Il Filostrato/Parte seconda
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IL
FILOSTRATO
DI GIOVANNI BOCCACCI
PARTE SECONDA
ARGOMENTO
I.
Standosi in cotal guisa un dì soletto
Nella camera sua Troilo pensoso,
Vi sopravvenne un troian giovinetto,
D’alto lignaggio e molto coraggioso;
Il qual veggendo lui sopra il suo letto
Giacer disteso e tutto lagrimoso,
Che è questo, gridò, amico caro?
Hatti già così vinto il tempo amaro?
II.
Pandaro, disse Troilo, qual fortuna
T’ha qui condotto a vedermi morire?
Se la nostra amistade ha forza alcuna,
Piacciati quinci volerti partire,
Ch’io so che grave più ch’altra nessuna
Cosa ti fia il vedermi morire;
Ed io non sono per più stare in vita,
Tant’è la mia virtù vinta e smarrita,
III.
Nè creder tu che l’assediata Troia,
O d’armi affanno, o alcuna paura,
Cagion mi sia della presente noia,
Quest’è tra l’altre la mia minor cura;
Altro mi strigne a pur voler ch’io muoia,
Ond’io mi dolgo della mia sciagura;
Che ciò si sia non ten curare amico,
Ch’io ’l taccio per lo meglio e non tel dico.
IV.
Di Pandar crebbe allora la pietade,
Ed il disio di voler ciò sapere,
Ond’el seguì: se la nostra amistade,
Come soleva, t’è ora in piacere,
Discuopri a me qual sia la crudeltade
Che di morir ti fa tanto calere;
Ch’atto non è d’amico, alcuna cosa
Al suo amico di tener nascosa.
V.
Io vo’ con teco partir queste pene,
Se dar non posso a tua noia conforto,
Perciocchè coll’amico si convene
Ogni cosa partir, noia e diporto;
Ed io mi credo che tu sappia bene
Se io t’ho amato a diritto ed a torto,
E s’io farei per te ogni gran fatto,
E fosse che volesse ed in qual atto.
VI.
Troilo trasse allora un gran sospiro,
E disse: Pandar, poscia che ti piace
Pur di voler sentire il mio martiro,
Dirotti brevemente che mi sface;
Non perch’io speri che al mio disiro
Per te si possa porre fine o pace,
Ma sol per soddisfare al tuo gran priego,
Al qual non so come mi metta niego.
VII.
Amore, incontro al qual chi si difende
Più tosto è preso, ed adopera invano,
D’un piacer vago tanto il cor m’accende,
Ch’io n’ho per quel da me fatto lontano
Ciaschedun altro; e questo sì m’offende,
Come tu puoi veder, che la mia mano
Appena mille volte ho temperata,
Ch’ella non m’abbia la vita levata.
VIII.
Bastiti questo, caro amico mio,
Sentir de’ miei dolori, i quai giammai
Più non scopersi: e pregoti per Dio,
S’alcuna fede al nostro amor tu hai,
Ch’altrui tu non discopri tal disio,
Che noia men potria seguire assai.
Tu sai quel c’hai voluto, vanne, e lascia
Qui me combatter colla mia ambascia.
IX.
O, disse Pandar, come hai tu potuto
Tenermi tanto tal fuoco nascoso?
Che t’avrei dato consiglio o aiuto,
E trovato alcun modo al tuo riposo.
A cui Troilo disse: come avuto
Da te l’avrei, che sempre te doglioso
Per amor vidi, e non ten sai atare?
Me dunque come credi sodisfare?
X.
Pandaro disse: Troilo, io conosco
Che tu di’ il ver, ma spesse volte avviene,
Che quei che sè non sa guardar dal tosco,
Altrui per buon consiglio salvo tiene:
E già veduto s’è andare il losco
Dove l’alluminato non va bene;
E benchè l’uom non prenda buon consiglio,
Donar lo puote nell’altrui periglio.
XI.
Io ho amato sventuratamente,
Ed amo ancora per lo mio peccato;
E ciò avvien, perchè celatamente
Non ho, siccome tu, altrui amato.
Sarà che Dio vorrà; ultimamente,
L’amore ch’io t’ho sempre mai portato,
Ti porto e porterò, nè giammai fia
Chi sappia che da te detto mi sia.
XII.
Però ti rendi, amico mio, sicuro
Di me, e dimmi chi ti sia cagione
Di questo viver sì noioso e duro,
Nè temer mai di mia riprensïone
D’amor, perocchè que’ che savii furo
Ne dichiarar con lor savio sermone,
Ch’amor di cuore non potea esser tolto,
Se non da sè per lungo tempo sciolto.
XIII.
Lascia l’angoscia tua, lascia i sospiri,
E ragionando mitiga il dolore;
Così facendo passano i martirj,
E molto ancora menoma l’ardore,
Quando compagni in simili desiri
Colui si vede il quale è amatore;
Ed io, come tu sai, contra mia voglia
Amo, nè mi può tor nè crescer doglia.
XIV.
Forse fia tal colei che ti tormenta,
Che ’n tuo piacer potrò operare assai,
Ed io farei la tua voglia contenta,
Se io potessi, più ch’io non fei mai
La mia; tu il vederai: fa’ ch’io senta
Chi sia colei per cui questa pena hai;
Leva su, non giacer, pensa che meco
Ragionar puoi come con esso teco.
XV.
Si stette Troilo alquanto sospeso,
E dopo il trarre d’un sospiro amaro,
E di rossor nel viso tutto acceso
Per vergogna, rispose: amico caro,
Cagione assai onesta m’ha difeso
Di farti l’amor mio palese e chiaro,
Perocchè quella che qui m’ha condotto
È tua parente; e più non fece motto;
XVI.
E sopra il letto ricadde supino,
Piangendo forte e nascondendo il viso.
A cui Pandaro disse: amico fino,
Poca fidanza t’ha nel petto miso
Cotal sospetto; orsù lascia il tapino
Pianto che fai, che io non sia ucciso;
Se quella ch’ami fosse mia sorella,
A mio potere avrai tuo piacer d’ella.
XVII.
Leva su, dimmi, di’ chi è costei,
Dillomi tosto sì ch’io veggia via
Al tuo conforto, ch’altro non vorrei.
È ella donna che sia in casa mia?
Deh dimmel tosto, che s’ella è colei,
Ch’io vo meco pensando ch’ella sia,
Non credo che trapassi il giorno sesto,
Che ti trarrò di stato sì molesto.
XVIII.
Troilo a questo nulla rispondea,
Ma ciascun’ora più ’l viso turava;
E pure udendo ciò che promettea
Pandaro, seco alquanto più sperava:
E’ volea dire, e poi si ritenea,
Tanto d’aprirlo a lui si vergognava;
Ma stimolandol Pandaro, si volse
Ver lui piangendo, e tai parole sciolse.
