Il Filostrato/Parte settima
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IL
FILOSTRATO
DI GIOVANNI BOCCACCI
PARTE SETTIMA
ARGOMENTO
I.
Troilo, siccome egli è di sopra detto,
Passava il tempo il dì dato aspettando,
Il qual pur venne dopo lungo aspetto;
Ond’egli altre faccende dimostrando
In ver la porta se ne gì soletto,
Con Pandaro di ciò molto parlando;
E ’n verso il campo rimirando gieno
Se in ver Troia alcun venir vedieno.
II.
E ciascun che da loro era veduto
Venir ver loro, solo o accompagnato,
Che Griseida fosse era creduto,
Finch’el non s’era a lor tanto appressato
Che apertamente fosse conosciuto;
E così stetter mezzodì passato,
Beffati spesso dalla lor credenza,
Siccome poi mostrava l’esperienza.
III.
Troilo disse: anzi mangiare omai,
Per quel ch’io possa creder, non verrebbe;
Ella penrà a disbrigarsi assai
Dal vecchio padre più che non vorrebbe:
Per mio avviso tu che ne dirai?
Io pur mi credo che ella sarebbe
Venuta, se venire ella potesse,
E s’a mangiar con lui non si ristesse.
IV.
Pandaro disse: io credo dichi il vero;
Però andianne, e poi ci torneremo.
A Troilo piacque, e al fine così fero;
E lo spazio che stettero, assai stremo
Fu, che tornar, ma gl’ingannò il pensiero,
Siccome apparve, e trovaronlo scemo,
Che questa gentil donna non venia,
E già la nona su ’n alto salia.
V.
Troilo disse: forse che impedita
L’avrà il padre, e vorrà che dimori
Infino a vespro, e però sua reddita
Al tardi fia: omai stiamci di fuori,
Sì ch’ella abbia l’entrata spedita;
Che spesse volte questi guardatori
Soglion tenere in parole chi viene,
Senza distinguere a cui si conviene.
VI.
Il vespro venne, e poi venne la sera,
E molti avevan Troilo ingannato,
Il quale in ver lo campo sospeso era
Istato sempre, e tutti riguardato
Avea color che di ver la riviera
Venieno a Troia, ed alcun domandato
Per nuove circostanze, e non avea
Nulla raccolto di ciò che chiedea.
VII.
Perchè si volse a Pandaro dicendo:
Fatto avrà questa donna saviamente,
Se de’ suoi modi meco ben comprendo;
Ella vorrà venir celatamente,
Però la notte attende, ed io ’l commendo;
Non vorrà far maravigliar la gente,
Nè dir: costei che fu raddomandata
Per Antenor, c’è sì tosto tornata?
VIII.
Però non ti rincresca l’aspettare,
Pandaro mio, io ten prego per Dio,
Noi non abbiam or’altra cosa a fare,
Non ti gravi seguire il mio disio:
E s’io non erro vederla mi pare;
Deh guarda in giù, deh vedi tu quel ch’io?
Nò, disse Pandar, se ben gli occhi sbarro,
Quel che mi mostri pare a me un carro.
IX.
Oimè che tu di’ vero! Troilo disse,
Or così va, cotanto mi trasporta
Quel ch’io vorrei ch’al presente avvenisse.
Era del sole già la luce morta,
E stella alcuna in ciel parea venisse,
Quando Troilo disse: el mi conforta
Non so che pensier dolce nel desire,
Abbi per certo ch’or ne dee venire.
X.
Pandaro seco, ma tacitamente,
Ridea di ciò che Troilo dicea,
E conosceva manifestamente
La cagione che a ciò dire il movea;
E per non farlo di ciò più dolente
Che el si fosse, sembiante facea
Di crederli, e dicea: di Mongibello
Aspetta il vento questo tapinello.
XI.
L’attendere era nulla, ed i guardiani
Facean sopra la porta gran romore,
Dentro chiamando cittadini e strani,
Qual non volesse rimaner di fuore,
Colle lor bestie ancor tutti i villani;
Ma Troilo fe’ tardar più di due ore;
Infine essendo il ciel tutto stellato,
Con Pandar dentro se n’è ritornato.
XII.
E benchè in sè medesmo molte volte,
Or con una or con altra il dì avesse
Isperanza ingannato, intra le molte
Voleva amor dover pur ch’el credesse
Ad alcuna di quelle meno stolte;
Per che da capo il suo parlar diresse
Ver Pandaro, dicendo: stolti siamo,
Che questo giorno aspettata l’abbiamo.
XIII.
Ella mi disse dieci dì starebbe
Col padre, senza più starvi niente,
E poscia in Troia se ne tornerebbe;
Il termine è per questo dì presente:
Dunque doman venir se ne dovrebbe,
Sebbene annoveriam dirittamente,
E noi siam qui tutto il dì dimorati,
Tanto n’ha fatti il disio smemorati.
XIV.
Domattina per tempo ritornare
Pandar ci si vorrà; e così fero.
