Aggiungeremo che, in questi casi, e ancora più in quelli dove non si fa menzione del popolo se non per ordinare o insinuare ai potenti la giustizia e la mansuetudine verso di esso, era anche esclusa, e come persa, ogni distinzione di razze. E quest’intento più generale, più umano, meno etnico, dirò così, e uno de’ caratteri che distinguono le leggi longobardiche de’ re o imperatori franchi, dalle antecedenti; e s’accorda con [p. 157 modifica]altro carattere che abbiamo già accennato, cioè l’esser quelle leggi non di rado ammonizioni morali e religiose, piuttosto che prescrizioni strettamente legislative; per cui venivano a toccare que’ punti in cui la comune origine, la comune natura e la comune sudditanza a una legge divina, sono ciò che predomina, e «non c’è più, nè Giudeo, nè Greco, nè servo, nè libero 67.» E, certo (ci si permetta un’osservazione non necessaria, ma quasi inevitabile), non è quella la forma propria e migliore delle leggi: il loro oggetto dev’esser preciso e circoscritto più che si può, affinchè l’osservanza possa essere adeguata, e la repressione non sia arbitraria; il legislatore non deve farsi predicatore: chi non lo sa? Ma sarebbe leggerezza e pedanteria insieme il non guardar la cosa che da questo aspetto. In mezzo a questa ferrea distinzione di razze non solo era bello, ma non poteva essere senza qualche effetto il richiamo a qualcosa di comune, d’universale e insieme di sacro; e l’esser qualche volta quelle diverse razze riunite, se non altro, in un vocabolo, era come un annunzio e una preparazione lontana della fusione reale di esse. Dico lontana; perchè la cosa doveva farsi per gradi, e ci vollero altre cause, alcune di natura diversa o anche opposta, e lente, indirette e, come accade spesso, mosse da voleri che nè si proponevano, nè prevedevano un tale effetto. E tra queste cause fu certamente una principalissima l’aumento progressivo del potere degli ottimati o signori, divenuti ereditari, e de’ prelati, alcuni de’ quali, erano divenuti più signori che vescovi o abati. La differenza tra signore e non signore fece come scomparire l’antica differenza tra Barbaro e Romano; e in vece di più razze, non rimase che una classe e una moltitudine; le diverse frazioni della quale poterono poi naturalmente e convenientemente chiamarsi Comuni. Ma con diverso successo, e nel momento, e per l’avvenire. Chè, dove c’era un potere supremo, più o meno attivo, più o meno rispettato, ma presente, i Comuni, o vinti e disfatti o ammessi a incerte e fragili condizioni, lasciarono viva, anzi più forte l’unità; vincitori, dove non c’era quel potere presente, accrebbero smisuratamente, la divisione che già esisteva, creando tanti novi poteri, i quali diventavano supremi di fatto ogni volta che il supremo in titolo era senza forza reale. Povere creazioni, e così instabili la più parte; ma, nelle mutazioni delle quali, rimaneva stabile lo sminuzzamento.

Per tornare al punto o, ciò che è meglio, per concludere: del popolo inteso nel significato il più generale e indeterminato, e del solo genere di consenso che può convenire a un tal popolo, ci pare che abbia voluto parlare Lotario. Interpretazione verisimile per sè, e che rimane la sola verisimile se, come abbiamo cercato di dimostrare, non si può intendere che abbia voluto parlare, nè d’un popolo politico, nè d’un consenso formale.

Ma che dire di que’ legislatori che adopravano un vocabolo medesimo, e un vocabolo di tanta importanza, a significar cose tanto diverse, ora pochi, ora molti, ora tutti? Ch’erano barbari. Non s’era ancora conosciuto quanto importi il mantener distinte le parole per non confonder le cose. Tutt’al più si può dire per loro scusa, che cercavano qualche volta di prevenir gli equivochi, con l’aggiunta d’altre parole. Ma ci vuol altro. Vedete un poco i moderni: hanno adoprata anch‘essi quella parola, e non poco, e non per fini di poca importanza; ma la prima cosa è stata d’andar bene intesi sul suo significato preciso. E perciò non c’era pericolo [p. 158 modifica]che nell’applicazione potessero nascere degl’imbrogli, come non c’è più pericolo che, quando due disputano intorno al popolo, uno intenda una cosa, l’altro un’altra, ovvero che non sappiano nè l’uno nè l’altro cosa s’intendano. Tanta è la differenza che passa tra un’epoca barbara, e un’epoca positiva!

Note

