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Il Filostrato/Parte prima

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Parte prima

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Proemio Parte seconda
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IL

FILOSTRATO

DI GIOVANNI BOCCACCI



PARTE PRIMA



ARGOMENTO

Qui comincia la prima parte del libro chiamato Filostrato, dell’amorose fatiche di Troilo, nella quale si pone, come Troilo innamorossi di Griseida, e gli amorosi sospiri e le lagrime per lui avute, prima che ad alcuno il suo occulto amore discoprisse; e primieramente la invocazione dell’autore.


I.


Alcun di Giove sogliono il favore
     Ne’ lor principii pietosi invocare;
     Altri d’Apollo chiamano il valore;
     Io di Parnaso le muse pregare
     Solea ne’ miei bisogni, ma amore
     Novellamente m’ha fatto mutare
     Il mio costume antico e usitato,
     Poi fu’ di te, madonna, innamorato.

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II.


Tu donna se’ la luce chiara e bella,
     Per cui nel tenebroso mondo accorto
     Vivo; tu se’ la tramontana stella
     La qual’io seguo per venire al porto;
     Ancora di salute tu se’ quella
     Che se’ tutto il mio bene e ’l mio conforto;
     Tu mi se’ Giove, tu mi sei Apollo,
     Tu se’ mia musa, io l’ho provato e sollo.

III.


Per che volendo per la tua partita,
     Più greve a me che morte e più noiosa,
     Scriver qual fosse la dolente vita
     Di Troilo, da poi che l’amorosa
     Griseida da Troia sen fu gita,
     E come pria gli fosse grazïosa;
     A te convienmi per grazia venire,
     S’io vo’ poter la mia ’mpresa fornire.

IV.


Adunque, o bella donna, alla qual fui
     E sarò sempre fedele e soggetto,
     O vaga luce de’ begli occhi in cui
     Amore ha posto tutto il mio diletto;
     O isperauza sola di colui,
     Che t’ama più che sè d’amor perfetto,
     Guida la nostra man, reggi l’ingegno,
     Nell’opera la quale a scriver vegno.

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V.


Tu se’ nel tristo petto effigïata
     Con forza tal, che tu vi puoi più ch’io;
     Pingine fuor la voce sconsolata
     In guisa tal, che mostri il dolor mio
     Nell’altrui doglie, e rendila sì grata,
     Che chi l’ascolta ne divenga pio;
     Tuo sia l’onore, e mio si sia l’affanno,
     Se i detti alcuna laude acquisteranno.

VI.


E voi amanti prego che ascoltiate
     Ciò che dirà ’l mio verso lagrimoso;
     E se nel cuore avvien che voi sentiate
     Destarsi alcuno spirito pietoso,
     Per me vi prego ch’amore preghiate,
     Per cui siccome Troilo doglioso
     Vivo lontan dal più dolce piacere,
     Che a creatura mai fosse in calere.

VII.


Erano a Troia i greci re d’intorno
     Nell’armi forti, e giusta lor potere
     Ciascuno ardito, fiero, prode, e adorno
     Si dimostrava, e con le loro schiere
     Ognor la stringean più di giorno in giorno,
     Concordi tutti in un pari volere,
     Di vendicar l’oltraggio e la rapina
     Da Paris fatta d’Elena reina.

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VIII.


Quando Calcas, la cui alta scïenza
     Avea già meritato di sentire
     Del grande Apollo ciascuna credenza,
     Volendo del futuro il vero udire,
     Qual vincesse, o la lunga sofferenza
     De’ Troiani, o de’ Greci il grande ardire;
     Conobbe e vide, dopo lunga guerra
     I Troian morti e distrutta la terra.

IX.


Per che segretamente dipartirsi
     Diliberò l’antiveduto e saggio;
     E preso luogo e tempo da fuggirsi,
     Ver la greca oste si mise in viaggio;
     Onde all’incontro assai vide venirsi,
     Che ’l ricevetton con lieto visaggio;
     Da lui sperando sommo e buon consiglio
     In ciascheduno accidente o periglio.

X.


Fu romor grande quando fu sentito,
     Per tutta la città generalmente,
     Che Calcas s’era di quella fuggito,
     E parlato ne fu diversamente,
     Ma mal da tutti, e ch’egli avea fallito,
     E come traditor fatto reamente,
     Nè quasi per la più gente rimase
     Di non andargli col fuoco alle case.

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XI.


