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Il Filostrato/Parte quarta

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Parte quarta

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IL

FILOSTRATO

DI GIOVANNI BOCCACCI



PARTE QUARTA



ARGOMENTO


Comincia la quarta parte del Filostrato, nella quale si mostra primieramente perchè avvenisse che Griseida fosse renduta al padre Calcas. Dimandarono i Greci uno scambio de’ prigioni; égli conceduto Antenore: richiedesi Griseida, e deliberasi di renderla. Troilo si duole primieramente seco, e poscia con Pandaro ragionano insieme varie cose per consolazione di Troilo. Perviene la fama a Griseida della sua futura partita: visitanla donne, le quali partite, Griseida piagne. Pandaro ordina con lei che Troilo vi vada la sera, ed egli vi va, e là tramortisce Griseida: Troilo si vuole uccidere; ella si risente, vannosi a letto piangendo, e ragionano di varie cose, e teneramente Griseida promette di tornare infra ’l decimo giorno. E primieramente come combattono i Troiani, dove molti sono presi da’ Greci, e permutati i prigioni.
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I.


Tenendo i Greci la cittade stretta
     Con forte assedio; Ettor nelle cui mani
     Era tutta la guerra, fe’ seletta
     De’ suoi amici e ancora de’ Troiani,
     E valoroso con sua gente eletta
     Incontro a’ Greci uscì negli ampi piani,
     Come più altre volte fatto avea
     Con varii accidenti alla mislea.

II.



Venner gli Greci incontro, e con battaglia
     Dura, quel giorno consumaron tutto;
     Ma de’ Troiani alfine la puntaglia
     Non resse bene, onde opportuno al tutto
     Fu il fuggire con danno e con travaglia,
     E molti ne moriro in doglia e lutto;
     Ed assai ve ne furon per prigioni,
     Nobili re, ed altri gran baroni.

III.



Tra’ quali fu il magnifico Antenorre,
     Polidamas suo figlio, e Monesteo,
     Santippo, Serpedon, Polinestorre,
     Polite ancora, ed il troian Rifeo,
     E molti più cui la virtù d’Ettorre
     Nel partirsi riscuoter non poteo,
     Sicchè gran pianto e cruccio fessi in Troia,
     E quasi annunzio di vie peggior noia.

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IV.


Chiese Priamo triegua, e fugli data;
     E cominciossi a trattare infra loro
     Di permutar prigioni quella fiata,
     E per li sopra più di donar oro.
     Il che Calcas sentendo, con cambiata
     Faccia si mise e con pianto sonoro
     Infra gli Greci, e per lo gridar fioco
     Pure impetrò che l’udissero un poco.

V.


Signori, cominciò Calcas, i’ fui
     Troian, siccome voi tutti sapete;
     E se ben vi ricorda, i’ son colui,
     Il qual primiero a quel per che ci sete
     Recai speranza, e dissivi che vui
     Al termine dovuto l’otterrete,
     Cioè vittoria della vostra impresa,
     E Troia fia per voi disfatta e accesa.

VI.


L’ordine e ’l modo ancora da tenere
     In ciò sapete, ch’io v’ho dimostrato;
     E perchè tutte venissero intere
     Le voglie vostre nel tempo spiegato,
     Senza fidarmi in alcun messaggere,
     O in libello aperto o suggellato,
     A voi, com’egli appar, ne son venuto
     Per darvi in ciò e consiglio ed aiuto.

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VII.


Il che volendo fare, fu opportuno
     Che con ingegno, e molto occultamente,
     Senza ciò fare assentire a nessuno,
     Io mi partissi, e fello, di presente
     Che ’l chiaro giorno fu tornato bruno
     Me n’uscii solo, e qui tacitamente
     Ne venni, e nulla meco ne recai,
     Ma ciò che aveva tutto vi lasciai.

VIII.


Di ciò nel vero poco o nulla curo,
     Fuor d’una mia figliuola giovinetta
     Ch’io vi lasciai; oimè, padre duro
     E rigido ch’io fui, costei soletta
     Menata n’avess’io qui nel sicuro!
     Ma nol sofferse la tema e la fretta:
     Questo mi duol di ciò ch’io lasciai in Troia,
     Questo mi toglie ed allegrezza e gioia.

