Il Filostrato/Parte terza
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IL
FILOSTRATO
DI GIOVANNI BOCCACCI
PARTE TERZA
ARGOMENTO
I.
Fulvida luce, il raggio della quale
Infino a questo loco m’ha guidato,
Com’io volea per l’amorose sale;
Or convien che ’l tuo lume duplicato
Guidi l’ingegno mio, e faccil tale,
Che in particella alcuna dichiarato
Per me appaia il ben del dolce regno
D’Amor, del qual fu fatto Troilo degno.
II.
Al qual regno pervien chi fedelmente
Con senno e con virtù può sofferire
D’amor la passione interamente;
Per altro modo, rado pervenire
Vi si può mai. Adunque sii presente,
O bella donna, al mio alto disire;
Riempi della grazia ch’io dimando,
Le lodi tue continuerò cantando.
III.
Troilo ancora benchè molto ardesse,
Nondimen bene star pur gli parea,
Pensando sol che a Griseida piacesse,
E ch’ella umilemente rispondea
Alle lettere sue quando scrivesse;
Ed ancor più, che qualor la vedea,
Ella il guardava con sì dolce aspetto,
Che a lui parea sentir sommo diletto.
IV.
Erasi Pandar, come ho detto avanti,
Dalla donna in concordia dipartito,
E lieto nella mente e ne’ sembianti
Di Troilo cercava, che smarrito
Intra lieta speranza e tristi pianti
Lasciato avea quando se n’era gito;
E tanto el gì in qua e ’n là cercando,
Ch’egli il trovò in un tempio pensando.
V.
Il qual tantosto ch’ad esso pervenne,
Da parte il trasse, e cominciógli a dire:
Amico mio, tanto di te mi tenne,
Quando uguanno ti vidi languire
Sì forte per amor, che ’l cor sostenne
Per te gran parte in sè del tuo martire;
Che per darti conforto, riposato
Non ho giammai, fin ch’io non l’ho trovato.
VI.
Io son per te divenuto mezzano,
Per te gittato ho in terra il mio onore,
Per te ho io corrotto il petto sano
Di mia sorella, e posto l’ho nel core
Il tuo amor; nè passerà lontano
Tempo, che la vedrai con più dolzore,
Che porger non ti può la mia favella,
Quando avrai in braccio Griseida bella.
VII.
Ma come Iddio che tutto quanto vede,
E tu che ’l sai, a ciò non m’ha indotto
Di premïo speranza, ma sol fede,
Che come amico ti porto, e condotto
M’ha ad oprar che tu trovi mercede;
Per ch’io ti prego, se non ti sia rotto
Da ria fortuna il disiato bene,
Che facci come a saggio far conviene.
VIII.
Tu sai ch’egli è la fama di costei
Santa nel vulgo, nè si disse mai
Da nullo altro che tutto ben di lei;
Or venuto è che tu nelle man l’hai,
E puogliel tor se fai quel che non dei,
Benchè addivenir ciò non può mai
Senza mia gran vergogna, che parente
Le sono, e trattator similemente.
IX.
Perch’io ti prego tanto quant’io posso
Che occulto sia tra noi questo mestiero.
I’ ho del cuor di Griseida rimosso
Ogni vergogna e ciaschedun pensiero
Che contro t’era, ed hol tanto percosso
Col ragionar del tuo amor sincero,
Che ella t’ama, ed è disposta a fare
Ciò che ti piacerà di comandare.
X.
Nè fuor che tempo manca a tale effetto,
Il qual come l’avrai, nelle sue braccia
Ti metterò a prenderne diletto;
Ma per Dio fa’ che tal’opra si taccia,
Nè t’esca fuor per caso alcun del petto,
O caro amico mio, nè ti dispiaccia
Se molte volte ti prego di questo,
Tu vedi che ben ’l mio pregare è onesto.
XI.
Chi potria dire intera la letizia
Che l’anima di Troilo sentiva
Udendo Pandar? che la sua tristizia
Com più parlava più scemando giva:
I sospir ch’egli aveva a gran dovizia
Gli dieder luogo, e la pena cattiva
Si dipartì, e ’l viso lagrimoso,
Bene sperando, divenne gioioso.
XII.
E sì come la nuova primavera,
Di fronde e di fioretti gli arboscelli,
Ignudi stati in la stagion severa,
Di subito riveste e fagli belli;
I prati, e’ colli, e ciascuna riviera
Riveste d’erbe e di be’ fior novelli,
Così di nuova gioia tosto pieno,
Sì rise Troilo nel viso sereno.
