Fedele, ed altri racconti/Pereat rochus

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Pereat rochus

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Quinto intermezzo R. Schumann (op. 68)
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PEREAT ROCHUS




I.


— Bel caso, don Rocco — disse per la quarta volta il professore Marin, raccogliendo le carte e sorridendo beatamente, mentre il suo vicino di destra inveiva furioso contro il povero don Rocco. Il professore durò a perseguitare costui con un risolino a bocca chiusa, con lo sguardo scintillante di benevola ilarità; poi si volse alla padrona di casa che dormigliava in un angolo del canapè.

— Un bel caso, contessa Carlotta!

— Ho capito — rispose la signora — [p. 224 modifica] e mi parrebbe anche ora di finirla; non è vero, don Rocco?

— No, don Rocco — riprese il professore, serio. — Se ci pensate bene, è un caso da congrega.

— Altro che da congrega! — disse il vicino di destra.

Don Rocco, rosso come un papavero, ficcate due dita nella tabacchiera, taceva a capo chino con un certo suo cipiglio compunto, opponendo alla tempesta il cranio lucido, guardando sottecchi, fra un batter di ciglia e l’altro, le carte sciagurate. Quando udì ripetere dal suo temuto compagno la parola congrega, gli parve che le cose volgessero al faceto, fece un sorrisetto e strinse il tabacco fra le dita.

— Eh, voi ridete! — ripigliò l’implacabile professore. — Non so se avendo giuocato a terziglio, e fatto prendere un [p. 225 modifica] cappotto simile al vostro compagno, possiate celebrare in pace, domattina.

— Eh, posso posso — borbottò don Rocco, aggrottando ancora le ciglia e levando un poco la sua buona faccia contadinesca. — Fallano tutti, fallano. Falla anche lui; e anche Lei forse, qualche volta.

La sua voce pareva il grugnito di una bestia pacifica, tribolata oltre ogni mansuetudine. Al professore scoppiavano le risa dagli occhi.

— Avete ragione — diss’egli.

Il giuoco era finito, i giuocatori si alzarono.

— Sì — disse il professore con serietà canzonatoria — il caso di Sigismondo è più complicato.

Don Rocco strinse in un sorriso gli occhietti lucenti, chinando il capo con un misto incomprensibile di modestia, di compiacenza, di turbamento, e brontolò: [p. 226 modifica]

— Anche quello va a tirar fuori!

— Vedete — soggiunse il professore — che sono informato. Si tratta, contessa, di un caso che don Rocco deve sciogliere alla prossima congrega.

— Qui non c’è congreghe — disse la contessa. — Lasci stare.

Ma non era così facile cavare una vittima dalle unghie del professore.

— Non ne parliamo più — diss’egli tranquillamente. — Sentite però, don Rocco; io non la penso come voi su quel punto. Per me, pereat mundus.

Don Rocco fece un cipiglio feroce.

— Io non ho parlato con nessuno — diss’egli.

— Don Rocco, avete chiacchierato, e lo so — riprese il professore. — Abbia pazienza, contessa, giudichi Lei.

La contessa Carlotta non voleva saperne, ma il professore tirò via [p. 227 modifica] imperturbato a esporre il caso di Sigismondo, come la Curia vescovile lo aveva proposto.

Un tale Sigismondo, colto da improvviso malore, chiede di confessarsi. Appena è solo col prete si affretta a dirgli che altri sta per compiere un omicidio di cui egli fu istigatore. Proferite queste parole perde la voce e i sensi. Il sacerdote dubita se Sigismondo abbia parlato in confessione o no, e non può impedire il delitto, non può salvare questa vita umana in pericolo, se non usando della confidenza ricevuta. Deve egli farlo, lasciar uccidere un uomo?

— Don Rocco — conchiuse il professore — vorrebbe che il prete facesse da carabiniere.

Il povero don Rocco, martoriato nella coscienza dallo scrupolo di trattare questo argomento in una conversazione [p. 228 modifica] profana e dall’ossequio al suo canzonatore, ecclesiastico di età matura e professore nel Seminario vescovile di P., si contorceva, masticava delle scuse.

— No... ecco... dico... mi pareva...

— Mi meraviglio che si scusi, don Rocco — disse la signora. — Mi meraviglio che pigli sul serio gli scherzi del professore.

Questi protestò e strinse con sottili domande i panni addosso a don Rocco, si mise a spremerne adagio adagio quella miscela d’istinto retto e d’argomenti storti che aveva in capo, ripulendolo con garbo d’ogni cattiva ragione e d’ogni buon senso, per lasciargli uno stupore pieno di contrita umiltà. Ma il giuoco durò poco, perchè la signora congedò la compagnia col pretesto ch’eran suonate le undici. Trattenne però don Rocco.

Era la contessa Carlotta che lo aveva [p. 229 modifica]scelto, pochi anni prima, a rettore della chiesa di S. Luca, proprietà della signora stessa. Ella pigliava con lui un’aria vescovile che il giovane prete, semplice di spirito quanto umile di cuore, comportava in santa pace.

— Farebbe meglio, caro don Rocco — diss’ella quando rimasero soli — a occuparsi meno dei casi di Sigismondo e più dei Suoi.

— Perchè? — chiese don Rocco, interdetto. — Non so niente.

— S’intende; lo sa il Comune, ma Lei non sa niente.

Gli occhi della signora soggiunsero chiaramente: povero mammalucco! Don Rocco tacque.

— Quando torna la Lucia? — chiese lei. Questa Lucia era la serva di don Rocco ch’egli aveva lasciato andare a casa per quattro o cinque giorni. [p. 230 modifica]

— Domenica — rispose. — Domani sera. — Ah! — esclamò a un tratto sorridendo assai soddisfatto della propria intelligenza. — Adesso ho capito, adesso so cosa Lei vuol fare. Niente, non è vero niente.

Aveva finalmente inteso che si trattava di chiacchiere corse in paese su certi amori della sua serva con un tal Moro, un pessimo soggetto, pratico da un pezzo della Pretura e del Tribunale, che univa diabolicamente l’astuzia al malvolere e alla forza. Qualcuno teneva che non fosse interamente malvagio, che il bisogno, i mali trattamenti d’un padrone ingiusto lo avessero tratto alla colpa; ma tutti lo temevano.

— Non è vero niente? — replicò la signora. — Allora non so cosa dirà il paese quando alla serva del prete succederanno delle novità. [p. 231 modifica]

Don Rocco diventò di fuoco e fece un cipiglio spaventoso.

— Non è vero niente - diss’egli brusco, risoluto. — La ho interrogata io stesso appena udite quelle chiacchiere. Son cattiverie della gente. Non lo vede neanche mai quell’uomo.

— Senta, don Rocco — disse la signora. — Ella è buono, buono, buono. Ma siccome il mondo non è così, e siccome c’è scandalo, così se Lei non si risolve a mandar via subito quella creatura, bisogna che mi risolva io a qualche cosa.

— Farà quello che vuole — rispose il prete, asciutto. — Io debbo considerare la giustizia, non è vero?

La contessa lo guardò e disse con una certa solennità.

— Va bene. Vuol dire che Lei ci penserà ancora stanotte, e domani mi darà l’ultima risposta. [p. 232 modifica]

E suonò il campanello per far recare una lanterna a don Rocco, essendo la notte assai oscura. Ma, con sua grande sorpresa, don Rocco ne estrasse delicatamente una dalla tasca posteriore del soprabito.

— Cosa Le è venuto in mente? — esclamò la signora. Mi avrà macchiata la sedia, adesso!

Si alzò malgrado la assicurazioni di don Rocco e, pigliata una delle candele che ardevano ancora sul tavoliere da giuoco, si chinò a considerar la sedia in questione.

— A Lei! — disse. — Vi metta il naso. No, macchiata; rovinata!

Don Rocco si chinò anche lui, aggrottò le ciglia sopra una larga macchia d’unto, un’isola nera nella tela grigia, susurrò gravemente «oh, sì» e rimase assorto in quella contemplazione. [p. 233 modifica]

— Adesso vada — disse la signora. — Quel ch’è fatto è fatto.

Parve infatti ch’egli aspettasse il permesso di alzare il suo naso posto in penitenza.