Ma poco valse in su e ’n giù guardare,
Ch’ad altro già ell’avea dritto il pensiero;
Sì che costor dopo molto badare,
Siccome fatto aveano il dì primiero,
Fatto già notte dentro si tornaro;
Ma ciò a Troilo fu soverchio amaro;
XV.
E la speranza lieta ch’egli avea
Quasi più non avea dove appiccarsi;
Di che con seco molto si dolea,
E forte cominciò a rammaricarsi
E di lei e d’amor, nè gli parea
Per cagion nulla che tanto indugiarsi
Dovesse a ritornare, avendogli essa
La ritornata con fede promessa.
XVI.
Ma ’l terzo, e ’l quarto, e ’l quinto, e ’l sesto giorno,
Dopo ’l decimo dì già trapassato,
Sperando e non sperando il suo ritorno,
Da Troilo fu con sospiri aspettato:
E dopo questi, più lungo soggiorno
Ancor dalla speranza fu impetrato,
E tutto invan, costei pur non tornava,
Laonde Troilo se ne consumava.
XVII.
Le lagrime che erano allenate
Pe’ conforti di Pandaro, e’ sospiri,
Tornar senza esser da lui rivocate,
Dando lor via i focosi disiri;
E quelle che speranze risparmiate
Aveva, usciron doppie pe’ martirj,
Che ’n lui gabbato più si fer cocenti
Che pria non eran, ben per ognun venti.
XVIII.
In lui ogni disio istato antico
Ritornò nuovo, e sopra esso l’inganno
Che li parea ricevere, e ’l nemico
Spirto di gelosia gravoso affanno
Più ch’alcun altro è di posa mendico,
Come son quei che già provato l’hanno;
Ond’el piangeva giorno e notte tanto,
Quanto bastavan gli occhi ed egli al pianto.
XIX.
El non mangiava quasi e non bevea,
Sì avea pieno d’angoscia il tristo petto;
Ed oltre a questo dormir non potea
Se non da’ sospir vinto, ed in dispetto
La vita sua e sè del tutto avea,
E come ’l fuoco fuggiva ’l diletto,
Ed ogni festa ed ogni compagnia
Similemente a suo poter fuggia.
XX.
Ed era tal nel viso divenuto,
Che piuttosto che uom pareva fera;
Nè l’averia alcun riconosciuto,
Sì pallida e smarrita avea la cera;
Del corpo s’era ogni valor partuto,
E tanta forza appena ne’ membri era
Che ’l sostenesse, nè conforto alcuno
Prender volea che gli desse nessuno.
XXI.
Priamo che ’l vedea così smarrito,
A sè alcuna volta lui chiamava,
Dicendo: figliuol mio che hai tu sentito?
Qual cosa è quella che tanto ti grava?
Tu non par desso, tu se’ scolorito,
Che è cagion della tua vita prava?
Dimmel figliuolo, tu non ti sostieni,
E s’io discerno ben, tutto men vieni.
XXII.
Il simigliante gli diceva Ettore,
Paris e gli altri fratelli e sorelle;
E domandavan d’onde esto dolore
Sì grande avesse, e per quai ree novelle.
Alli quai tutti diceva ch’al core
Si sentia noie, ma quai fosser quelle,
Niuno poteva tanto addomandare
Che da lui più ne potesse apparare.
XXIII.
Erasi un dì tutto maninconoso,
Per la fallita fede, ito a dormire
Troilo, e in sogno vide il periglioso
Fallo di quella che ’l facea languire:
Che gli parea per entro un bosco ombroso
Un gran fracasso e spiacevol sentire;
Per che levato il capo, gli sembrava
Un gran cinghiar veder che valicava.
XXIV.
E poi appresso gli parve vedere
Sotto a’ suoi piè Griseida, alla quale
Col grifo il cor traeva, ed al parere
Di lui, Griseida di così gran male
Non si curava, ma quasi piacere
Prendea di ciò che facea l’animale,
Il che a lui sì forte era in dispetto,
Che questo ruppe il sonno deboletto.
XXV.
Com’el fu desto, cominciò a pensare
Sopra di ciò che in sogno avea veduto;
E chiaro parve a lui considerare,
Che volea dir ciò che gli era apparuto;
E prestamente si fece chiamare
Pandaro, il qual come a lui fu venuto,
Piangendo cominciò: Pandaro mio,
La vita mia non piace più a Dio!
XXVI.
La tua Griseida, oimè, m’ha ingannato,
Di cui io più che d’altra mi fidava,
Ell’ha ad altrui il suo amor donato,
Il che più che la morte assai mi grava:
Gl’iddii me l’hanno nel sogno mostrato:
E quinci il sogno tutto gli narrava;
Poi cominciò a dir quel che volea
Sì fatto sogno, e così gli dicea:
XXVII.
