Giacomo Leopardi/XII. 1820: Canzone al Mai

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XII. 1820: Canzone al Mai

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XII

1820


CANZONE AL MAI

Il dualismo si accentua in questo anno. La malattia continua, e con essa il suo torpore. Il 20 marzo scrive a Giordani:

Mi domandi che cosa io pensi e che scriva. Ma io da gran tempo non penso né scrivo né leggo cosa veruna per l’ostinata imbecillità de’ nervi degli occhi e della testa: e forse non lascerò altro che gli schizzi delle opere ch’io vo meditando.

La maggior trafittura era il non poter studiare.

Non m’accorgerei, certamente non sentirei tutta la nullità umana se potessi ancora trattenermi negli studi. Non ho mai trovata sorgente più durevole e certa di distrazione e dimenticanza, né illusione meno passeggera.

Così dice a Giordani il 14 gennaio; e il 7 aprile dice a Pietro Brighenti di Bologna, un amico di casa:

Son risoluto sacrificare l’ingegno all’immutabile ed eterna scelleratezza della fortuna, col seppellirmi sempre più nell’orribile nulla, nel quale son vissuto fino ad ora... Non pensi più a me se non come all’uomo il più disperato che si trovi in questa terra, e che non è lontano altro che un punto dal sottrarsi per sempre alla perpetua infelicità di questa mia maledetta vita.
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Viene la primavera, e gli par di rinascere. Ma lasciamo parlar lui:
Poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro, un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo.

Questo è un piccolo capolavoro. Quelle certe immagini antiche, che gli si svegliano non chiare e tutte, ma così in confuso come dopo un sogno, e quasi le andasse cercando, quella voce della natura, quel domandarle misericordia, e quel cielo puro e il bel raggio di luna, e l’aria tepida e l’abbaiare lontano dei cani, cose non descritte, perché sono una azione immediata della natura, queste non sono invenzioni poetiche, ma fenomeni dell’anima, vivi nella memoria, e riprodotti in modo immediato e semplice, fenomeni di quel novo spiracolo di vita che gli apriva la primavera.

Ma fu un sollievo momentaneo, un gemito o un sospiro in mezzo a quel torpore, che gli rendeva più acuto il sentimento del suo stato ordinario.

E in quel momento dando uno sguardo alla mia condizione passata, alla quale era certo di ritornare subito dopo, com’è seguito, m’agghiacciai dallo spavento, non arrivando a comprendere come si possa tollerare la vita senza illusioni e affetti vivi, e senza immaginazione ed entusiasmo.

Eccolo dunque ricascato nel suo sopore.

Ora sono stecchito e inaridito come una canna secca, e nessuna passione trova più l’entrata di questa povera anima, e la stessa potenza eterna e sovrana dell’amore è annullata a rispetto mio nell’etá in cui mi trovo.
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È lo stesso uomo della Vita solitaria:
    Amore, amore, assai lungi volasti
Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno.

Una volta su questa via, ritornano quelle sue opinioni, e in una forma più precisa, a modo di formole o sentenze o assiomi, come: i piaceri ed i dolori umani sono meri inganni — il travaglio che deriva dalla certezza della nullità delle cose è sempre e solamente giusto e vero — tutto è nulla — la felicità umana non è riposta nello accrescimento della ragione e nella cognizione del vero — non c’è altro vero che il nulla.

Non sono più sentimenti erranti e contraddetti nei buoni momenti della vita; sono già un formolario stampato nel cervello.

Questa lettera a Giordani è un testamento. E in verità, se il nulla è solamente vero, e se la vita è inganno o illusione, non resta che morire:

E rifugio non resta altro che il ferro.

Ma quando la natura misericordiosa gli concede qualche sollievo, questa vita che non vai nulla e ch’egli dispregia e vuol troncare, ripiglia il suo valore. E quantunque l’intelletto si ostini a crederla un’illusione, pure l’illusione opera nel suo capo come fosse realtà.

Egli ama, si sdegna, si addolora, spera e teme; anzi, perché quella vita esteriore di Recanati è a lui senza sapore e senza attrattiva, tanto è più operativa quella sua vita intima concentrata e condensata, e la sente con l’ingenuità di un fanciullo e il desiderio di un giovane fino nei più tardi anni. Appunto perché la sente a varii intervalli, e l’energia del sentimento non è logorata dall’abitudine, ciascuna volta è un sentimento nuovo, venuto da ispirazione immediata, e comunica alle sue poesie anche ultime una freschezza giovanile.