XIX.
Pandaro mio, vorrei esser già morto,
Pensando a quel ch’amore m’ha sospinto,
E s’io potessi senza farti torto
Celarlo, già non men sarei infinto;
Ma più non posso, e se tu sei accorto
Siccome suoi, veder puoi che distinto
Amor non ha che l’uomo ami per legge,
Fuor che colei cui l’appetito elegge.
XX.
Altri, come tu sai, amar le suore,
E le suore i fratelli, e le figliuole
Talvolta i padri, e’ suoceri le nuore,
Le matrigne i figliastri talor suole
Anche avvenir; ma me ha preso amore
Per tua cugina, il che forte mi duole,
Io dico per Griseida: e questo detto,
Boccon piangendo ricadde in sul letto.
XXI.
Come Pandaro udì colei nomare,
Così ridendo disse: amico mio,
Per Dio ti prego non ti sconfortare;
Amore ha posto in parte il tuo disio,
Tal ch’el non lo potea meglio allogare,
Perch’ella il val veracemente, s’io
M’intendo di costumi, o di grandezza
D’animo, o di valore o di bellezza.
XXII.
Nulla donna fu mai più valorosa,
Nulla ne fu più lieta e più parlante,
Nulla più da gradir nè più graziosa,
Nulla di maggior animo tra quante
Ne furon mai; nè è sì alta cosa
Ch’ella non imprendesse tanto avante
Quanto alcun re, e che ’l cuor non le desse
Di trarla a fine, sol che si potesse.
XXIII.
Solo una cosa alquanto a te molesta
Ha mia cugina in sè oltre alle dette,
Che ella è più che altra donna onesta,
E più d’amore ha le cose dispette:
Ma s’altro non ci noia, credi a questa
Troverò modo con mie parolette
Qual ti bisogna; possi tu soffrire,
Ben raffrenando il tuo caldo disire.
XXIV.
Ben puoi dunque veder ch’amor t’ha posto
In luogo degno della tua virtute;
Sta’ dunque fermo nell’alto proposto,
E bene spera della tua salute,
La quale credo che seguirà tosto,
Se tu col pianto tuo non la rifiute;
Tu se’ di lei ed ella è di te degno,
Ed io ci adoprerò tutto ’l mio ingegno.
XXV.
Non creder, Troilo, ch’io non vegga bene
Non convenirsi a donna valorosa
Sì fatti amori, e quel ch’a me ne viene,
Ed a lei ed a’ suoi, se cotal cosa
Alla bocca del volgo mai perviene,
Che, per follia di noi, vituperosa
È divenuta, dove esser solea
Onor, dappoi per amor sì facea.
XXVI.
Ma perciocchè ’l disio s’è impedito
All’operare, e tutto simigliante
Non conosciuto, parmi per partito
Poter pigliar, che ciascheduno amante
Possa seguire il suo alto appetito,
Sol che sia savio in fatto ed in sembiante,
Senza vergogna alcuna di coloro
A cui tien la vergogna e l’onor loro.
XXVII.
Io credo certo, ch’ogni donna in voglia
Viva amorosa, e null’altro l’affrena
Che tema di vergogna; e se a tal doglia,
Onestamente medicina piena
Si può donar, folle è chi non la spoglia,
E poco parmi gli cuoca la pena.
La mia cugina è vedova, e disia;
E se ’l negasse nol gliel crederia.
XXVIII.
Poichè sentendo te saggio ed accorto,
A lei e ad amendue posso piacere,
E a ciascuno donar pari conforto,
Poscia che occulto il dovete tenere,
E fia come non fosse; e farei torto,
Se in ciò non ne facessi il mio potere
In tuo servigio; e tu sii saggio poi,
Nel tener chiuso tal’opera altroi.
XXIX.
Udiva Troilo Pandaro contento
Sì nella mente, ch’esser gli parea
Quasi già fuor di tutto il suo tormento,
E più nel suo amor si raccendea.
Ma poichè alquanto stato fu attento,
A Pandaro si volse e gli dicea:
Io credo ciò che tu di’ di costei,
Ma troppo ne par più agli occhi miei.
XXX.
Ma come mancherà però l’ardore
Ch’io porto dentro, ch’io non vidi mai
Che ella s’accorgesse del mio amore?
Ella nol crederà se tu il dirai:
Poi per tema di te, questo furore
Biasimerà, e niente farai;
E se nel cuor l’avesse, per mostrarti
D’essere onesta, non vorrà ascoltarti.
XXXI.
Ed oltre a questo, Pandar, non vorria
Che tu credessi che io disiassi
Di cotal donna alcuna villania,
Ma che le fosse a grado ch’io l’amassi
Solamente vorrei, questo mi fia
Sovrana grazia se io la impetrassi;
Di questo cerca, e più non ti dimando;
Poi abbassò il viso alquanto vergognando.
XXXII.
A cui ridendo Pandaro rispose:
Niente nuoce ciò che tu ragioni,
Lascia far me, che le fiamme amorose
Ho per le mani, e sì fatti sermoni,
E seppi già recar più alte cose
Al fine suo con nuove condizioni;
Questa fatica tutta sarà mia,
E ’l dolce fine tuo voglio che sia.
XXXIII.
Troilo destro si gittò in terra
Dal letto, lui abbracciando e baciando,
Giurando appresso che la greca guerra
Vincer nulla sariegli trionfando,
Appresso a quest’ardor che tanto il serra:
Pandaro mio, io mi ti raccomando,
Tu savio, tu amico, tu sai tutto
Ciò che bisogni a dar fine al mio lutto.
XXXIV.
Pandaro disioso di servire
Il giovinetto, il quale molto amava,
Lasciato lui dove gli piacque gire,
Sen gì ver dove Griseida stava;
La qual veggendo lui a sè venire,
Levata in piè da lunge il salutava,
E Pandar lei, che per la man pigliata,
In una loggia seco l’ha menata.
XXXV.
Quivi con risa e con dolci parole,
Con lieti motti e con ragionamenti
Parentevoli assai, sì come suole
Farsi talvolta tra congiunte genti,
Si stette alquanto, come quei che vuole
Al suo proposto con nuovi argomenti
Venire, se il potrà, e nel bel viso
Cominciò forte a riguardarla fiso.
XXXVI.
Griseida che ’l vede, sorridendo
Disse: cugin, non mi vedesti mai,
Che tu mi vai così mente tenendo?
A cui rispose Pandaro: ben sai
Ch’io t’ho veduta e di vederti intendo;
Ma tu mi par più che l’usato assai
Bella, ed hai più di che lodare Iddio,
Che altra bella donna al parer mio.