Questo cinghiar ch’io vidi è Diomede,
Perocchè l’avolo uccise il cinghiaro
Di Calidonia, se si può dar fede
A’ nostri antichi, e sempre poi portaro
Per sopransegna, siccome si vede,
I discendenti il porco. Oimè amaro
E vero sogno! questi l’avrà il cuore
Col parlar tratto, cioè il suo amore.
XXVIII.
Questi la tien, dolente la mia vita,
Siccome aperto ancor potrai vedere;
Questi impedisce sol la sua reddita;
Se ciò non fosse, ben v’era il potere
Di ritornar, nè l’avrebbe impedita
Il vecchio padre nè altro calere;
Laond’io sono ingannato, credendo,
Ed ischernito invano lei attendendo.
XXIX.
Oimè Griseida, qual sottile ingegno,
Qual piacer nuovo, qual vaga bellezza,
Qual cruccio verso me, qual giusto sdegno,
Qual fallo mio, o qual fiera stranezza,
L’animo tuo altiero, ad altro segno
Han potuto recare? oimè fermezza,
Oimè promessa, oimè fede e leanza,
Chi v’ha gittate dalla mia amanza?
XXX.
Oimè, perchè andar mai ti lasciai?
Perchè credetti al tuo consiglio rio?
Perchè con meco non te ne menai,
Com’io aveva, lasso, nel disio?
Perchè i patti fatti non guastai,
Come nel cuor mi venne, allora ch’io
Ti vidi render? Tu non disleale
Saresti e falsa, nè io tristo aguale.
XXXI.
Io ti credetti e sperava per certo
Santa esser la tua fede, e le parole
Essere un vero certissimo e aperto
Più ch’a’ viventi la luce del sole;
Ma tu parlavi ambiguo e coperto,
Siccome egli ora appar nelle tue fole;
Che solamente a me non se’ tornata,
Ma con altro uomo ti se’ innamorata.
XXXII.
Che farò Pandaro? io mi sento un fuoco
Di nuovo acceso nella mente forte,
Tal ch’io non trovo nel mio pensier loco:
Io vo’ colle mie man prender la morte,
Che ’n tal vita più star non saria giuoco;
Poi la fortuna a sì malvagia sorte
Recato m’ha, il morir fia diletto,
Dove il viver saria noia e dispetto.
XXXIII.
E questo detto, corse ad un coltello,
Il qual pendea nella camera aguto,
E per lo petto si volle con ello
Dar, se non fosse che fu ritenuto
Da Pandaro, il quale il tapinello
Giovane prese, com’ebbe veduto
Lui disperar nelle parole usate,
Con sospiri e con lagrime versate.
XXXIV.
Troilo gridava: deh non mi tenere,
Amico caro, io ten prego per Dio,
Poichè disposto sono a tal volere,
Lascia seguirmi il mio fiero desio;
Lasciami, stu non vuoi prima sapere
Qual sia la morte alla quale corr’io;
Lasciami Pandar, che ti fediraggio
Se non mi lasci, e poi m’uccideraggio.
XXV.
Lasciami tor del mondo il più dolente
Corpo che viva: lasciami, morendo,
Contenta far la nostra fraudolente
Donna, la quale ancora andrò seguendo
Tra l’ombre nere nel regno dolente:
Lasciami uccider, che ’l viver languendo
Peggio è che morte. E dicendo, sforzava
Sè per lo ferro, il qual quel gli negava.
XXXVI.
Pandaro ancora faceva romore
Con lui, tenendol forte, e se non fosse
Che Troilo era debole, il valore
Di Pandar saria vinto, tali scosse
Troilo dava atato dal furore;
Pure alla fine il ferro gli rimosse
Pandar di mano, e lui contra ’l volere
Fece piangendo con seco sedere.
XXXVII.
E dopo amaro pianto, verso lui
Con tai parole si volse pietoso:
Troilo, sempre in tal credenza fui
Di te ver me, che s’io stato fossi oso
Di domandar per me o per altrui
Che t’uccidessi, tu sì animoso
Senza indugio nessun l’avessi fatto,
Com’io farei per te in ciascun atto.
XXXVIII.
E tu a’ preghi miei non hai la morte
Sozza e spiacevol voluta fuggire;
E s’io non fossi stato ora più forte
Di te, t’avrei qui veduto morire:
Noi mi credea alle promesse porte
Da te a me le mi veggia fallire,
Benchè ancora questo emendar puoti,
Se con effetto quel che dico noti.
XXXIX.
Per quel che paia a me, tu hai concetto
Che Griseida sia di Diomede;
E s’io ho ben raccolto ciò c’hai detto,
Null’altra cosa di ciò ti fa fede
Se non il sogno, il qual prendi sospetto
Per l’animale il qual col dente lede,
E senza più voler sentirne avanti,
Finir volei con morte i tristi pianti.
XL.
Io ti dissi altra volta, che follia
Era ne’ sogni troppo riguardare;
Nessun ne fu, nè è, nè giammai fia
Che possa certo ben significare,
Ciò che dormendo altrui la fantasia
Con varie forme puote dimostrare,
E molti già credettero una cosa,
Ch’altra n’avvenne opposita e ritrosa.