  1. Di questa pubblicità de’giudizi l’autore non fa più menzione. S’intende che noi imiteremo il suo silenzio.
  2. Della condizione de’ Romani vinti da’ Longobardi,§ LIV, LV, CLVII, CXVII.
  3. Nel citato paragrafo III, c. III, parte II.
  4. Nella celebre legge 37 del lib. 6, già citata alla pag. 174.
  5. Nella legge citata alla pag. 176.
  6. Del resto, quella legge non fu fatta originariamente da Lotario, nè per i Longobardi, ma è una delle molte che i re o imperatori franchi in Italia presero dall’arsenale de’ capitolari e delle leggi franciche; è una di quelle che, dice Lotario medesimo (I. 70) excerpsimus de Capitulare bonae memoriae Avi nostri Caroli, ac Genitoris nostri Ludovici Imperatoris. Si trova infatti, parola per parola, meno alcune varianti puramente grammaticali, nel Capitulare Wormaliense anni 829, di Lodovico Pio, padre di Lotario. La trascriviamo qui da quel capitolare per intero, attesa la sua brevità. Ut missi nostri, ubicunque malos scabineos inveniunt, eiiciant, et totius populi consensu in loco eorum bonos eligant. Et cum electi fuerint, jurare faciant ut scienter injuste judicare non debeant (tit. 2, cap. 2. Baluzii, Capitularia Regurn Francorum; Parisiis, 1677, T. I, col. 665. Si veda anche la nota del Baluze, T. II, col. 1113). L’ultimo figlio di Lodovico, Carlo il Calvo, promulgò poi di nuovo in Francia la stessa legge o, per conservare il termine speciale usato là da’ Carolingi, lo stesso capitolo, con questa breve aggiunta in principio: Ut, sicut in capitulis avi et patris nostri continetur, Missi nostri, ubi boni Scabinei non sunt, bonos scabineos mittant, et ubicunque etc. (Capit. Kar. Calvi, tit. 45; apud Carisiacum, ann. 873. Baluz. T. II, pag. 232). I capitoli di Carlomagno, ai quali allude il nipote, sono probabilmente quelli in cui vien prescritto che s’eleggano scabini boni et veraces et mansueti (Capitulare I, ann. 809, cap. 22; Baluz. T. I, col. 466, e quales meliores inveniri possunt (Capit. II ejusd. anni, cap. 11; Ibid. col. 472; inserito da Carlomagno medesimo nelle leggi longobardiche (I. 22), con l’aggiunta: et Deum timentes). Non credo che ci siano capitoli o leggi di Carlomagno che prescrivano anche di deporre gli scabini tristi.
  7. S. Greg. Epist. III, 29.
  8. Ibid. XI, 4 e 16.
  9. . È noto che, all’arrivo de’ Longobardi, sant’Onorato, arcivescovo di Milano, si rifugiò a Genova, dove morì, e dove risiedettero i suoi successori, Lorenzo II, Costanzo, Deusdedit, Asterio e, probabilmente per qualche tempo, Forte, del quale non rimane altra memoria, che il nome (Catalogus Archiep. Mediol.; Rer. It. T. I. par. 11, pag. 228). La cagione d’un tal silenzio è che, nel tempo in cui sedeva quest’arcivescovo, Genova, con un gran tratto del littorale, fu invasa da Rotari, il quale, secondo la relazione di Fredegario, scrittore probabilmente burgundione e contemporaneo, mise que’ paesi a ferro e a fuoco, spogliò e ridusse in servitù gli abitanti, e, distrutte le città, ordinò che si chiamassero borghi. «Segno che doveva esser ben forte in collera contra di essi (abitanti),» dice il Muratori (Annali, 641). Noi crediamo che possa esser segno di qualcos’altro, giacchè, nè in questa, nè in più altre spedizioni eseguite nella stessa maniera da’ Longobardi, si vede alcun motivo nè pretesto di collera contro gli abitanti. Ecco il testo di Fredegario: Civitates litoris maris de Imperio auferens, vastat, rumpit incendio concremans, populum diripit, spoliat et captivitate condemnat; murosque earum usque ad fundamentum destruens, vivos has civitates nominare praecepit. Fred. Chron. LXXI; Rer. Fr. T. 2, pag. 440. (Intorno alla patria e all’età di questo scrittore, si veda la dotta prefazione del P. Ruinart alla storia di Gregorio Turonese, nello stesso volume, pag. 123‑128.) La sede fu poi ristabilita in Milano dal successore immediato di Forte, san Giovanni il Bono, circa settantasett’anni dopo la fuga di sant’Onorato.
    Ora, la prima delle lettere di cui si tratta, scritta dopo la morte di Lorenzo suddetto, è relativa alla nomina d’un successore. Con essa risponde Gregorio al clero milanese stabilito in Genova, che gli aveva scritto d’aver eletto Costanzo: ed ecco perchè nel titolo non è nominato il popolo. Latore di questa lettera fu Giovanni suddiacono; al quale, in un’altra lettera (III, 30), Gregorio ordina che vada a Genova, e verifichi la cosa, perchè la lettera del clero non era sottoscritta. «E perchè» aggiunge, «molti milanesi (sottintendi: laici) dimorano là, costretti dalla ferocia de’ barbari,» ecco il popolo nominato nel titolo dell’altre due lettere; «raccogli anche i loro voti; e se concorrono in Costanzo, fallo consacrare dai vescovi a cui tocca, con l’assenso della nostra autorità. «Hujus praecepti auctoritate suffultum, Genuam te proficisci necesse est.