XXXVII.
Griseida disse: che vuol dir codesto?
Perchè più ora che per lo passato?
A cui Pandar rispose lieto e presto:
Perchè il tuo è il più avventurato
Viso, che mai donna avesse in questo
Mondo, s’io non mi sono ingannato;
A sì fatto uomo ho sentito che piace
Oltre misura sì, che se ne sface.
XXXVIII.
Griseida alquanto arrossì vergognosa
Udendo ciò che Pandaro diceva,
E rassembrava a mattutina rosa;
Poi tai parole a Pandaro moveva:
Non ti far beffe di me, che gioiosa
D’ogni tuo ben sarei, poco doveva
Avere a far colui a cui io piacqui,
Che mai più non m’avvenne poi ch’io nacqui.
XXIX.
Lasciamo stare i motti, disse allora
Pandaro: dimmi se’ ten tu accorta?
A cui ella rispose: non è ancora
Più d’un che d’altro, s’io non sia morta;
È vero ch’io ci veggo ad ora ad ora
Passare alcun, che sempre alla mia porta
Rimira, nè so io se va cercando
Di veder me, o d’altro va musando.
XL.
Pandaro disse allora: chi è colui?
A cui Griseida disse: veramente
Io nol conosco, nè ti so di lui
Più oltre dire. E Pandaro, che sente
Che di Troilo non dice, ma d’altrui,
Così seguì a lei subitamente:
Non è colui il qual tu hai feruto,
Uom che non sia da tutti conosciuto.
XLI.
Chi è dunque colui che si diletta
Sì di vedermi? Griseida disse.
A cui Pandaro allora: giovinetta,
Poichè colui che il mondo circonscrisse,
Fece il primo uom, non credo più perfetta
Anima in alcun altro mai inserisse,
Che quella di colui che t’ama tanto,
Che dir non si potrebbe giammai quanto.
XLII.
Egli è d’animo altiero e di linguaggio,
Onesto molto, e cupido d’onore;
Di senno natural più ch’altro uom saggio,
Nè di scïenza n’è alcun maggiore;
Prode ed ardito, e chiaro nel visaggio;
Io non potrei dir tutto il suo valore;
Deh quanto ell’è felice tua bellezza,
Poichè tal uomo più ch’altra l’apprezza!
XLIII.
Ben’è la gemma posta nell’anello,
Se tu se’ savia come tu se’ bella.
Se tu diventi sua, così com’ello
È divenuto tuo, ben fia la stella
Giunta col sole; nè mai fu donzello
Giunto sì bene ad alcuna donzella,
Come tu seco, se savia sarai:
Beata a te se tu ’l conoscerai.
XLIV.
Sol una volta ha nel mondo ventura
Qualunque vive, se la sa pigliare;
Chi lei vegnente lascia, sua sciagura
Pianga da sè senz’altrui biasimare:
La tua vaga e bellissima figura
La t’ha trovata, or sappila adoprare:
Lascia me pianger, che ’n mal’ora nacqui,
Ch’a Dio, e al mondo, ed a fortuna spiacqui.
XLV.
Tentimi tu, o parli daddovero,
Griseida disse, o se’ del senno uscito?
Chi deve aver di me piacere intero
Se già non divenisse mio marito?
Ma dimmi, chi è questi, è istraniero
O cittadin, ch’è per me sì smarrito;
Dimmel se vuoi, se pur dir me lo dei,
E non chiamar senza cagion gli omei.
XLVI.
Pandaro disse: egli è pur cittadino,
Nè de’ minori, e mio amico molto;
Del qual, per forza forse di destino,
Tratto ho del petto ciò ch’io t’ho disciolto;
E’ vive in pianto misero e meschino,
Sì lo splendor l’accende del tuo volto:
E perchè sappi chi cotanto t’ama,
Troilo è quei che cotanto ti brama.
XLVII.
Dimorò sopra sè Griseida allora
Pandaro riguardando, e tal divenne
Qual da mattina l’aere si scolora,
E con fatica le lagrime tenne
Venute agli occhi già per cader fuora:
Poscia, come il perduto ardir rivenne,
Un poco prima seco mormorando,
Così a Pandaro disse sospirando:
XLVIII.
Io mi credea, Pandaro, se io
In tal follía giammai fossi caduta,
Che se Troilo venuto nel disio
Mi fosse mai, tu m’avessi battuta
Non che ripresa, sì com’uom che ’l mio
Onor cercar dovresti: oh Dio m’aiuta!
Che faran gli altri, poi che tu t’ingegni
Di seguir farmi gli amorosi regni?
XLIX.
Ben so che Troilo è grande e valoroso,
E ciascuna gran donna ne dovria
Esser contenta; ma poichè ’l mio sposo
Tolto mi fu, sempre la voglia mia
D’amore fu lontana, ed ho doglioso
Il cuore ancor della sua morte ria,
Ed avrò sempre mentre sarò in vita,
Tornandomi a memoria sua partita.
L.
E se alcuno il mio amor dovesse
Aver, per certo a lui il donerei,
Sol ch’io credessi ched e’ gli piacesse:
Ma come tu conoscer chiaro dei,
Che le vaghezze si trovano spesse
Chente egli ha ora, e quattro dì o sei
Durano, e passan poscia di leggiero;
Cambiando amor così cambia il pensiero.
LI.
Però mi lascia tal vita menare,
Chente fortuna apparecchiato m’have;
Egli troverà ben donna da amare
Al piacer suo, e umile e soave;
A me onesta si convien di stare:
Pandar, per Dio, deh non ti paia grave
Questa risposta, e lui fa’ che conforti
Con piacer nuovi e con altri diporti.
LII.
Pandaro seco si tenea scornato
Udendo il ragionar della donzella,
E per partirsi quasi fu levato,
Poi pur ristette, e rivolsesi ad ella,
Dicendo: io t’ho Griseida lodato
Quel ch’io farei a mia carnal sorella,
O a mia figlia, o a mia moglie s’io l’avessi,
Se i miei piacer da Dio mi sien concessi;
LIII.
Perocch’io sento che Troilo vale
Cosa maggiore assai, che non sarebbe
Il tuo amore; e vidil’ieri a tale,
Per questo amor, che forte me n’increbbe.
Forse nol credi, e però non ten cale;
Ben so che a forza te n’increscerebbe,
Se sapessi ciò ch’io del suo ardore;
Deh increscati di lui per lo mio amore.
LIV.