XIII.
E dopo un sospiretto, riguardando
Pandar nel viso, disse: amico caro,
Tu ti dei ricordare e come e quando
Già pianger mi trovasti nell’amaro
Tempo, che io solea avere amando;
Ed ancor simil, quando procacciaro
Le tuo parole di voler sapere,
Qual fosse la cagion del mio dolere;
XIV.
E sai quant’io mi tenni a discoprirlo
A te, che sol mi se’ unico amico;
Nè era alcun periglio però a dirlo,
Benchè perciò non fosse atto pudico;
Pensa dunque ora come consentirlo
I’ potrei mai, che mentre teco il dico,
Ch’altri nol senta tremo di paura,
Tolga Iddio via cotal disavventura.
XV.
Ma nondimen per quello Dio ti giuro,
Che ’l cielo e ’lFonte/commento: Milano, 1964 mondo egualmente governa,
E s’io non venga nelle man del duro
Agamennon, che se mia vita eterna
Fosse, come è mortal, tu puoi sicuro
Viver, che a mio poter sarà interna
Questa credenza, e in ogni atto servato
L’onor di quella che m’ha ’l cor piagato.
XVI.
Quanto per me tu abbi detto e fatto
Assai conosco e manifesto veggio,
Nè meritar giammai in ciascun atto
Nol ti potrei, che d’inferno e di peggio
In paradiso posso dir m’hai tratto;
Ma per l’amistà nostra ti richieggio,
Che quel nome villan più non ti pogni,
Dove sovvien dell’amico a’ bisogni;
XVII.
Lascialo stare alli dolenti avari,
Cui oro induce a sì fatto servigio;
Tu fatto l’hai per trarmi degli amari
Pianti ov’io era, e dal duro letigio
Che io avea co’ pensieri avversarj,
E turbator d’ogni dolce vestigio,
Siccome per amico si dee fare,
Quando l’amico il vede tribolare.
XVIII.
E perchè tu conosca quanta piena
Benevolenza da me t’è portata,
I’ ho la mia sorella Polissena
Più di bellezza ch’altra pregïata,
Ed ancor c’è con esso lei Eléna
Bellissima, la quale è mia cognata;
Apri il cuor tuo, se te ne piace alcuna,
Poi mi lascia operar con qual sia l’una.
XIX.
Ma poichè tanto hai fatto, assai più ch’io
Pregato non t’avrei, metti in effetto
Quando tempo parratti il mio disio;
A te ricorro, e sol da te aspetto
L’alto piacere ed il conforto mio,
La gioia, e ’l bene, e ’l sollazzo, e ’l diletto;
Nè più farò se non quanto dirai,
Mio fia il diletto, e tu ’l grado n’avrai.
XX.
Rimase Pandar di Troilo contento,
E ciascheduno a sue bisogna attese.
Ma come che a Troilo ogni dì cento
Paresse d’esser con quella alle prese,
Pur sofferia, e con sommo argomento
In sè reggeva l’amorose offese,
Dando a’ pensier d’amor la notte parte,
E ’l dì co’ suoi al faticoso marte.
XXI.
In questo mezzo il tempo disiato
Da’ due amanti venne, donde fessi
Griseida a chiamar Pandaro, e mostrato
Tutto gliel’ha; ma Pandaro dolessi
Di Troilo, che ’l dì davanti andato
Era con certi, per bisogni espressi
Della lor guerra, alquanto di lontano,
Bench’el dovea tornare a mano a mano.
XXII.
Disselo a lei, il che udir gravoso
Molto le fu, ma questo non ostante,
Pandar, siccome amico studïoso,
Mandò tosto per lui un presto fante,
Il qual senza pigliare alcun riposo
In breve spazio a Troilo fu davante,
Il quale udito ciò perchè venia,
Lieto per ritornar si mise in via.
XXIII.
E giunto a Pandar, da lui pienamente
Intese ciò che esso far dovea;
Laonde esso assai impazïente
La notte attese, la qual gli parea
Che si fuggisse, e poi tacitamente
Con Pandar solo il suo cammin prendea
In ver là dove Griseida stava,
Che sola e paurosa l’aspettava.
XXIV.
