Il Filostrato/Proemio
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PROEMIO
DELL’AUTORE
Filostrato è il titolo di questo libro; e la cagione è, perchè ottimamente si confà cotal nome con l’effetto del libro. Filostrato tanto viene a dire, quanto uomo vinto ed abbattuto da amore, come vedere si può che fu Troilo, dell’amore del quale in questo libro si racconta; perciocchè egli fu da amore vinto sì fortemente amando Griseida, e cotanto s’afflisse nella sua partita, che poco mancò che morte non lo sorprendesse.
Molte fiate già, nobilissima donna, avvenne, che io, il quale quasi dalla mia puerizia insino a questo tempo ne’ servigi d’amore sono stato, ritrovandomi nella sua corte tra li gentili uomini e le vaghe donne, in quella con me parimente dimoranti, udii muovere e disputare questa questione, cioè: Uno giovane ferventemente ama una donna, della quale niuna altra cosa gli è conceduto dalla fortuna, se non il potere alcuna volta vederla, o tal volta di lei ragionare, o seco stesso di lei dolcemente pensare. Qual’è adunque di queste tre cose di più diletto? Nè era mai, che ciascuna di queste tre cose, da cui l’una da cui l’altra, non fosse da molti studiosamente e con acuti argomenti difesa: e perciocchè a’ miei amori, più focosi che avventurati, pareva cotale questione ottimamente essere conforme, mi ricorda la mente, che vinto dal falso parere, più volte mescolandomi tra’ questionatori, tenni e difesi di gran lunga essere maggiore il diletto, potere della cosa amata talvolta pensare, che quello che porger potesse alcuna dell’altre due: affermando, tra gli altri argomenti da me a ciò indotti, non essere picciola parte della beatitudine dell’amante, potere secondo il disio di colui che pensa disporre della cosa amata, e lei rendere secondo quello benivola e rispondente, come che ciò solamente durasse quanto il pensiero, sì che del vedere nè del ragionare non poteva certamente addivenire. O stolto giudizio, o sciocca estimazione, o vano argomento, quanto dal vero eravate lontani! amara esperienza, me misero, me lo dimostra al presente. O speranza dolcissima dell’afflitta mente, ed unico conforto del trafitto core, io non mi vergognerò d’aprirvi con qual forza nel tenebroso intelletto m’entrasse la verità, contro alla quale io puerilmente errando avea l’armi prese; ed a cui il potre’ io dire, che alcuno alleggiamento potesse porre alla penitenza datami, non so s’io mi dica da amore o dalla fortuna, per la falsa opinione avuta, se non a voi?
Affermo adunque, bellissima donna, esser vero, che poscia che voi nella più graziosa stagione dell’anno, dalla dilettevole città di Napoli dipartendovi, e in Sannio andandone, agli occhi miei, più del vostro angelico viso vaghi che d’altra cosa, mi toglieste subitamente quello che io per la vostra presenza doveva conoscere, non conoscendolo, per lo suo contrario prestamente mi fece conoscere, cioè per la privazione di quella; la quale tanto fuori d’ogni dovuto termine m’ha l’anima contristata, che assai apertamente posso comprendere, quanta fosse la letizia, allora poco da me conosciuta, che mi veniva dalla vostra graziosa e bella vista. Ma perchè alquanto appaia più questa verità manifesta, non mi fia grave, nè il voglio intralasciare, come che altrove più che qui si distenda, ciò che avvenuto mi sia, a dichiarazione di tanto errore, dopo la vostra partenza.
Dico adunque, se Dio tosto coll’aspetto del vostro bel viso gli occhi miei riponga nella perduta pace, che poichè io seppi che voi di qui partita eravate, e in parte andatane, dove niuna onesta cagione a vedervi mi doveva mai potere menare, che essi, per li quali la luce soavissima del vostro amore mi menò nella mente, oltre alla fede che porger possono le mie parole, hanno assai volte di tante e di sì amare lagrime bagnata la faccia mia, ed il dolente seno riempiuto, che non solamente è stata mirabil cosa onde tanta umidità sia ad essi da essi venuta, ma ancora non che in voi, la quale credo che come gentile siete così siate pietosa, in niuno che mio nimico fosse, e di ferro avesse il petto, a forza avrebbono messa pietade. Nè solamente questo è avvenuto quante volte ricordato mi sono d’avere la vostra piacevole presenza perduta gli ha fatti tristi, ma qualunque cosa è loro davanti apparita, di loro maggior miseria è stata cagione. Oimè, quante volte per minor doglia sentire, si sono spontaneamente ritorti dal guardare il tempio, le logge, le piazze, e gli altri luoghi, ne’ quali, già vaghi e desiderosi cercavano di vedere, e talvolta in essi videro la vostra sembianza; e dolorosi hanno il cuore costretto a dir seco quello verso di Geremia: «O come siede sola la città, la quale in addietro era piena di popolo, e donna delle genti!» Certo io non dirò ogni cosa parimente attristargli, ma io affermo solo una essere quella parte che alquanto la loro tristizia mitiga, riguardando quelle contrade, quelle montagne, quella parte del cielo, fra le quali e sotto la quale porto ferma opinione che voi siate; quindi ogni aura, ogni soave vento che di colà viene, così nel viso ricevo, quasi il vostro senza niuno fallo abbia tocco: nè è perciò troppo lungo questo mitigamento, ma quale sopra le cose unte veggiamo talvolta le fiamme discorrere, tal sopra l’afflitto cuore questa soavità discorre, fuggendo subita per lo sopravvegnente pensiero che mi mostra non potervi vedere, essendo di ciò senza misura acceso il mio disio.