Avea Calcas lasciata in tanto male,
     Senza niente farlene assapere,
     Una sua figlia vedova, la quale
     Sì bella e sì angelica a vedere
     Era, che non parea cosa mortale,
     Griseida nomata, al mio parere
     Accorta, savia, onesta e costumata
     Quanto altra che in Troia fosse nata.

XII.


La qual sentendo il noioso romore
     Per la fuga del padre, assai dogliosa,
     Qual’era in tanto dubbioso furore,
     In abito dolente, e lagrimosa,
     Gittossi ginocchioni appiè d’Ettore,
     E con voce e con vista assai pietosa,
     Scusando sè, e ’l suo padre accusando,
     Finì suo dire mercè addimandando.

XIII.


Era pietoso Ettor di sua natura,
     Perchè vedendo di costei il gran pianto,
     Ch’era più bella ch’altra creatura,
     Con pio parlare la confortò alquanto,
     Dicendo: lascia con la ria ventura
     Tuo padre andar, che ci ha offeso tanto,
     E tu sicura e lieta senza noia,
     Con noi mentre t’aggrada ti sta’ in Troia.

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XIV.


Il piacere e l’onore il qual vorrai,
     Come Calcas ci fosse, abbi per certo,
     Sempre da tutti quanti noi avrai;
     A lui rendan gl’iddii condegno merto.
     Ella di questo il ringraziò assai,
     E più volea, ma non le fu sofferto,
     Ond’ella si drizzò, e ritornossi
     A casa sua, e quivi riposossi.

XV.


Quivi si stette con quella famiglia
     Ch’al suo onor convenia di tenere,
     Mentre fu in Troia, onesta a maraviglia
     In abito ed in vita, nè calere
     Le bisognava di figlio o di figlia,
     Come a colei che mai nessuno avere
     N’avea potuto, e da ciascuno amata
     Che la conobbe fu ed onorata.

XVI.


Le cose andavan sì come di guerra,
     Tra li Troiani e’ Greci assai sovente;
     Talvolta uscieno i Troian della terra
     Sopra gli Greci vigorosamente;
     E spesse volte i Greci, se non erra
     La storia, givano assai fieramente
     Fino in su’ fossi e d’intorno rubando,
     Castella e ville ardendo ed abbruciando.

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XVII.


E come ch’e’ Troian fosser serrati
     Dalli greci nemici, non avvenne
     Che però fosson mal intralasciati
     Gli divin sacrificii, ma si tenne
     Per ciascun tempio quelli modi usati:
     Ma con maggiore onore e più solenne,
     Che alcuno altro, Pallade onoravano
     In ogni cosa, e più ch’altro guardavano.

XVIII.


Perchè venuto il vago tempo il quale
     Riveste i prati d’erbette e di fiori,
     E che gaio diviene ogni animale,
     E in diversi atti mostran loro amori;
     Li troian padri al Palladio fatale
     Fer preparar li consueti onori;
     Alla qual festa e donne e cavalieri
     Fur parimente, e tutti volentieri.

XIX.


Tra’ quali fu di Calcas la figliuola
     Griseida, la qual’era in bruna vesta,
     La qual, quanto la rosa la viola
     Di beltà vince, cotanto era questa
     Più ch’altra donna bella, ed essa sola
     Più ch’altra facea lieta la gran festa,
     Stando nel tempio assai presso alla porta,
     Negli atti altiera, piacente ed accorta.

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XX.


Troilo giva come soglion fare
     I giovinetti, or qua or là veggendo
     Per lo gran tempio, e co’ compagni a stare;
     Or qui or quivi si giva ponendo,
     Ed ora questa ed or quella a lodare
     Incominciava, e tali riprendendo,
     Siccome quegli a cui non ne piacea
     Una più ch’altra, e sciolto si godea.

XXI.


Anzi talora in tal maniera andando,
     Veggendo alcun che fiso rimirava
     Alcuna donna seco sospirando,
     A’ suoi compagni ridendo il mostrava,
     Dicendo: quel dolente ha dato bando
     Alla sua libertà, sì gli gravava,
     Ed a colei l’ha messa tra le mani,
     Vedete ben s’e’ suo pensier son vani.

XXII.


Che è a porre in donna alcuno amore?
     Che come al vento si volge la foglia,
     Così in un dì ben mille volte il core
     Di lor si volge, nè curan di doglia
     Che per lor senta alcun loro amadore,
     Nè sa alcuna quel ch’ella si voglia.
     O felice colui che del piacere
     Lor non è preso, e sassene astenere!

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XXIII.