IX.


Nè tempo ancor di richieder poterla
     Veduto ci ho, però taciuto sono,
     Ma ora è tempo di potere averla,
     Se da voi posso impetrar questo dono;
     E s’or non s’ha, giammai di rivederla
     Più non ispererò, e in abbandono
     La vita mia omai lascerò gire,
     Senza curar più ’l viver che ’l morire.

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X.


Qui son con voi di nobili baroni
     Troiani, ed altri assai, cui voi cambiate
     Con gli avversarii pe’ vostri prigioni;
     Un sol de’ molti a me me ne donate,
     In luogo delle cui redenzïoni
     Io abbia mia figlia: consolate,
     Per Dio, signor, questo vecchio cattivo,
     Che d’ogni altro sollazzo è voto e privo.

XI.


Nè d’aver or per li prigion vaghezza
     Vi tragga, ch’io vi giuro per Iddio,
     Ch’ogni troiana forza, ogni ricchezza
     È nelle vostre man per certo; e s’io
     Non me n’inganno, tosto la prodezza
     Fallirà di colui, che al disio
     Di tutti voi tien serrate le porte,
     Come apparrà per violenta morte.

XII.


Questo dicendo il vecchio sacerdote,
     Umile nel parlare e nell’aspetto,
     Sempre rigava di pianto le gote,
     E la canuta barba e ’l duro petto
     Tutto bagnato avea: nè furon vote
     Le sue preghiere di pietoso effetto,
     Che, lui tacendo, i Greci con romore
     Tutti gridaron: diaglisi Antenóre.

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XIII.


Così fu fatto; e Calcas fu contento,
     E la bisogna impose a’ trattatori:
     I quali, al re Priamo, il suo talento
     Dissero, ed a’ figliuoli ed a’ signori
     Ch’ancora v’eran, onde un parlamento
     Di ciò si tenne, ed agli ambasciadori
     Risposer breve: se gli addomandati
     Rendesser loro, i lor fosser donati.

XIV.


Troilo al domandare era presente
     Che fero i Greci, e Griseida udendo
     Richieder, dentro il cuor subitamente
     Per tutto si sentì ir trafiggendo,
     Ed una doglia sì acutamente,
     Che morir si credette ivi sedendo;
     Ma con fatica pur dentro ritenne
     L’amore e ’l pianto come si convenne.

XV.


E pien d’angoscia e di fiera paura,
     Quel che fosse risposto ad aspettare
     Incominciò, con non usata cura
     Seco volgendo quel ch’avesse a fare,
     Se tanta fosse la sua sciagura,
     Se tra’ fratei sentisse liberare
     Che a Calcas Griseida si rendesse,
     Come sturbarlo del tutto potesse.

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XVI.


Amore il facea pronto ad ogni cosa
     Doversi oppor, ma d’altra parte era
     Ragion che ’l contrastava, e che dubbiosa
     Faceva molto quell’impresa altiera,
     Non forse che di ciò fosse crucciosa
     Griseida per vergogna; e in tal maniera,
     Volendo e non volendo or questo or quello,
     Intra due stava il timido donzello.

XVII.


Mentre che egli in cotal guisa stava
     Sospeso, molte cose ragionate
     Fur tra’ baron, di quel che bisognava
     Ora al presente per le cose state;
     E come è detto, a chi quelle aspettava
     Fur le risposte interamente date,
     E che fosse Griseida renduta,
     Che mal non v’era stata ritenuta.

XVIII.


Qual, poscia ch’è dall’aratro intaccato
     Ne’ campi il giglio, per soverchio sole
     Casca ed appassa, e ’l bel color cangiato
     Pallido fassi; tale, alle parole
     Rendute a’ Greci dal determinato
     Consiglio infra’ Troian, in tanta mole
     Di danno e di periglio, tramortito
     Lì cadde Troilo d’alto duol ferito.

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XIX.


Il quale Priamo prese infra le braccia,
     Ed Ettore e’ fratei, temendo forte
     Dell’accidente, e ciascun si procaccia
     Di confortarlo, e le sue forze morte,
     Ora i polsi fregando, ed or la faccia
     Bagnandogli sovente, come accorte
     Persone, s’ingegnavan rivocare,
     Ma poco ancor valeva l’operare.