Era la notte oscura e nebulosa
Come Troilo volea, il quale attento
Mirando andava ciascheduna cosa,
Non fosse alcuna desse sturbamento,
O poco o assai, alla sua amorosa
Voglia, la qual del suo grave tormento
Fosse sperava, ed in parte segreta,
Sol se n’entrò nella casa già cheta.
XXV.
E in certo luogo rimoto ed oscuro,
Come imposto gli fu, la donna attese;
Nè gli fu l’aspettar forte nè duro,
Nè il non veder dove fosse palese;
Ma baldanzoso con seco e sicuro
Spesso diceva: la donna cortese
Tosto verrà, ed io sarò giocondo,
Più che se sol fossi signor del mondo.
XXVI.
Griseida l’aveva ben sentito
Venire, perchè acciò ch’egli intendesse,
Com’era imposto, ell’aveva tossito;
E perchè l’esser non gli rincrescesse,
Spesso parlava con suono spedito,
Ed avacciava che ciascun sen giesse
Tosto a dormir, dicendo ch’ella avea
Tal sonno, che vegghiar più non potea.
XXVII.
Poi che ciascun sen fu ito a dormire,
E la casa rimasta tutta cheta,
Tosto parve a Griseida di gire
Dov’era Troilo in parte segreta,
Il qual, com’egli la sentì venire,
Drizzato in piè, e con la faccia lieta
Le si fe’ incontro, tacito aspettando,
Per esser presto ad ogni suo comando.
XXVIII.
Avea la donna un torchio in mano acceso,
E tutta sola discese le scale,
E Troilo vide aspettarla sospeso,
Cui ella salutò, poi disse, quale
Ella potè: signor, se io ho offeso,
In parte tale il tuo splendor reale
Tenendo chiuso, pregoti per Dio,
Che mi perdoni, dolce mio disio.
XXIX.
A cui Troilo disse: donna bella,
Sola speranza e ben della mia mente,
Sempre davanti m’è stata la stella
Del tuo bel viso splendido e lucente,
E stata m’è più cara particella
Questa, che ’l mio palagio certamente;
E dimandar perdono a ciò non tocca;
Poi l’abbracciò e baciaronsi in bocca.
XXX.
Non si partiron prima di quel loco,
Che mille volte insieme s’abbracciaro
Con dolce festa e con ardente gioco,
Ed altrettante vie più si baciaro,
Siccome que’ ch’ardevan d’ugual foco,
E che l’un l’altro molto aveva caro;
Ma come l’accoglienze si finiro,
Salir le scale e ’n camera ne giro.
XXXI.
Lungo sarebbe a raccontar la festa,
E impossibile a dire il diletto
Che insieme preser pervenuti in questa:
E’ si spogliarono e entraron nel letto;
Dove la donna nell’ultima vesta
Rimasa già, con piacevole detto
Gli disse: speglio mio, le nuove spose
Son la notte primiera vergognose.
XXXII.
A cui Troilo disse: anima mia,
I’ te ne prego, sì ch’io t’abbia in braccio
Ignuda sì come il mio cor disia.
Ed ella allora: ve’ che me ne spaccio;
E la camicia sua gittata via,
Nelle sue braccia si raccolse avaccio;
E strignendo l’un l’altro con fervore,
D’amor sentiron l’ultimo valore.
XXXIII.
O dolce notte, e molto disiata,
Chente fostu alli due lieti amanti!
Se la scïenza mi fosse donata
Che ebbero i poeti tutti quanti,
Per me non potrebbe esser disegnata;
Pensilo chi fu mai cotanto avanti
Mercè d’amor, quanto furon costoro,
E saprà in parte la letizia loro.
XXXIV.
E’ non uscir di braccio l’uno all’altro
Tutta la notte, e tenendosi in braccio,
Si credeano esser tolti l’uno all’altro,
O che non fosse ver che insieme in braccio,
Siccome elli eran, fosse l’uno all’altro;
Ma sognar si credean d’essere in braccio;
E l’uno all’altro domandava spesso,
O t’ho io in braccio, o sogno, o se’ tu desso?
XXXV.
E’ si miravan con tanto disio,
Che l’un dall’altro gli occhi non torcea,
E l’uno all’altro diceva: amor mio,
Deh può egli esser ch’io con teco stea?
Sì cuor del corpo, mercè n’abbia Dio,
Sovente l’uno all’altro rispondea,
E strignendosi forte spessamente,
Si baciavano insieme dolcemente.
XXXVI.