Che dirò de’ sospiri, i quali nel passato piacevole amore e dolce speranza mi soleano infiammati trarre dal petto? Certo io non ho altro che dirne, se non che moltiplicati in molti doppii di grandissima angoscia, mille volte ciascuna ora da quello per la mia bocca fuori sono sforzatamente sospinti. E similmente le mie voci, le quali già alcuna volta mosse, non so da che occulta letizia procedente dal vostro sereno aspetto, in amorosi canti, e in ragionamenti pieni di focoso amore, s’udirono sempre poi chiamare il vostro nome di grazia pieno e amore per mercede, e la morte per fine de’ miei dolori, e i grandissimi rammarichii possono essere stati uditi da chi m’è stato presso.
In cotal vita adunque vivo da voi lontano, e sempre più comprendo quanto fosse il bene, e ’l piacere e il diletto che da’ vostri occhi per addietro male da me conosciuto procedeva: e come che tempo assai mi prestano e le lagrime e’ sospiri a potere del vostro valore ragionare, e ancora al presente della vostra leggiadria, de’ costumi gentili, e della donnesca altezza, e della sembianza vaga più ch’altra, la quale io sempre con gli occhi della mente riguardo tutta, e mentre perciò di tale ragionamento o pensiero non dico che alcuno piacere l’anima non senta, ma questo piacere viene mischiato con un disio ferventissimo, il quale tutti gli altri disii accende in tanta fiamma di vedervi, che appena in me regger gli posso, che non mi tirino, posta giù ogni debita onestà e ragionevole consiglio, colà dove voi dimorate; ma pur vinto dal volere il vostro onore più che la mia salute guardare, gli raffreno; e non avendo altro ricorso, sentendomi la via chiusa del rivedervi, per la cagione mostrata, alle lagrime tralasciate ritorno. Ah lasso, quanto m’è la fortuna crudele e nemica ne’ miei piaceri, sempre stata rigida maestra e correggitrice de’ miei errori! ora misero me il conosco, ora il sento, ora apertissimamente discerno, quanto di bene, quanto di piacere, quanto di soavità, più nella luce vera degli occhi vostri volgendola ne’ miei, che nella falsa lusinga del mio pensier dimorasse. Così adunque, o splendido lume della mia mente, col privarmi della vostra amorosa vista, ha fortuna risoluta la nebula dell’errore per addietro da me sostenuto: ma nel vero sì amara medicina non bisognava a purgare la mia ignoranza, più lieve gastigamento m’avrebbe nella diritta via ritornato. Ora così vagliano le mie forze a quelle della fortuna? quantunque la mia ragione sia molta, non possono resistere. E come che si vada, io sono pure per la vostra partenza a tal punto venuto, qual di sopra v’hanno le mie lettere dichiarato; e con mia gravissima noia sono divenuto certo di ciò, che prima incerto disputava in contrario. Ma da venire è omai a quel termine, per lo quale scrivendo infino a qui son trascorso, e dico, che vedendomi in tanta e così aspra avversità per lo vostro dipartir pervenuto, prima proposi di ritenere del tutto dentro del tristo petto l’angoscia mia, acciocchè palesata non fosse per avventura di molto maggiore efficace cagione; e ciò sostenendo con forza, assai vicino a disperata morte mi fe’ venire, la quale se pure venuta fosse, senza niun fallo allora cara mi sarebbe stata. Ma poi, non so da che occulta speranza mosso, di dovervi pure ancora quando che sia rivedere, e nella prima felicità ritornare gli occhi miei, mi nacque non solamente paura di morte, ma desiderio di lunga vita, quantunque misera non vedendovi la dovessi menare. E conoscendo assai chiaramente, che tenendo io del tutto, come proposto avea, la mia conceputa doglia nel petto nascosa, era impossibile, che delle mille volte che essa abbondante e ogni termine trapassante sopravvenia, alcuna non vincesse tanto le forze mie, già debolissime divenute, che morte senza fallo ne seguirebbe, e più in conseguenza non vi vedrei. Da più utile consiglio mosso mutai proposta, e pensai di volere con alcuno onesto rammarichio dare luogo a quello a uscire dal tristo petto, acciocchè io vivessi, e potessi ancora rivedervi, e più lungamente vostro dimorassi vivendo. Nè prima tal pensiero nella mente mi venne, che il modo con esso