XLI.
Così potrebbe addivenir di questo;
Forse che là dove tu l’animale
Al tuo amore interpetri molesto,
Ti fia utile, e non ti farà male
Siccome stimi: parti egli atto onesto
A nessun uomo, non che ad un reale,
Come tu se’, colle sue man s’uccida,
O faccia per amor sì fatte strida?
XLII.
Questa cosa era in tutt’altra maniera
Da dover far, che tu non la facevi;
Pria sottilmente si volea se vera
Fosse saper, siccome tu potevi,
E se falsa trovata, e non intera-
Mente l’avessi, allora ti dovevi
Dalla fede de’ sogni e dallo inganno
D’essi levar, che venieno a tuo danno.
XLIII.
Se ver trovassi che tu per altrui
Da Griseida fossi abbandonato,
Non dovevi con tutti i pensier tui
Per partito pigliar deliberato
Pur di morire, ch’io non so da cui
Giammai ne fossi se non biasimato;
Ma si voleva prender per partito,
Di schernir lei com’ella ha te schernito.
XLIV.
E se pure a morire i pensier gravi
Ti sospignean per sentir minor doglia,
Non era da pigliar ciò che pigliavi,
Ch’altra via c’era a fornir cotal voglia;
E ben te la doveano i pensier pravi
Mostrar, perciocchè avanti della soglia
Della porta di Troia i Greci sono,
Che t’uccidran senza chieder perdono.
XLV.
Andremo adunque contro a’ Greci armati,
Quando morir vorrai, insiememente:
Quivi siccome giovani pregiati
Combatterem con loro, e virilmente
Loro uccidendo morrem vendicati,
Nè vieterolti a loro certamente.
Sol ch’io m’avveggia che cagion ti mova
Giusta a voler morire in cotal prova.
XLVI.
Troilo ch’ancor fremea di cruccio acceso,
Quanto potea, dolente, l’ascoltava;
E poi che l’ebbe lungamente inteso,
Qual esso ancor doglioso lagrimava,
Ver lui si volse, il quale stava atteso
Se dall’impresa folle si mutava,
E in cotal guisa li parlò piangendo,
Sempre il parlar con singhiozzi rompendo:
XLVII.
Pandaro, vivi di questo sicuro,
Che io son tutto tuo in ciò ch’io posso,
Il vivere e ’l morir non mi fia duro
Come ti piacerà, e se rimosso
Dal furor fui da consiglio maturo,
Poco davanti quando tu addosso
Mi fosti per la mia propria salute,
Non se ne dee ammirar la tua virtute.
XLII.
In tale error la subita credenza
Del tristo sogno mi fece venire;
Or men cruccioso, la mia gran fallenza
Aperta veggio e ’l mio folle desire;
Ma se tu vedi con che esperienza
Di questa sospezione il ver sentire
Io possa, dilla, per Dio ten richieggio,
Ch’io son turbato e da me non la veggio.
XLIX.
A cui Pandaro disse: al mio parere,
Con iscrittura è da tentar costei;
Perocchè s’ella non t’avrà in calere,
Non credo che risposta abbiam da lei,
E se l’avrem, potrem chiaro vedere
Per le scritte parole, se tu dei
Sperare ancor nella sua ritornata,
O s’ella s’è d’altro uomo innamorata.
L.
Poi si partì, giammai non le scrivesti,
Nè ella a te, e del suo star cagione
Potrebbe tale aver, che tu diresti
Che ella avesse ben di star ragione;
E potrebbe esser tal, che riprendresti
Più tiepidezza ch’altra offensïone:
Scrivile adunque, che se ben lo fai
Chiaro vedrai ciò che cercando vai.
LI.
Già incresceva a Troilo di sè stesso,
Perchè ’l credette volentieri: e tratto
Da parte, comandò ch’a lui adesso
Da scriver fosse dato, ed il fu fatto;
Ond’egli alquanto pensato sopra esso
Che scrivere dovea, non come matto
Incominciò, e senza indugio scrisse
Alla sua donna, e in cotal guisa disse:
LII.
Giovane donna, a cui amor mi diede
E tuo mi tiene, e mentre sarò in vita
Mi terrà sempre con intera fede,
Perciocchè tu nella tua dipartita
In miseria maggior ch’alcun non crede
Qui mi lasciasti l’anima smarrita,
Si raccomanda alla tua gran virtute,
E mandarti non può altra salute.
LIII.
El non dovrà, come che divenuta
Sia quasi Greca, la lettera mia
Da te ancor non esser ricevuta;
Perciocchè ’n poco tempo non s’oblia
Sì lungo amor, qual tiene ed ha tenuta
Nostra amistà congiunta, la qual sia
Eterna prego, e però prenderaila
E ’nfino alla sua fine leggeraila.
LIV.