    Et quia multi illic Mediolanesium coacti barbara feritate consistunt, eorum te voluntates oportet, eis convocatis, in commune perscrutari. Et si nulla eos diversitas ab electionis unitate disterminat, siquidem in proedicto filio nostro Constantio omnium, voluntates atque consensum perdurare cognoscis; tunc eum a propriis Episcopis, sicut antiquitatis mos exigit, cum nostrae auctoritatis assensu, solatiante Domino, facias consecrari. La seconda lettera è relativa all’elezione già fatta del diacono Deusdedit al posto di Costanzo defunto; e ci si troverebbero, se ce ne fosse bisogno, argomenti più che bastanti per credere che non fu indirizzata a Milano. E in risposta a una, con la quale gli elettori avevano informato il papa, che Agilulfo, re de’ Longobardi, e, come si vede, ancora ariano, aveva loro intimato che nominassero una persona di suo aggradimento; ed ecco cosa dice il papa su questo proposito: «Non vi fate caso di ciò che v’ha scritto Agilulfo, perchè noi non saremmo mai per riconoscere uno che fosse eletto da non cattolici, e principalmente da Longobardi... Non c’è qui nulla che possa stornarvi dal vostro proposito, nè farvi forza veruna; perchè la vostra Chiesa non ha entrate ne’ paesi posseduti dal nemico; ma sono, tutte, per la protezione di Dio, nella Sicilia, e in altre parti doll’Impero.» Illud autem quod vobis ab Agilulpho indicastis scriptum, dilectionem vestram non movent. Nam nos in hominern qui non a catholicis et maxime a Langobardis eligitur, nulla praebemus ratione consensum.... Nec enim est quod vos ex hac causa deterreat, vel aliquam vobis necessitatem incutiat, quia unde possunt alimenta sancto Ambrosio servientibus Clericis ministrari, nihil in hostium locis, sed in Sicilia, et in aliis Reipublicae partibus, Deo protegente consistit. L’avere il re intimato i suoi voleri per lettera, è già un indizio che gl’intimava a persone fuori de’ suoi stati; il non parlare il papa altro che d’entrate, è un altro indizio che le persone erano fuori di pericolo; e chi vorrà poi credere che avesse chiamati nemici i Longobardi, se avesse scritto a gente che fosse stata nelle loro unghie? È bensì usanza de’ santi di non dir bugie, ma non di dire qualunque verità in qualunque circostanza. Ma l’induzioni sono superflue quando ci sono le prove. Anche in questa lettera è nominato un latore: Pantaleonem notarium nostrum transmisimus; e ce n’è anche qui un’altra al latore medesimo, nella quale il papa gli ordina che vada a Genova, e faccia ordinare Deusdedit, se l’elezione è stata unanime; e se non c’è alcun impedimento canonico. Experientia tua praesenti auctoritate suffulta, ad Genuensem urbem auxiliante Domino, proficiscens Deusdedit Diaconum tamen a cunctis electus est, et nihil est quod ei ex anteacta vita, per sacros possit canones obstare, Episcopum solemniter faciat ordinari (XI, 3). L’ultima delle lettere in questione fu portata da Aretusa, «donna chiarissima;» e non ha altro oggetto che di raccomandare che le sia fatta giustizia, sopra alcuni legati lasciati alla famiglia di lei dell’arcivescovo Lorenzo nominato sopra. Latrix praesentium Arethusa, clarissima foemina, propter causam legati quod ei, conjugique, vel filiis ipsius Laurentius frater noster reverendae memoriae Episcopus vester reliquerat, diu est apud nos, ut recolitis, demorata.... Idcirco Dilectionem vestram scriptis praesentibus adhortamur, ut memoratae mulieri illuc venienti caritatem quam decet Ecelesiae filios impendatis, et cum auctore Deo Ecclesia fuerit ordinata, id agatis, quatenus causa ipsa, quae tempore diuturno dilata est, ita sine mora, aequitate servata, debeat terminari. Qui non abbiamo prove materiali da allegare; ma, come abbiam detto, è cosa più che probabile, che questa lettera, la quale porta lo stesso titolo dell’altre, sia stata diretta alle stesse persone. Anzi è la sola cosa probabile: poichè a chi altri si sarebbe rivolto il papa, in una tale occasione? Non s’è egli visto in questa nota medesima, che l’entrate della Chiesa milanese non erano in paesi soggetti ai Longobardi? E chi doveva averne l’amministrazione, se non chi amministrava la Chiesa medesima, e di più era indipendente dai Longobardi? Come dunque supporre che il papa indirizzasse la sua raccomandata a Milano, in hostium locis, dove non c’era, nè di che, nè chi darle ciò che le poteva esser dovuto?
  10. Virg. Aen. Lib. III, v. 346; lib. V, v. 367.
  11. È dalla parola populo, la quale, come abbiam visto, si trova realmente in due di que’ titoli, che il Muratori credette di poter indurre l’esistenza del municipio in Milano, al tempo di san Gregorio. «Noi troviamo,» dice, «che San Gregorio scrive l’Epistola IV. del Lib. XI. Populo, Presbyteris, Diaconis et Clero Mediolanensi, compiagnendo la morte dell’Arcivescovo Costanzo, ed un’altra ai medesimi collo stesso titolo. Se non v’era allora nella Città figura alcuna di Comunità, e di Ordine, sotto qualche Magistrato; chi del Popolo avrebbe ricevuto e letto le Lettere Pontificie, e date le risposte?» Ma bisogna dirlo: non badò l’uomo dottissimo a chi e dove quelle lettere erano dirette. I Milanesi che, costretti dalla ferocia de’ barbari, dimoravano in Genova, ecco, ripeto, il popolo a cui scriveva Gregorio. — Ma, — penserà forse qualcheduno, — cosa dovevano dire i Milanesi rimasti a casa loro, di veder trasferita a degli assenti l’elezione del vescovo, e il nome di popolo? — Rispondo francamente per que’ Milanesi, non so s’io dica più o meno sventurati degli