Troilo spesso i begli occhi amorosi
Baciava di Griseida, dicendo:
Voi mi metteste nel cuor sì focosi
Dardi d’amor, de’ quali io tutto incendo;
Voi mi pigliaste ed io non mi nascosi,
Come suol far chi dubita, fuggendo;
Voi mi tenete e sempre mi terrete
Occhi miei bei nell’amorosa rete.
XXXVII.
Poi gli baciava e ribaciava ancora,
E Griseida ancora i suoi baciava;
Poi tutto il viso e ’l petto, e nessun’ora
Senza mille sospiri valicava,
Non de’ dolenti per cui si scolora,
Ma di que’ pii, pe’ quai si dimostrava
L’affezïon che giaceva nel petto,
E dopo quei rinnovava il diletto.
XXXVIII.
Deh pensin qui gli dolorosi avari,
Che biasiman chi è innamorato,
E chi, come fan essi, a far denari
In alcun modo non s’è tutto dato,
E guardin se tenendoli ben cari
Tanto piacer fu mai da lor prestato,
Quanto ne presta amore in un sol punto,
A cui egli è con ventura congiunto.
XXXIX.
Ei diranno di sì, ma mentiranno;
E questo amor, dolorosa pazzia
Con risa e con ischerzi chiameranno;
Senza veder, che sola un’ora fia
Quella che sè e’ denari perderanno,
Senza aver gioia saputo che sia
Nella lor vita: Iddio gli faccia tristi,
Ed agli amanti doni i loro acquisti.
XL.
Rassicurati insieme i due amanti,
Insieme incominciaro a ragionare,
E l’uno all’altro i preteriti pianti,
E l’angosce e’ sospiri a raccontare;
E tai ragionamenti tutti quanti
Spesso rompean con fervente baciare,
Ed isbandendo la passata noia,
Prendeano insieme dilettosa gioia.
XLI.
Ragion non vi si fece di dormire,
Ma che la notte non venisse meno
Per bene assai vegghiare avean disire;
Sazïarsi l’un dell’altro non potieno,
Quantunque molto fosse il fare e il dire,
Ciò che a quel atto appartener credieno;
E senza invan lasciar correr le dotte
Tutte l’adoperaron quella notte.
XLII.
Ma poich’e’ galli presso al giorno udiro
Cantar, per l’aurora che sorgea,
Dell’abbracciar si rinfocò il desiro,
Dolendosi dell’ora che dovea
Lor dipartire, ed in nuovo martiro,
Il qual nessuno ancor provato avea,
Porli, per l’esser da lor seperati,
Vie più che mai d’amor ora infiammati.
XLIII.
Li quai come Griseida cantare
Sentì, dolente disse: o amor mio,
Ora si fa da doversi levare,
Se ben vogliam celar nostro disio;
Ma io ti voglio, amor mio, abbracciare,
Pria che ti levi, un poco, acciocchè io
Men doglia senta della tua partita,
Deh abbraccia tu me, dolce mia vita.
XLIV.
Troilo l’abbracciò quasi piangendo,
E strignendola forte la baciava,
Il giorno che venía maledicendo,
Che lor così avaccio separava;
Poi cominciò in verso lei dicendo:
Il dipartir senza modo mi grava;
Come partir da te mi debbo mai,
Che ’l ben ch’io sento, donna, tu mel dai?
XLV.
Non so com’io non mora pur pensando
Ch’andar me ne convien contra il volere,
E già di vita ch’io n’ho preso bando,
E morte sopra me molto ha potere,
Nè so del ritornar come nè quando;
O fortuna, perchè da tal piacere
Lontani me, che più d’altro mi piace,
Perchè mi togli il sollazzo e la pace?
XLVI.
Deh che farò? se già nel primo passo
Sì mi strigne il disio di ritornarci,
Che vita nol sostiene, oimè lasso?
Deh perchè vien sì tosto a allontanarci
O dispietato giorno? quando basso
Sarai che io ti veggi a ristorarci?
Oimè che io non so! Quindi rivolto
A Griseida baciava il fresco volto,
XLVII.
Dicendo: s’io credessi in la tua mente,
Donna mia bella, sì com’io ti tegno
Dentro alla mia, star continuamente,
Più caro mi saria che ’l troian regno,
E di questo partir saria paziente,
Poscia che a quel contra mia voglia vegno,
E spererei tornarci a tempo e loco,
A temperar com’ora il nostro fuoco.
XLVIII.