— Vado, sì — rispose accendendosi la lanterna — perchè adesso a casa son solo e ho anche paura d’aver lasciata la porta aperta.

In un batter d’occhio disse «felice notte» e scomparve, senza nemmeno guardar la signora.

Ella rimase sbalordita.

— Gran villano, mio Dio! — disse.


II.


Era un’umida, nuvolosa notte di novembre. Il piccolo don Rocco arrancava verso il suo romitaggio di S. Luca a [p. 234 modifica] scosse di passi sgangherati, tutto d’un pezzo, le braccia in parentesi, la schiena in arco, facendo Dio sa qual cipiglio alla ghiaia della strada maestra. Ruminava le parole oscure della signora Carlotta, la cui gravità gli entrava adagino nel cervello grosso. Ruminava pure la prossima congrega, il pereat mundus e le sottili ragioni, mal capite, del professore; e anche la spiegazione del Vangelo per l’indomani, che non era ancora ben pronta. Tutta questa roba gli s’impasticciava qualche volta insieme nella testa. Non si doveva condannare la innocente Lucia, pereat mundus. La signora Carlotta era quasi una padrona per lui; ma quell’altro gran padrone? Nemo potest duobus dominis servire; così, fratelli dilettissimi, l’odierno Vangelo.

Aveva anche perduto al terziglio, povero don Rocco, come sempre; e ciò gli [p. 235 modifica] tingeva un poco di grigio le idee malgrado la sua proverbiale trascuratezza di ogni interesse mondano. Quel buco nella tasca, quella goccia continua gli dava pensiero. Non sarebbe stato meglio fare elemosina?

«C’è di buono» pensava «che mi secco e tutti mi strapazzano. Non giuoco mica per piacere».

Ecco a sinistra della via uno scuro d’alberi, un ascender lento di questa oscurità informe a tre grandi cipressi ineguali, neri sul cielo. Là tra i vecchi cipressi posa la romita chiesetta di San Luca e, addossato a lei, un piccolo convento, vuoto da cento anni. Il breve poggetto inghirlandato di viti non porta altre case. Nè dal convento nè dal prato che regge la chiesetta vegliata dai cipressi si scorge la via maestra, ma solo altri poggi gai di vigneti, di ville e case [p. 236 modifica] campestri, isole d’un immenso piano che va da colline più lontane alle alpi, e sfuma a levante nei vapori del mare invisibile. Il semplice cappellano della signora Carlotta viveva solo nel convento come un sacerdote del silenzio, contento della magra prebenda, contento di predicare a più non posso nella sua chiesetta, di esser chiamato il giorno a benedire i fagiuoli e la notte ad assistere i moribondi, di coltivarsi le viti con le proprie mani; contento di tutto, insomma; anche della serva, una brutta zitellona sui quarant’anni, a talento della quale mangiava, beveva e vestiva rassegnatamente, senza scambiare con essa dieci parole l'anno.

— Se la mando via — diceva tra sè, passando fra le alte siepi della stradicciuola che sale dalla via maestra a San Luca — è un danno, è un disonore per [p. 237 modifica] lei. Non posso in coscienza, perchè son sicuro, caspita, che non è vero niente. Col Moro, poi!

L’orologio del campanile suonò le undici, don Rocco pensò alla predica, di cui un buon quarto era ancora da scrivere, e traboccò giù in furia dal prato della chiesa al portone del suo cortile, affondato lì presso, sotto il campanile, in capo a un viottolo scosceso. Aperse il portello, attraversò a mezzo il cortile e si fermò su’ due piedi. Una fioca luce usciva dalle finestre del suo salotto, l’antico refettorio dei frati, a pian terreno.

Don Rocco era uscito alle quattro per andar a parlare con la contessa Carlotta e non era rientrato più. Non poteva aver dimenticato il lume acceso. Doveva esser tornata la Lucia, dunque, prima di quel che aveva promesso; certo, certo. [p. 238 modifica] Non affaticò il suo cervello in altre supposizioni ed entrò in casa.

— Siete voi, Lucia? — diss’egli. Nessuno rispose. Entrò nel vestibolo, s’affacciò alla cucina, rimase lì, immobile, sulla soglia.

Un uomo stava seduto sotto la cappa del camino con le mani protese sulle brago. Voltò il viso al prete e disse senza scomporsi:

— Don Rocco, servitor suo.

Al chiarore del fumoso lume a petrolio che ardeva sulla tavola, don Rocco riconobbe il Moro.

Egli si sentì un certo leggero rammollimento del cuore e delle gambe. Non si mosse nè rispose.

— Resti servito, don Rocco — riprese il Moro imperturbato, parlando come se fosse in casa propria. — S’accomodi qui anche Lei, che fa freddo stasera, fa umido. [p. 239 modifica]

— Fa freddo, sì — rispose don Rocco con una forzata benevolenza nell’accento — Fa umido.

E posò la lanterna sulla tavola.

— Venga qua — riprese l’altro. — Aspetti che L’accomoderò io. — Andò a pigliar una sedia e la piantò sul focolare a fianco della propria.

— Ecco — diss’egli.

Intanto don Rocco veniva ripigliando fiato e facendo con un cipiglio terribile dei faticosi ragionamenti interni.

— Grazie — rispose. — Vado a metter giù il tabarro e torno subito.

— Lo metta giù qui il tabarro — replicò il Moro non senza una certa fretta, una nuova imperiosità, che piacquero pochissimo a don Rocco. Egli depose silenziosamente sulla tavola il tabarro e il cappello e sedette sotto la cappa del camino, a fianco del suo ospite. [p. 240 modifica]

— Mi scuserà se ho fatto un po’ di fuoco — riprese questi. — È una buona mezz’ora che son qui. Credevo che Lei fosse in casa a studiare. Non è sabato, stasera? Avrà bene a dire, domattina, le solite quattro minchionerie ai villani!

— La spiegazione del Vangelo, vorrete dire — rispose vivamente don Rocco, che su quel terreno lì non conosceva paura.

— Lei capisce le cose in aria — disse il Moro. — Mi scusi, son villano anch’io, si parla alla buona, ma con rispetto. Vuol favorirmi una presa?

Don Rocco gli porse la tabacchiera. — Da trozi? — fece l’altro con un’occhiata d’intelligenza. Da trozi ossia da sentieri chiamano in quel paese il tabacco che entra di furto nello Stato.

— No — rispose don Rocco [p. 241 modifica] alzandosi. — Forse ne posso avere un poco di sopra.

— Lasci stare, lasci stare — s’affrettò a dire il Moro. — Qua, qua.

E affondate tre dita nella tabacchiera, vi attinse una libbra di tabacco e se lo fiutò a piccole riprese, contemplando il fuoco. La fiamma moribonda gl'illuminava la barba nera, il viso terreo, gli occhi vivaci, intelligenti.

— Adesso vi sarete riscaldato — s’arrischiò a dire don Rocco dopo un momento di silenzio. — Potrete andare a casa.

— Hum! — fece l’altro con una spallata. — Avrei qualche affaretto, prima.

Don Rocco si contorse un poco sulla sedia, battendo forte le palpebre, con un cipiglio straordinario.

— Dicevo così perchè è tardi — borbottò fra il rustico e il timido. — Ho appunto a far qualche cosa anch’io. [p. 242 modifica]

— La predica, eh? La predica, la predica — ripeteva l’altro, macchinalmente, guardando il fuoco e pensando. Senta — conchiuse — facciamo così. Ho visto che in salotto c’è penna, carta e calamaio. Lei si accomoda lì e scrive le Sue chiacchiere. Io, intanto, se per Sua buona grazia mi permette, mi prendo un boccone, perchè sono sedici ore che non assaggio cibo. Quando abbiamo finito si parla.

Don Rocco pareva poco persuaso sulle prime; ma quanto era focoso nell’eloquenza sacra, altrettanto era impacciato nella profana. Non seppe che contorcersi e metter qualche sommesso grugnito di dubbio; dopo di che, l’altro tacendo sempre, si alzò dalla sedia più stentatamente che vi si fosse invischiato.