assenti, che di questo erano contentissimi. Cosa volevano, infatti, ne’ loro vescovi? Prima di tutto, che fossero cattolici, e di nome e di fatto. Ora, ognuno vede quanto la cosa sarebbe stata, non solo difficile, ma rischiosa, con elezioni fatte in Milano, sotto il potere d’una nazione ariana, e di re ariani. Se uno de’ migliori s’ingegnava di far paura anche a quelli che non poteva arrivare, quanto più era da temere che avrebbero adoprata la forza dove l’avevano, per far cadere l’elezione sopra uomini cattolici solamente di nome? Ed era da temere egualmente che di quest’uomini n’avrebbero trovati. Non so se nella storia ci sia un solo esempio d’un cattolico, il quale, per servire scaltramente gl’interessi della sua religione, si sia finto, in dato circostanze, aderente a qualche eresia dominante, abbia protestato d’aver per essa un gran rispetto: ma, di non cattolici che si siano protestati cattolici, quanti non ne dà la storia! Gli eresiarchi medesimi hanno tenuta questa strada, per più o meno tempo, cioè fin che speravano, con quell’apparenza, di fare che de’ cattolici diventassero eretici, quasi senza avvedersene. E la ragione di questa differenza è facile a vedersi. Non si può aiutare in nessuna maniera la verità, col negarla: l’errore sì; perchè l’unica sua forza sta nell’esser gradevole: e cos’importa che, per acquistar tempo l’abbiate negato, quando, col tempo, vi riesca di farlo gradire? Ecco il perchè quei Milanesi, cattolici com’erano (e si vede dall’ubbidienza mantenuta per circa settantasett’anni ai loro vescovi assenti), dovevano preferire dell’elezioni fatte in luogo sicuro, da persone indipendenti, e in libera comunicazione col supremo e perpetuo conservatore dell’unità cattolica, a quelle che avrebbero potute far essi in circostanze così contrarie. Del resto, nella dissertazione citata, l’opinione della conservazione de’ municipi non è espressa con una fermezza tale, che sia esatto il dire: Ho creduto col Muratori. Ecco la conclusione di questo scrittore: «Potrebbono queste poche notizie insinuare, che anche ne’ Secoli prima del Mille anche il Popolo formasse un corpo non privo di qualche regolamento e Magistrato.» E nella dissertazione latina: In his ergo (temporibus) specimen aliquod Corporis Popularis videor mihi videre in quo suus esset locus tam Nobilibus, quam plebi, et jus ad conventus faciendos, et aliquis Ministrorum ordo. Non equivale certamente a credere: e infatti, le discussioni posteriori e recenti, accennate sopra, fanno vedere quanta ragione abbia avuta il Muratori di non cavare da quelle veramente poche e non ben distinte notizie una conclusione più risoluta. È una delle questioni che ha messe in vista, piuttosto che trattate.
  12. Si enim vero Arimannus aud liber homo ad judicem suum prius non ambulaverit, et judicium suum de judice suo non susceperit, et post (ut?) justitiam suam recepat, sic venerit ad nos proclamare, componat ad ipsum judicem suum solidos quinquaginta. Propterea praecepimus omnibus ut debeant ire unusquisque causam habentes ad civitatem suam simulque ad judicem suum, et nunciare causam suam ad ipsos judices suos. Et si justitiam non receperint, tunc veniant ad nostram praesentiam: nam si quis venire antea praesumpserit priusquam ad judicem suum vadat, qui habuerint unde, componant solidos quinquaginta, et qui non habuerint.... Ideo volumus ut vadat unusquisque ad judicent suum, et percipiat judicium suum qualiter fuerit. Nel volume già citato: Della condizione de’ Romani, ecc. Ediz. di Milano, pag. 485.
  13. Ad palatium, come nella legge VI di Rachi medesimo: legge, con la quale il documento in questione ha una relazione singolare, e della quale dovremo parlare tra poco.
  14. Si quis sine voluntate Regis, in qualicumque civitate contra Judicem suum seditionem levaverit, aut aliquod malum fecerit, vel eum sine jussione expellere quaesierit; aut alteri homines de altera civitate contra aliam civitatem, aut alium Judicem, ut supra, sine iussione fecerint, aut eum expellere quaesierint, tunc is qui in capite fuerit, animae suae incurrat periculum, et omnes res ejus ad Palatium deveniant. Reliqui vero homines qui cum illo in malo consentientes fuerint, unusquisque componat in Palatio guidrigild suum.... Liutp. V, 6.
  15. Cognovimus quod per singulas civitates mali homines tanas (? altri codici, citati dal Muratori, hanno: ronas, zawas, zanas), idest adunationes contra Judicem suum agentes faciunt. Rach. I. 6; Rer. It. t. I, P. II, pag. 87.
  16. Si quis causam habuerit, et Sculdasio suo eam adduxerit, et ipse Sculdasius justitiam ejus intra quatuor dies facere neglexerit... componat ipse Sculdasius solidos VI ei cujus causa est, et Judici suo solidos VI... Si vero talis causa fuerit, quod ipse Sculdasius deliberare minime possit, dirigat ambas partes ad Judicem suum... Et si nec Jiudex deliberare potuerit, dirigat intra XII dies ambas partes in praesentia Regis... Liutp. IV, 7.
  17. Si quis in alia civitate causam habuerit, similiter vadat cum epistola de Judice ad Judicem qui in loco est... Et si talis causa fuerit quam deliberare minime possit, ponat constitutum, et distringat hominem illum de sua Judiciaria, et faciat intra viginti dies in praesentia Regis venire... Liutp. IV, 9. Nell’antecedente aveva detto: Si homines de sub uno Judice, de duobos tamen Sculdais, causam habuerint, ille qui pulsat vadat cum misso aut epistola de suo Sculdasio ad illum alium Sculdaem, sub quo ipse est cum quo causam habet...