subitamente m’occorse; dal quale avvenimento, quasi da nascosa divinità spirato, certissimo augurio presi di futura salute. E il modo fu questo, di dovere in persona di alcuno passionato, siccome io era e sono, cantando narrare i miei martirii. Meco adunque con sollecita cura cominciai a rivolgere l’antiche storie, per trovare cui potessi verisimilmente fare scudo del mio segreto e amoroso dolore. Nè altro più atto nella mente mi venne a tal bisogno, che il valoroso giovane Troilo, figliuolo di Priamo nobilissimo re di Troia, alla cui vita, in quanto per amore e per la lontananza della sua donna fu doloroso, se fede alcuna alle antiche storie si può dare, poichè Griseida da lui sommamente amata fu al suo padre Calcas renduta, è stata la mia similissima dopo la vostra partita. Per che dalla persona di lui e da’ suoi accidenti ottimamente presi forma alla mia intenzione, e susseguentemente in leggiere rima, e nel mio fiorentino idioma, con stile assai pietoso i suoi e miei dolori parimente composi, li quali una e altra volta cantando, assai utili gli ho trovati, secondo che fu nel principio l’avviso. È vero, che dinanzi alle sue più amare doglie, in simile stilo parte della sua felice vita si trova, la quale posi, non perch’io desideri che alcuno creda che io di simil felicità gloriare mi possa, perocchè non mi fu mai tanto favorevole la fortuna, nè sforzandomi di sperarlo nol può in alcun modo concedere la credenza che ciò avvenga, ma per questo le scrissi, perchè la felicità veduta da alcuno, molto meglio si comprende quanta e qual sia la miseria sopravvenuta. La qual felicità nondimeno, in tanto è alli miei fatti conforme, in quanto io non meno di piacere dagli occhi vostri traeva, che Troilo prendesse dall’amoroso frutto che di Griseida gli concedea la fortuna.
Adunque, valorosa donna, queste cotali rime in forma d’un piccolo libro, in testimonianza perpetua a coloro che nel futuro il vedranno, e del vostro valore, del quale in persona altrui esse sono in più parti ornate, e della mia tristizia, ridussi; e ridotte, pensai non essere onesta cosa, quelle ad alcuna altra persona prima pervenire alle mani che alle vostre, che d’esse siete stata vera e sola cagione. Per la qual cosa, come che picciolissimo dono sia da mandare a tanta donna quanto voi siete, nondimeno, perchè l'affezione di me mandatore è grandissima e piena di pura fede, vel pure ardisco a mandare, quasi sicuro, che non per mio merito, ma per vostra benignità e cortesia da voi ricevute saranno. Nelle quali se avviene che leggiate, quante volte Troilo piangere e dolersi della partita di Griseida troverete, tante apertamente potrete comprendere e conoscere le mie medesime voci, le lagrime, i sospiri e l’angosce; e quante volte le bellezze, i costumi, e qualunque altra cosa laudevole in donna, di Griseida scritto troverete, di voi essere parlato potrete intendere: l’altre cose, che oltre a queste vi sono assai, niuna, siccome già dissi, a me non appartiene, nè per me vi si pone, ma perchè la storia nel nobile innamorato giovane lo richiede: e se così siete avveduta come vi tengo, così da esse potrete comprendere quanti e quali siano i miei disii, dove terminino, e che cosa essi più che altro dimandino, o se alcuna pietà meritano. Ora io non so se esse fieno di tanta efficacia, che voi leggendole con alcuna compassione possano toccare la casta mente, ma amore ne prego che questa forza a loro ne presti; il che se addiviene, quanto più umilmente posso prego voi, che alla vostra tornata mettiate sollecitudine, talchè la vita mia, la quale a uno sottilissimo filo è pendente, e da speranza con fatica tenuta, possa, vedendovi, lieta nella prima certezza di sè ritornare: e se ciò non può forse così tosto come io desidererei avvenire, almeno con alcuno sospiro o con pietoso prego, per me fate ad amore che alle mie noie presti alcuna pace, e lei smarrita riconfortare. Il mio lungo sermone da sè medesimo chiede fine, e perciò dandoglielo, prego colui che nelle vostre mani ha posta la mia vita e la mia morte, che egli nel vostro cuore quello disio accenda, che solo esser può cagione della mia salute.