Io non credo ch’al mondo vi sia alcuno
Più segreto uom di lui nè con più fede,
Ed è leal quanto ne sia nessuno,
Nè più oltre di te disia o vede;
Ed a te stando in vestimento bruno,
Giovane ancora, d’amar si concede;
Non perder tempo, pensa che vecchiezza,
O morte, torrà via la tua bellezza.
LV.
Oimè, disse Griseida, tu di’ vero,
Così ci portan gli anni a poco a poco:
E’ più si muoion prima che ’l sentiero
Si compia dato dal celeste fuoco:
Ma lasciam’ora di questo il pensiero,
E dimmi, se d’amor sollazzo e giuoco
Ancora io posso avere, e in che maniera
T’avvedesti di Troilo la primiera.
LVI.
Sorrisse allora Pandaro, e rispose:
Io tel dirò, dappoi che ’l vuoi sapere;
L’altrieri essendo in quiete le cose
Per la tregua allor fatta, fu in calere
A Troilo, ch’io con lui per selve ombrose
M’andassi diportando; ivi a sedere
Postici, a ragionar cominciò meco
D’amore, e poi di lui a cantar seco.
LVII.
Io non gli era vicin, ma mormorare
Udendol, ver di lui mi feci attento,
E per quel ch’io mi possa ricordare,
Ad amor si dolea del suo tormento,
Dicendo: signor mio, già mi si pare
Nel viso e ne’ sospiri ciò ch’io sento
Dentro del cuor per leggiadra vaghezza,
La qual m’ha preso colla sua bellezza.
LVIII.
Tu stai colà dov’io porto dipinta
L’imagine che più ch’altro mi piace;
E quivi vedi l’anima che vinta
Dalla folgore tua pensosa giace;
La qual la tiene intorno stretta e cinta,
Chiamando sempre quella dolce pace,
Che gli occhi belli e vaghi di costei
Sol posson dar, caro signore, a lei.
LIX.
Dunque, per Dio, se ’l mio morir ti noia,
Fallo sentire a questa vaga cosa,
E lei pregando, impetra quella gioia
Che suole a’ tuoi soggetti donar posa;
Deh non volere, signor mio, ch’io muoia;
Deh fa ’l per Dio, vedi che l’angosciosa
Anima giorno e notte sempre grida,
Tal paura ha che ella non l’uccida.
LX.
Dubiti tu sotto la bruna vesta
D’accender le tue fiamme, signor mio?
Nulla ti fia maggior gloria che questa;
Entra nel petto suo con quel disio
Che dimora nel mio e mi molesta;
Deh fallo, i’ te ne prego, signor pio,
Sicchè per te i suoi dolci sospiri,
Conforto portino alli miei disiri.
LXI.
E questo detto, forte sospirando,
Bassò la testa non so che dicendo;
Poscia si tacque quasi lagrimando.
In me di quel che era, ciò veggendo,
Entrò sospetto, e proposi, che quando
Tempo più atto fosse, un dì ridendo
Di domandarlo ciò che la canzone
Volesse dire, e poi della cagione.
LXII.
Ma tempo prima a questo non m’occorse
Che oggi, ch’io ’l trovai tutto soletto:
Entrando nella sua camera, in forse
Se el vi fosse, ed egli era in sul letto,
E me vedendo, altrove si ritolse,
Di che io presi alquanto di sospetto;
E fattomi più presso, che piangea
Il trovai forte, e forte si dolea.
LXIII.
Come io seppi il più lo confortai,
E con nuova arte e con diverso ingegno
Di bocca quel ch’avesse gli cavai,
Datagli pria la mia fede per pegno,
Ch’io nol direi ad alcun uom giammai.
Questa pietà mi mosse, e per lui vegno
A te, a cui in breve ho soddisfatto
Di quel ch’e’ prega in ogni modo e atto.
LXIV.
Tu che farai? starai tu altiera,
E lascerai colui, che sè non cura
Per amar te, a morte tanto fiera
Venire, a rio destino o ria ventura,
Ch’un sì fatto uomo per te amando pera?
Almanco della tua vaga figura
Non gli fostu nè de’ tuoi occhi cara,
Forse il campresti ancor da morte amara.
LXV.
Griseida disse allora: di lontano
Il segreto scorgesti del suo petto,
Come ch’el fermo poi tenesse mano
Quando il trovasti a pianger sopra il letto,
E così ’l faccia Dio e lieto sano,
E me ancora, come per tuo detto
Pietà me n’è venuta; i’ non son cruda
Come ti par, nè sì di pietà nuda.
LXVI.
E stata alquanto, dopo un gran sospiro,
Trafitta già, seguì: deh io m’avveggio
Dove ti trae il pietoso disiro,
Ed io ’l farò, poichè piacer ten deggio,
Ed egli il vale, bastiti s’io ’l miro;
Ma per fuggir vergogna, e forse peggio,
Pregalo che sia saggio, e faccia quello
Che a me biasmo non sia, nè anche ad ello.
LXVII.
Sorella mia, allor Pandaro disse,
Tu parli bene, ed io nel pregheraggio;
Ver è che io non credo ch’el fallisse,
Tanto il conosco costumato e saggio,
Fuorchè per isciagura non venisse,
Tolgalo Iddio, ed io ci metteraggio
Compenso tal che ti sarà in piacere;
Fatti con Dio, e fa’ il tuo dovere.
LXVIII.
Partito Pandar, se ne gì soletta
Nella camera sua Griseida bella,
Seco nel cuor ciascuna paroletta
Rivolvendo di Pandaro e novella,
In quella forma ch’era stata detta;
E lieta seco ragiona e favella,
E ’n cotal guisa spesso sospirando,
Oltre l’usato Troilo immaginando.
LXIX.
Io son giovane, bella, vaga e lieta,
Vedova, ricca, nobile ed amata,
Senza figliuoli ed in vita quieta,
Perchè esser non deggio innamorata?
Se forse l’onestà questo mi vieta,
Io sarò saggia, e terrò sì celata
La voglia mia, che non sarà saputo
Ch’io aggia mai nel cuore amore avuto.
LXX.
La giovinezza mia si fugge ognora,
Debbol’io perder sì miseramente?
Io non conosco in questa terra ancora
Veruna senza amante, e la più gente,
Com’io conosco e veggo, s’innamora,
Ed io mi perdo il tempo per niente?
E come gli altri far non è peccato,
E non può esser da alcun biasimato.
LXXI.
Chi mi vorrà se io invecchio mai?
Certo nessuno, e allora a ravvedersi
Altro non è se non crescer di guai;
Niente vale il di dietro pentersi,
O ’l dir dolente, perchè non amai?
Buon è adunque a tempo provvedersi;
Costui è bello, gentil, savio ed accorto,
Che t’ama, e fresco più che giglio d’orto;
LXXII.