  18. De furibus unusquisque Judex in sua civitate faciat carcerem sub terra... Liutp. VI, 26.
  19. In questi limiti, l’abuso non era particolare ai Longobardi. In un capitolare francico di Lodovico Pio è prescritto ugualmente che nessuno s’appelli al re, se non nel caso che non gli sia fatta giustizia dai messi reali o dai conti, giudici supremi dopo il re, gli uni straordinari, gli altri ordinari. Populo autem dicatur ut caveat de aliis causis ad nos reclamare, nisi de quibus aut Missi nostri, aut Comites eis justitias facere noluerint (Lud. P. Capit. anni 829, cap. 14; Baluz. t. I, pag. 668). Il qual capitolo fu poi inserito da suo figlio Lotario I nelle leggi longobardiche (Rer. It. t. I, Part. II, pag. 155): segno che l’abuso durava anche dopo la legge di Rachi.
  20. Per Sculdais suum, aut Judicem; Roth. 1. 37. Judex, aut quicumque in loco, aut finibus provinciae residet; Id. 1. 269. Judex, aut actor publicus; Liutp. V, 13. Si quis Judex, aut Sculdasius, aut Saltarius, aut Decanus, etc. Id. VI, 31. Judici, aut ad qualemcumque loci Praepositum; Id. VI, 42; et al.
  21. Intorno alla nozione intera e precisa di questo vocabolo, gli eruditi differiscono in qualche parte: il più noto e il più certo è che comprendeva le qualità d’uomo libero e obbligato al servizio militare. Non credo che alcuno degli scrittori più risoluti a fare de’ due popoli uno solo, sia arrivato a dire che la denominazione d’Arimanni possa significare ugualmente uomini longobardi e italiani.
  22. Arimannus ille quidem, si mentitus fuerit et dolose hoc egerit, si ante venerit ad Palatium, quam ad Judicis sui vadat judicium, si habuerit unde componere possit, componat solidos L. medium Regi, et medium Judici suo. Et si talis homo fuerit qui non habeat unde componere possit, accipiat disciplinam, ut emendatus fiat, et ut alii facere hoc non praesumant. Rachis, 1. 6, in fin. Qui è conservata la parte della sanzione, che manca nel codice Cavense. E sono parole che, per dirlo occasionalmente e di passaggio, paiono studiate apposta per attestare, se la cosa n’avesse bisogno, che alla composizione erano associate l’idee di penalità, di correzione e d’esempio; e che il fine di quella sanzione non era unicamente, come volle il Montesquieu, e nemmeno principalmente, di proteggere l’offensore contro la vendetta dell’offeso. Esprit des Lois, XXX, 20.
  23. Per chi desiderasse di fare il confronto intero, trascriveremo qui anche gli altri due testi, principiando dalla seconda parte della legge X del codice Cavense. Et hoc volumus ut nullus homo praesumat causa alterius ad dicendum supprehendere aud causare, nisi cum notitia de Judice suo, sive causa de vidua aut orphano dicenda: neque, ut diximus, de colibertos suos. (Per il significato, o per i diversi e non sempre sicuri significati di questo vocabolo, si veda il Ducange nel Glossario, e il Muratori nelle note alle leggi longobardiche. Qui potrebbe significare ugualmente o amici, o parenti, o servi).
    Si quis causam supprehenderit aut causare praesumpserit componat guidrigild suum medietatem regis et medietatem judici suo. Et si judex qui fuerit antequam causa altercaretur hoc habere permiserit aut consenserit, componat guidrigild suum.
    Ecco ora il principio, secondo la lezione comune, della legge VII, o la legge intera secondo un codice (citato dai Muratori ad h. l.) il quale di ciò che vien dopo, fa un’altra legge, e forse con ragione, giacchè riguarda una materia affatto distinta. Si quis causam alterius agere aut causare praesumserit in praesentia Regis aut Judicis (excepto si Rex aut Judex ei licentiam dederit, de viduis aut orphanis, aut de tali homine qui causam suam agere non potest), componat guidrigild suum, medium Regi, et medium contra quem causavit. Et si forsan aliquis per simplicitatem suam causam agere nescit, veniat ad placitum. Et si Rex aut Judex providerit quod veritas sit, tunc debeat ei dare hominem qui causam ipsius agat. Nam si Judex contra hoc consenserit, exceptis in his Capitulis, et non emendavit, componat guidrigild suum in Palatio Regis. — I due codici modenesi, citati dal Muratori, ad h. l., in vece di: ad placitum, hanno: ad Palatium Rer. It. t. I, Part. II, pag. 87. Lezione più probabile, giacchè sarebbe, credo, la sola volta che nelle leggi longobardiche anteriori alla conquista di Carlomagno fosse nominato il placito: e l’occasioni non sarebbero mancate, se il placito fosse stato in uso.
  24. Un altro motivo di dubitar fortemente dell’originalità della lezione Cavense, è l’esserci ripetuta tante volte la stessa cosa, a un di presso ne’ medesimi termini. Non credo che in tutte le leggi longobardiche si troverebbe un altro esempio d’una così strana battologia. E tralasciando altre osservazioni, anche quel saltare una volta dal singolare al plurale, e così a sproposito (debeant ire ad judicem suum, et nunciare causam suam ad ipsos judices suos), non pare che possa esser altro che una storpiatura di copisti.