Eppure, così potente vita, con tanta realtà di sentimento, [p. 113 modifica]sarebbe un’illusione! La contraddizione è così manifesta, che l’intelletto ci sofistica sopra e cerca scappatoia. Il 30 giugno di questo anno si crede guarito, e nel suo nuovo sentimento della vita scrive a Giordani:

Io ritorno fanciullo, e considero che l’amore sia la più bella cosa della terra, e mi pasco di vane immagini... Io non tengo le illusioni per mere vanità, ma per cose in certo modo sostanziali, giacché non sono capricci particolari di questo o di quello, ma naturali e ingenite essenzialmente in ciascheduno; e compongono tutta la nostra vita.

Ecco dunque. La vita non è più una illusione, ma è cosa in certo modo sostanziale, perché ingenita in ciascun uomo. Il giovane cerca una conciliazione tra il cuore che sente e ama la vita, e l’intelletto che proclama il nulla. Una conciliazione sofistica e provvisoria, un sofisma del cuore e che dura quanto il cuore dura.

Così, da una parte le sue idee sul nulla si fortificano, si estendono, diventano l’alfa di ogni suo discorso. Il solo nulla è vero; tutto l’altro è falso: «credo che tutto sia falso in questo mondo, anche la virtù, anche la facoltà sensitiva, anche l’amore». Ma d’altra parte la vita ha pure il suo valore, ed in certo modo sostanziale: «il mondo senza entusiasmo, senza magnanimità di pensieri, senza nobiltà di azioni, è cosa piuttosto morta che viva», vale a dire che la virtù non è falsa, anzi è nel mondo la condizione della vita. Senza la virtù, la società è un «corpo morto, appestata dall’egoismo distruttore di tutto il bello e di tutto il grande». Sicché i tristi sono i meno felici, perché «le grandi e splendide illusioni non appartengono a questa gente» e «ristretti alla verità e nudità delle cose, che altro si deggiono aspettare se non tedio infinito ed eterno?». Anche la speranza risuscita.

Questo mondo è un nulla, e tutto il bene consiste nelle care illusioni. La speranza è una delle più belle; e la misericordia della natura ce ne ha forniti in modo, che difficilmente possiamo perderla. A me resta solamente per forza di natura. Secondo la ragione dovrei mancarne affatto.
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Le due serie d’idee e di sentimenti che coesistono nel suo spirito acquistano dunque maggior ricchezza e maggior precisione. Tra questa doppia serie si stende la sua poesia con molta varietà di gradazioni, secondo il suo umore, ovvero il suo stato d’animo. Ora prevale l’una, ora l’altra. Ma ci è sempre e l’una e l’altra. Ci è la vita nel suo «verde», lieta di speranze e di fantasmi. C’è tutta la vita. La ragione non può uccidere il sentimento, e il sentimento non può cacciare la ragione. L’entusiasmo è pregno di scetticismo, e lo scetticismo ha in sé il calore dell’entusiasmo.

Quelli dunque che gridano Leopardi poeta del nulla, errano. Sono poeti del nulla quelli che lo amano e gustano la sua voluttà, perché anche il nulla ha le sue voluttà, come l’assenzio o l’oppio. È la voluttà della morte, il «cupio mori», il «piegare addormentato il volto nel suo vergineo seno», l’ultimo sorriso dell’uomo stanco, che ha in orrore la vita e la disprezza. Questo c’è, ma è appena un episodio in questa poetica rappresentazione del mondo. Il più spesso Leopardi aborre il nulla, e aborre perfino il pensiero, la ragione, la scienza che glielo impongono. E ama e pregia e desidera la vita, di cui non si sente stanco, ma privo; e se la rappresenta coi più ricchi colori dell’immaginazione, e le corre appresso co’ più impazienti moti del desiderio.

Odia il vero e ama le illusioni, «le care illusioni», ed è perciò non solo poeta, ma uomo, ha viscere umane e commove profondamente ogni cuore di uomo.