XX.


Esso giacea fra’ suoi disteso e vinto,
     Che un poco di spirto ancor v’avea;
     E ’l viso suo pallido, smorto, e tinto
     Egli era tutto, e più morta parea
     Che viva cosa, di pietà dipinto
     In guisa tal, ch’ognun pianger facea;
     Sì grave fu l’alto tuon che l’offese,
     Quando di render Griseida intese.

XXI.


Ma poi che la sua anima dolente,
     Per lungo spazio pria che ritornasse,
     Vagata fu, ritornò chetamente,
     Ond’esso, quale alcun che si svegliasse,
     Stordito tutto, in piè subitamente
     Si levò suso, e pria che ’l domandasse
     Alcun che fosse ciò ch’avea sentito,
     Altro infingendo, da lor s’è partito:

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XXII.


E ’n verso il suo palagio se ne gio,
     Senza ascoltare o volgersi ad alcuno,
     E tal qual era sospiroso e pio,
     Senza voler compagnia di nessuno,
     Nella camera ginne, e che disio
     Di riposarsi avea, disse; onde ognuno,
     Amico e servitor quantunque caro,
     N’uscì, ma pria le finestre serraro.

XXIII.


A quel che segue, vaga donna, appresso,
     Non curo io guari se non se’ presente,
     Perciocchè il mio ingegno da sè stesso,
     (Se la memoria debol non gli mente)
     Saprà il grave dolor, dal quale oppresso
     Per la partenza tua tristo si sente,
     Ben raccontar senza alcun tuo soccorso,
     Che se’ cagion di sì amaro morso.

XXIV.


I’ ho infino a qui lieto cantato
     Il ben che Troilo sentì per amore,
     Come che di sospir fosse mischiato,
     Or di letizia volgere in dolore
     Conviemmi, perchè se da te ascoltato
     Non son, non curo, che a forza il core
     Ti cangerà, facendoti pietosa
     Della mia vita più ch’altra dogliosa.

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XXV.


Ma se pur viene a’ tuoi orecchi mai,
     Pregoti per l’amore il qual ti porto,
     Che abbi alcun rispetto alli miei guai,
     E ritornando mi rendi il conforto
     Il qual col tuo partir levato m’hai:
     E se discaro t’è ’l trovarmi morto,
     Ritorna tosto, che poca è la vita,
     La qual lasciato m’ha la tua partita.

XXVI.


Rimaso adunque Troilo soletto
     Nella camera sua serrata e scura,
     E senza aver di nessun uom sospetto,
     O di potere udito esser paura,
     Il raccolto dolor nel tristo petto
     Per la venuta subita sventura
     Cominciò ad aprire in tal maniera,
     Ch’uom non parea, ma arrabbiata fiera.

XXVII.


Nè altrimenti il toro va saltando
     Or qua or là, dappoi c’ha ricevuto
     Il mortal colpo, e misero mugghiando
     Conoscer fa qual duolo ha conceputo,
     Che Troilo facesse, nabissando
     Sè stesso, e percuotendo dissoluto
     Il capo al muro, e con le man la faccia,
     Con pugni il petto e le dolenti braccia.

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XXVIII.


I miseri occhi per pietà del core
     Forte piangeano, e parean due fontane
     Ch’acqua gittassero abbondevol fuore;
     Gli alti singhiozzi del pianto, e le vane
     Parole, ancor toglievano il valore;
     Le quali ancor delle passate strane,
     Null’altro fuor che morte gian chiedendo,
     Gl’iddii e sè bestemmiando e schernendo.

XXIX.


Da poi che la gran furia diede loco,
     E per lunghezza temperossi il pianto,
     Troilo acceso nel dolente foco
     Sopra ’l suo letto si gittò alquanto;
     Non restando però punto nè poco
     Di pianger forte e di sospirar tanto,
     Che ’l capo e ’l petto appena gli bastava,
     A tanta noia quanta si donava.

XXX.