  25. Haec itaque volumus et statuimus, et unusquisque Arimannus, quando cum judice suo caballicaverit unusquisque per semetipsum debeat portare scutum et lanceam, et sic post illum caballicare. Et si ad palatium cum judice suum veniat, similiter faciat. Hoc autem ideo volumus quia incertus est qui ei superveniat, aut qualem mandatum suscipiat, de nos aud de terre istius ubi oporteat haberi caballicago... Rachis Lex XI. Ibid. — Nel tradurre l’ultima frase siamo andati a tasto. Caballicago significava probabilmente, secondo l’occorrenza, e un corpo di cavalieri e tutto un esercito e una spedizione militare; come, in diversi luoghi e in diversi tempi del medio evo, le voci: Caballicatio, Caballicata, Cavalcata, Chevalchia, Equitatio, Equitatus, Hostis; delle quali si veda il Ducange: e non son qui tutte. Poteva anche significare l’obbligo d’andare all’esercito, come alcune delle voci suddette. Cavalcata s’usava ancora nel Trecento, per significare scorreria, o spedizione, come si vede in alcuni esempi citati dalla Crusca.
  26. Christi Jesu domini nostri et Salvatoris assidue nos convenit praecepta complere, cuius providentia ad regiminis culmen pervenimus; et ipsius auxiliante misericordia, quæ Genti nobis commissæ conveniunt, idest Genti Catholicae et dilectae Deo, Langobardorum statuendo prævidimus. Rachis, Prol.
  27. Come Paolo Diacono, e i due fratelli nominati da lui, Pietro, duca del Friuli, Orso, duca di Ceneda: unus e Langobardis nomine Munichis, qui pater post Petri Forojulianorum, et Ursi Cenetensis ducum extitit.... (VI, 24). E non è improbabile che al re Desiderio sia stato dato questo nome, in onore di san Desiderio di Benevento, martire della persecuzione di Diocleziano; e a quell’altro Desiderio, duca franco, di cui Gregorio Turonese racconta le vicende (Hist. V, 13 et al.), in onore di qualcheduno de’ vescovi santi che avevano già reso celebre e venerato quel nome nelle Gallie. Lo storico citato ora chiama Paolo il re longobardo che succedette ad Autari (X, 3). È errore de’ copisti? o sarebbe mai un soprannome onorevole dato da qualcheduno ad Agilulfo, dopo la sua conversione?
  28. Forse più comune in Francia, dove l’ebbero un figlio del re Clodomero, un re, e quel nipote di Pipino d’Hèristal, che fu da lui nominato suo successore nella carica di maggiordorno, e altri personaggi di minor fama. È scritto anche Theudoaldus, Theodaldus, Theotbaldus, Theodova1dus, Theudebaldus, ecc. Variazioni frequentissime, a que’ tempi, nel latinizzare i nomi barbarici, e che non di rado s’incontrano anche in un medesimo scritto. In questo caso medesimo, il vescovo che nel placito è nominato: Theudaldus, c’è sottoscritto: Theudualdus. E nel decreto con cui Liutprando conferma il giudicato de’ vescovi, e ne prescrive l’esecuzione, è scritto una volta: Theuduald, e un’altra: Theodald. Ma variazioni che, per lo più, non alterano essenzialmente le radici germaniche de’ nomi.
  29. Anche dì questo nome ci sono più personaggi storici presso i Franchi; e, tra gli altri, quel figlio di Clotario I, al quale, nella divisione del regno paterno, toccò la Borgogna, e che in francese fu poi chiamato e si chiama Gontran. Nelle storie del medio evo è scritto: Gundrannus, Guntramnus e, con l’aspirazione gutturale che si trova spesso segnata nell’ortografia de’ nomi franchi: Guntegramnus, Guntchrarnus.
  30. Il notaio Gunteramo, come si può vedere ne’ documenti in cui è nominato, non fece le parti di giudice. Nel placito i vescovi dicono: presentem Judicatum nostrum, perpetua firmitate, ne inposterum ex inde inter vos aliqua revolvatur causatio, tibi qui supra, Lupertiane Episcope, per manus suprascripti fili nostri Gunterani (sic) emisimus, in quo pro ampliore firmitate tua propriis manibus nostris subscrisimus; e Gunteramo non c’è sottoscritto. Nell’esame de’ testimoni fatto da lui, dice semplicemente: ego Guntheram Notarius in Curte Regia Senensis (senensi) inquisibi; e infatti è un atto semplicemente preparatorio. Liutprando, nel decreto confermativo, dice: sicut et prefati sanctissimi Patres nostri Teodald, Maximus, Speciosus et Telesperianus Episcopi per suum Judicatum statuerunt. Pare che Gunteramo sia intervenuto come procurator fiscale; cosa, del resto, che s’accorda col titolo che prende; giacchè Curtis regia significava appunto il fisco (V. Murat., Dissert. 17). Se non m’inganno, abbiamo qui il titolo d’una carica non ancora osservata: Notai delle corti regie. Probabilmente ce n’era uno in ogni città. Non si possono confondere col Notaio del sacro palazzo, nominato da Liutprando nell’ultima legge del libro secondo: quae denique universa superius a Celsitudine nostra comprehensa Potoni Notario Sacri Palatii nostri comprehendenda et ordinanda praecipimus. Come si vede, l’attribuzioni di questo erano, almeno in parte, d’un ordine superiore, e relative al governo generale del regno.
  31. Dicebat sanctissimus Lupertianus Episcopus frater noster, quod Ecelesiae istae suprascriptae et Monasteria, a tempore Romanorum et Langobardorum regum, ex quo a fundamentis conditae sunt semper ad Sedem sancti Donati Aritio obedierunt, una cum omnibus Oratoriis suis et nostrorum, vel Antecessorum nostrorum, ibidem fuit ordinatio tam in Presbiteros et in Diaconos, et nostra fuit sacratio semper usque modo, et nos debemus habere. Ad haec respondebat Frater noster Adeodatus Senensis Ecclesiae Episcopus: Veritas est quia Ecclesiae istae et Monasteria in territorio Senensi positae sunt; vestra ibidem fuit sacratio, eo quod Ecclesia Senensis minime episcopus abuit. Nam modo ad nos debent, pervenere quia in nostro, ut dixi, territorio esse noscuntur. — Judicatum quorundam Episcoporum etc. Murat. Antiq. Ital. T. VI, pag. 367.