Se ’l servidore in caso alcun potesse
Del suo signor dolersi, forse ch’io
Avrei ragion se di te mi dolesse;
Considerando al tuo affetto pio,
La fede data, e le molte promesse,
Ed il giurato a ciascheduno iddio
Che torneresti infra ’l decimo giorno,
Nè fra quaranta ancor fatt’hai ritorno;
LV.
Ma perciocchè a me convien piacere
Quanto a te piace, rammarcar non m’oso,
Ma quanto umile posso, il mio parere
Ti scrivo, più che mai d’amor focoso:
E similmente il mio caldo volere,
E la mia vita ancor, volonteroso
Di saper qual la tua vita sia stata
Poichè tra’ Greci fosti permutata.
LVI.
Parmi, se ’l tuo consiglio ho bene a mente,
Che potuto abbiano in te le paterne
Lusinghe, o nuovo amor t’è nella mente
Entrato, o quel che rado ci si scerne
Vecchio divenir largo, che ’l tegnente
Calcas cortese sia, dove l’interne
Tue intenzion mi mostraro il contrario
Nell’ultimo tuo pianto e mio amaro.
LVII.
Poi sì lontano oltre al nostro proposto
Se’ dimorata, che tornar dovevi
Secondo le promesse così tosto;
Se ’l primo o ’l terzo fosse, mel dovevi
Significar, poi sai che io m’accosto
Ed accostava a ciò che tu volevi;
Che pazïente l’avrei comportato,
Quantunque grave assai mi fosse stato.
LVIII.
Ma forte temo che novello amore
Non sia cagion di tua lunga dimora,
Il che se fosse, mi saria dolore
Maggior ch’alcun ch’io ne provassi ancora;
E se l’ha meritato il mio fervore,
Nol devi avere tu a conoscer ora:
Di questo vivo misero in paura
Tal, che diletto e speranza mi fura.
LIX.
Questa paura dispietate stride
Trarre mi fa, quand’io vorrei posarmi;
Questa paura sola mi conquide
Dentro al pensiero, ond’io non so che farmi;
Questa paura, oimè lasso, m’uccide,
Nè so nè posso più da lei atarmi;
Questa paura m’ha recato in parte,
Ch’a Venere non sono util nè a Marte.
LX.
Gli occhi dolenti dopo il tuo partire
Di lagrimar non ristetter giammai;
Mangiar nè ber, riposar nè dormire
Poi non potei, ma sempre ho tratti guai;
E quel che più della mia bocca udire
Potuto s’è, nomarti sempre mai,
E chiamar te ed amor per conforto,
Per questo credo sol ch’io non sia morto.
LXI.
Ben puoi pensare omai quel che farei
Se certo fossi di ciò c’ho dottanza:
Certo io credo ch’io m’ucciderei
Di te sentendo sì fatta fallanza;
Ed a che far dappoi ci viverei
Ch’io avessi perduta la speranza
Di te, anima mia, cui io attendo
Per sola pace in lagrime vivendo?
LXII.
Li dolci canti e le brigate oneste,
Gli uccelli e’ cani e l’andar sollazzando,
Le vaghe donne, i templi e le gran feste,
Che per addietro solea gir cercando,
Fuggo ora tutte e sonmi oimè moleste,
Qualora vengo con meco pensando
Che tu di qui dimori ora lontana,
Dolce mio bene, e speme mia sovrana.
LXIII.
Li fior dipinti e la novella erbetta,
Ch’e’ prati fan di ben mille colori,
Non posson trarre a sè l’alma ristretta
Donna per te negli amorosi ardori;
Sol quella parte del ciel mi diletta,
Sotto la quale or credo che dimori,
Quella riguardo, e dico: quella vede
Ora colei da cui spero mercede.
LXIV.
Io guardo i monti che d’intorno stanno,
Ed il luogo ch’a me ti tien nascosa,
E sospirando dico: coloro hanno,
Senza sentirla, la vista amorosa
Degli occhi vaghi per la quale affanno
Lontan da essi in vita assai noiosa:
Or foss’io un di loro, o sopra un d’essi
Or dimorass’io sì ch’io la vedessi!
LXV.
Io guardo l’onde discendenti al mare,
Alle qual’ora dimori vicina,
E dico: quelle dopo alquanto andare
Quivi verranno, dove la divina
Luce degli occhi miei n’è gita a stare,
E da lei fien vedute: oimè tapina
La vita mia! perchè in loco di quelle
Andar non posso siccome fann’elle?
LXVI.
Se ’l sol discende, con invidia il miro,
Perchè mi par che vago del mio bene,
Cioè di te tirato dal disiro,
Più dell’usato tosto se ne vene
A rivederti, e dopo alcun sospiro,
Mi viene in odio, e crescon le mie pene,
Ond’io temendo ch’el non mi ti tolga,
La notte prego che tosto giù volga.
LXVII.