— Vado a vedere — diss’egli — ma ho paura che troverò poco. La serva... [p. 243 modifica]

— Lei non s’incomodi — interruppe il Moro. — Lasci fare a me. Vada a scrivere, Lei. — Saltò giù dal focolare, accese un altro lume e lo portò nell’attiguo salotto che aveva le finestre a mezzogiorno, verso il cortile, mentre le finestre della cucina si aprivano a tramontana, sul lato posteriore del vecchio convento, dov’erano la cantina e il pozzo. Poi tornò lesto a spiccare, sugli occhi dell’attonito prete, una chiave appesa nell’angolo più buio della cucina, ne aperse un armadio a muro, vi alzò la mano sicura a un formaggio di capra, di cui don Rocco non sospettava neppure l’esistenza; tolse il pane in una credenza, il coltello in un cassetto della tavola.

Fu questa la terza o la quarta volta nella vita di don Rocco che il famoso cipiglio, per alcuni istanti, scomparve. Anche le palpebre restarono di battere. [p. 244 modifica]

— Lei mi guarda, don Rocco — disse il Moro, compiacendosene — perchè son pratico di casa Sua. Badi a scrivere. Sentirà poi. — Terremo anche vivo il fuoco — soggiunse, quando il prete, rinvenuto a poco a poco dal suo sbalordimento, passò in salotto.

Prese il soffietto di ferro, una specie di canna da spingarda, ne volse un capo alle brage e soffiò nell’altro in modo così insolito che ne uscì un fischio potente. Quindi diè di piglio alla cena.

Che diavolo aveva? Ora divorava, ora levava la faccia e rimaneva lì trasognato, ora camminava su e giù per la cucina, urtando le sedie e la tavola. Pareva una bestia prigioniera che ogni tanto leva il muso dall’osso, ascolta e guarda, lo acciuffa, lo lascia, dà una girata rabbiosa per la gabbia, torna a sgretolare.

Don Rocco intanto pendeva sul suo [p. 245 modifica] scartafaccio, ammirando ancora ciò che aveva veduto, non sapendo trarne, nel suo candore, alcuna induzione, ascoltando in pari tempo i passi e i rumori della camera vicina, con certa torbida inquietudine che somigliava vagamente alla paura, come la intelligenza dello stesso don Rocco all’ingegno. Sentirà poi — si diceva. — Cosa ho a sentire? Che sa dove sono i denari? — Li aveva messi nel cassettone della sua camera da letto, ma erano in tutto due biglietti da dieci lire, e don Rocco pensò con soddisfazione che il vino nuovo non era ancora venduto e quei denari là eran sicuri dalle unghie del Moro.

Violenze non pareva che costui ne minacciasse. — Infin dei conti andranno venti lire — concluse don Rocco adagiandosi nella sua filosofica e cristiana noncuranza dell’oro. Abbandonò [p. 246 modifica]mentalmente le venti lire al loro destino e cercò ricondurre i pensieri al sacro testo «nemo potest duobus dominis servire.» Nello stesso momento gli parve udire fra i passi affrettati del Moro un gran colpo sordo, più lontano, come di un uscio che si sfondi; poi il tonfo d’una seggiola rovesciata in cucina; poi un altro colpo lontano. Il Moro entrò in salotto e chiuse violentemente l’uscio dietro di sè.

— Don Rocco, son qua — diss’egli. — Ha finito anche Lei?

— Ci siamo — pensò il prete, a cui ogni altra cosa che quella presenza uscì di mente.

— Finito, no — rispose — Ma finirò quando sarete andato via. Cosa volete?

Il Moro prese una seggiola, gli sedette in faccia, incrociò le braccia sulla tavola. [p. 247 modifica]

— Faccio una brutta vita, signore — diss’egli. — Una vita da cane e non da cristiano.

A don Rocco, per quanto disposto placidamente al peggio, si allargò il cuore. Egli rispose severo, e con gli occhi bassi:

— Si cambia, figlio, si cambia.

— Son qui apposta, don Rocco — replicò l’altro. — Voglio confessarmi.

— Adesso subito — soggiunse perchè il prete taceva.

Don Rocco battè le palpebre e si contorse alquanto.

— Bene — diss’egli, sempre con gli occhi bassi. — Adesso potremo parlare, ma per la confessione abbiamo tempo. Per la confessione potreste ritornare domani. Ci vuole un poco di preparazione. Bisognerà anche vedere se siete istruito. [p. 248 modifica]

Il Moro tirò con tutta placidità e dolcezza tre quattro cannonate contro Dio in sacramento, come se recitasse un’Ave, per conchiudere che ne sapeva quanto un chierico.

— Ahi, ahi, vedete, vedete — disse don Rocco contorcendosi più che mai. — Si comincia male, figlio caro. Volete confessarvi, e bestemmiate.

— Lei non deve guardare a queste piccolezze — rispose il Moro. — Il Signore Le assicuro io che non ci guarda. È un’abitudine, così, della lingua. Niente altro.

— Brutte abitudini, brutte abitudini — sentenziò l’accigliato don Rocco, guardando nel fazzoletto che si teneva sotto il naso a due mani.

— Insomma, mi confesso — insistette colui. — Taccia, taccia, non dica di no; ne udrà delle belle. [p. 249 modifica]

— Adesso no, assolutamente no — protestò don Rocco, alzandosi. Adesso non siete preparato. Adesso ringrazieremo il Signore e la Madonna che ci hanno toccato il cuore e poi andrete a casa. Domattina verrete alla Santa Messa e dopo la Santa Messa staremo ancora insieme.

— Va bene — rispose il Moro. — Faccia pure.

Don Rocco s’inginocchiò a terra presso un canapè e parve attendere, girando il capo, che colui lo seguisse.

— Faccia, faccia — disse il Moro. — Io ho male a un ginocchio e reciterò le mie orazioni seduto.

— Bene, sedete qui sul sofà, vicino a me che starete meglio, accompagnate le parole col cuore e tenete gli occhi a quel Crocifisso là in faccia. Da bravo, preghiamo il Signore e la Madonna che [p. 250 modifica] vi mantengano in queste buone disposizioni onde abbiate la fortuna di fare una buona confessione. Devoto, da bravo!

Ciò detto, don Rocco incominciò a recitare dei Pater e degli Ave, alzando spesso, devotamente, il suo cipiglio. Il Moro gli rispondeva seduto sul canapè. Pareva lui il confessore e l’altro il penitente.

Finalmente don Rocco si fece il segno della croce e si alzò.

— Adesso segga qui che mi confesso — disse il Moro come nulla fosse. Don Rocco gli diè sulla voce. Non erano già intesi che si sarebbe confessato all’indomani? L’altro faceva il sordo da quest’orecchio, continuava a battere il suo punto con una placidità ostinata. — Finiamola — disse a un tratto. — Stia attento che incomincio.

— Vi dico che non è possibile e che [p. 251 modifica]non voglio — ribattè don Rocco. — Andate a casa vostra, vi dico. Io vado a letto, adesso.

S’incamminò subito; ma il Moro lo prevenne, balzò all’uscio, lo chiuse a chiave e si cacciò la chiave in tasca.

— Nossignore — diss’egli. — Lei non se ne va. Non posso morire stanotte io? Non basta che il Signore mi soffii su, là, così?

Soffiò sul lumicino a petrolio e lo spense.

— E se vado all’inferno — continuò con voce cupa nelle tenebre — ci viene anche Lei, sa!

Il povero prete, a quell’improvvisa violenza, a quel buio, perdette la tramontana, non sapeva più in che mondo si fosse, ripeteva «andiamo, andiamo!» cercando il canapè a tentoni, urtando l’aria con le palme distese. Il Moro si [p. 252 modifica] accese uno zolfanello sul braccio e don Rocco ebbe una visione della tavola, delle seggiole, del suo strano penitente prima che il buio tornasse più nero di prima.

— Ha veduto? — disse colui. — Adesso incomincio; dal peccato più grosso. Sono quindici anni che non vado a confessarmi, pure il peccato più grosso è questo, che ho fatto all’amore con quella brutta figura della Sua serva.

— Corpo di bacco! — fece don Rocco involontariamente.

— Se son pratico della cucina — continuò il Moro — è perchè sarò venuto qua cinquanta volte, la sera, quando Lei non c’era, a mangiare e bere con la Lucia. Lei forse si sarà anche trovato a mancare qualche lira...

— Non so niente, no, non so niente, no — borbottò don Rocco. [p. 253 modifica]

— Qualcuna di quelle poche lirette del suo cassettone, primo cassetto a sinistra in fondo.

