Ad ognuno che legge, ovver che ascolta,
Se credessi piacer, sarei ben stolta;
Ma ad alcuno spiacer sopporto in pace;
A me pur anche ogni lettor non piace.
XIV.
dallo stesso.
Tutto, da lor degenere,
Aulo, tu devi appunto agli avi tuoi;
Nulla i nipoti a te dovran dappoi.
XV.
a scrittore di commedie.
Vuoi che sul libro delle tue commedie
Per le risa il lettor divenga matto?
Ponci per antiporta il tuo ritratto.
Le larve per le maschere
Si tingono di biacca e di cinabro;
Or se quante son femmine
Che n’han dipinte le mascelle e il labbro,
Dato mi fosse di poter mostrarve,
Quante galanti diverriano larve!
XVII.
da marziale.
Scrivi pur contro me, ch’io tel permetto:
Nulla scrive colui che non vien letto.
XVIII.
dallo stesso.
a diodoro.
Festeggia il tuo natal tutto il Senato;
Ma veruno non sa che tu sia nato.
Ad Elena simile io ti direi,
Poichè, dal bello in fuori,
Perfettamente rassomigli a lei.
XXIV.
da oveno.
Schiavo a doppia ignoranza, o Lino, stai;
Non sai nulla, e nol sai.
XXV.
per un cane che traduce alcune parole in latino.
Maraviglia ella è certa,
Che tu dal Tosco nel Latin converta
Quel vocabolo e questo;
Ma poi non è miracolo codesto;
Chè se tanto non san certi dottori,
Cani, qual tu, son tanti traduttori.
Del vate Teodoro
La biblioteca ha divorato il foco:
E Febo sofferì tanto disdoro?
Ah Numi ben dappoco!
Oh gran fallo! oh sciagura! E per qual fato
Con essa anco il padron non s’è bruciato?
XXVII.
da oveno.
Non v’ha, diceva un pappagallo, al mondo
Un altro augello al par di me facondo;
A cui soggiunse un’oca: e dove trovi
Altro che meco a scrivere si provi?
XXVIII.
da ausonio.
Infelice Didon! di due mariti
Misera negli amori:
Muor l’uno, e fuggi; fugge l’altro, e muori.
Apollo un tempo fu a guidar gli armenti;
E per questo addivien ch’anco oggidì
Ha tra’ seguaci suoi tanti giumenti.
XXX.
A ragion, non ad arte,
Le donne fansi giovani:
Son fanciulle di senno una gran parte.
XXXI.
da amalteo.
Ad Alcon la luce manca,
A Leonilla l’altra manca;
E l’un l’altro i Dei del ciel
Vincer può col viso bel.
Or la vaga tua pupilla,
Bel figliuol, dona a Leonilla:
Tu così sarai Cupido,
E la Diva ella di Gnido.
Solo i poeti antichi a te son grati;
Da te i morti sol vengono lodati:
Ma da tanto non sei, scusa, o Vacerra,
Che per piacerti io voglia andar sotterra.
XXXIII.
dallo stesso.
Taide losca vuol trarre
Quinto alle nozze sue:
Ella è priva d’un occhio, ei d’ambedue.
XXXIV.
Quando Prometeo col rapito foco
Nel rozzo uman cerèbro
Diede al buon senno loco,
Certo a que’ dì non v’erano galanti;
Chè son stupidi ancora tutti quanti.
Bellissimo davvero il tuo libretto;
Chè della legatura
Non può darsi lavoro il più perfetto.
XXXVI.
a . . . . . . . . .
Se bello è tutto ciò, di cui vi sia
Fra le parti armonia,
Poichè sì bene in te risponde l’alma
Alla corporea salma,
Tu alle Furie sebben paja sorella,
Possiamo tuttavia chiamarti bella.
XXXVII.
Se come Teseo Arianna, infido amante
Te, Venustilla, abbandonò il servente,
Non isparger però lagrime tante,
Chè Bacco hai per supplente.
Ei fu racconto vero
Di quel che al cimitero
Vide uno spettro andar girando intorno:
Tu ci fosti in quell’ora ed in quel giorno.
L.
da marziale.
Sei bella: il so; fanciulla sei: gli è vero;
Sei ricca: ognun s’accorda nel pensiero;
Ma se troppo lodar ti vuoi, Fabulla,
Non sei ricca, nè bella, nè fanciulla.
LI.
dallo stesso.
Muove liti Diodoro in ogni lato,
Sebbene afflitto sia dalla podagra;
Ma quando ha da pagare l’avvocato,
Il suo male convertesi in chiragra.
Vuoi poeta sembrar, e nulla reciti;
Ma sii qual vuoi, Mamerco,
Purchè nulla tu dica, io più non cerco.