Poi poco appresso cominciò a dire
     Seco nel pianto: o misera fortuna,
     Che t’ho io fatto, che ad ogni desire
     Mio sì t’opponi? Non hai tu più alcuna
     Altra faccenda fuor che ’l mio languire?
     Perchè sì tosto hai voltata la bruna
     Faccia ver me, che già t’amava assai
     Più ch’altro iddio, come tu crudel sai?

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XXXI.


Se la mia vita lieta e grazïosa
     Ti dispiacea, perchè non abbattevi
     Tu la superbia d’Ilïon pomposa?
     Perchè il padre mio non mi toglievi?
     Che non Ettor, nel cui valor si posa
     Ogni speranza in questi tempi grievi?
     Perchè non ten portavi Polissena,
     E perchè non Paris, ed anco Elena?

XXXII.


Se a me fosse Griseida sola
     Rimasa, di nïuno altro gran danno
     Non curerei, nè ne farei parola;
     Ma li tuoi strali drittamente vanno
     Sempre alle cose d’onde s’ha più gola;
     Per mostrar più la forza del tuo inganno,
     Tu te ne porti tutto il mio conforto:
     Deh ora avessi tu me innanzi morto!

XXXIII.


Omè Amor, signor dolce e piacente,
     Il qual sai ciò che nell’anima giace,
     Come farà la mia vita dolente,
     S’io perdo questo ben, questa mia pace?
     Omè Amor soave, che la mente
     Mi consolasti già, signor verace,
     Che farò io, se m’è tolta costei,
     A cui per tuo voler tutto mi diei?

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XXXIV.


Io piangerò, e sempre doloroso
     Starò dove ch’io sia, mentre la vita
     Durerà in questo mio corpo angoscioso.
     O anima tapina ed ismarrita,
     Che non ti fuggi dal più sventuroso
     Corpo che viva? O anima invilita,
     Esci del corpo e Griseida segui:
     Perchè nol fai? Perchè non ti dilegui?

XXXV.


O dolenti occhi, il cui conforto tutto
     Di Griseida nostra era nel viso,
     Che farete oramai? in tristo lutto
     Sempre starete, poi da voi diviso
     Sarà, e ’l valor vostro fia distrutto,
     Dal vostro lacrimar vinto e conquiso;
     Invano omai vedrete altra virtute,
     Se el v’è tolta la vostra salute.

XXXVI.


O Griseida mia, o dolce bene
     Dell’anima dolente che ti chiama,
     Chi darà più conforto alle mie pene?
     Chi porrà in pace l’amorosa brama?
     Se tu ten vai, oimè morir conviene
     A colui lasso che più che sè t’ama;
     E io morrò senza averlo meritato,
     De’ dispietati iddii sia il peccato.

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XXXVII.


Deh, or si fosse questo tuo partire
     Tanto indugiato, ch’apparato avessi
     Per lunga usanza, lasso, a sofferire;
     Io non vo’ dir che io non m’opponessi
     A mio potere a non lasciarti gire;
     Ma se pur ciò addivenir vedessi,
     Per lunga usanza mi saria soave
     La tua partenza, che or mi par sì grave.

XXXVIII.


O vecchio malvissuto, o vecchio insano,
     Qual fantasia ti mosse, o quale sdegno,
     A gire a’ Greci essendo tu Troiano?
     Eri onorato in tutto il nostro regno,
     Più di te nullo regnicolo o strano.
     O iniquo consiglio, o petto pregno
     Di tradimenti, d’inganni e di noia,
     Or t’avess’io qual io vorrei in Troia!

XXXIX.


Or fostu morto il dì che tu n’uscisti;
     Or fostu morto a piè de’ Greci allora
     Che tu la bocca primamente apristi
     A richieder colei che m’innamora!
     O quanto al mondo mal per me venisti!
     Tu se’ cagion del dolor che m’accora:
     La lancia che passò Protesilao
     T’avesse nel cor fitta Menelao!

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XL.


S’ tu fossi morto i’ viverei per certo,
     Che chi cercar Griseida non sarebbe;
     S’ tu fossi morto io non sarei diserto,
     Da me Griseida non si partirebbe;
     S’ tu fossi morto, io veggio assai aperto,
     Quel che mi duole agual non mi dorrebbe;
     Dunque la vita tua è di mia morte
     Trista cagione, e di dogliosa sorte.