Questo era l’anno che dilatavasi sempre più l’ardore patriottico nelle classi intelligenti, e per mezzo de’ carbonari si comunicava a’ più piccoli borghi. La Spagna dava l’esempio all’Italia, e l’incendio avvampando divenne la rivoluzione del Venti e del Ventuno. Leopardi era in corrispondenza con Montani, che, avute le sue prime canzoni, augurava in lui il futuro poeta della libertà. E anche Giordani in lui vagheggiava il perfetto scrittore italiano, che dovea guadagnare alla libertà soprattutto l’aristocrazia. Questi i disegni sul giovine, che, affranto dal male e dalla solitudine, sul finire del 1819 scriveva a Giordani: «Amami tranquillamente come non destinato a veruna cosa, anzi certo d’esser [p. 115 modifica]già vissuto». Ma non bisogna prendere alla lettera queste e simili frasi, che ritornano spesso nella sua corrispondenza. Il cuore rimaneva giovine, e batteva ad ogni nuova impressione. Era nel suo petto una fonte inesausta d’amore e di poesia, che traboccava al minimo tocco della cortese natura. Quel lamentarsi continuo di non esser più buono a nulla era il sospiro di una vocazione che gli fuggiva dinanzi, ma di cui si sentiva ancora la forza al di dentro. In mezzo al suo abbattimento gli usciva dal petto commosso quel grido: — Sarò io mai qualche cosa di grande? — Nel suo segreto non si sentiva al di sotto de’ più grandi. La sventura gli poteva togliere la speranza, non il desiderio della gloria, e non la coscienza del suo valore. Perciò, non potendo studiare, faceva progetti e schizzi, poetava, meditava, pur dicendo di aver vissuto. La noia che sentiva in sì alto grado era il sentimento della sua esistenza vacua e insieme la coscienza di tante sue forze che rimanevano vane. Indi i continui abbattimenti e risorgimenti. La lotta ch’è nella sua poesia, era nella sua vita.

Il 17 dicembre 1819 scriveva a Giordani che non era destinato a veruna cosa; e chiama la sua anima «assiderata e abbrividita», e assicura di esser già vissuto. E il io gennaio del 1820 scrive una lettera al Mai con un giovanile entusiasmo. Mentiva allora, o mentisce adesso? Niente affatto. Sincero l’una e l’altra volta. Gl’ignoranti parlano de’ misteri dell’anima; ma l’anima non è un mistero se non a quelli che non la sanno esplorare. Erano queste contraddizioni naturalissime.

Monti, Giordani e Mai erano a Leopardi una triade, che gli rappresentava l’eccellenza nella coltura italiana. Seguiva il Mai passo a passo, e ciascuna sua scoperta aveva il suo riscontro nel giovane, che vi aggiungeva illustrazioni, commenti, emendazioni. In questi giorni si sparse in Europa il grido di una nuova scoperta anche più maravigliosa. Non si trattava di Frontone, o di Dionigi di Alicarnasso, o di altri minori. Si trattava nientemeno di Cicerone. Il Mai aveva ritrovata la sua opera De Republica, e l’andava pubblicando allora in Roma.

Il fatto parve una meraviglia «da risvegliare i più sonnacchiosi e deboli»; e anche il giovane, ancorché la sua salute fosse [p. 116 modifica]«intieramente disfatta» da non potere «fissar la mente in qualunque pensiero», si sentì «stimolare dal desiderio di non restar negligente in un successo così felice». Il 17 dicembre si dice «già vissuto». Il 10 gennaio, percosso di maraviglia, sente in sé rivivere gli antichi spiriti, e vuole scrivere un libro su tutte le scoperte del Mai, e gli chiede le bozze della nuova opera, e ricorda i tempi dei Petrarca e dei Poggi, «quando ogni giorno era illustrato da una nuova scoperta classica, e la maraviglia e la gioia de’ letterati non trovava riposo». Tutto questo è quella lettera che il 10 gennaio, su quel primo calore, scrisse al Mai.

Ma il Mai non gli mandò le bozze, e di quel suo disegno non ne fu niente. La salute disfatta non gli consentiva lavori lunghi e pazienti, come quello sulla Cronaca di Eusebio. Ma gli consentiva a rari intervalli schizzi e versi. E in uno di questi intervalli quell’entusiasmo di erudito, acceso ancora più da quella esaltazione patriottica che in quell’anno guadagnava tutti, ebbe il suo sfogo nella canzone Ad Angelo Mai.