LIII.
dallo stesso.
Son miei que’ versi, è vero;
Ma allora che tu recitar li vuoi,
Cominciano esser tuoi.
LIV.
Scrive de’ pizzicagnoli
Nelle botteghe, ovver degli speziali,
Certo tale sonetti e madrigali:
Così i suoi versi un dì non si dorranno,
Se ov’ebber culla anche la tomba avranno.
T’è sì amica Fortuna,
Qual se a Virtude ell’abbia
Giurato di far rabbia.
LX.
Se nell’Odrisie selve
Al suo canto traeva Orfeo le belve,
Tu, Lidia, come puoi torcere il naso,
S’odi alcun verso recitare a caso?
LXI.
Mi chiese un antiquario a qual stagione
Sia da fissar l’origine
Della conversazione:
Io dissi del Diluvio ai dì fatali,
Poichè allor con quattr’uomini
Stavano accolti insiem tanti animali.
Per tempio arso e distrutto
Erostrato è famoso:
Tu il se’ qual lui per tempio or or costrutto.
LXIII.
Sta con un libro in man, per far la dotta,
Alla finestra tutto giorno Isotta:
Quel le cadde una volta, e fu trovato;
Ma non era nè scritto, nè stampato.
LXIV.
Di gettar gravi pietre senza novero
Deucalion già lasso,
Volle provar se il sovero
I portenti operasse anch’ei del sasso:
Gittonne un picciol tronco, e in sull’istante
Il primo ne sortì leggier galante.
Sei bello più del figlio
Dell’alma Dea di Gnido,
Perchè non hai sul ciglio
La benda di Cupido.
LXVI.
Suole in conversazion donna galante
Trattenersi col cane e coll’amante:
Se ci fosse il marito in compagnia,
Che bel quadro di bestie si faria!
LXVII.
Se, qual la grandin può, valesse ancora
A discacciar le tenebre la paglia,
Direi che molti portano a quest’ora
D’essa bianco tessuto ampio cappello,
Il bujo a diradar del lor cervello.
Se fai talvolta un epigramma bello,
Io ti lodo, o Sabello;
Ma non per meraviglia
Inarcherò le ciglia,
Chè farne un, due, non è fatica molta,
Come avviene a comporne una raccolta.
Loda Berga i miei versi, e li declama:
Chi averli in mano, e chi in saccoccia brama;
Ne viene ad un stupore;
Noja a un altro, vergogna, odio, livore:
Così appunto vogl’io;
Ora piace a me pure il libro mio.
LXXIII.
dallo stesso.
Ha Taide bianchi i denti,
Lecania maculati:
Proprj gli ha questa, e quella gli ha comprati.
A Natura tua bellezza,
Devi a Sorte la ricchezza:
Io bell’alma mi formai,
Aurea cetra io m’acquistai:
Or di noi qual è, Nigella,
La più ricca, la più bella?
Che l’ebbe in sul momento
Disfidata con riso al fier cimento.
Ma Ciprigna le disse: oh! sei ben stolta
Se mi dispregi armata:
Sai che ignuda ti vinsi un’altra volta.
Vista Nettuno in sugli adriaci flutti
Starsi Vinegia, e tutti
Tener suggetti alle sue leggi i mari:
Or, disse, o Giove, del tuo Marte i lari
Pommi pur contro, e del Tarpeo le mura;
Se al mar la terra di prepor presumi,
Mira le due città: quella fattura
Degli uomini dirai, questa de’ Numi.
Tutto prometti allora
Che tu vôti la notte otri di vino;
Ma nulla presti al nascer dell’aurora.
Ah! bevi anche al mattino.
LXXXIV.
dallo stesso.
Ovunque, o Gellia, o vada, o torni, o vegna,
L’aer di grato odor tutto s’impregna;
Ma non sai che le droghe americane
Dariano buon odore anche al tuo cane?
A chi legge, a chi ascolta, il mio libretto
È parimenti accetto:
Sol v’hanno de’ poeti
Men del lettor discreti;
Ma non li curo, e venga pur mia cena
Ai commensali più che ai cuochi amena.
Ad alcuno che incontri per la strada
Non ti vidi giammai render saluti:
La gente nulla ostante non ci abbada,
Perchè i muli ella sa che nascon muti.
LXXXIX.
D’ogni bell’arte io ti credea maestra
E d’ogni scienza, o Lisa,
Vedendoti ogni giorno alla finestra
Studiare un libro attentamente fisa;
Ma dissemi l’altr’jeri un tuo staffiere,
Che allora delle Dame
Solo tu attendi a leggere il Corriere.
XC.
da oveno.
In medio virtus.
Donna galante in mezzo agli uomin’ va:
Dunque Virtù suo posto or più non ha.