Il Filostrato/Parte sesta
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Parte quinta | Parte settima | ► |
IL
FILOSTRATO
DI GIOVANNI BOCCACCI
PARTE SESTA
ARGOMENTO
I.
Dall’altra parte in sul lito del mare,
Con poche donne, tra le genti armate
Stava Griseida, ed in lagrime amare
Da lei eran le notti consumate,
Che ’l giorno più le convenia guardare,
Perchè le fresche guance e delicate
Pallide e magre l’eran divenute,
Lontana dalla sua dolce salute.
II.
Ella piangeva seco mormorando
Di Troilo lo già preso piacere,
E gli atti tutti andava disegnando
Stati tra loro, e le parole intere
Tutte con seco venia ricordando,
Qualora ella n’avea tempo o potere;
Perchè da lui vedendosi lontana,
Fe’ de’ suoi occhi un’amara fontana.
III.
Nè saria stato alcun sì dispietato
Ch’udendo lei rammaricar dolente
Con lei di pianger si fosse temprato.
Ella piangeva sì amaramente,
Quando punto di tempo l’era dato,
Che dir non si potrebbe interamente;
E quel che peggio ch’altro le facea,
Era, con cui dolersi non avea.
IV.
Ella mirava le mura di Troia,
E’ palagi, le torri e le fortezze,
E dicea seco: oimè, quanta gioia,
Quanto piacere e quanto di dolcezze
N’ebb’io già dentro! ed ora in trista noia
Consumo qui le mie care bellezze:
Oimè, Troilo mio, che fa’ tu ora,
Ricordati di me niente ancora?
V.
Oimè lassa! or t’avess’io creduto,
E insieme tramendue fossimo giti
Dove e in qual regno ti fosse piaciuto;
Ch’or non sarien questi dolor sentiti
Da me, nè tanto buon tempo perduto:
Quando che sia saremmo poi redditi;
E chi di me avria poi detto male,
Perchè andata ne fossi con uom tale?
VI.
Oime lassa! che tardi m’avveggio
Che ’l senno mio mi torna ora nemico:
Io fuggii il male e seguitai il peggio,
Onde di gioia il mio cuore è mendico;
E per conforto invan la morte chieggio,
Poi veder non ti posso, o dolce amico,
E temo di giammai più non vederti;
Così sien tosto li Greci diserti!
VIII.
Ma mio poter farò quinci fuggirmi,
Se conceduto non mi fia ’l venire
In altra guisa, e con teco reddirmi
Com’io promisi; e vada dove gire
Ne vuole il fumo, e ciò che può seguirmi
Di ciò ne segua; ch’anzi che morire
Di dolor voglia, io voglio che parlare
Possa chi voglia e di ciò abbaiare.
VIII.
Ma di sì alto e grande intendimento
Tosto la volse novello amadore:
Aoperava Diomede ogni argomento
Che el potea per entrarle nel core;
Nè gli fallì al suo tempo l’attento,
E ’n breve spazio ne cacciò di fuore
Troilo e Troia, ed ogni altro pensiero
Che ’n lei fosse di lui o falso o vero.
IX.
Ella non v’era il quarto giorno stata
Dopo l’amara dipartenza, quando
Cagione onesta a lei venir trovata
Da Diomede fu, che sospirando
La trovò sola, e quasi trasformata
Dal dì che prima con lei cavalcando
Di Troia quivi menata l’avea,
Il che gran maraviglia gli parea.
X.
E seco disse nella prima vista:
Vana fatica credo sia la mia;
Questa donna è per altrui amor trista,
Siccom’io veggio, sospirosa e pia;
Troppo esser converria sovrano artista
S’io ne volessi il primo cacciar via
Per entrarv’io: oimè che male andai
Per me a Troia quando la menai.
XI.
Ma come quei ch’era di grande ardire,
E di gran cuor, con seco stesso prese,
S’el ne dovesse per certo morire,
Poi quivi era venuto, l’aspre offese
Ch’amore gli facea per lei sentire
Di dimostrarle, sì come s’accese
Prima di lei; e postosi a sedere,
Di lungi assai si fece al suo volere.
XII.