Don Rocco mise una sommessa esclamazione di sorpresa e di dolore.

— Per me ho finito di rubare — continuò l’altro — ma quella strega Le porterà via la casa. Brutta donna, don Rocco, brutta donna! Bisogna che ce ne liberiamo. Si ricorda di quella camicia che Le è mancata l’anno scorso? L’ho addosso io e me l’ha data lei. Restituirla non posso, perchè...

— Non fa niente, andate là, non fa niente — interruppe don Rocco. — Ve la dono.

— Ci sarà poi anche qualche bicchiere di vino, ma non l’ho bevuto tutto io. E poi c’è la tabacchiera d’argento con Pio IX.

— Corpo di bacco! — esclamò don [p. 254 modifica] Rocco che credeva avere nel cassettone questa preziosa tabacchiera regalatagli da un vecchio collega. — Anche quella?

— Bevuta, sì signore. Bevuta in quindici giorni. Non si riscaldi che siamo in confessione.

— Cosa c’è?

Un colpo sul portone del cortile. Un gran pugno o una sassata.

— Malviventi — disse il Moro. — Bricconi che girano la notte. — qualche malato, forse. Adesso vado io a vedere.

— Sì, sì — fece don Rocco in fretta.

— Vado e tornerò domani — continuò quegli — perchè vedo che Lei già non ha voglia di confessarmi, stanotte.

Trasse gli zolfanelli e riaccese il lume dicendo:

— Senta, don Rocco. Voglio fare il galantuomo, lavorare; ma dovrò cambiar [p. 255 modifica] paese, e i primi giorni, come si mangia? Mi capisce. Don Rocco si grattò la nuca.

— Domattina venite, già — diss’egli.

— S’intende! Ma avrei anche qualche debituccio qui, e andando in giro di giorno vorrei mostrare la mia faccia senza riguardo a nessuno.

— Bene — fece don Rocco, molto accigliato ma con accento benevolo. — Aspettate.

Prese il lume, uscì dal salotto, e ritornò subito con un biglietto da dieci lire.

— A voi — diss’egli.

Colui ringraziò e partì, accompagnato col lume fino a mezzo il cortile da don Rocco, che aspettò lì fino a quando l’altro, uscito dal portone, gli ebbe gridato che non c’era nessuno. Allora andò a chiudere e rientrò in casa. [p. 256 modifica]

Non potè coricarsi subito. Era troppo agitato. — Corpo di bacco! — ripeteva fra sè. — Corpo di bacco! — Non avrebbe mai saputo immaginare un caso tanto straordinario, e toccava proprio a lui. Si sentiva un testone enorme come quando giuocava a tresette e non capiva il giuoco e tutti lo strapazzavano. Che caos ci aveva dentro di bene e di male, di amarezza e di consolazione! Quanto più la cosa gli pareva straordinaria, con tanto maggior fede, con tanto più trepida riverenza la riferiva alla mano di Dio. A ripensare il suo affacciarsi alla cucina e quell’uomo seduto al focolare, la memoria gli metteva uno sgomento più forte di quello recatogli dalla realtà; e subito vi sottentrava un’ammirazione mistica per le arcane vie del Signore. Certo la colpa della Lucia era amara, ma come si vedeva chiaro il disegno della Provvidenza! [p. 257 modifica] Condurre l’uomo in casa del prete; per il peccato, alla grazia. Che gran dono gli aveva fatto Iddio, a lui, l’ultimo dei preti della parrocchia, uno degli ultimi della diocesi! Un’anima così perduta, così indurata nel male! Gli venne scrupolo d’essersi lasciato rincrescer troppo l’inganno della serva, la perdita della tabacchiera. Inginocchiato al suo letto, recitò, battendo a furia le palpebre, una interminabile serie di Pater, Ave, Gloria, pregò il Signore, S. Luca e S. Rocco che lo aiutassero a diriger bene quella conversione, ancora immatura. Caspita, venire a confessarsi con una fila di moccoli e accusare più gli altri che sè? A don Rocco il cuore del Moro si rappresentò con una similitudine di cui si compiacque, tanto gli parve nuova ed evidente. Un frutto sano con una prima punta di putrefazione; ma tutto questo a rovescio. [p. 258 modifica]

Quando fu a letto e coricato sul fianco per dormire, gli venne in mente che all’indomani sarebbe arrivata la Lucia. Questo pensiero gliene suggerì subito un altro. Si voltò di colpo a giacer supino.

Si trattava in fatti d’un problema grave. Aveva il Moro parlato della Lucia in confessione o no? Don Rocco si ricordò di non aver fatto osservazione alcuna quando colui, spento il lume, aveva dichiarato di volersi confessare, nè poi quando gli aveva detto: «non si riscaldi che siamo in confessione.» Dunque vi era per lo meno un dubbio grave che si trattasse di vera confessione; e se il penitente l’aveva poi interrotta, ciò non poteva togliere affatto il carattere sacramentale, posto che vi fosse stato; e allora? La Lucia? La risposta alla signora Carlotta? Corpo di bacco! Pareva [p. 259 modifica] il caso di Sigismondo. Don Rocco fece alle travi un cipiglio formidabile.

Si ricordava il pereat mundus e gli argomenti di quell’arca di scienza, di quella cima d’uomo del professore. La Lucia non si poteva ora mandar via. Le parole oscure della signora Carlotta gli entrarono finalmente del tutto nel cervello. Doveva andarsene lui: pereat Rochus.

Le ore suonarono all’orologio del campanile. Gli era cara, nella notte, la voce dell’orologio. Il suo ruvido cuore si rammollì un poco e Satana colse il destro di fargli vedere la devota chiesuola con i cipressi attorno, sua, tutta sua, e un certo caro fico sotto il campanile; di fargli sentire la dolcezza delle celle santificate da tante antiche anime pie, la dolcezza di vivere in quella nicchia quieta di S. Luca, così bene adatta all’umile [p. 260 modifica] persona di lui, esercitando il mistero dell’opera e della parola senza brighe mondane, senza responsabilità di anime. Satana gli mostrò pure la difficoltà di trovare un discreto collocamento, gli ricordò i bisogni del vecchio padre, della sorella, poveri contadini, l’uno ormai troppo vecchio e l’altra troppo infermiccia per poter lavorare e guadagnarsi il vitto. Finalmente Satana si fece casista e cercò dimostrargli che senza tradire il segreto, si poteva congedar la serva con un pretesto o anche senza; ma a questo suggerimento di approfittare della confessione, don Rocco fece un cipiglio così spaventevole che il diavolo scappò senz’altro. Tenersi la Lucia dunque, e lasciare che ci pensasse lei a mettersi d’accordo col sacro testo: nemo potest duobos dominis servire. Guardate un po’ come le sante parole venivano a [p. 261 modifica] capello! Don Rocco si studiò di cucire mentalmente insieme gli ultimi periodi del sermone. Era un’impresa troppo faticosa per lui. Ci sarebbe tuttavia riuscito, ma in un passaggio di grande difficoltà cadde addormentato.


III.


Dormì poco e s’alzò all’alba. Prima di scendere si affacciò alla finestra per guardare il tempo. Nel ritirarsi gli cadde sott’occhio l’uscio della cantina. Era aperto.

Don Rocco discese ed entrò in cantina. Ne uscì subito con una faccia straordinaria. Il vino non c’era più. Nè vino nè botte. C’era invece, lì fuori, una traccia fresca di ruote.

Don Rocco la seguì fino alla strada [p. 262 modifica]maestra. Là si perdeva. Non ne restava che un breve arco dall’orlo al mezzo della via, al labirinto di tutte le altre rotaie. Don Rocco non pensò lì per lì d’andare in cerca di qualche autorità per denunciare il fatto. Le idee gli venivano adagio adagio; e forse questa non poteva arrivare prima di mezzogiorno.

Tornò invece, meditabondo, a S. Luca. — Quei colpi! — diss’egli fra sè — quella sassata! Per fortuna il Moro era con me, allora; altrimenti si sarebbe sospettato di lui. — Ritornò alla porta della cantina, ne considerò minutamente l’uscio sconquassato, contemplò il posto della botte e, grattatasi alquanto la nuca, se n’andò in chiesa a dire un po’ d’uffizio. [p. 263 modifica]


IV.