Di real sangue e di sommo valore,
E Pandar tuo cugin tel loda tanto:
Dunque che fai, perchè dentro del cuore,
Come egli ha te, lui non ricevi alquanto?
Perchè non gli dai tu il tuo amore?
Non odi tu la pieta del suo pianto?
O quanto bene avrai ancor con lui,
Se com’egli ama te tu ami lui!
LXXIII.
Ed ora non è tempo da marito,
E se pur fosse, la sua libertade
Servare è troppo più savio partito;
L’amor che vien da sì fatta amistade
È sempre dagli amanti più gradito;
E sia quanto vuol grande la beltade,
Che a’ mariti tosto non rincresca,
Vaghi d’avere ogni dì cosa fresca.
LXXIV.
L’acqua furtiva, assai più dolce cosa
È che il vin con abbondanza avuto:
Così d’amor la gioia, che nascosa
Trapassa assai, del sempre mai tenuto
Marito in braccio; adunque vigorosa
Ricevi il dolce amante, il qual venuto
T’è fermamente mandato da Dio,
E sodisfa’ al suo caldo disio.
LXXV.
E stando alquanto, poi si rivolgea
Nell’altra parte: misera, dicendo,
Che vuoi tu far? non sai tu quanto rea
Vita si trae con esso amor languendo,
Nella qual sempre convien che si stea
In pianti, ed in sospiri, ed in dolendo?
Avendo poi per giunta gelosia,
Che peggio è assai che non è morte ria.
LXXVI.
Appresso a questo, chi al presente t’ama,
È di troppo più alta condizione
Che tu non se’; quest’amorosa brama
Gli passerà, ed in abusíone
Sempre t’avrà, e lasceratti grama,
D’infamia piena e di confusíone:
Guarda che fai; che il senno da sezzo
Nè fu, nè è, nè fia mai d’alcun prezzo.
LXXVII.
Ma posto pur che questo amor lontano
Debba durar, come puoi tu sapere
Che debba star celato? assai è vano
Fidarsi alla fortuna, e ben vedere
Quanto uopo fa non può consiglio umano;
Che se si scuopre aperto, puoi tenere
La fama tua in eterno perduta,
La qual sì buona infino a qui è suta.
LXXVIII.
Dunque cotali amor lasciali stare
A cui e’ piaccion: ed appresso il detto
Incominciava forte a sospirare,
Nè si poteva già dal casto petto
Il bel viso di Troilo cacciare,
Per che tornava sopra il primo effetto
Biasimando e lodando, e in tale erranza,
Seco faceva lunga dimoranza.
LXXIX.
Pandar, che da Griseida dipartito
S’era contento, senza altrove gire,
A Troilo diritto se n’era ito,
E di lontano gli cominciò a dire:
Confortati fratel, ch’i’ ho fornito
Gran parte, credo, del tuo gran disire.
E postosi a seder, gli disse ratto,
Senza interpor, com’era stato il fatto.
LXXX.
Quali i fioretti dal notturno gelo
Chinati e chiusi, poi che ’l sol gl’imbianca,
Tutti s’apron diritti in loro stelo;
Cotal si fe’ di sua virtude stanca
Troilo allora, e riguardando il cielo,
Incominciò come persona franca:
Lodato sia il tuo sommo valore,
Venere bella, e del tuo figlio Amore.
LXXXI.
Poi Pandaro abbracciò ben mille fiate,
E baciollo altrettante, sì contento,
Che più non saria fatto se donate
Gli fosser mille Troie; e lento lento
Con Pandar solo a veder la beltate
Di Griseida n’andò, guardando attento
Se alcuno atto nuovo in lei vedeva,
Per quel che Pandar ragionato aveva.
LXXXII.
Ella si stava ad una sua finestra,
E forse quel ch’avvenne ell’aspettava;
Non si mostrò selvaggia nè alpestra
Verso di Troilo che la riguardava,
Ma tuttavolta in sulla poppa destra
Onestamente verso lui mirava;
Di che allegro Troilo se ne gio,
Grazie rendendo a Pandaro ed a Dio.
LXXXIII.
E quella tiepidezza che intra due
Griseida tenea, sen fuggì via,
Seco lodando le maniere sue,
Gli atti piacevoli e la cortesia;
E sì subitamente presa fue,
Che sopra ogni altro bene lui disia,
E duolle forte del tempo perduto,
Che ’l suo amor non avea conosciuto.
LXXXIV.
Troilo canta e fa mirabil festa,
Armeggia, spende, e dona lietamente,
E spesso si rinnuova e cangia vesta,
Ognora amando più ferventemente;
E per piacer non gli è cosa molesta
Amor seguir, mirar discretamente
Griseida, la qual non men discreta,
Gli si mostrava a’ tempi vaga e lieta.
LXXXV.
Ma come noi, per continova usanza,
Per più legne veggiam fuoco maggiore,
Così avvien crescendo la speranza
Assai sovente ancor cresce l’amore:
E quinci Troilo con maggior possanza,
Che l’usato, sentia nel preso cuore
L’alto disio spronarlo, onde i sospiri
Tornar più forti che prima, e’ martirj.
LXXXVI.
Di che Troilo con Pandaro talvolta
Si dolea forte: lasso me, dicendo,
El m’ha Griseida sì la vita tolta
Co’ suoi begli occhi, che morir n’intendo
Per lo disio fervente che si affolta
Sì sopra al cuor nel quale io ardo e incendo;
Deh che farò? che contento dovria
Solo esser della sua gran cortesia.
LXXXVII.
Ella mi guarda, e soffera ch’io guati
Onestamente lei; questo dovrebbe
Essere assai a’ miei disii infiammati;
Ma l’appetito cupido vorrebbe
Non so che più, sì mal son regolati
Gli ardor che ’l muovon, che nol crederebbe
Chi nol provasse, quanto mi tormenta
Tal fiamma, che maggiore ognor diventa.
LXXXVIII.
Che farò dunque? io non so che mi fare,
Se non chiamarti Griseida bella;
Tu sola se’ che mi puoi aiutare,
Tu valorosa donna, tu se’ quella
Che sola puoi il mio fuoco attutare,
O dolce luce e del mio cuor fiammella;
Or foss’io teco una notte di verno,
Cento cinquanta poi stessi in inferno.
LXXXIX.
Che farò Pandar? Tu non di’ niente?
Tu mi vedi ardere in sì fatto fuoco,
E vista fai di non aver la mente
A’ miei sospiri, dove ch’io mi cuoco;
Aiutami, io ten prego caramente,
Dimmi ch’io faccia, consigliami un poco;
Che se da te o da lei non ho soccorso,
Di morte nelle reti son trascorso.
XC.