XLI.


Mille sospiri più che fuoco ardenti
     N’uscivan fuor dell’amoroso petto,
     Misti con pianti e con detti dolenti,
     Senza dar l’uno all’altro alcun rispetto;
     E sì vinto l’avean questi lamenti,
     Che più non potea oltre il giovinetto,
     Ond’el s’addormentò, ma non dormio
     Guari di tempo, che si risentio.

XLII.


E sospirando, in piè si fu levato,
     Ginne alla porta che serrata avea,
     E quella aperse, e ad un suo privato
     Valletto, disse: fa’ che tu non stea,
     Subitamente Pandaro chiamato,
     Fa’ ch’a me venga: e quindi si tollea
     Al buio della camera doglioso,
     Pien di sospiri e tutto sonnacchioso.

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XLIII.


Pandaro venne, e già avea sentito
     Ciò che chiedeano i greci ambasciadori;
     E come aveano ancora per partito
     Preso, di render Griseida i signori;
     Di che nel viso tutto sbigottito,
     DiFonte/commento: Milano, 1964 Troilo seco pensando i dolori,
     Nella camera entrò oscura e cheta,
     Nè sa che dir parola o trista o lieta.

LXIV.


Troilo, tosto che veduto l’ebbe,
     Gli corse al collo sì forte piangendo,
     Che bene raccontarlo uom non potrebbe;
     Il che il dolente Pandaro sentendo,
     A pianger cominciò, sì glie n’increbbe;
     E in cotal guisa, null’altro facendo
     Che pianger forte, dimoraro alquanto
     Senza parlar nessuno o tanto o quanto.

XLV.


Ma poi che Troilo ebbe presa lena,
     Pria cominciò a Pandaro: io son morto:
     La mia letizia s’è voltata in pena.
     Misero me, il mio dolce conforto,
     Fortuna invidïosa se nel mena,
     E con lui insieme il sollazzo e ’l diporto.
     Hai tu sentito ancor come ne sia
     Da’ Greci tolta Griseïda mia?

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XLVI.


Pandaro, il qual non men forte piangea,
     Rispose: sì, così non fosse ’l vero!
     Oimè lasso, ch’io non mi credea,
     Che questo tempo sì dolce e sincero
     Mancasse così tosto; nè potea
     Meco vedere che al tuo bene intero
     Potesse nuocer fuor che palesarsi;
     Or veggio tutt’i nostri avvisi scarsi.

XLVII.


Ma tu, perchè tanta angoscia ti dai?
     Perchè tanto dolore e tal tormento?
     Ciò che desideravi avuto l’hai,
     Esser dovresti sol di ciò contento:
     Lasciagli a me e questi e gli altri guai,
     C’ho sempre amato, e mai un guatamento
     Non ebbi da colei che mi disface,
     E che potrebbe sola darmi pace.

XLVIII.


Ed oltre a ciò, questa città si vede
     Piena di belle donne e grazïose,
     E se ’l ben ch’io ti vo’ merita fede,
     Nulla ce n’è, quai vuol le più vezzose,
     Che a grado non le sia aver mercede
     Di te, se tu per lei in amorose
     Pene entrerai, però se noi perdemo
     Costei, molt’altre ne ritroveremo.

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XLIX.


E come io udii già sovente dire,
     Il nuovo amor sempre caccia l’antico;
     Nuovo piacere il presente martire
     Torrà da te, se tu fai quel ch’io dico.
     Dunque non vogli per costei morire,
     Nè vogli di te stesso esser nemico:
     Credi per pianto forse riaverla?
     O ch’ella non sen vada ritenerla?

L.


Troilo udendo Pandaro, più forte
     A pianger cominciò, dicendo appresso:
     Io prego Dio che mi mandi la morte,
     Prima che io commetta un tale eccesso;
     Come che belle leggiadre ed accorte
     Sian l’altre donne, ed io il ti confesso,
     Nulla cen fu mai simile a costei,
     A cui son dato, e tutto son di lei.

LI.