A Messa c’era folla. E prima e poi si fece un gran parlare del furto. Tutti vollero vedere la cantina vuota, l’uscio malconcio, la traccia delle ruote.

Due bottiglie sfuggite ai ladri scomparvero nelle tasche di un fedele. Non si capiva come il prete non si fosse accorto di nulla; poichè lui asseverava, senz’altro spiegazioni, non avere inteso nulla. Le donne lo compiangevano, ma gli uomini, per lo più, ammiravano il colpo e ridevano del povero prete che aveva il torto grave di essere astemio, di non saper stringere con la gente quella fraterna dimestichezza del bicchieretto vuotato assieme.

Ridevano, specialmente durante la [p. 264 modifica] predica, per il cupo cipiglio che volevano attribuire al vuoto della cantina.

Del Moro nessuno parlò, ed egli stesso non comparve in S. Luca nè alla Messa nè poi, onde il povero don Rocco era pieno di scrupoli e di rimorsi, temeva di non essersi saputo regolare a dovere. Vennero invece, sul tardi, i carabinieri, esaminarono tutto, interrogarono il prete. Non aveva sospetti? Nessuno. Vollero sapere ove dormiva. Come mai non aveva udito? Ma! non lo sapeva nemmeno lui; aveva avuto persone in casa. A che ora? Tra le undici e il tocco, circa. Uno dei carabinieri, sorrise malignamente, ma don Rocco, innocente come un bambino, non se ne avvide affatto. L’altro domandò, se non avrebbe sospettato di un certo Moro, sapendo, come loro sapevano, che poco prima delle undici era stato veduto salire a S. Luca. [p. 265 modifica] Allora don Rocco s’infervorò a protestarsi certo dell’innocenza di colui, e, incalzato un poco di domande, mise fuori la sua gran ragione: era appunto il Moro che l’aveva visitato a quell’ora, per affari suoi. — Forse non erano gli affari che Lei ha creduto — disse il carabiniere. — Se sapesse cosa penso io! — Don Rocco non lo sapeva e non cercò neanche, nella sua umile placidità, di saperlo. Non s’impacciava mai, lui, dei pensieri degli altri. Gli bastava la fatica di vederci un po’ chiaro nei propri. Coloro gli fecero ancora alquante domande e se n’andarono portando seco l’unico oggetto trovato in cantina, un cavaturaccioli che lo scrupoloso don Rocco non volle affermare, per difetto di sicura memoria, che gli appartenesse, benchè lo avesse pagato al suo predecessore il doppio del giusto. Adesso la [p. 266 modifica] sua cantina e la sua coscienza erano egualmente pulite.

Verso l’imbrunire di quel giorno don Rocco leggeva l’uffizio passeggiando su e giù nel cortile per fare un po’ di moto senza dilungarsi da casa. Chi sa? Forse poteva ancora venire, colui. Ogni tanto don Rocco si fermava e tendeva l’orecchio. Non udiva che voci di carrettieri giù nella pianura, rumori di ruote, abbaiar di cani. Finalmente ecco un passo nella stradicciuola che scende fra i cipressi; un passo tardo ma non pesante, un passo signorile con un certo strider sommesso di scarpe ecclesiastiche, un passo che ha il suo recondito significato, che esprime, a chi lo sa intendere, uno scopo non urgente ma grave.

Il portello si aperse e don Rocco, fermo in mezzo al cortile, vide comparire il fine viso ironico del professor Marin. [p. 267 modifica]

Il professore, veduto don Rocco, si piantò sulle gambe aperte, e, giunte le mani dietro alla schiena, si diede a dondolar silenziosamente il capo e le spalle a destra e a sinistra sorridendo con un misto indescrivibile di condoglianza e di canzonatura. Il povero don Rocco lo guardava anche lui, taceva anche lui, sorrideva ossequiosamente, rosso come un pomodoro,

— Tutto, che? — disse finalmente il professore, interrompendo la sua mimica e facendosi serio.

— Tutto — rispose don Rocco, sepolcrale. — Non ne han lasciato un sorso.

— Corpo! — esclamò l’altro, soffocando una risata; e si fece avanti.

— Niente niente, sapete, figlio — diss’egli con improvvisa bonarietà. — Datemene una presa. — Niente — [p. 268 modifica]proseguì, fiutato il tabacco. — Cose che si accomodano. La signora Carlotta ne ha fatto tanto del vino, che per lei già, io dico, botte più, botte meno... Mi capite! Una buona donna, figlio, la signora Carlotta; una buona donna.

— Eh buona, buona — brontolò don Rocco guardando nella tabacchiera.

— Siete fortunato, voi, caro — riprese Marin battendogli sulla spalla. — State da papa, qui.

— Mi contento, mi contento — fece don Rocco sorridendo e spianando per un momento le ciglia. Era lieto di udir questo linguaggio da un intimo della signora Carlotta.

Il professore si guardò attorno con una faccia ammirativa, come se vedesse il luogo per la prima volta.

— Un paradiso! — diss’egli, girando gli occhi per le mura sudicie del [p. 269 modifica] cortile. Li levò alla ficaia pittorescamente acquattata sotto il campanile, nell'alto angolo fra il portone e il vecchio convento.

— Solo per quel fico! — soggiunse. — Non è bello? Non dice la poesia d’un mezzogiorno d’inverno, tepido, quieto? E una parola di dolcezza, d’innocenza lieta, che tempera la severità delle mura sante. Bello!

Don Rocco guardava il suo fico come se lo vedesse per la prima volta. Gli voleva bene, ma non ne aveva mai sospettate tante qualità.

— Fa i fichi piccoli — diss’egli con la voce d’un padre che ode lodare il figlio presente, ne gode, e dice qualche parola ruvida perchè quegli non invanisca, per nascondere la propria commozione. Poi invitò il professore a restar servito in casa. [p. 270 modifica]

— No, no, caro — rispose il professore, ridendo silenziosamente dell’uscita sui fichi piccoli. — Facciamo due passi, è meglio.

Attraversarono il cortile adagio adagio, uscirono nel vigneto che accavalla i suoi festoni a’ due declivii del poggio, e presero la facile salita erbosa fra un declivio e l’altro.

— Una delizia — disse il professore. Fra l’immenso cielo freddo e l’umide ombre del piano l’ultima luce moriva dolcemente sull’erbe grigie della collina, sulle viti rubiconde, sciolte nel riposo. L’aria era tiepida e immobile.

— Tutto vostro, qui? — chiese il professore.

Don Rocco, fosse umiltà, fosse apprensione di un imminente avvenire, tacque.

— Sappiateci stare, figliuolo — [p. 271 modifica] continuò l’altro. — Io so, conosco, credetemi; di posti beati come questo non ve n’ha un altro in tutta la diocesi.

— Eh, per me!... — fece don Rocco. Il professore Marin si fermò.

— A proposito! — diss’egli. — La contessa Carlotta mi ha parlato. Caro don Rocco, dico! Spero bene che non faremo sciocchezze, eh!

Don Rocco si guardava trucemente i piedi.

— Diamine! — proseguì l’altro. — Qualche volta è un tomo la Carlotta, ma stavolta, figliuolo caro, ha ragione. Sapete che io parlo schietto. Voi siete solo a non conoscerle queste cose. Uno scandalo, figliuolo. Tutto il paese che grida.

— Non ho mai udito, non ho, — borbottò don Rocco.

— Ma ve lo dico io! E la contessa ve l’ha detto più d’una volta. [p. 272 modifica]

— Saprà cosa le ho risposto iersera?

— Delle belle minchionerie, avete risposto.

A questa legnata don Rocco si scosse un poco, abbaiò ruvidamente, tenendo gli occhi bassi, le proprie difese.

— Ho risposto secondo la mia convinzione, oh bella! e adesso non posso cambiare.

Egli era umile di cuore; ma qui si trattava di giustizia e di verità. Parlare secondo la verità, secondo quello che si crede la verità, è un dovere; dunque, perchè lo tribolavano?

— Non potete cambiare? — fece il professore, piegandosegli addosso e ficcandogli in viso due occhi stralunati. — Non potete cambiare?