Griseida gli rispose sospirando,
Mentre che stretto nelle braccia il tiene:
Anima mia, i’ udii, ragionando
Già è assai, se mi ricordo bene,
Che amore è uno spirto avaro, e quando
Alcuna cosa prende, sì la tiene
Serrata forte e stretta con gli artigli,
Ch’a liberarla invan si dan consigli.
XLIX.
Egli ha ghermito me in tal maniera
Per te, caro mio ben, che s’io volessi
Ritornarmi ora quale prima m’era,
Non ti cappia nel capo ch’io potessi;
Tu mi se’ sempre da mane e da sera
Nella mente fermato; e s’io credessi
Così essere a te, io mi terrei
Beata più che chieder non saprei.
L.
Però sicuro vivi del mio amore,
Il qual mai per altrui più non provai;
E se ’l tornarci disii con fervore,
Io il disio vie più di te assai,
Nè prima mi fien date lecite ore
Sopra di me, che tu ci tornerai;
Cuor del mio corpo i’ mi ti raccomando;
E così detto il baciò sospirando.
LI.
Levossi Troilo contro a suo volere,
Poi che baciata l’ebbe cento volte:
Ma pur veggendo quel ch’era dovere,
Sì vesti tutto, e poscia dopo molte
Parole, disse: io fo il tuo volere,
Io me ne vo; fa’ che non mi sian tolte
Le tue promesse, e accomandoti a Dio,
E teco lascio lo spirito mio.
LII.
A lei non venne alla risposta voce,
Tanta noia la strinse il suo partire
Ma Troilo quindi con passo veloce,
Ver lo palagio suo ne prese a gire;
E’ sente ben ch’amor vie più lo cuoce
Che non faceva prima nel disire,
Tanto ha da più Griseida trovata,
Che seco non l’avea prima stimata.
LIII.
Tornato Troilo nel real palagio,
Tacitamente se n’entrò nel letto,
Per dormir se potesse alquanto ad agio;
Ma non gli potè entrar sonno nel petto,
Sì gli facean nuovi pensier disagio,
Rammemorando il passato diletto,
Pensando seco quanto più valeva
Griseida bella, ch’el non si credeva.
LIV.
E giva ciascun atto rivolgendo
Nel suo pensiero, e il savio ragionare;
E seco spesso ancora ripetendo
Il piacevole e ’l dolce motteggiare;
L’amor di lei ancor giva sentendo
Troppo maggior che nel suo immaginare;
E con tali pensier più s’accendea
In amor forte, e non se n’avvedea.
LV.
Griseida seco facea il simigliante,
Di Troilo parlando nel suo core;
E seco lieta di sì fatto amante,
Grazie infinite ne rendea ad amore:
E parle ben mille anni che davante
A lei ritorni il suo vago amatore,
E ch’ella il tenga in braccio e baci spesso,
Come la notte avea fatto d’appresso.
LVI.
Fu la mattina: Pandaro venuto
A Troilo levato, e’ salutollo,
E Troilo gli rendè il suo saluto,
E con disio gli si gittò al collo:
Pandaro mio, tu sii il ben venuto:
E nella fronte con amor baciollo;
Tu m’hai d’inferno messo in paradiso,
Amico mio, se io non sia ucciso.
LVII.
Io non potrei giammai operar tanto
Se per te mille volte il dì morisse,
Che io facessi un atamo di quanto
Conosco aperto ti si convenisse:
Tu m’hai in gioia posto d’aspro pianto;
E da capo baciollo, e quindi disse:
Dolce mio ben, che contento mi fai,
Quando sarà ch’io più ti tenga mai?
LVIII.
Non vede il sol, che tutto il mondo vede,
Sì bella donna nè tanto piacente,
Se le parole mie meritan fede,
Sì costumata, vaga ed avvenente,
Quanto lei, la cui buona mercede,
Più ch’altro i’ vivo allegro veramente;
Lodato sia amor che mi fe’ suo,
E similmente il buon servigio tuo.
LIX.
Dunque non m’hai poca cosa donata,
Nè me a poca cosa donat’hai:
La vita mia ti fia sempre obbligata,
E ad ogni tuo piacer sempre l’avrai;
Tu l’hai da morte a vita suscitata:
E qui si tacque allegro più che mai.
Pandaro uditol, stette alquanto, e poi
Così rispose lieto a’ detti suoi:
LX.