  32. Proinde decretum per Sanctorum Patrum auctoritatem, ut tu, Sanctissime Frater noster Lupertiane Episcope, ipsas suprascriptas Dioceses (parrocchie) et Monasteria cum suis Oraculis (oratori) abeas absque qualemcumque contaminatione (promiscuità) habere, sicut Antecessores tui a longo tempore habuerunt, et omnis sacratio ibidem per tui oris labia vel Successorum tuorum ibidem, proveniat tam in Presbiteris quamque Diaconis vel Subdiaconis, et Baptisma, vel Chrisma per impositionem manuum, sicut Christianae Religionis est consuetudo, omni tempore proveniat atque fiat. Et nullam faciendi ammodo et deinceps prefatus Adeodatus Episcopus, vel ejus Successores, qui in tempore fuerint, contra te quem suprascriptum Lupertianum Episcopum, vel tuos Successores, de praedictis Baptisteriis, Ecclesiis et Monasteriis cum Oraculis suis, aliquando abet facundiam ad loquendum (azione in giudizio), nec ad ibi fontes faciendum, nec Plebes subtrahendum, nec ullam ordinationem infra ipsas Dioceses, finesque eorum faciendum, sicut Sanctorum Patrum instituta leguntur. Ibid. pag. 369.
  33. Ad. ann. 712.
  34. Parte I, num. VI e VII; pag. 426, 429.
  35. Liutprando Rege regnante exarsit ejusmodi dissidium, atque ad illud cognoscendum ac dirimendum, directis non semel Regiis Missis, et Episcopis finitimis ad idem judicium accitis, insudavit. Ant. It. T. VI, pag. 367.
  36. Sarebbe, per esempio, un privilegio, e non un’immunità, quello che può parere attribuito dall’autore al clero, nell’epoca longobardica, con queste parole del § IV. Cap, IV. Parte II: La professione, o dirò meglio, l’uffizio pubblico di Notaio fino ai tempi di Carlo Magno disimpegnato dai chierici, viene da quel Monarca levato loro di mano e trasferito intieramente ai laici. E in nota: Vedi Antiquitates Medii aevi del Muratori, Diss. XII, t. I, pag. 664. Pare, dico, che qui non si possa intender altro se non che, prima di Carlomagno, i cherici soli potessero esser notai. Ma ecco ciò che dice il Muratori nel luogo citato: Neque ab eo munere abstinebant Clerici, Subdiaconi, Dioconi, atque Presbyteri.... Verum Carolo M. visum est minime decere Sacerdotes ejusmodi caram, ac proinde in Lege 96 Langobard. statuit, ut nullus Presbyter Chartam scribat, neque conductor existat suis senioribus. Non era dunque l’uffizio di notaio disimpegnato dai chierici; ma solamente qualcheduno di loro l’esercitava; e non poteva esser trasferito, nè intieramente, nè in alcuna maniera ai laici, che l’avevano esercitato sempre.
  37. De gestis Langob. Lib. II, cap. 32.
  38. Chap. II; Tom. I, pag. 75; Paris, 1809.
  39. Chap. VI; Ibid. pag. 384.
  40. Storia del Diritto romano nel medio evo, Cap. IV, 3: Del Conte e de’ suoi luogotenenti.
  41. (Et vicarii comitum) ad ingenuos homines nulla placita faciant custodire, postquam illa tria custodiunt placita quae instituta sunt; nisi forte contingat ut aliquis aliquem accuset: exceptis illis Scabinis qui cum Judicibus residere debent. Car. M. I. 69.
  42. Ut nullus ad placitum banniatur (sia citato), nisi qui causam suam quaerit, aut si alter ei querere debet; exceptis Scabinis septem, qui ad omnia placita esse debent. Id. I. 116.
  43. Auctor verofacti si fuerit Advocatus, vel Praepositus, sive Sculdius.... (Cod. Esten.: Sculdais) Loth. I, I. 53; Rer. It., T. I, Part. II, pag. 143.
  44. De gest. Lang. Lib. VI, cap. 24.
  45. Pag. 200. Aggiungeremo qui la formola con la quale si citava davanti al giudice lo sculdascio negligente, anche perchè è uno de’ pochissimi documenti in cui è nominata la Sculdascia. Sculdasci Petre, te appellat Martinus, quod ipse venit cum misso (aut epistola) de suo Sculdascio ad te, quod tu faceres sibi justitiam de Donato, qui est in tua Sculdascia; et tu non fecisti sibi justitiam intra quatuor dies. Ex Cod. Veronensi Biblioth. S. Euphemiae; apud Cauciani, Leg. Barb. T. V, pag. 78.
  46. V. l’intero capitolo 24 del libro VI, citato copra.
  47. De omnibus Judicibus, quomodo in exercitu ambulandi causa necessitas fuerit, non mittant alios homines, nisi tantummodo qui unum caballum habeant, hoc est homines quinque, et tollant ad sumas suas ipsos caballos sex. De minoribus hominibus, qui nec casas nec terras habeant, dimittant homines decem, et ipsi homines ad ipsum Judicem faciant per hebdomadam unam operas tres, dum ipse Judex de exercitu revertatur. Scultasius vero dimittat tres homines qui caballos habeant, ut tollant (et tollat?) ad sumas suas ipsos caballos tres; et de minoribus hominibus dimittantur quinque, qui faciant ei operas, dum ipse reversus fuerint, sicut ad Judicem diximus, per hebdomadam operas tres. Liutp. lib. VI; 1. 29: già citata in parte anche qui, alla pag. 19. (Nella parte finale delle Notizie storiche, ndr.)