Canzone straordinaria, se mai ce ne fu; perché, se nella parte tecnica poco si discosta dalle altre scritte innanzi, per ricchezza e novità di contenuto soprastà a quelle di molto. Prima c’era l’artista, già maestro di stile; ora c’è anche il poeta, c’è lui. L’introduzione è una magnifica sinfonia romorosa, a piena orchestra, tre strofe, dove si vede che i suoi malanni niente hanno tolto alla freschezza dell’immaginazione e al calore del sentimento. Rivediamo il giovine nel brio dei suoi venti anni, quando faceva la canzone All’Italia. La scoperta del Mai nella sua immaginazione è la voce antica dei padri, «muta sì lunga etade», che ora viene sì forte e sì frequente ai nostri orecchi, ora, perché questa o nessun’altra è l’ora da ripor mano alla virtù rugginosa degl’italiani. Ci si sente il poeta del 1820. La scoperta di un erudito è il clamore dei sepolti, è il suolo che dischiude gli eroi dimenticati:

I martiri nostri son tutti risorti.

L’entusiasmo del poeta si trasforma in vivo sdegno, quando gitta l’occhio sull’Italia presente. Quello sdegno non è che lo [p. 117 modifica]stesso entusiasmo in una forma negativa. Vede negata nell’età presente tutta la grandezza e la gloria del passato, e il paragone accresce lo sdegno:

                                                            Anime prodi,
Ai tetti vostri inonorata, immonda
Plebe successe; al vostro sangue è scherno
E d’opra e di parola
Ogni valor; di vostre eterne lodi
Né rossor più né invidia; ozio circonda
I monumenti vostri...

Quest’ultima frase è gigantesca: è la piramide nel deserto. Sono tre strofe in versi magnifici, che contengono il luogo comune della canzone, avviluppato nel classico paludamento, non senza qualche frase convenzionale, com’è il «ripor mano» alla virtù dell’itala natura.

Il luogo comune è la solita esortazione agl’italiani in nome de’ maggiori, e le glorie del passato e le vergogne del presente. E il luogo comune in tre strofe è giá esaurito, e se la canzone persistesse in questa via, sarebbe una rifrittura rettorica, un ricamo più o meno elegante di un luogo comune.

Ma quell’entusiasmo veniva a cadere nella mente di un giovine che aveva già le sue idee sul mondo, generate da sentimenti che facevano parte della sua natura. E anche nella maggiore esaltazione quelle idee e quei sentimenti restano. Certo, non è un bel modo d’incoraggiare gl’italiani dir loro che l’amore della patria e della gloria e la stessa virtù è una illusione, che tutto è nulla, che il solo dolore è vero. Allora, perché affannarsi dietro ai maggiori, uomini illusi? Perché vergognarsi? Questo fa a pugni con la logica, e se la logica fosse norma direttiva dell’arte, la canzone sarebbe sconclusionata e contraddittoria come il mostro oraziano. Ma l’arte non ubbidisce alla logica astratta, come non vi ubbidisce la vita; e spesso ciò che è più maraviglioso nella storia e nell’arte, si allontana più dalla logica. L’arte ha una logica sua che prende i suoi criterii non dal solo intelletto, ma da tutta l’anima, come è in un dato momento; e perciò l’arte è vita e non è un concetto. La contraddizione che ripugna [p. 118 modifica]all’intelletto, è il fenomeno più interessante del cuore umano; è la parte più poetica nella storia delle passioni e delle immaginazioni umane. Qui ci è la stessa contraddizione che era nell’anima del poeta; e se contraddizione non ci fosse, avremmo una freddura rettorica estranea all’anima, in forma convenzionale. La logica nel senso comune è la coerenza delle idee, la corrispondenza dei mezzi col fine; la logica dell’arte è la coerenza di linguaggio e di condotta nel giuoco combinato di tutte le forze vitali, quando e come operano in un dato momento dell’esistenza, idee, immaginazioni, sentimenti, passioni; stato fisico, morale, intellettuale. È la logica di Dante e di Shakespeare, i poeti più illogici perché i più veri, i più addentro nei secreti della natura e della storia. Dico così, perché spesso nel giudicare dell’arte noi vi introduciamo criterii intellettuali e morali, che le sono estranei.