Pandaro disse allora: io veggio bene
Ed odo quanto di’, nè sonmi infinto,
Nè mai m’infingerò alle tue pene
Donare aiuto, e sempre son succinto
A far non sol per te ciò che conviene,
Ma ogni cosa senza esser sospinto
O da forza o da prego: fa’ tu ch’io
Aperto veggia il tuo caldo disio.
XCI.
Io so che in ogni cosa per un sei
Tu vedi più di me, ma tuttavia
S’io fossi in te, intiera scriverei
Ad essa di mia man la pena mia;
E sopra ciò, per Dio la pregherei,
E per amore e per sua cortesia,
Che di me le calesse, e questo scritto,
Io glielo porterò senza rispitto.
XCII.
Ed oltre a questo, ancora a mio potere
La pregherò ch’abbia di te mercede:
Quel ch’ella rispondrà potrai vedere,
E già di certo l’animo mio crede,
Che sua risposta ti dovrà piacere;
E però scrivi, e ponvi ogni tua fede,
Ogni tua pena, ed il disio appresso,
Nulla lasciar che non vi sia espresso.
XCIII.
Questo consiglio a Troilo piacque assai,
Ma come amante timido, rispose:
Oimè, Pandaro, che tu vederai,
Come si vede che son vergognose
Le donne, che lo scritto che portrai,
Griseida per vergogna, con noiose
Parole rifiutarlo, e peggiorato
Avremo oltre misura il nostro stato.
XCIV.
A ciò Pandaro disse: se ti piace
Fa’ quel ch’io dico, e poi mi lascia fare;
Che se amore mi ponga in la sua pace,
Io te ne credo risposta recare
Di sua man fatta; e se ciò ti dispiace,
Timido e tristo te ne puoi stare,
Ripeterai poi te del tuo tormento,
Per me non rimarrà farti contento.
XCV.
Allora disse Troilo: fatto sia
Il piacer tuo; io vado e scriveraggio;
Ed amor prego per sua cortesia,
Lo scrivere, e la lettera, e il viaggio
Fruttevol faccia. E di quindi s’invia
Alla camera sua, e come saggio
Alla sua donna carissima scrisse
Una lettera presto, e così disse.
XCVI.
Come può quegli che in affanno è posto,
In pianto grave e in istato molesto,
Come io son per te, donna, disposto
Ad alcun dar salute? certo chiesto
Esser non dee da lui; ond’io mi scosto
Da quel che fanno gli altri; e sol per questo
Qui da me salutata non sarai,
Perch’io non l’ho se tu non la mi dai.
XCVII.
Io non posso fuggir quel ch’amor vuole,
Il qual più vil di me fe’ già ardito,
Ed el mi strigne a scriver le parole,
Come vedrai, e vuol pure obbedito
Esser da me, siccome egli esser suole;
Però se per me fia in ciò fallito,
Lui ne riprendi, ed a me perdonanza
Ti prego doni, dolce mia speranza.
XCVIII.
L’alta bellezza tua, e lo splendore
De’ tuoi vaghi occhi e de’ costumi ornati;
L’onesta cara e ’l donnesco valore,
I modi e gli atti più ch’altri lodati,
Nella mia mente hanno lui per signore,
E te per donna in tal guisa fermati,
Ch’altro accidente mai fuorchè la morte,
A tirarline fuor non saria forte.
XCIX.
E che ch’io faccia, l’imagine bella
Di te sempre nel cor reca un pensiero,
Che ogn’altro caccia che d’altro favella
Che sol di te, benchè d’altro nel vero
All’anima non caglia, fatta ancella
Del tuo valor, nel quale io solo spero:
E ’l nome tuo m’è sempre nella bocca,
E il cor con più disio ognor mi tocca.
C.
Da queste cose, donna, nasce un fuoco
Che giorno e notte l’anima martira,
Senza lasciarmi in posa trovar loco;
Piangono gli occhi, e ’l petto ne sospira,
E consumar mi sento a poco a poco
Da questo ardor che dentro a me s’aggira;
Per che ricorrere alla tua virtute
Sol mi convien, se voglio aver salute.
CI.
Tu sola puoi queste pene noiose,
Quando tu vogli, porre in dolce pace;
Tu sola puoi l’afflizïon penose,
Madonna, porre in riposo verace;
Tu sola puoi con l’opere pietose
Tormi il tormento che sì mi disface;
Tu sola puoi, siccome donna mia,
Adempier ciò che lo mio cuor disia.
CII.
Dunque, se mai per pura fede alcuno,
Se mai per grande amor, se per disio
Di ben servire ognora in ciascheduno
Caso, qual si volesse o buono o rio,
Meritò grazia, fa’ ch’io ne sia uno,
Cara mia donna; fa’ ch’io sia quell’io,
Che a te ricorro, sì come a colei
Che se’ cagion di tutti i sospir miei.
CIII.
Assai conosco, che mai meritato
Non fu per mio servir quel per che vegno;
Ma sola tu che m’hai il cor piagato,
E altro no di maggior cosa degno,
Mi puoi far, quando vogli; o disiato
Ben del mio cor, pon giù l’altero sdegno
Dell’animo tuo grande, e sii umile
Ver me, quanto negli atti se’ gentile.
CIV.
Ora son certo che sarai pietosa
Come se’ bella, e la mia greve noia,
Discretamente lieta e grazïosa,
Senza volere ch’io misero muoia
Per molto amarti, donna dilettosa,
Ancora tornerà in dolce gioia.
Io te ne prego, se ’l mio prego vale,
Per quel amor del quale or più ti cale.
CV.
Io come ch’io sia un piccol dono,
E poco possa, e vaglia molto meno,
Senza fallo nïun tutto tuo sono:
Or tu se’ savia, s’io non dico appieno,
Intenderai assai me’ ch’io non ragiono,
E spero simil che l’opere fieno
Migliori assai che mio merto, e maggiore;
Amore a ciò sì ti disponga il cuore.
CVI.
El mi restava molte cose a dire,
Ma per non farti noia il vo’ tacere;
E in questo fine prego il dolce sire
Amor, che come te nel mio piacere
Ha posto, così me nel tuo disire
Ponga con quel medesimo volere,
Sicchè com’io son tuo alcuna volta
Tu mia diventi, e mai non mi sii tolta.
CVII.
Scritte adunque tutte queste cose
In una carta, per ordin piegolla,
E sulle guance tutte lagrimose
Bagnò la gemma, e quindi suggellolla,
E nella mano a Pandaro la pose,
E cento volte e più prima baciolla:
Lettera mia, dicendo, tu sarai
Beata, in man di tal donna verrai.
CVIII.