Don Rocco tacque. L’altro si drizzò e si ripose in cammino. [p. 273 modifica]

— Va bene — diss’egli con ostentata pacatezza. — Padrone.

Si voltò improvvisamente a don Rocco che lo seguiva mogio mogio.

— Per bacco — esclamò con dispetto — credete proprio avere in casa uno stinco di santa? Non tenete conto, voi, delle chiacchiere che si fanno, dello scandalo? Andar contro il paese, andar contro chi vi mantiene, andar contro il vostro bene, contro la Provvidenza, per quel bel tipo? Davvero che se non vi conoscessi, caro don Rocco, non so cosa penserei.

Don Rocco, si contorceva, batteva furiosamente le palpebre, come se lottasse con angosce segrete, con parole affannose che gli volessero uscire suo malgrado.

— Non posso cambiare, ecco — diss’egli a conclusione delle smorfie. — Non posso. [p. 274 modifica]

— Ma perchè, in nome del cielo?

— Perchè non posso in coscienza. Don Rocco alzò finalmente gli occhi.

— Ho già detto alla signora che contro la giustizia non posso andare.

— Che giustizia? La vostra è orba, caro. Orba, sorda e zuccona. E se avete detto una corbelleria ieri, volete ripeterla anche oggi? E se non credete quel che si dice della Lucia, mancano ragioni di mandar via una serva? Mandatela via perchè non vi leva l’unto del soprabito, perchè non vi rattoppa le calze, che so io! Mandatela via perchè vi fa i maccheroni senza sugo e la zucca senza sale.

— La ragione sarebbe sempre quell’altra — rispose don Rocco, cupo.

Neanche il professore Marin potea facilmente rispondere a un argomento come questo. Potè solo brontolar fra i denti: — che testardo, Maria! [p. 275 modifica]

Arrivarono ai pochi cipressi rachitici che coronano il dorso del poggio in faccia ad un valloncello, a un altro poggio più alto. Là sostarono ancora; e il professore che aveva caro don Rocco per la sua semplice bontà e anche un poco per il vario soggetto che gli forniva di amabili celie, se lo fece sedere a fianco sull’erba, tentò un ultimo assalto, cercò ogni via di strappargli le ragioni per cui durava tanto a credere nell’innocenza della Lucia. Non ci fu verso che venisse a capo di nulla. Don Rocco si riferiva sempre al discorso tenuto la sera prima con la signora Carlotta, ripeteva di non poterlo mutare.

— Allora, addio S. Luca, figliuolo — disse, rassegnato, Marin.

Don Rocco battè molto le palpebre ma non fiatò.

— La contessa Carlotta vi aspettava [p. 276 modifica]

oggi — disse il professore — e voi non ci siete andato. Così ha dato a me l’incarico di dirvi che, se non consentite subito a licenziar la Lucia per il primo dicembre, siete in libertà per l’anno nuovo e anche prima se volete,

— Non potrò partire prima di Natale — disse don Rocco timidamente. — Il parroco ha sempre bisogno d’aiuto in quel tempo.

Il professore sorrise.

— Cosa credete? — diss’egli. — Che la signora Carlotta non abbia un prete bello e pronto? Pensateci che siete ancora in tempo.

Don Rocco si raccolse in sè stesso. Di rado gli accadde far un ragionamento così rapido. Posto che questa donna era causa di scandalo nel paese, che la signora aveva sotto la mano un altro prete, il partito da prendere era ovvio. [p. 277 modifica]

— Allora — rispose — partirò il più presto possibile. Mio padre e mia sorella dovevano venire a trovarmi uno di questi giorni. Così invece andrò io da loro.

C’era nel suo cuore anche l’idea di portar questa donna via del paese. I suoi non avevano bisogno di serva, ed egli, tardando a collocarsi, non avrebbe potuto mantenerla. Ma certe idee ragionevoli, certe necessità delle cose non gli arrivavano mai al cuore e assai tardi in testa, cui allora don Rocco si percoteva subito davanti o si grattava di dietro, come se ne avesse molestia.

Nel discendere a S. Luca il professore raccontò che i carabinieri erano in cerca del Moro, sospettato complice di una recente grassazione, alcuni autori della quale erano caduti, quella mattina stessa, in mano della giustizia. Don [p. 278 modifica] Rocco udì la cosa non senza soddisfazione; si spiegava ora perchè non fosse venuto.

— Chi sa — si arrischiò a dire — che sia andato via, che non ritorni più. Allora ecco che finiscono anche queste chiacchiere. Non Le pare?

— Sì, caro — rispose il professore intendendo la mira del discorso — ma voi conoscete la signora Carlotta. Oramai, che il Moro vada o resti, per lei non rileva. Bisogna licenziare la Lucia.

Don Rocco non parlò più e il professore nemmeno. Il primo accompagnò l’altro fino ai cipressi della chiesa, si fermò a guardargli dietro fino a che scomparve in fondo alla stradicciuola e tornò sospirando a casa.

Più tardi, mentre, curvo sotto il ferraiuolo, attraversava col lume in mano il corridoio che mette al coro di S. Luca, [p. 279 modifica] gli si affacciò con violenza il dubbio della notte precedente. Era proprio stata confessione? Si fermò nell’ombra del corridoio deserto, guardando il lume, lasciando per un momento salire i dolci pensieri tentatori nello spirito inerte. Pigliar un pretesto, licenziar la donna, vivere e morire in pace nel suo S. Luca. A un tratto il cuore incominciò a battergli forte. Eran pensieri che venivan dal diavolo! Come forse nel tempo antico aveva fatto in quello stesso luogo qualche frate tormentato dalle calde visioni notturne dell’amore e del piacere, don Rocco si fece in furia il segno della santa Croce, s’affrettò al coro e s’immerse nella lettura devota del breviario. [p. 280 modifica]


V.


Dieci giorni dopo, alla stessa ora, don Rocco stava in preghiere davanti all’altare della Madonna, sotto il pulpito.

Era alla vigilia di lasciare S. Luca per sempre. S’era accordato con la signora Carlotta di fingere un’assenza breve, una visita di quindici giorni al suo vecchio padre, di scrivere quindi che, per circostanze di famiglia, non sarebbe più ritornato. Era poi successo questo, che il povero vecchio contadino, prima di sapere la novità, aveva scritto chiedendo soccorsi; e don Rocco aveva dovuto vendere qualche po’ di mobili, tanto da risparmiar la spesa del trasporto e da non arrivare a casa a mani vuote. Ci andava con il proposito di [p. 281 modifica] starvi il minor tempo possibile, di andar cappellano dovunque piacesse alla Curia, cui si era raccomandato.

Nè del vino nè dei ladri si sapeva ancora notizie certe: ma si parlava di sospetti a carico di un’ostessa, di una nuova favorita del Moro, la quale avrebbe ricettato il vino. Del Moro si diceva da alcuni che fosse fuggito, da altri che stesse nascosto. Pareva che i carabinieri fossero di questa seconda opinione. Andavano e venivano, frugavano dappertutto, sempre inutilmente.

La Lucia era tornata e aveva tenuto per qualche giorno un contegno insolito e strano. Trascurava il servizio, era aspra col padrone, piangeva senza motivo apparente. Una sera uscì dicendo di voler andare alla parrocchia per le sue devozioni. Alle nove don Rocco vedendo che non tornava, se ne andò [p. 282 modifica] filosoficamente a letto e non seppe mai a che ora avesse rincasato. Si rallegrò bensì il giorno dopo del felice mutamento operato in lei dagli atti religiosi, perchè non pareva più quella, era tranquilla, attenta, premurosa, parlava con soddisfazione della prossima partenza, del collocamento che don Rocco si riprometteva trovarle presso certo arciprete, suo conoscente; una promozione. Aveva poi degli ardori ascetici affatto nuovi. Quando don Rocco si coricava, lei andava in chiesa, vi passava ore ed ore.

E adesso, dunque, don Rocco aveva presa l’ultima cena nel refettorio dei frati, leggeva il breviario per l’ultima volta nella chiesetta di S. Luca, rustica, semplice e devota come lui, dal pavimento alle travi nere del soffitto. Aveva il cuore pesante, povero prete. Partire così dal suo nido, senza onore! Portare umiliazione [p. 283 modifica] e amarezza a suo padre e a sua sorella, di cui era tutta la speranza, tutto l’orgoglio! Aveva ben ragione di fare il cipiglio al breviario.