Io provai già per la mia gran follia
     Qual fosse questo maladetto fuoco.
     E s’io dicessi che amor cortesia
     Non mi facesse, ed allegrezza e giuoco
     Non mi donasse, certo i’ mentiria,
     Ma tutto il bene insieme accolto, poco
     Fu o niente, rispetto a’ martirj,
     Volendo amare, ed a’ tristi sospiri.

XXIV.


Or ne son fuor, mercè n’abbia colui
     Che fu di me più ch’io stesso pietoso,
     Io dico Giove, iddio vero, da cui
     Viene ogni grazia, e vivommi in riposo:
     E benchè di veder mi giovi altrui,
     Io pur mi guardo dal corso ritroso,
     E rido volentier degl’impacciati,
     Non so s’io dico amanti o smemorati.

XXV.


O cecità delle mondane menti,
     Come ne seguon sovente gli effetti
     Tutti contrarii a’ nostri intendimenti!
     Troil va ora mordendo i difetti,
     E’ solleciti amor dell’altre genti,
     Senza pensare in che il ciel s’affretti
     Di recar lui, il quale amor trafisse
     Più ch’alcun altro, pria del tempio uscisse.

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XXVI.


Così adunque andandosi gabbando
     Or d’uno or d’altro Troilo, e sovente
     Or questa donna or quella rimirando,
     Per caso avvenne che in fra la gente
     L’occhio suo vago giunse penetrando
     Fonte/commento: Milano, 1964 [Colà] dov’era Griseida piacente,
     Sotto candido velo in bruna vesta,
     Fra l’altre donne in sì solenne festa.

XXVII.


Ell’era grande, ed alla sua grandezza
     Rispondean bene i membri tutti quanti;
     Il viso aveva adorno di bellezza
     Celestïale, e nelli suoi sembianti
     Ivi mostrava una donnesca altezza;
     E col braccio il mantel tolto davanti
     S’avea dal viso, largo a sè facendo,
     Ed alquanto la calca rimovendo.

XXVIII.


Piacque quel atto a Troilo, al tornare
     Ch’ella fe’ in sè, alquanto sdegnosetto,
     Quasi dicesse: non ci si può stare;
     E diessi più a mirare il suo aspetto,
     Il qual più ch’altro degno in sè gli pare
     Di molta lode, e seco avea diletto
     Sommo tra uomo e uom di mirar fiso
     Gli occhi lucenti e l’angelico viso.

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XXIX.


Nè s’avvedea colui, ch’era sì saggio
     Poco davanti in riprendere altrui,
     Che amore dimorasse dentro al raggio
     Di que’ vaghi occhi con gli strali sui;
     Nè rammentava ancora dell’oltraggio
     Detto davanti de’ servi di lui,
     Nè dello strale, il quale al cuor gli corse,
     Finchè nol punse daddover s’accorse.

XXX.


Piacendo questa sotto il nero manto
     Oltre ad ogn’altra a Troilo, senza dire
     Qual cagion quivi il tenesse cotanto,
     Occultamente il suo alto desire
     Mirava di lontano, e mirò tanto,
     Senza niente ad alcun discoprire,
     Quanto duraro a Pallade gli onori,
     Poi coi compagni uscì del tempio fuori.

XXXI.


Nè se n’uscì qual dentro v’era entrato
     Libero e lieto, ma n’uscì pensoso,
     Ed oltre al creder suo innamorato,
     Tenendo bene il suo disio nascoso,
     Per quel che poco avanti avea parlato
     Non fosse in lui rivolto l’oltraggioso
     Parlar d’altrui, se forse conosciuto
     Fosse l’ardor nel quale era caduto.

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XXXII.


Poi fu dal nobil tempio dipartita
     Griseida, Troilo al palazzo tornossi
     Co’ suoi compagni, e quivi in lieta vita
     Con lor per lungo spazio dimorossi;
     Per me’ celar l’amorosa ferita
     Di quei ch’amavan gran pezza gabbossi,
     Poi mostrando che altro lo stringesse,
     Disse a ciascun ch’andasse ove volesse.

XXXIII.


E partitosi ognun, tutto soletto
     In camera n’andò, dove a sedere
     Si pose, sospirando, appiè del letto,
     E seco a rammentarsi del piacere
     Avuto la mattina dell’aspetto
     Di Griseida cominciò, e delle vere
     Bellezze del suo viso annoverando,
     A parte a parte quelle commendando.

XXXIV.


Lodava molto gli atti e la statura,
     E lei di cuor grandissimo stimava,
     Ne’ modi e nell’andare, e gran ventura
     Di cotal donna amar si riputava;
     E vie maggior se per sua lunga cura
     Potesse far, se quanto egli essa amava
     Cotanto appresso da lei fosse amato,
     O per servente almen non rifiutato.