E prima seco entrò a ragionare
Dell’aspra guerra tra loro e’ Troiani,
Lei domandando quel che le ne pare,
S’e’ lor pensier credea frivoli o vani:
Quinci discese poi a domandare
Se le parien de’ Greci i modi strani;
Nè molto poi si tenne a domandarla,
Perchè stesse Calcas di maritarla.
XIII.
Griseida, che ancor l’animo avea
In Troia fitto al suo dolce amadore,
Dell’astuzia di lui non s’accorgea,
Ma sì come piaceva al suo signore
Amore, a Diomede rispondea,
E spesse volte gli passava il cuore
Con grieve doglia, e talor li donava
Lieta speranza di quel che cercava.
XIV.
Il qual come con lei rassicurato
Fu ragionando, cominciò a dire:
Giovane donna, s’io v’ho ben guardato
Nell’angelico viso da aggradire
Più ch’altro visto mai, quel trasformato
Mi par veder per noioso martire,
Dal giorno in qua che di Troia partimmo,
E qui come sapete ne venimmo.
XV.
Nè so ch’esser si possa la cagione
S’amor non fosse, il qual, se savia sete,
Gittrete via, udendo la ragione,
Perchè siccom’io dico far dovete.
Li Troian son si può dire in prigione
Da noi tenuti, siccome vedete,
Che siam disposti di non mutar loco
Senza disfarla o con ferro o con fuoco:
XVI.
Nè crediate ch’alcun che dentro sia
Trovi pietà da noi in sempiterno;
Nè mai commise alcuno altra follia
O commettrà, se ’l mondo fosse eterno,
Che assai chiaro esempio non gli fia,
O qui tra’ vivi, o tra’ morti in inferno,
La punizion ch’a Paride daremo,
Della fatta da lui, se noi potremo.
XVII.
E se vi fosser ben dodici Ettori,
Come un ve n’è, e sessanta fratelli;
Se Calcas per ambage e per errori
Qui non ci mena, parimente d’elli,
Quantunque sieno, i disiati onori
Avremo e tosto; e la morte di quelli,
Che sarà in breve, ne darà certanza
Che non sia falsa la nostra speranza.
XVIII.
E non crediate che Calcas avesse
Con tanta istanza voi raddomandata,
Se ciò ch’io dico non antivedesse:
Ben’ho io già con esso lui trattata
Questa questione prima che ’l facesse,
E ciascuna cagione esaminata;
Ond’ei per trarvi di cotal periglio,
Di rivolervi qui prese consiglio.
XIX.
Ed io nel confortai, di voi udendo
Mirabili virtù ed altre cose;
Ed Antenor per voi dargli sentendo,
M’offersi trattator, ed el m’impose
Ch’io il facessi, assai ben conoscendo
La fede mia; nè mi fur faticose
L’andate e le tornate per vedervi,
Per parlarvi, conoscervi ed udervi.
XX.
Chè vo’ dir dunque, bella donna e cara,
Lasciate de’ Troian l’amor fallace;
Cacciate via questa speranza amara
Che ’nvano sospirare ora vi face,
E rivocate la bellezza chiara,
La qual più ch’altra a chi intende piace;
Ch’a tal partito omai Troia è venuta
Ch’ogni speranza ch’uomo v’ha è perduta.
XXI.
E s’ella fosse pur per sempre stare,
Sì sono il re, e’ figli e gli abitanti
Barbari e scostumati, e da apprezzare
Poco, a rispetto de’ Greci, ch’avanti
Ad ogni altra nazion possono andare,
D’alti costumi e d’ornati sembianti;
Voi siete ora tra uomin costumati,
Dove eravate tra bruti insensati.
XXII.
E non crediate che ne’ Greci amore
Non sia, assai più alto e più perfetto
Che tra’ Troiani; e ’l vostro gran valore,
La gran beltà e l’angelico aspetto
Troverà qui assai degno amadore,
Se el vi fia di pigliarlo diletto;
E se non vi spiacesse, io sarei desso,
Più volentier che re de’ Greci adesso.
XXIII.
E questo detto diventò vermiglio
Come fuoco nel viso, e la favella
Tremante alquanto; in terra bassò il ciglio,
Alquanto gli occhi torcendo da ella.