Che Leopardi senta entusiasmo alla scoperta del Mai e in quell’incendio patriottico che divampa in Italia, questo è nella sua natura, nei suoi studi, nella sua educazione, nel suo cuore e nella sua immaginazione: forze in lui sempre intatte, sempre giovani. Ma che l’entusiasmo gli rifaccia il cervello, proprio allora che nel cervello si affacciava un nuovo aspetto del mondo, questo è contro natura. Anzi, a lui non par vero di poter gittare in mezzo a quell’entusiasmo quelle sue idee scettiche, così come allora gli fermentavano nel cervello. E n’è nata una canzone originalissima, che poco resiste al ragionamento, ma che nella sua contraddizione è la potente rivelazione di una nuova poesia. In verità, se crede che tutto è vanità, perché incitare gl’italiani a correre appresso alle larve? E se spera che si riscuotano al novo grido dei padri, come può affermare in modo così assoluto che il male non ha rimedio, perché non è nella volontà degli uomini, ma nella natura delle cose? Crede e non crede, spera e non spera. Il suo entusiasmo contiene in sé il suo scetticismo. In questa doppia faccia, in questo Giano leopardiano è a cercare la logica della poesia.

La scoperta del Mai e l’esortazione agl’italiani non è che un semplice motivo occasionale, è il luogo comune. La poesia [p. 119 modifica]nel suo contenuto è la rappresentazione di ciò che nobile e bello gli appare nel passato, sentito con simpatia e calore e desiderio giovanile. Ma il passato non gli si può presentare se non unito alla vergogna presente; in quell’entusiasmo penetra una nuova serie di sentimenti, sdegno, dolore, disprezzo, ironia. Il suo nullismo, divenutogli abituale, quasi una idea fissa, tinge tutta questa rappresentazione di un colore oscuro e quasi funebre, come di esequie, le esequie di quel bello e nobile passato, che non torna più. L’impressione generale è il desiderio che ti si accende nel petto di quella nobile patria, e il desiderio è prima nel poeta, che maledice il vero, e si stringe affannosamente alle care illusioni.

Eccoci innanzi Atene e Roma. Quei popoli erano felici, perché natura parlava a loro velata, ed essi prendevano quel velo per la natura essa medesima:

I vetusti divini, a cui natura
Parlò senza svelarsi, onde i riposi
Magnanimi allegràr d’Atene e Roma.

Vuol dire che la natura non si era svelata nella sua verità e nudità, e compariva vestita di tutte le sue illusioni, ch’erano il suo velo ingannevole. La frase è troppo rapida nella sua profondità; è un pensiero che balena e che sarà più tardi la base di un’altra canzone.

A questa serenità dell’arte e della vita succede il dolore:

               Ahi dal dolor comincia e nasce
L’italo canto.

Pure, il dolore rivela una fede ancora robusta nelle illusioni; la vita aveva ancora i suoi ideali; perciò non ozio e non noia:

               .   .   .   anco sdegnosi
Eravam d’ozio turpe, e l’aura a volo
Più faville rapía da questo suolo.
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Il piangere del Petrarca era vita, credeva all’amore. Beato lui,
A cui fu vita il pianto!

Colombo scoperse ignota immensa terra. Più la scienza conosce il mondo, e più il mondo s’impiccolisce, sottratto a’ sogni leggiadri e alla lente d’ingrandimento della immaginazione.

                    A noi ti vieta
Il vero appena è giunto,
O caro immaginar...

Ariosto era il poeta dell’immaginazione. La vita si componeva di mille vane amenità. Spogliato il verde alle cose, che resta?

                                        Il certo e solo
Veder che tutto è vano altro che il duolo.

Anche Torquato ebbe le sue illusioni, e le perdette tutte; amore, ultimo inganno di nostra vita, lo abbandonò. E allora il mondo gli parve un deserto, e il nulla ombra reale e salda. Il mondo voleva dargli la ghirlanda, ed egli domandava la morte.

Oggi è peggio ancora. Il grande e il raro ha nome di follia; i sommi non sono invidiati, sono non curati; più de’ carmi si ascolta il computare. Codarda età, dov’è un miracolo che sia potuto nascere Alfieri;

    .    .    e nullo il seguì, ché l’ozio e il brutto
Silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto.