Quand’ebbe finito di leggere, sedette sul banco. Penava a staccarsi dalla sua chiesa. Era l’ultima sera! stava lì con l’occhio immobile, battendo regolarmente le palpebre, accasciato, cupo come una bestia atterrata che aspetta la scure. Avea passato alcune ore del pomeriggio intorno alle sue viti, a quelle piantate tre anni addietro, che gli avean già dato il primo frutto. I grandi cipressi, la splendida veduta del piano e degli altri colli non gli movevano un solo sogno; il suo cuore di contadino s’inteneriva per le belle viti, per i solchi fertili. Aveva preso, arrossendo e vergognandosi, un tralcio di vite e una pannocchia di granoturco per portarseli via [p. 284 modifica] come ricordi. Era la sua poesia. Della chiesa non poteva portar via niente. Vi lasciava invece il cuore un po’ dappertutto; sull’altare delle sue prime spiegazioni del Vangelo, sulla pala antica che gl’ispirava devozione nel dir la messa, sulla bella Madonna cui era stato rialzato il manto intorno al collo per la sua pudibonda intromissione, sulla tomba d’un vescovo a cui due secoli prima la pace di S. Luca era parsa migliore che gli splendori mondani. Chi sa se avrebbe mai più avuto una chiesa così sua, esclusivamente sua? Non poteva levarsi, si sentiva uno struggimento interno di cui non aveva mai avuto l’idea. Batteva, batteva le palpebre come se battesse via faticose lagrime. In fatto non piangeva, ma i suoi occhietti luccicavano più del solito.

Alle nove e mezzo entrò in chiesa, [p. 285 modifica] dal coro, la Lucia, a veder del padrone. — Vengo subito, vengo subito, andate là — rispose don Rocco.

Egli si credeva solo in chiesa ma rovesciando il capo all’indietro avrebbe potuto vedere qualche cosa di straordinario. Adagio adagio una testa umana si affacciò al pulpito nella fioca luce del lume a petrolio e guardò giù il prete. Erano gli occhi diabolici del Moro in una faccia ecclesiastica tutta rasa. La testa si venne alzando nell’ombra, due lunghe braccia levarono in aria un violento gesto d’impazienza. Nello stesso punto don Rocco ripetè alla donna esitante: andate là, andate là, vengo subito.

Ella uscì.

Allora il prete si alzò dal banco e salì all’altar maggiore. La figura umana del pulpito ridiscese, si nascose rapidamente.

Don Rocco si voltò, stando in cornu [p. 286 modifica] epistolae, ai banchi vuoti, se li figurò pieni di popolo, del suo popolo d’ogni domenica, e uno spirito di eloquenza entrò in lui.

— Vi benedico tutti — diss’egli, forte. — Vorrei che foste presenti, ma non posso, perchè non si deve saper niente. Vi benedico tutti e scusate se ho mancato. Gloria Dei cum omnibus vobis.

La tentazione fu, per qualcuno, troppo forte. Una voce cavernosa risuonò nella chiesa vuota.

Amen.

Don Rocco rimase’ senza fiato, con le mani in aria.

— Si sbrighi — disse la serva, tornando. — Non si ricorda che deve lasciarmi fuori il pastrano e gli abiti?

Il povero don Rocco si trovava assai male in arnese, portava addosso omnia bona sua, e c’era da cucire, da [p. 287 modifica] smacchiare alquanto, diceva la Lucia, per poter mettersi in viaggio l’indomani mattina. Don Rocco discese dall’altare senza rispondere e fece il giro della chiesa, porgendo il lume fra i banchi e i confessionali.

— Cosa c’è? Cosa cerca? — chiedeva ansiosamente la serva venendogli dietro. Don Rocco non rispose per un pezzo.

— Ho fatto due parole di preghiera — diss’egli finalmente — e ho udito rispondere «Amen».

— Avrà creduto — replicò la Lucia. — Si sarà immaginato.

— No no — fece don Rocco. — Ho proprio udito dire Amen». Pareva una voce che venisse di sotterra. Un vocione grosso. Non pareva un uomo. Pareva un bue, come.

— Sarà stato il vescovo — suggerì la donna. — Non c’è sepolto un vescovo, [p. 288 modifica] qui? Si sono udite ancora di queste cose.

Don Rocco tacque. Nella sua semplicità, nella sua innata disposizione alla fede, egli era inclinato a credere volentieri ogni cosa sovrannaturale, specialmente se si collegasse con l’idea religiosa. Più eran grosse, più faceva, in segno di riverenza, scuro il cipiglio, e beveva divotamente.

— Adesso andiamo — ripigliò l’altra. — È tardi, sa, e ho a lavorare un pezzo.

— Recitiamo almeno un Pater, Ave, Gloria a S. Luca — disse don Rocco. — E l’ultima sera che faccio orazione qui. Bisogna lasciar un saluto.

Aveva detto: un Pater, Ave, Gloria; ma ne infilzò almeno una dozzina, trovando altrettante ragioni di salutare altri santi e sante di sua particolare conoscenza. Chi doveva fornire ai due devoti [p. 289 modifica] la salute eterna, chi la salute temporale, chi la grazia di vincere le tentazioni, chi un collocamento ragionevole, chi una buona morte e chi un buon viaggio. L’ultimo Pater fu recitato da don Rocco con singolar fervore, per la conversione piena di un’anima peccatrice. Se il prete fosse stato meno assorto nei suoi Pater, avrebbe forse potuto udire, dopo il quarto il quinto, qualche sommessa giaculatoria di quel tal vescovo umorista dell’Amen. Ma egli udì solo la Lucia rispondergli con molta compunzione e ne fu tocco nel cuore.

Pochi minuti dopo meditava ancora, al buio, nel povero lettuccio della sua cella, sul contegno della Lucia, sul suo turbamento dei primi giorni quando certo una grossa battaglia si combatteva nell’animo di lei, sui salutari, evidenti effetti della grazia divina che aveva cercato nei [p. 290 modifica] sacramenti. Meditò anche sull’atto del Moro, sul raggio balenato in quella coscienza tenebrosa, foriero, se non altro, di una luce migliore e durevole. E vide, nella sua mistica immaginazione, le fila della Provvidenza che lo compensava di un sagrificio sostenuto per il dovere. Era una beatitudine di pensare a questo, di sapere che perdeva tutte le sue poche comodità terrene per un premio così. Offerse anche il dolore di suo padre e di sua sorella, l’umiliazione sua propria, le strettezze in cui si sarebbe trovato. Vedeva in faccia al letto, per la finestra, il vago, lontano chiarore del cielo, sua speranza, suo fine. Gli si chiusero a poco a poco gli occhi, in una soave sensazione di fiducia e di pace. Si addormentò profondamente. [p. 291 modifica]


VI.


Non era ancora ben desto quando l’orologio di S. Luca suonò le sette e mezzo. Subito dopo suonarono anche le campane poichè don Rocco aveva, il giorno innanzi, avvertito il ragazzo solito a servirgli la messa, che l’avrebbe detta verso le otto. Balzò dal letto e andò a prendersi gli abiti che la Lucia gli doveva aver posti fuori dell’uscio. Niente. Chiamò una, due, tre volte. Nessuno rispose. Tornò perplesso in stanza e chiamò dalla finestra: Lucia! Lucia! Silenzio perfetto. Finalmente comparve il piccolo sagrestano. Non aveva veduto la Lucia. Era venuto a prender le chiavi della chiesa, aveva trovato aperto il portello del cortile, aperto l’uscio di casa; nessuno in [p. 292 modifica]cucina, nessuno in salotto. Non rinvenendo le chiavi era entrato in chiesa per il corridoio interno. Don Rocco lo mandò in salotto a pigliargli gli abiti, poichè era lì che la Lucia soleva lavorare di sera. Il ragazzo tornò a riferire che non c’erano abiti. Come non ci sono abiti? Don Rocco gli ordina di far la guardia davanti all’uscio di casa e scende a cercarli egli stesso, in camicia. A mezza scala si ferma e fiuta. Che abbominevole odor di pipa è questo? Don Rocco, molto buio in fronte, procede. Va diritto in salotto, cerca, fruga; niente. Torna in cucina con un certo battito di cuore. Puzzo orrendo, ma niente abiti. Sì, sotto la tavola v’è un mucchietto di roba sucida; una giacca, un paio di calzoni, un cappello da contadino. Don Rocco raccoglie, spiega, esamina col cipiglio più minaccioso. Gli parve averla veduta [p. 293 modifica]ancora, quella roba. Il suo cervello non capisce ancora niente ma il cuore comincia a capire e batte più forte di prima. Egli si prende il mento e le guancie con la sinistra, stringe, stringe, cerca spremersi fuori il dove, il come, il quando. Ed ecco che gli occhi suoi fermi sulla parete si accorgono finalmente di qualche cosa che il giorno prima non v’era. Vi stava scritto col carbone, a destra: «Tanti saluti». E a sinistra:

«Buono il vino
«Buona la serva
«Buono il gabano
«E buono don Rocho».