S’i’ ho, bel dolce amico, fatta cosa
Che ti sia grata, assai ne son contento,
Ed émmi sommamente grazïosa;
Ma nondimen più che mai ti rammento
Che ponghi freno alla mente amorosa,
E sii savio, che dove ’l tormento
Hai tolto via con dilettosa gioia,
Per favellar non ti ritorni in noia.
LXI.
Io ’l farò sicchè a grado sieti,
Rispose Troilo al suo caro amico;
Poi gli contò gli accidenti suoi lieti
Con somma festa, e seguì: ben ti dico
Ch’io non fu’ mai d’amor dentro alle reti
Com’io son ora, e vie più che l’antico
Ora mi cuoce il fuoco che tratto aggio
Degli occhi di Griseida e del visaggio.
LXII.
Io ardo più che mai, ma questo fuoco
Ch’io sento nuovo, è d’altra qualitate
Che quel di prima; or mi rinfresca il giuoco,
Sempre nel cor pensando alla beltate
Che n’è cagion; ma vero è che un poco
Le voglie mie più calde che l’usate
Fa di tornar nell’amorose braccia,
E di baciar la delicata faccia.
LXIII.
Saziar non si poteva il giovinetto
Di ragionar con Pandaro del bene
Il qual sentito aveva, e del diletto,
E del conforto dato alle sue pene,
E dell’amor che portava perfetto
A Griseida, in cui sola la spene
Aveva posta, e messone in oblio
Ogni suo altro fatto e gran disio.
LXIV.
Fra picciol tempo, la lieta fortuna
Di Troilo, rendè luogo a’ suoi amori;
Il qual, poscia che fu la notte bruna,
Dei suo palagio solo uscito fuori,
Senza nel ciel vedere stella alcuna,
Per lo cammino usato a’ suoi dolzori
Nascosamente se n’entrò, e cheto
Nel luogo usato e’ si stette segreto.
LXV.
Come Griseida l’altra volta venne,
Così a tempo venne questa volta,
Ed il modo di prima tutto tenne;
E poi che lieta e grazïosa accolta
Fatta s’ebber fra lor quanto convenne,
Presi per man con allegrezza molta
Nella camera insieme se n’entraro,
E senza indugio alcun si coricaro.
LXVI.
Come Griseida Troilo in braccio ebbe,
Così gioiosa cominciò a dire:
Qual donna fu, o mai esser potrebbe,
La qual potesse tanto ben sentire
Quant’io fo or? Deh chi se ne terrebbe,
Di non dovere a mano a man morire,
Se altro non potesse, per avere
Un poco sol di così gran piacere?
LXVII.
Poi cominciava: dolce l’amor mio,
Io non so che mi dir, nè mai potrei
Dir la dolcezza e ’l focoso disio
Che m’hai nel petto messo, ov’io vorrei
Aver te tutto sempre sì com’io
V’ho l’imagine tua; nè chiederei
A Giove più, se questo mi facesse,
Che sì com’ora sempre mi tenesse.
LXVIII.
Io non mi credo ch’el possa giammai
Questo fuoco allenar, com’io credea
Che el facesse, poi che insieme assai
Fossimo stati, ma ben non vedea;
L’acqua del fabbro su gettata ci hai,
Sicchè egli arde più che non facea,
Perchè mai non t’amai quant’ora t’amo,
Che giorno e notte ti disio e bramo.
LXIX.
Troilo a lei diceva il simigliante,
Tenendosi amendue in braccio stretti;
E motteggiando usavan tutte quante
Quelle parole, ch’a cotai diletti
Si soglion dir tra l’uno e l’altro amante,
Baciandosi le bocche, gli occhi e’ petti,
Rendendo l’uno all’altro le salute,
Che scrivendosi insieme eran taciute.
LXX.
Ma il nemico giorno s’appressava,
Come per segno si sentiva aperto,
Il qual ciascun cruccioso bestemmiava,
Parendo lor ch’egli si fosse offerto
Più tosto assai ch’offrirsi non usava,
Il che doleva a ciascun per lo certo;
Ma poi che più non si poteva, allora
Ciascun su si levò senza dimora.
LXXI.
L’uno dall’altro fece dipartenza
Al modo usato, dopo più sospiri;
E nel futuro, ordinaron che senza
Indugio si tornasse a que’ disiri;
Sicchè potesser colla lor presenza
Rattemperar gli amorosi martirj,
Ed operar sì lieta gioventute
Mentre durasse in sì fatta salute.
LXXII.