L’udir talvolta nominare il loco
Dove dimori, o talvolta vedere
Chi di là venga, mi raccende il fuoco
Nel cor mancato per troppo dolere,
E par ch’io senta alcun nascoso giuoco
Nell’anima legata dal piacere,
E meco dico: quindi veniss’io
Onde quel viene, o dolce mio disio!
LXVIII.
Ma tu che fai tra’ cavalieri armati,
Tra gli uomin bellicosi e tra’ romori,
Sotto le tende in mezzo degli aguati,
Sovente spaventata da’ furori
Del suon dell’armi, e delle tempestati
Marine, a cui vicina ora dimori?
Non t’è el, donna mia, gravosa noia,
Ch’esser solei sì dilicata in Troia?
LXIX.
I’ ho di te nel ver compassïone,
Più ch’io non ho di me siccome deggio.
Ritorna adunque, e la tua promissione
Intera fa’ prima ch’io caggia in peggio:
Io ti perdono ogni mia offensione
Per dimoranza fatta, e non ne chieggio
Ammenda, fuor vedere il tuo bel viso,
Nel quale è sol tutto il mio paradiso.
LXX.
Deh io ten prego per quella vaghezza
Che me di te e te di me già prese,
E similmente per quella dolcezza
Che li cuor nostri parimente accese;
E poi appresso per quella bellezza
La qual possiedi, donna mia cortese;
Per li sospiri e pe’ pietosi pianti
Che noi facemmo insieme già cotanti.
LXXI.
Pe’ dolci baci e per quello abbracciare
Che già ci tenne insieme tanto stretti;
Per la gran festa e ’l dolce ragionare,
Che più lieti facea nostri diletti;
Per quella fede ancor la qual prestare
Ti piacque già negli amorosi detti,
Quando l’ultima volta ci partimmo,
Nè più insieme appresso poi reddimmo;
LXXII.
Che di me ti ricordi, e che tu torni:
E se per avventura se’ impedita,
Mi scrivi chi dopo li dieci giorni
T’ha ritenuta di qui far reddita.
Deh non sia grave a’ tuoi parlari adorni,
In questo almen contenta la mia vita,
E dimmi se io deggio più di spene
In te avere omai, dolce mio bene.
LXXIII.
Se mi darai speranza, aspetteraggio,
Come ch’el mi sia grave oltremisura;
Se tu la mi torrai, m’uccideraggio,
E darò fine alla mia vita dura.
Ma come che si sia mio il dannaggio,
La vergogna sia tua, ch’a così oscura
Morte recato avrai un tuo soggetto,
Non avendo commesso alcun difetto.
LXXIV.
Perdona se nell’ordine dettando
I’ ho fallito, e se di macchie piena
Forse vedi la lettera ch’io mando:
Che dell’uno e dell’altro la mia pena
N’è gran cagion, perocchè lagrimando
Vivo e dimoro, nè le mi raffrena
Nullo accidente: adunque son dolenti
Lacrime, queste macchie sì soventi.
LXXV.
E più non dico, benchè a dire assai
Ancor mi resti, se non che ne vegni;
Deh fallo anima mia, che tu potrai,
Se tu quanto tu sai pur te n’ingegni.
Oimè, che tu non mi conoscerai,
Tal son tornato ne’ dolor malegni;
Nè più ti dico, se non Dio sia teco,
E tosto faccia te esser con meco.
LXXVI.
Quinci la diede a Pandar suggellata,
Che la mandò: ma la risposta invano
Da essi fu per più giorni aspettata;
Onde il dolor di Troilo più che umano
Perseverò, e fugli raffermata
L’openïon del sogno suo non sano,
Non però tanto ch’el non isperasse
Che pure ancor Griseida l’amasse.
LXXVII.
Di giorno in giorno il suo dolor crescea
Mancando la speranza, onde a giacere
Por li convenne, che più non potea:
Ma pur per caso un dì ’l venne a vedere
Deifebo, a cui molto ben volea;
Il qual non vedendo el, nel suo dolere,
Griseida, a dir cominciò pianamente,
Deh non mi far morir tanto dolente.
LXXVIII.
Deifebo s’accorse allor, che quello
Fosse che lo strignea, e fatta vista
D’udito non l’aver, disse: fratello,
Che non conforti omai l’anima trista?
Il tempo gaio viene e fassi bello,
Rinverdiscono i prati, e lieta vista
Danno di sè; e il dì è già venuto
Che della tregua il termine è compiuto.
LXXIX.
Sicchè ’l nostro valore al modo usato
Potrem nell’armi a’ Greci far sentire:
Non vuo’ tu più con noi venire armato,
Che ’l primo solevi essere al ferire,
E come pro’ da loro esser dottato
Tanto, ch’avanti a te tutti fuggire
Ne solei fare? Ettor n’ha già commossi,
Che doman siam con lui di fuor da’ fossi.
LXXX.