Lesse, si recò la mano alla nuca, rilesse, gli parve di smarrir la vista, sentì un freddo, un torpore diffonderglisi dal petto a tutta la persona. Qualcuno gridò [p. 294 modifica]nel cortile: «dov’è questo don Rocco?» Egli risalì a fatica nella sua camera, si pose a letto senza quasi sapere che si facesse, senza pensiero, quasi, nè senso.

Abbasso lo cercavano, lo chiamavano. C’era il professore Marin e poche altre persone, venute per la messa. Nessuno capiva come la porta della chiesa fosse tuttavia chiusa. Il professore entrò in casa, chiamò la Lucia, chiamò don Rocco senza che anima viva gli rispondesse. Capitò finalmente in camera del prete e si fermò sulla soglia, sbalordito di vederlo a letto.

— Ohe! — diss’egli. — Don Rocco! A letto? E la messa?

— Non posso — rispose sotto voce don Rocco, supino, immobile come una mummia.

— Ma cosa? — replicò l’altro [p. 295 modifica]accostandosi al letto con sincero sgomento. — Che avete?

Quel viso turbato, quell’accento affettuoso ammollirono al povero don Rocco il cuore pietrificato dal dolore e dalla sorpresa. Stavolta dalle palpebre inquiete spicciarono due vere lagrime. La bocca serrata si torceva, tremava, ma resisteva ancora. Vedendo che non rispondeva parola, il professore corse alla scala, gridò giù d’andar a chiamare il medico.

— No, no — si sforzò a dire don Rocco, senza muoversi. La voce era soffocata dai singhiozzi. Lo udì solo il professore tornando al letto.

— No? — diss’egli. — Ma cos’avete, dunque? Parlate!

Intanto tre donnicciuole e un vecchio accattone ch’eran venuti per udire la messa, entrarono spaventati in camera circondando il letto, interrogando don [p. 296 modifica]Rocco alla loro volta. Egli taceva come il santo Giobbe, cercando padroneggiarsi. Forse la seccatura di tutte quelle faccie curiose, pendenti sopra la sua, lo aiutò.

— Andate — diss’egli, finalmente, agli ultimi venuti. — Non occorre medico, non occorre niente, andate!

Le quattro faccie si ritirarono alquanto, ma guardandolo sempre fisso con una espressione forse di accresciuto sgomento.

— Andate, vi dico! — replicò don Rocco.

Uscirono piano e si fermarono fuori ad origliare, a spiare.

— Dunque? — fece il professore. — Cosa vi sentite?

— Niente.

— E perchè state a letto, allora?

Don Rocco si voltò con la faccia al muro. Le lagrime tornavano, adesso. Non poteva parlare. [p. 297 modifica]

— Ma in nome del cielo — insistè il professore — cosa c’è?

— Mi passa, mi passa — singhiozzò don Rocco.

Il professore non sapeva che fare nè che pensare. Gli chiese se volesse acqua e il vecchio accattone scese tosto a pigliarne un bicchiere, lo porse al Marin. Don Rocco non ne aveva la menoma voglia, ma ripeteva: «grazie, grazie, mi passa» e bevve ossequiosamente.

— Dunque? — domandò ancora il professore.

— Aveva ragione Lei — rispose don Rocco.

— Di cosa?

— Della femmina.

— La Lucia? Bravo, a proposito; dov’è la Lucia? Non c’è? Scappata?

Don Rocco accennò di sì. Il Marin guardava stupefatto, ripeteva [p. 298 modifica]«Scappata? Scappata?» I quattro tornarono in camera, fecero eco. «Scappata? Scappata?»

— Ma sentite — disse il professore. — State a letto per questo, voi? Volete avvilirvi così? Via, vestitevi!

Don Rocco lo guardò, diventò rosso fino al sommo del cranio, e strinse gli occhietti umidi in un sorriso che significava: adesso riderà, Lei!

— Non ho abiti — diss’egli.

— Cosa?

Il professore aggiunse alle parole un gesto per dire: «Li ha portati via lei?» Don Rocco rispose pure con un cenno muto del capo; e, veduto che l’altro frenava a stento uno scoppio di riso, si sforzò di sorridere anche lui.

— Povero don Rocco — disse il professore, e aggiunse, sempre col riso alla gola, parole afflitte, parole di pietà, di [p. 299 modifica]conforto, chiese ogni ragguaglio dell’accaduto. — Ah se mi aveste dato retta!... — concluse. — Se l’aveste mandata via!

— Sì — fece don Rocco, pigliandosi mansuetamente anche questa. — Aveva ragione Lei. E adesso, cosa dirà la signora?

Il professore sospirò.

— Cosa volete che dica, figliuolo? Non dirà niente. Accade anche questo che il vostro successore ha scritto ieri di essersi sciolto definitivamente dagl’impegni suoi attuali e di trovarsi a disposizione della contessa.

Don Rocco tacque, accorato.

— Guardo — diss’egli, dopo un istante di silenzio — che alle nove e mezzo saranno qui col cavallo a prendermi! Bisognerebbe che l’arciprete o il cappellano potessero prestarmi un abito. [p. 300 modifica]

— Io, io! — esclamò il professore, pieno di zelo. — Vado a casa e ve lo mando subito. Me lo restituirete con comodo, quando potrete.

Una viva gratitudine colorò il viso e agitò le palpebre di don Rocco.

— Grazie! — diss’egli guardandosi umilmente il naso. — Grazie tante!

— Corpo di bacco! — soggiunse fra sè, mentre il professore scendeva le scale. — È una spanna più alto di me. Adesso mi viene in mente!

Ma non gli venne certo in mente di richiamarlo.


VII.


Alle nove e mezzo don Rocco apparve sulla porta di casa per fare il suo esodo. Il soprabito del professore gli ballava sulle calcagna e gl’inghiottiva [p. 301 modifica]le mani, sino alla punta delle dita. Il cappello a cilindro, enorme, gl’inghiottiva gli orecchi.

Il professore gli veniva alle spalle ridendo silenziosamente. Nel cortile parecchia gente corsa al rumore dell’accaduto, rideva. Solo non rideva il vecchio accattone, bizzarro uomo, mezzo filosofo.

— Oh don Rocco, cosa pare! — dicevano le donne. E chi gli raccontava un fatto della Lucia, chi un altro, cose d’ogni colore ch’egli non aveva sospettate mai.

— Basta, basta — rispondeva lui, turbato nella coscienza di questo sparlare. — Oramai è fatta, oramai è fatta.

Si avviò seguito da tutti, diede un’ultima occhiata al fico del campanile e, passando fra i cipressi di fronte alla chiesa, si voltò alla porta, si levò divotamente il cappello e piegò un ginocchio. [p. 302 modifica]

La carrettella lo attendeva sulla strada maestra. Il vetturale, vedutolo in quell’arnese, non rise meno degli altri.

Allora don Rocco si congedò da tutti, ringraziò nuovamente il professore, mandò a riverire la contessa, fece tacere quelli che dicevano ancora improperi alla Lucia. Quando fu a posto, l’accattone gli si avvicinò, gli mise la mano destra sopra una scarpa.

— Questa è sua? — diss’egli.

— Sì sì, le scarpe sì — rispose il prete con una certa soddisfazione mentre il cavalluccio partiva.

L’accattone si recò alla fronte la mano che aveva toccato la scarpa di don Rocco e disse solennemente:

In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.