Era contento Troilo, ed in canti
Menava la sua vita e in allegrezza:
L’alte bellezze ed i vaghi sembianti
Di qualunque altra donna nulla prezza,
Fuor che la sua Griseida, e tutti quanti
Gli altri uomin vivere in trista gramezza,
A rispetto di sè, seco credeva;
Tanto il suo ben gli aggradiva e piaceva.
LXXIII.
Esso talvolta Pandaro pigliava
Per mano, e in un giardin con lui ne gia;
E con el pria di Griseida parlava,
Del suo valore e della cortesia;
Poi lietamente con lui cominciava,
Rimoto tutto da malinconia,
Lietamente a cantare in cotal guisa,
Qual qui senz’alcun mezzo si divisa.
LXXIV.
O luce eterna, il cui lieto splendore
Fa bello il terzo ciel, dal qual ne piove
Piacer, vaghezza, pietade ed amore;
Del sole amica, e figliuola di Giove,
Benigna donna d’ogni gentil core,
Certa cagion del valor che mi muove
A’ sospir dolci della mia salute,
Sempre lodata sia la tua virtute.
LXXV.
Il ciel, la terra, lo mare e l’inferno,
Ciascuno in sè la tua potenzia sente,
O chiara luce; e s’io il ver discerno,
Le piante, i semi, e l’erbe parimente,
Gli uccei, le fiere, i pesci con eterno
Vapor ti senton nel tempo piacente,
E gli uomini e gli dei, nè creatura
Senza di te nel mondo vale o dura.
LXXVI.
Tu Giove prima agli alti effetti lieto,
Pe’ qua’ vivono e son tutte le cose,
Movesti, o bella dea; e mansueto
Sovente il rendi all’opere noiose
Di noi mortali, e il meritato fleto
In liete feste volgi e dilettose;
E in mille forme già quaggiù il mandasti,
Quand’ora d’una ed or d’altra il pregasti.
LXXVII.
Tu ’l fiero Marte al tuo piacer benegno
Ed umil rendi, e cacci ciascun’ira;
Tu discacci viltà, e d’alto sdegno
Riempi chi per te, o dea, sospira;
Tu d’alta signoria merito e degno
Fai ciaschedun secondo ch’el disira;
Tu fai cortese ognuno e costumato,
Chi del tuo fuoco alquanto è infiammato.
LXXVIII.
Tu in unità le case e le cittadi,
Li regni, e le provincie, e ’l mondo tutto
Tien, bella dea; tu dell’amistadi
Se’ cagion certa e di lor caro frutto:
Tu sola le nascose qualitadi
Delle cose conosci, onde ’l costrutto
Vi metti tal, che fai maravigliare
Chi tua potenza non sa riguardare.
LXXIX.
Tu legge, o dea, poni all’universo,
Per la qual esso in esser si mantiene;
Nè è alcuno al tuo figliuolo avverso,
Che non sen penta, se d’esser sostiene;
Ed io che già con ragionar, perverso
Li fui, aval, sì come si conviene,
Mi riconosco innamorato tanto,
Ch’esprimere giammai non potre’ quanto.
LXXX.
Il che, se avvegna ch’alcuno riprenda,
Poco men curo, che non sa che dirsi:
Ercole forte in questo mi difenda,
Che da amore non potè schermirsi,
Avvegna ch’ogni savio il ne commenda;
E chi con frode non vuol ricoprirsi
Non dirà mai che a me fia disdicevole
Ciò che ad Ercole fu già convenevole.
LXXXI.
Adunque io amo, e intra’ grandi effetti
Tuoi, questo più mi piace e aggrada;
Questo seguisco, in cui tutti i diletti
Son (se diritto l’anima mia bada),
Più che in altro compiuti e perfetti,
Anzi da questo ogni altro si disgrada;
Questo mi fa seguitar quella donna,
Che di valore più ch’altra s’indonna;
LXXXII.
Questo m’induce avale a rallegrarmi,
E farà sempre, sol che io sia saggio;
Questo m’induce, o dea, tanto a lodarmi
Del tuo lucente e virtuoso raggio,
Per lo qual benedico che alcun’armi
Non mi difeser dal chiaro visaggio,
Nel qual la tua virtù vidi dipinta,
E la potenza lucida e distinta.
LXXXIII.