  48. Car. M. Capitulare I, anni 809, cap. 22; Baluz. T. I, pag. 466).
  49. Volumus ut advocati in praesentia Comitum eligantur, non habentes malam famam, sed tales eligantur, quales lex jubet eligere. Car. M. I. 64.
  50. Volumus ut Episcopi una cum Comite suos Advocatos eligant. Loth. I, 1. 10.
  51. Ut Judices, Advocati, Centenarii, Scabini, Praepositi, quales meliores inveniri possunt, et Deum timentes, constituantur ad sua ministeria exercenda. Car. M. 1. 55. Trascriviamo qui la formola dell’elezione degli Advocati, cavata dal Codice Estense (d’incerta data), e pubblicata dal Muratori (Rer. It. T. I, part. II, pag. 96). Domne Comes, hoc dicit Raynaldus Episcopus, quod vult eligere Donatum, ut sit suus Advocatus, et de Episcopatu; quod habeat de hac hora in antea licentiam et potestatem de rebus Ecclesiae appellationes faciendi et recipiendi, et res Ecclesiae per pugnam requirendi et excutiendi; et quod fecerit, per se vel cum Episcopo, de rebus Ecclesiae, permaneat stabile. Dicis ita Episcopo? (Episcope? Pro Episcopo?) Dico, Domne Comes. Praecipite fieri notitiam (cioè, probabilmente, che si pubblichi solennemente al popolo radunato). In nota a questa formola il Muratori dice: Hinc habes quid olim foret Advocatorum munus.... et quomodo eos a Principe postularent Episcopi, ceteraeque Ecclesiae. A noi pare che tutto in questa formola esprima, non una petizione, ma una semplice dichiarazione; e ne rimettiamo il giudizio al lettore. A ogni modo qui non si vede alcun intervento effettivo del popolo.
  52. Car. M. Capitulare II anni 809, cap. 11; Baluz. T. I, pag. 472.
  53. Pare bensì nova la facoltà espressamente data ai messi reali, di deporre scabini; almeno non si trova, come crediamo, e abbiamo già detto, in alcun atto legislativo di Carlomagno, nè (cosa che sarebbe più notabile, anzi singolare) d’alcun re suo antecessore.
  54. De illis hominibus qui propter eorum culpam ad mortem judicati fuerint, et postea eis fuerit vita concessa.... In testimonio non suscipiatur, nec inter Scabinos ad legem judicandam locum teneat. Car. M. Capitulare I anni 809, cap. 30; Baluz. T. I, pag. 467‑468. — Car. M. 1. 45.
  55. Dum (Cod. Estens.: Debet) ergo unusquique eorum habere Advocatum non mala fama suspicatum, sed bonae opinionis et laudabilis artis inventum. Loth. I, 1.96.
  56. Capitula Car. Calvi, Tit. 36: Edictum Pistense; Baluz. T. II, pag. 177.
  57. Op. cit. Praefat. VII.
  58. Ut populus interrogetur de capitulis quae in lege (salica) noviter addita sunt. Et postquam omnes consenserint, subscriptiones et manufirmationes suas in ipsis capitulis faciant. Car. M. Capitulare III anni 803, cap. 19. Ibid. T. I, pag. 394.
  59. Minora vero placita Comes, sive intra suam potestatem, vel ubi impetrare potuerit, habeat. Lud. P. Capitulare I anni 819, cap. 14. Ibid. T. I, pag. 603, et al.
  60. De vulgari populo, ut unusquisque suos minores distringat, ut melius ac melius obediant mandatis et praeceptis imperialibus. Car. M. Capitulare I anni 810, cap. 16. Ibid. T. I, pag. 474.
  61. Hoc etiam multorum querelis ad nos delatum, quod potentes et honorati locis quibus conversantur, minorem populum depopulentur et opprimant, etc. Lud. II, Imp. Capitula data, anno 850, in conventu ticinensi, Tit. I, cap. 5 Ibid. T. II, pag. 348.
  62. De universali quidem populo, qui ubicumque justitiam quaesierit, suscipiat, tam a Comitibus suis, quam etiam a Gastaldiis, seu Sculdasiis, vel loci Praepositis, juxta ipsorum leges, absque tarditate. Pip. 1. 8.
  63. Totius populi querimonia generaliter audiatur, et legaliter diffiniatur. Lud. II, Legatio 3; Rer. It. T. I, Part. II, pag. 159.
  64. ... ut pax et justitia in omni generalitate populi nostri conservetur. Lud. P. Capitulare, anni 823, cap. 2; Baluz. T. I, pag. 633.
  65. ... ad illorum et totius populi Christiani perpetuam pacem Charta Divis. Imp. etc. Ibid. T. I, pag. 572.
  66. ... et populus Dei salvus sit, et legem ac iustitiam et pacem ac tranquillitatem habeat, Capitul. Car. Calv. Ibid. T. II, pag. 204.
  67. Non est Judaeus, neque Graecus: non est servus, neque liber: non est masculus, neque femina. Omnes enim vos unum estis in Christo Jesu. S. Paul. ad Galat. III, 28.