Un risetto ironico è la chiusura, con una ripigliata un po’ stanca di esortazione agl’italiani in forma scettica:

Questo secol di fango o vita agogni
E sorga ad atti illustri, o si vergogni.
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Questa poesia è il contrapposto del Sogno. Là è la voce di oltre tomba, la voce del vero, entro cui apparisce fugace l’illusione, l’amore ad una morta. Qui è il risveglio della vita, un’ammirazione entusiastica de’ nostri maggiori, entro la quale apparisce il vero, non col ghigno di Mefístofele, che se ne rallegra, lui, nemico dell’uomo, ma con sentimento d’uomo, che se ne addolora. Questa apparizione scettica poco può incontro ad una ammirazione tradizionale degli antichi, fortificata dagli studi, e legata co’ sogni e gli amori della giovinezza. Perciò quella voce del vero esce fuori in sentenze ben tornite, come: — il nulla immoto presso la culla e su la tomba — , e il — tutto è vano altro che il duolo — , e — il vero che ci vieta il caro immaginare — : espressione di un pensiero maturato nel cervello, giá formolato, e impaziente di venir fuori alla prima occasione in quella forma astratta e generale. Ma invano vi cerchi la forma del sentimento, quella forma paurosa, dantesca, omicida, che distrugge per sempre ogni illusione, quella forma ch’egli ha trovata nel Sogno. Qui è lo sfondo del quadro, non è il quadro. Il sentimento è altrove. È in quella splendida evocazione di ombre illustri, che domina la sua immaginazione, e gli fa battere il cuore, e lo rapisce in ammirazione. Questo è il quadro; l’altro è un color fosco che attenua quelle tinte brillanti, e fa da chiaroscuro, e ti rende pensoso.

I contemporanei, usi i più a fermarsi nelle frasi, ammirarono nella canzone la splendida forma classica, e la posero in un fascio con le altre due. I letterati ci trovarono un’aria troppo dotta. Quel po’ di erudizione intorno alla terra e a’ sogni leggiadri parve soverchia. L’intonazione piacque a’ patriotti, e quell’Alfieri che sulla scena mosse guerra a’ tiranni, fece il giro d’Italia. Quella strana guardatura del mondo così afflittiva parve ubbìa di egra immaginazione, o mezzo artificioso di rilievo, e nessuno ci badò più che tanto. Nessuno vide la serietà e la profondità di quelle ubbìe, e quanta elaborazione e che dolori ci stavano sotto. Nessuno presentì entro a quelle un nuovo germe dell’arte.

La canzone è un primo poema del mondo, così com’è visto dal giovine. È come una filosofia della storia, dove tutto è coordinato, come in uno schema. Ha perciò un carattere generale, [p. 122 modifica]che trascende Atene, Roma, Italia: intravvedi la storia del mondo in una storia particolare, tutto il cielo in un pezzo di cielo. La storia è fatale. E la fatalità è nello sviluppo naturale del cervello, nella scienza che sfronda e dissecca la vita, distrugge ad una ad una tutte le illusioni. Nel secolo dei lumi e del progresso questo giovine, che gitta uno sguardo scettico nell’avvenire e volge le spalle al «secolo di sangue» e si rifugia nella contemplazione del passato, dovea parere una stonatura. Ma era una rettorica poetica, non ci si guardava pel sottile, si ammirava la bella forma. In verità, un contenuto nuovo dovea generare una forma sua. Ma è più facile rinnovare le idee che la forma. Lo stampo rimaneva classico, come glielo avevano suggellato nel cervello gli studi. Pure, il poeta acquista maggior padronanza e sicurezza, e vuol dire tutto a modo suo e in modo nuovo e piccante. Già s’immedesima in sé e vanno via le reminiscenze. Quella guardatura del mondo, sua, lo aiuta a novità di concetti e di frasi. C’è in quella guardatura la glorificazione e la maledizione, l’inno e l’elegia, l’entusiasmo e lo scetticismo, la vita e la scienza, e quello che è contraddizione nello spirito, genera nella espressione una maravigliosa fusione di colori. L’inno vanisce in un ahi!, e il sospiro si trasforma in una esclamazione gioiosa. C’è il fiorire e l’appassire, il rigoglio della vita col germe della morte che si annunzia subitaneo. Materia nuova, talora abbozzata e a contorni oscuri, come trattata per la prima volta, e rimasta compassata e quasi incarcerata in quello stampo classico. Talora esce fuori cruda come una sentenza, senza sviluppo e senza eco nell’anima. Manca alla immaginazione il suo elaterio, allo stile la sua fosforescenza. Spigliata e calorosa, dov’è luogo comune, quando la materia è nuova, ti pare spesso l’arido schema che avrà il suo sviluppo in altre poesie.

Così com’è, questa canzone ha una grande importanza nella storia del poeta.