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XXXV.


Immaginando affanno nè sospiro
     Poter per cotal donna esser perduto,
     E che esser dovesse il suo disiro
     Molto lodato, se giammai saputo
     Da alcuno fosse, e quinci il suo martiro
     Men biasimato, essendo conosciuto,
     Argomentava il giovinetto lieto,
     Male avvisando il suo futuro fleto.

XXXVI.


Perchè disposto a seguir tale amore,
     Pensò volere oprar discretamente;
     Pria proponendo di celar l’ardore
     Concetto già nell’amorosa mente
     A ciascheduno amico e servidore,
     Se ciò non bisognasse, ultimamente
     Pensando, che amore a molti aperto
     Noia acquistava, e non gioia per merto.

XXXVII.


Ed oltre a queste, assai più altre cose,
     Qual da scuoprire e qual da provocare
     A sè la donna, con seco propose,
     E quindi lieto si diede a cantare
     Bene sperando, e tutto si dispose
     Di voler sola Griseida amare,
     Nulla apprezzando ogni altra che veduta
     Glie ne venisse, o fosse mai piaciuta.

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XXXVIII.


E in verso amore tal fiata dicea
     Con pietoso parlar: signore, omai
     L’anima è tua che mia esser solea,
     Il che mi piace, perciocchè tu m’hai,
     Non so s’io dico a donna, ovvero a dea,
     A servir dato, che non fu giammai
     Sotto candido velo in bruna vesta
     Sì bella donna, come mi par questa.

XXXIX.


Tu stai negli occhi suoi, signor verace,
     Siccome in luogo degno a tua virtute:
     Perchè, se ’l mio servir punto ti piace,
     Da que’ ti prego impetri la salute
     Dell’anima, la qual prostrata giace
     Sotto i tuoi piè, sì la ferir l’acute
     Saette che allora le gittasti,
     Che di costei ’l bel viso mi mostrasti.

XL.


Non risparmiarono il sangue reale,
     Nè d’animo virtù ovver grandezza,
     Nè curaron di forza corporale
     Che in Troilo fosse, o di prodezza,
     L’ardenti fiamme amorose, ma quale
     In disposta materia o secca o mezza
     S’accende il fuoco, tal nel nuovo amante
     Messe le parti acceser tutte quante.

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XLI.


Tanto di giorno in giorno col pensiero,
     E col piacer di quello or preparava
     Più l’esca secca dentro al cuore altiero,
     E da’ begli occhi trarre immaginava
     Acqua soave al suo ardor severo;
     Perchè astutamente gli cercava
     Sovente di veder, nè s’avvedea
     Che più da quegli il fuoco s’accendea.

XLII.


Costui or qua or là che gisse, andando,
     Sedendo ancora, solo o accompagnato,
     Com’el volesse, bevendo o mangiando,
     La notte e ’l giorno ed in qualunque lato
     Di Griseida sempre gía pensando,
     E ’l suo valor e ’l viso dilicato
     Di lei, diceva, avanza Polissena
     D’ogni bellezza, e similmente Elena.

XLIII.


Nè del dì trapassava nessun’ora
     Che mille volte seco non dicesse:
     O chiara luce che ’l cuor m’innamora,
     O Griseida bella, iddio volesse,
     Che ’l tuo valor che ’l viso mi scolora
     Per me alquanto a pietà ti movesse;
     Null’altra fuor che tu lieto può farmi,
     Tu sola se’ colei che puoi atarmi.

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XLIV.


Ciascun altro pensier s’era fuggito
     Della gran guerra e della sua salute;
     E sol nel petto suo era sentito
     Quel che parlasse dell’alta virtute
     Della sua donna; e per questo impedito,
     Sol di curar l’amorose ferute
     Sollecito era, e quivi ogni intelletto
     Avea posto all’affanno, ed il diletto.

XLV.


L’aspre battaglie e gli stormi angosciosi,
     Ch’Ettore e gli altri suoi frate’ faceano
     Seguiti da’ Troian, dagli amorosi
     Pensier poco o niente il rimoveano;
     Come che spesso ne’ più perigliosi
     Assalti, innanzi agli altri lui vedeano
     Mirabilmente nell’armi operare:
     Ciò disser quei che stavanlo a mirare.

XLVI.