Ma poi tornò da subito consiglio
Più pronto che non era, e con isnella
Loquela seguitò: non vi sia noia,
Io son così gentil come uom di Troia.
XXIV.
Se ’l padre mio Tideo fosse vissuto,
Com’el fu morto a Tebe combattendo,
Di Calidonia e d’Argo saria suto
Re, siccom’io ancora essere intendo;
Nè era stran nell’un regno venuto,
Ma conosciuto, antico e reverendo,
E, se creder si può, di Dio disceso,
Sì ch’io non son tra’ Greci di men peso.
XXV.
Pregovi dunque, se ’l mio prego vale,
Che via cacciate ogni malinconia,
E me, se io vi paio tanto e tale
Qual si conviene a vostra signoria,
In servidor prendiate; io sarò quale
L’onestà vostra e l’alta leggiadria,
Ch’io veggio in voi più che ’n altra, richiede,
Sì che ancor caro avrete Diomede.
XXVI.
Griseida ascoltava, e rispondea
Poche parole e rade, vergognosa,
Secondo che ’l di lui dir richiedea;
Ma poi udendo quest’ultima cosa,
Seco l’ardir di lui grande dicea,
A traverso mirandol dispettosa,
Tanto poteva ancor Troilo in essa,
E così disse con voce sommessa:
XXVII.
Io amo, Diomede, quella terra
Nella qual son cresciuta ed allevata,
E quanto può mi grava la sua guerra,
E volentier la vedrei liberata;
E se fato crudel fuor me ne serra,
Questo mi fa con gran ragion turbata,
Ma d’ogni affanno per me ricevuto,
Prego buon merto te ne sia renduto.
XXVIII.
Ben so ch’e’ Greci son d’alto valore
E costumati sì come ragioni;
Ma de’ Troian non è però minore
L’alta virtù; e le lor condizioni
L’hanno mostrate nelle man d’Ettore;
Nè senno è credo per divisïoni
O per altra cagione altrui biasmare,
E poscia sè sopra gli altri lodare.
XXIX.
Amore io non conobbi, poi morio
Colui al qual lealmente il servai,
Sì come a marito e signor mio;
Nè Greco nè Troian mai non curai
In cotal fatto, nè me n’è in disio
Curarne alcuno, nè mi fia giammai:
Che tu sia di real sangue disceso
Cred’io assai, ed hollo bene inteso.
XXX.
E questo assai mi dà d’ammirazione,
Che possi porre in una femminella,
Come son io, di poca condizione
L’animo tuo: a te Elena bella
Si converria: io ho tribulazione,
Nè son disposta a sì fatta novella;
Non perciò dico che io sia dolente
D’essere amata da te certamente.
XXXI.
Il tempo è reo, e voi siete nell’armi,
Lascia venir la vittoria ch’aspetti,
Allor saprò io molto me’ che farmi;
Forse mi piaceranno più i diletti
Ch’ora non fanno, e potrai riparlarmi,
E per ventura più cari i tuoi detti
Mi fieno ch’or non son: l’uom dee guardare
Tempo e stagion quand’altri vuol pigliare.
XXXII.
Quest’ultimo parlare a Diomede
Fu assai caro, e parveli potere
Isperar senza fallo ancor mercede,
Siccom’egli ebbe poi a suo piacere;
E risposele: donna, io vi fo fede
Quanto posso maggiore, che al volere
Di voi io sono e sarò sempre presto:
Nè altro disse, e gissen dopo questo.
XXXIII.
Egli era grande e bel della persona,
Giovane fresco e piacevole assai,
E forte e fier siccome si ragiona,
E parlante quant’altro Greco mai,
E ad amor la natura aveva prona;
Le quai cose Griseida ne’ suoi guai,
Partito lui, seco venne pensando,
D’accostarsi o fuggirsi dubitando.
XXXIV.
Queste la fer raffreddar nel pensiero
Caldo ch’avea di voler pur reddire;
Queste piegaro il suo animo intero
Che in ver Troilo aveva, ed il disire
Torsono indietro, e ’l tormento severo
Nuova speranza alquanto fe’ fuggire:
E da queste cagion sommossa, avvenne
Che la promessa a Troilo non attenne.