Pandaro presa la lettera pia
N’andò verso Griseida; la quale
Come ’l vide venir, la compagnia
Colla qual’era lasciata, cotale
Gli si fe’ incontro parte della via,
Qual pare in vista perla orïentale,
Temendo e disiando; e’ salutarsi
Di lungi assai, poi per la man pigliarsi.
CIX.
Quindi disse Griseida; quale affare
Or qui ti mena? hai tu altre novelle?
Alla qual Pandar senza dimorare
Disse: donna, per te l’ho buone e belle,
Ma non tai per altrui, come mostrare
Ti potran queste scritte tapinelle
Di colui, che per te mi par vedere
Morir, sì poco te ne è in calere.
CX.
Tolle, e vedralle diligentemente,
Ed alcuna risposta il farà lieto.
Stette Griseida timorosamente
Senza pigliarle, e un poco il mansueto
Viso cambiò, e quindi pianamente
Disse: Pandaro mio, se in quïeto
Stato ti ponga amor, abbi rispetto
Alquanto a me, non pure al giovinetto.
CXI.
Guarda se quel che chiedi or si conviene,
E tu stesso sii giudice di questo,
E vedi se prendendole fo bene,
E se ’l tuo domandare è tanto onesto,
E se si vuol per alleggiar le pene
Altrui, per sè far atto disonesto;
Deh non le mi lasciar Pandaro mio,
Portale indietro per l’amor di Dio.
CXII.
Pandaro alquanto di questo turbato
Disse: questo è a pensar nuova cosa,
Che quel che più dalle donne è bramato,
Di ciò ciascuna e ischifa e crucciosa
Si mostra innanzi altrui: io t’ho parlato
Tanto di questo, ch’omai vergognosa
Non dovresti esser meco; i’ te ne priego,
Che or di questo non mi facci niego.
CXIII.
Griseida sorrise lui udendo,
E quelle prese, e messesele in seno:
Quando avrò agio, poi a lui dicendo,
Le vederò come saprò appieno;
Se io fo men che ben questo facendo,
Il non poter del tuo piacer far meno
Me n’è cagion; Iddio dal cielo il vegga,
Ed alla mia semplicità provvegga.
CXIV.
Partissi Pandar poi glie l’ebbe date,
Ed essa vaga molto di vedere
Quel che dicesser, sue cagion trovate,
L’altre compagne sue lasciò a sedere,
Ne gì nella sua camera, e spiegate,
Lesse e rilesse quelle con piacere,
E ben s’accorse che Troilo ardea
Vie più assai che in atto non parea.
CXV.
Il che caro le fu, perchè trafitta
Esser sentissi l’anima nel core,
Di che ella viveva molto afflitta,
Come che punto non paresse fuore:
E ben notata ogni parola scritta,
Di ciò lodò e ringraziò amore,
Seco dicendo: a spegner questo foco
Conviene a me trovare il tempo e ’l loco:
CXVI.
Che s’io il lascio in troppo grande arsura
Moltiplicare, e’ potrebbe avvenire,
Che nella scolorita mia figura
Si vederebbe il nascoso disire,
Che mi saria non piccola sciagura;
Ed io per me non intendo morire,
Nè far morire altrui, quando con gioia
Posso schifar la mia e l’altrui noia.
CXVII.
Io non sarò per lo certo disposta,
Siccome io sono infino ad ora stata;
Se Pandar tornerà per la risposta,
Io glie la darò piacevole e grata,
Se mi costasse, come non mi costa;
Nè di Troilo sarò mai dispietata
Potuta dire; or foss’io nelle braccia
Dolci di lui, stretta a faccia a faccia!
CXVIII.
Pandaro che da Troilo sovente
Era studiato, a Griseida reddío,
E sorridendo disse: donna, chente
Ti par lo scriver dell’amico mio?
Ella divenne rossa immantinente,
Senza dir altro, se non: sallo Iddio.
A cui Pandaro disse: hai tu risposto?
Al qual ella gabbando, disse: tosto?
CXIX.
S’io debbo mai potere adoperare
Per te, Pandaro disse, or fa’ di farlo.
Ed ella a lui: io non lo so ben fare.
Deh, disse Pandar, pensa d’appagarlo,
E’ suole amor saper bene insegnare;
I’ ho sì gran disio di confortarlo,
Che tu nol crederesti in fede mia,
La tua risposta sol questo porìa.
CXX.
Ed io ’l farò poichè t’aggrada tanto;
Ma voglia Iddio che ben la cosa vada!
Deh sì anderà, disse Pandaro, in quanto
Colui il vale, a cui più ch’altro aggrada.
Poi si partì: ed ella dall’un canto
Della camera sua, dove più rada
Usanza di venire ad ogni altro era,
A scriver giù si pose in tal maniera:
CXXI.
A te amico discreto e possente,
Il qual forte di me t’inganna amore,
Com’uom preso per me indebitamente,
Griseida, salvato il suo onore,
Manda salute, e poi umilemente
Si raccomanda al tuo alto valore,
Vaga di compiacerti, dove sia
L’onestà salva, e la castità mia.
CXXII.
I’ ho avute da colui, che t’ama
Tanto perfettamente, che non cura
Già d’alcuno mio onor nè di mia fama,
Piene le carte della tua scrittura;
Nelle quai lessi la tua vita grama
Non senza doglia, s’io abbia ventura
Che mi sia cara, e benchè sian fregiate
Di lacrime, pur l’ho assai mirate.
CXXIII.
Ed ogni cosa con ragion pensando,
E l’afflizione e ’l tuo addomandare,
La fede, e la speranza esaminando,
Non veggio com’io possa soddisfare
Assai acconciamente al tuo dimando,
Volendo bene e intiero riguardare
Ciò che nel mondo più è da gradire,
Ch’è in onestà vivere e morire.
CXXIV.
Come che il compiacerti saria bene,
Se il mondo fosse tal chente dovrebbe;
Ma perchè è tal qual è, a noi conviene
Per forza usarlo; seguir ne potrebbe,
Altro facendo, disperate pene;
Alla pietà per cui di te m’increbbe,
Malgrado mio pur mi convien dar lato,
Di che sarai da me poco appagato.
CXXV.
Ma è sì grande la virtù ch’io sento
In te, ch’io so ch’aperto vederai
Ciò ch’a me si conviene, e che contento
Di ciò ch’io ti rispondo tu sarai,
E porrai modo al tuo grave tormento,
Che nel cor mi dispiace e noia assai;
In verità, se non si disdicesse,
Volentier farei ciò che ti piacesse.
CXXVI.
Poco è lo scriver, come puoi vedere,
Ed arte in questa lettera, la quale
Vorrei che più ti recasse piacere,
Ma non si può ciò che si vuole avale,
Forse farà ancor luogo il potere
Al buon volere, e se non ti par male,
Presta alla pena tua alquanto sosta,
Perchè non ha ogni detto risposta.