Nè a ciò l’odio dei Greci il rimovea,
     Nè vaghezza ch’avesse di vittoria
     Per Troia liberar, la qual vedea
     Stretta da assedio, ma voglia di gloria
     Per più piacer tutto questo facea;
     E per amor, se ’l ver dice la storia,
     Divenne in arme sì feroce e forte,
     Che gli Greci il temean come la morte.

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XLVII.


Aveagli già amore il sonno tolto,
     E minuito il cibo, ed il pensiero
     Moltiplicato sì, che già nel volto
     Ne dava pallidezza segno vero;
     Come che egli il ricuoprisse molto
     Con riso infinto e con parlar sincero,
     E chi ’l vedea pensava ch’avvenisse
     Per noia della guerra ch’e’ sentisse.

XLVIII.


E qual si fosse non ci è assai certo,
     O che Griseida non se n’accorgesse,
     Per l’operar di lui ch’era coperto,
     O che di ciò conoscer s’infingesse,
     Ma questo n’è assai chiaro ed aperto,
     Che nïente pareva le calesse
     Di Troilo e dell’amor che le portava,
     Ma come non amata dura stava.

XLIX.


Di quinci sentia Troilo tal dolore
     Che dir non si poria, talor temendo
     Che Griseida non fosse d’altro amore
     Presa, e per quello lui vilipendendo
     Ricever nol volesse a servidore,
     Ben mille modi seco ripetendo
     Se veder puote di farle sentire
     Onestamente il suo caldo disire.

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L.


Onde quand’egli aveva spazio punto
     Seco d’amor sen giva a lamentare,
     Fra sè dicendo: Troilo, or se’ giunto,
     Che ti solevi degli altri gabbare,
     Nessun ne fu mai quanto tu consunto
     Per mal saperti dall’amor guardare;
     Or se’ nel laccio preso, il qual biasmavi
     Tanto negli altri, e da te non guardavi.

LI.


Che si dirà di te fra gli altri amanti
     Se questo tuo amor fosse saputo?
     Di te si gabberanno tutti quanti,
     Fra lor dicendo: or ecco il provveduto
     Ch’e’ sospir nostri e gli amorosi pianti
     Morder soleva, già ora è venuto
     Dove noi siamo; amor ne sia lodato,
     Ch’a tal partito l’ha ora recato.

LII.



Che si dirà di te fra gli eccellenti
     Re e signor, se questo fia sentito?
     Ben potran dir, di ciò assai scontenti:
     Vedi questi com’è del sonno uscito,
     Che in questi tempi noiosi e dolenti
     Sì nuovamente d’amore è irretito,
     Dove alla guerra dovrebbe esser fiero,
     In amar si consuma il suo pensiero.

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LIII.


Ed or fostu, o Troilo dolente,
     Poscia ch’egli era dato che tu amassi,
     Preso per tal, che un poco solamente
     D’amor sentissi, onde ti consolassi;
     Ma quella per cui piagni nulla sente
     Se non come una pietra, e così stassi
     Fredda come al sereno interza il ghiaccio,
     Ed io qual neve al fuoco mi disfaccio.

LIV.


Ed or foss’io pur venuto al porto
     Al qual la mia sventura sì mi mena,
     Questo mi saria grazia e gran conforto,
     Perchè morendo uscire’ d’ogni pena;
     Che se il mio mal, del qual nessun s’è accorto
     Ancora, se si scuopre, fia ripiena
     La vita mia di mille ingiurie al giorno,
     E più ch’altro sarò detto musorno.

LV.


Deh, aiutami amore! e tu per cui
     I’ piango, preso più che altro mai,
     Deh sii pietosa un poco di colui
     Che t’ama più che la sua vita assai;
     Volgi il bel viso omai verso di lui,
     Da colui mossa, che in questi guai
     Per te donna mi tiene, io te ne priego,
     Deh non mi far di questa grazia niego.

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LVI.


Io tornerò, se tu fai donna questo,
     Qual fiore in nuovo prato in primavera,
     Nè mi fia poscia l’aspettar molesto,
     Nè il vederti disdegnosa o altera;
     E se t’è grave, almeno a me, che presto
     Ad ogni tuo piacer son, grida fera
     Ucciditi, che io ’l farò di fatto,
     Credendoti piacere in cotal atto,

LVII.


Quinci diceva molte altre parole,
     Piangeva e sospirava, e di colei
     Chiamava il nome, sì come far suole
     Chi soperchio ama, ed alli suoi omei
     Mercè non trova, che tutt’eran fole
     Che perdeansi ne’ venti, che a lei
     Nulla ne perveniva, onde il tormento
     Moltiplicava ciascun giorno in cento.