Quale lion famelico, cercando
Per preda, faticato si riposa,
Subito su si leva i crin vibrando
Se cervo, o toro sente o altra cosa
Che gli appetisca, sol quella bramando;
Tal Troilo udendo la guerra dubbiosa
Ricominciarsi, subito vigore
Gli corse dentro all’infiammato core.
LXXXI.
E ’l capo alzato, disse: fratel mio,
Io son nel vero alquanto deboletto,
Ma io ho della guerra tal disio,
Che rinforzato, tosto d’esto letto
Mi leverò: e giuroti, se io
Mai combattei con duro e forte petto
Contra li Greci, or più combatteraggio
Ch’ancor facessi, in sì grand’odio gli aggio.
LXXXII.
Intese ben Deifebo ove gieno
Quelle parole, e confortollo assai,
Dicendogli che là l’aspetterieno,
Però non s’indugiasse più omai
Al suo conforto, e addio si dicieno;
Troilo rimase con gli usati guai,
Deifebo a’ fratei sen venne ratto,
Ed ebbe a lor tutto contato il fatto.
LXXXIII.
Il che essi credetter prestamente,
Per atti già veduti; e per non farlo
Tristo di ciò, di non dirne niente
Fra lor diliberaro, e d’aiutarlo;
Perchè alle donne loro incontanente
Fer dir ch’ognuna andasse a visitarlo,
E con suoni e cantori a fargli festa,
Sì ch’obliasse la vita molesta.
LXXXIV.
In poca d’ora la camera piena
Di donne fu, e di suoni e di canti:
Dall’una parte gli era Polissena,
Ch’un’angela pareva ne’ sembianti;
Dall’altra gli sedea la bella Elena,
Cassandra ancora gli stava davanti;
Ecuba v’era, e Andromaca, molte
Di lui cognate e parenti raccolte.
LXXXV.
Ciascuna a suo potere il confortava,
E tale il domandava che sentia;
Esso non rispondea, ma riguardava
Or l’una or l’altra, e nella mente pia
Di Griseida sua si ricordava,
Nè più che con sospir ciò discopria;
E pur sentiva alquanto di dolcezza
E per li suoni e per la lor bellezza.
LXXXVI.
Cassandra che per caso aveva udito
Ciò che ’l fratel Deifebo aveva detto,
Quasi schernendol perchè sì smarrito
Si dimostrava, ed era nell’aspetto,
Disse: fratel, per te mal fu sentito,
Siccome io m’accorgo, il maladetto
Amor, per cui disfatti esser dobbiamo,
Come veder, se noi vogliam, possiamo.
LXXXVII.
E poichè pur così doveva andare,
Di nobil donna fostu innamorato!
Che condotto ti se’ a consumare
Per la figlia d’un prete scellerato,
E mal vissuto e di piccolo affare:
Ecco figliuolo d’alto re onorato,
Che ’n pena e ’n pianto mena la sua vita,
Perchè da lui Griseida s’è partita!
LXXXVIII.
Turbossi Troilo la sorella udendo,
Sì perchè udiva dispregiar colei
La quale el più amava, e sì sentendo
Che ’l suo segreto agli orecchi a costei
Era venuto, il come non sapendo,
Pensò che per risponso degli dei
Ella il sapesse; non pertanto disse:
Ver parria questo se io mi tacisse:
LXXXIX.
E cominciò; Cassandra, il tuo volere
Ogni segreto, più che l’altra gente,
Con tue immaginazioni antivedere,
T’ha molte volte già fatta dolente;
Forse più senno ti saria il tacere,
Che sì parlare scapestratamente:
Tu gitti innanzi a tutti i tuoi sermoni,
Nè so che di Griseida ti ragioni.
XC.
Perchè vedendo te soprabbondare,
Io vo’ far quel che io non feci ancora,
Cioè la tua bestialità mostrare:
Tu di’ che per Griseida mi scolora
Soperchio amore, e vuommel rivoltare
In gran vergogna, ma infino ad ora
Non t’ha di questo il vero assai mostrato
Il tuo Apollo, il qual di’ c’hai gabbato.
XCI.
Per tale amor Griseida giammai
Non mi fu in piacer, nè credo sia
Nessuno al mondo nè che fosse mai
Ch’ardisse a sostener questa bugia:
E se, siccome tu dicendo vai,
Ver fosse, giuro per la fede mia,
Mai non l’avrei di qui lasciata gire,
Prima m’avria Priam fatto morire.
XCII.
Non che io creda che l’avria sofferto,
Come sofferse che Paris Eléna
Rapisse, onde abbiam ora cotal merto:
Però la lingua tua pronta raffrena.
Ma pognam pur che così fosse certo,
Ch’io per lei fosse in questa grave pena,
Perchè non è Griseida in ciascun atto
Degna d’ogni grand’uom, qual vuoi sia fatto?
XCIII.
Io non vo’ ragionar della bellezza
Di lei, che al giudicio di ciascuno
Trapassa quella della somma altezza,
Perocchè fior caduto è tosto bruno;
Ma vegnam pure alla sua gentilezza,
La qual tu biasmi tanto, e qui ognuno
Consenta il ver se ’l dico, e l’altro il nieghi,
Ma il perchè, il prego, ch’egli alleghi.