CXXVII.
Il proferir che fai, qui non ha loco,
Che certa son ch’ogni cosa faresti;
Ed io nel ver, come ch’io vaglia poco,
Vie più che mille volte mi potresti
E puoi aver per tua, se ’l crudel fuoco
Non m’arda, il che son certa non vorresti;
Nè dico più, se non ch’io prego Iddio
Che ne contenti il tuo e ’l mio disio.
CXXVIII.
E poi ch’ell’ebbe in cotal guisa detto,
La ripiegò, e suggellolla, e diella
A Pandaro, il qual tosto il giovinetto
Troilo cercando, a lui n’andò con ella,
E presentogliel con sommo diletto;
Il qual presala, ciò che scritto in quella
Era con fretta lesse, e sospirando,
Secondo le parole il cuor cambiando.
CXXIX.
Ma pure in fine, seco ripetendo
Bene ogni cosa che ella scrivea,
Disse fra sè: se io costei intendo,
Amor la stringe, ma siccome rea,
Sotto lo scudo ancor si va chiudendo,
Ma non potrà, pur che forza mi dea
Amore a sofferir, guari durare,
Ch’ella non vegna a tutt’altro parlare.
CXXX.
E ’l somigliante ne pareva ancora
A Pandaro, col qual diceva tutto;
Per che più che l’usato si rincora
Troilo, lasciando alquanto il tristo lutto,
E spera in breve deggia venir l’ora
Che al suo martiro deggia render frutto;
E questo chiede, e dì e notte chiama,
Come colui che solamente il brama.
CXXXI.
Crescea di giorno in giorno più l’ardore,
E come che speranza l’aiutasse
A sostener, pure era grave al core;
E deesi a creder che assai il noiasse,
Per che più volte dal suo gran fervore
Stimar si può che lettere dittasse,
Alle quai quando lieta e quando amara
Risposta gli veniva, e spessa e rara.
CXXXII.
Per che sovente d’amor si dolea,
E di fortuna cui tenea nemica,
E spesse volte, oimè, seco dicea,
Se un poco più la pungesse l’ortica
D’amor, com’ella me trafigge e screa,
La vita mia di sollazzo mendica
Tosto verrebbe al grazïoso porto,
Al qual prima ch’io vegna sarò morto.
CXXXIII.
Pandaro che sentia le fiamme accese
Nel petto di colui che egli amava,
Era di preghi suoi spesso cortese
A Griseida, e tutto gli narrava
Ciò che di Troilo vedeva palese;
La quale ancor che lieta l’ascoltava,
Diceva: i’ non posso altro, io gli fo quello,
Che m’imponesti, caro mio fratello.
CXXXIV.
Non basta questo, Pandar rispondea,
Io vo’ che tu ’l conforti e che gli parli.
A cui Griseida all’incontro dicea:
Cotesto non intendo io mai di farli,
Che la corona dell’onestà mea
Per partito nïun non vo’ donarli;
Come fratel per la sua gran bontade
L’amerò sempre, e per la sua onestade.
CXXXV.
Pandaro rispondea: questa corona
Lodano i preti a cui tor non la ponno,
E ciaschedun com’un santo ragiona,
E poi vi colgon tutte quante al sonno.
Di Troilo non saprà giammai persona;
Or pena assai, e fa’ pur ben del donno.
Assai fa mal chi può far ben nol face,
Che ’l perder tempo a chi più sa più spiace.
CXXXVI.
Griseida dicea: la sua virtute
Tenera so che è del mio onore,
Nè da me altro che cose dovute
Domanderia, tant’è il suo valore;
Ed io ti giuro per la mia salute,
Ch’io son, da quel che tu domandi in fuore,
Sua mille volte più ch’io non son mia,
Tanto m’aggrada la sua cortesia.
CXXXVII.
Se el t’aggrada, che vai tu cercando?
Deh lascia star questa salvatichezza;
Intendi tu che el si muoia amando?
Ben potrai cara aver la tua bellezza
Se uccidi un tal uom; deh dimmi, quando
Tu vuoi ch’ei venga a te? cui e’ più prezza
Che non fa il ciel, e dimmi come, e dove;
Non voler vincer tutte le tue prove.
CXXXVIII.
Oimè lassa! a che m’hai tu condotta,
Pandaro mio, e che vuoi tu ch’io faccia?
Tu hai l’onestà mia spezzata e rotta,
Io non ardisco di mirarti in faccia;
Oimè lassa! misera, a che otta
La riavrò? il sangue mi s’agghiaccia
Intorno al cor, pensando quel che chiedi,
E tu non te ne curi, e chiaro il vedi.
CXXXIX.
Io vorrei esser morta il giorno ch’io
Qui nella loggia tanto t’ascoltai;
Tu mi mettesti nel cuore un disio,
Ch’appena credo ch’el n’esca giammai;
E che mi fia cagion dell’onor mio
Perdere, o lassa, e d’infiniti guai;
Or più non posso, poichè t’è in piacere,
Disposta sono a fare il tuo volere.
CXL.
Ma se alcun prego vai nel tuo cospetto,
Ti prego, dolce e caro mio fratello,
Che tutto ciascun nostro fatto o detto
Occulto sia; tu puoi ben veder quello
Che seguir ne potria, se tale affetto
Venisse a luce: deh parlane ad ello,
E fannel savio, e come tempo fia,
Io farò ciò che ’l suo piacer disia.
CXLI.
Rispose Pandar: guarda la tua bocca,
Che el per sè, nè io, mai il diremo.
Ora hammi tu, diss’ella, per sì sciocca,
Che vedi di paura tutta tremo
Che non si sappia, ma poichè ti tocca
L’onore e la vergogna che n’avremo
Siccome a me, passerommene in pace,
E tu ne fa’ omai come ti piace.
CXLII.
Pandar disse: di ciò non dubitare,
Che in ciò avremo ben buona cautela;
Quando vuoi tu che ti venga a parlare?...
Tiriamo ormai a capo questa tela;
Che ’l farlo tosto, poichè si dee fare,
Fia molto meglio, e molto me’ si cela
Dopo il fatto l’amor, poscia ch’avrete
Composto insieme ciò che far dovrete.
CXLIII.
Tu sai, disse Griseida, che in questa
Casa son donne ed altra gente meco,
Delle quai parte alla futura festa
Devono andare; ed allor sarò seco.
Questa tardanza non gli sia molesta;
Del modo e del venire allora teco
Favellerò; fa’ pur ch’egli sia saggio,
E sappia ben celare il suo coraggio.