E benedico il tempo, l’anno, e ’l mese,
E ’l giorno, l’ora, e ’l punto, che così
Onesta, bella, leggiadra e cortese,
Primieramente apparve agli occhi miei;
E benedico il figliuol che m’accese
Del suo valor, per la virtù di lei,
E che m’ha fatto a lei servo verace,
Negli occhi suoi ponendo la mia pace.
LXXXIV.
E benedico i ferventi sospiri
Ch’i’ ho per lei cacciati già dal petto;
E benedico i pianti ed i martirj
Che fatti m’ha avere amor perfetto;
E benedico i focosi desiri
Tratti dal suo più bel che altro aspetto,
Perciocchè prezzo di sì alta cosa
Istati sono, e tanto grazïosa.
LXXXV.
Ma sopra tutti benedico Iddio,
Che tanto cara donna diede al mondo,
E che tanto di lume ancor nel mio
Discerner pose in questo basso fondo,
Che in lei, innanzi ad ogni altro disio,
Io accendessi e fossine giocondo,
Talchè grazie giammai non si porieno
Render per uom, quai render si dovrieno.
LXXXVI.
Se cento lingue, e ciascuna parlante,
Nella mia bocca fossero, e ’l sarpere
Nel petto avessi d’ogni poetante,
Esprimer non potrei le virtù vere,
L’alta piacevolezza e l’abbondante
Sua cortesia; chi n’ha dunque potere,
Prego divoto che lei lungamente
Mi presti, e me ne faccia conoscente;
LXXXVII.
Che se’ tu dessa, o dea, che far lo puoi,
Sol che tu vogli, ed io ten prego molto;
Chi più felice si potrà dir poi,
Se ’l tempo che con meco esser dee volto
Tutto disponi a’ piacer miei e suoi?
Deh fallo, o dea, poichè mi son raccolto
Nelle tue braccia, donde uscito m’era,
Non ben sapendo la tua virtù vera.
LXXXVIII.
Segua chi vuole i regni e le ricchezze,
L’arme, i cavai, le selve, i can, gli uccelli,
Di Pallade gli studii e le prodezze
Di Marte, ch’io in mirare gli occhi belli
Della mia donna e le vere bellezze
Il tempo vo’ por tutto, che son quelli
Che sopra Giove mi pongon, qualora
Gli miro, tanto il cor se ne innamora.
LXXXIX.
Io non ho grazie quai si converrieno
A te da me, o bella luce eterna,
Però prima tacer che non appieno
Renderle: vuo’mmi tu chiara lucerna
Al desiderio mio non venir meno?
Prolunga, cela, correggi e governa
Il mio ardore, e quel di questa a cui
Son dato, e fa’ che non sia mai d’altrui.
XC.
Nell’opere opportune alla lor guerra
Egli era sempre nell’armi il primiero;
Che sopra’ Greci uscia fuor della terra,
Tanto animoso, e sì forte e sì fiero,
Che ciascun ne dottava, se non erra
La storia; e questo spirto tanto altiero
Più che l’usato gli prestava amore,
Di cui egli era fedel servidore.
XCI.
Ne’ tempi delle triegue egli uccellava,
Falcon, girfalchi ed aquile tenendo;
E tal fïata con li can cacciava,
Orsi, cinghiali, e gran lion seguendo,
Li piccoli animai tutti spregiava;
Ed a’ suoi tempi Griseida vedendo
Si rifaceva grazïoso e bello
Come falcon ch’uscisse di cappello.
XCII.
Era d’amor tutto il suo ragionare,
O di costumi, e pien di cortesia;
Lodava molto i valenti onorare,
E simile i cattivi cacciar via:
Piaceali ancora di vedere ornare
Li giovani d’onesta leggiadria;
E tenea senza amore ognun perduto,
Di quale stato che si fosse suto.
XCIII.
Ed avvegna ch’el fosse di reale
Sangue, e volendo ancor molto potesse;
Benigno si faceva a tutti eguale,
Come che alcun talvolta nol valesse:
Così voleva amor, che tutto vale,
Che el per compiacere altrui facesse;
Superbia, invidia, ed avarizia in ira
Aveva, ed ognun dietro si tira.
XCIV.
Ma poco tempo durò cotal bene,
Mercè della fortuna invidïosa,
Che in questo mondo nulla fermo tiene;
Ella li volse la faccia crucciosa
Per nuovo caso, sì com’egli avviene,
E sottosopra volgendo ogni cosa,
Di Griseida gli tolse i dolci frutti,
E i lieti amor rivolse in tristi lutti.