XCIV.
E gentilezza dovunque è virtute,
Questo nol negherà niuno che ’l senta,
Ed elle sono in lei tutte vedute,
Se dall’opra l’effetto s’argomenta:
Ma pur partitamente a tal salute
È da venir, sol per lasciar contenta
Costei che tanto d’ogni gente parla,
Senza saper che sia quel ch’ella ciarla.
XCV.
Se non m’inganna forse la veduta,
E quel ch’altri ne dice, più onesta
Di costei nulla ne fia mai nè è suta;
E se ’l ver odo, sobria e modesta
È oltre all’altre, e certo la paruta
Di lei il mostra; e similmente è questa
Tacita ove conviensi e vergognosa,
Che in donna è segno di nobile cosa.
XCVI.
Appar negli atti suoi la discrezione,
E nel suo ragionare, il quale è tanto
Saldo e sentito e pien d’ogni ragione,
Ed io ne vidi in parte uguanno quanto
Fosse, in la scusa della tradigione
Fatta per lei del padre, e nel suo pianto
Del suo altiero e ben reale sdegno
Con dicenti parole diede segno.
XCVII.
I suoi costumi sono assai palesi,
E perciò non mi par ch’abbian mestieri
Nè d’altrui nè da me esser difesi;
Nè credo in questa terra cavalieri,
E siencen quanti voglin de’ cortesi,
Cui non mattasse in mezzo lo scacchieri
Di cortesia e di magnificenza,
Sol che in ciò far le basti la potenza.
XCVIII.
Ed io il so, che già istato sono
Dov’ella me ed altri ha onorati
Sì altamente, che in real trono
Ne seggon molti alli quali impacciati
Parria essere stati, e in abbandono
Siccome vili n’avrien tralasciati:
Se ella è stata qui sempre pudica,
La fama sua lodevole lo dica.
XCIX.
Che più, donna Cassandra, chiederete
In donna omai? il suo sangue reale?
Non son re tutti quelli a cui vedete
Corona o scettro o vesta imperïale;
Assai fiate udito già l’avete,
Re è colui il qual per virtù vale,
Non per potenza: e se costei potesse,
Non cre’ tu ch’ella come tu reggesse?
C.
Ben sapria meglio assai che tu tenerla,
Io dico, stu m’intendi, la corona;
Nè saria, qual se’ tu, donna baderla,
Che dai di morso a ciascuna persona.
Degno m’avesse Iddio fatto d’averla
Per donna sì, come fra voi si suona,
Ch’io mi terrei in grandissimo pregio
Ciò che donna Cassandra ha in dispregio.
CI.
Or via andate con mala ventura,
Poi non sapete ragionar, filate;
Ricorreggete la vostra bruttura,
E le virtù d’altrui stare lasciate.
Ecco dolore, ecco nuova sciagura,
Che una pazza per sua vanitate
Quello ch’è da lodar riprender vuole,
E se non è ascoltata, le ne duole.
CII.
Cassandra tacque, e volentieri stata
Esser vorrebbe altrove quella volta;
E tra le donne si fu mescolata
Senz’altro dire, e come gli fu tolta
Dal viso, così tosto ne fu andata
Al palagio real, nè mai più volta
Per visitarlo dievvi: non fu ella
Sì ben veduta ed ascoltata in quella.
CIII.
Ecuba, Elena, e l’altre commendaro
Ciò ch’avea detto Troilo; e dopo un poco
Piacevolmente tutte il confortaro,
E con parole, e con festa e con giuoco:
E quindi insieme tutte se n’andaro,
Ciascheduna tornandosi al suo loco;
E poi più volte il visitare ancora,
Mentre in sul letto debol fe’ dimora.
CIV.
Troilo sì per lo continuare
D’essere in doglia, divenne possente
Con pazïenza quella a comportare;
E sì ancora per l’animo ardente
Che contro a’ Greci avea di dimostrare
La sua virtù, li fece prestamente
Le forze racquistar, ch’avea perdute,
Per le troppo agre pene sostenute.
CV.
Ed oltre a ciò Griseida gli avea scritto,
E mostrato d’amarlo più che mai;
E false scuse al suo tanto star fitto
Senza tornare aveva indotte assai,
E domandato ancor nuovo rispitto
Al suo tornar, che non dovea giammai
Essere, ed el’ gli avea dato sperando
Di rivederla, ma non sapea quando.
CVI.
E ’n più battaglie poi con gli avversarj
Fatte, mostrò quanto in arme valea;
E’ suoi sospiri e gli altri pianti amari,
Che per loro operare avuto avea,
Oltre ogni stima gli vendea lor cari,
Non però quanto l’ira sua volea:
Ma morte poi, ch’ogni cosa disface,
Amore e la sua guerra pose in pace.