Da’ suoi begli occhi mosser le faville
     Che del fuoco amoroso m’infiammaro;
     Queste pe’ miei passando a mille a mille,
     Soavemente amor seco menaro
     Dentro dal cor, nel quale esso sentille
     Come gli piacque; e quivi incominciaro
     Primiere il fuoco, il cui sommo fervore
     Cagione è stato d’ogni mio valore;

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LII.


Il qual perch’io volessi, che non voglio,
     Spegner non potre’ mai, tant’è possente,
     E se più fosse ancor non me ne doglio,
     Stesse Griseida nosco solamente,
     Del cui partir, non dell’amor cordoglio
     L’anima innamorata dentro sente;
     Nè altra c’è, non dispiaccia a nessuna,
     Ch’eguagliar le si possa in cosa alcuna.

LIII.


Dunque come potrebbe amor giammai,
     O d’alcuno i conforti, il mio desio
     Volgere ad altra donna? I’ ho assai
     A sostener d’angoscia nel cor mio,
     Ma troppa più fino agli estremi guai
     Ve ne riceverei, prima che io
     In altra donna l’animo ponessi,
     Amore, Iddio, e ’l mondo questo cessi.

LIV.


E la morte e ’l sepolcro dipartire
     Questo mio fermo amor soli potranno;
     Che che di ciò mi si deggia seguire,
     Questi con lui la mia alma merranno
     Giù nell’inferno all’ultimo martire:
     Quivi insieme Griseida piangeranno,
     Di cui sempre sarò dove ch’io sia,
     Se per morire, amor non se n’oblia.

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LV.


Dunque, per Dio, il ragionar di questo
     Pandaro cessa, ch’altra donna vegna
     Nel cor, dov’io nel suo abito onesto
     Griseida tegno come certa insegna
     De’ miei piacer; quantunque ora molesto
     Sia alla mente, ch’al suo mal s’ingegna,
     Il suo partir del qual fra noi si parla,
     Ch’ancor di quinci non veggiam mutarla.

LVI.


Ma tu favelli divisatamente;
     Quasi ragioni che men pena sia
     Il perder, che il non aver nïente
     Avuto mai: ell’è chiara follia,
     Pandaro, se t’è questo nella mente:
     Ch’ogni dolor trapassa quel che ria
     Fortuna adduce a chi è stato felice,
     E partesi dal ver chi altro dice.

LVII.


Ma dimmi, se del mio amor ti cale,
     Poscia ch’egli ti par così leggiero
     Il permutare amore, come avale
     Mi ragionavi tu, perchè sentiero
     Non hai mutato? Perchè tanto male
     Di te si porta il tuo amor severo?
     Perchè non hai altra donna seguita,
     Ch’avesse in pace posta la tua vita?

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LVIII.


Se tu che viver suoi d’amor cruccioso,
     Non l’hai in altra potuto mutare,
     Io che con lui vivea lieto e gioioso,
     Come ’l potrò da me così cacciare
     Come ragioni? Perchè angoscïoso
     Caso subitamente soprastare
     Ora mi veggia? Io son per altra guisa
     Preso, che la tua mente non divisa.

LIX.


Credimi Pandar, credimi che amore
     Quando s’apprende per sommo piacere
     Nell’animo d’alcun, cacciarnel fuore
     Non si può mai, ma puonne ben cadere
     In processo di tempo, se dolore,
     O morte, o povertà, o non vedere
     La cosa amata non gli son cagione,
     Com’egli avvenne già a più persone.

LX.


Che farò dunque, lasso sventurato,
     Se io Griseida perdo in tal maniera?
     Che l’ho perduta, perocchè cambiato
     A lei è Antenore: oimè che m’era
     La morte meglio, o non esser mai nato:
     Deh che farò? il mio cor si dispera:
     Deh, morte vieni a me che t’addimando,
     Deh vien, non mi lasciar languire amando.

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LXI.


Morte, tu mi sarai tanto soave,
     Quant’è la vita a chi lieta la mena:
     Già l’orrido tuo aspetto non m’è grave,
     Dunque vieni e finisci la mia pena.
     Deh non tardar, che questo fuoco m’ave
     Incesa già sì ciascheduna vena,
     Che refrigerio il tuo colpo mi fia,
     Deh vieni omai che ’l cuor pur ti disia.

LXII.


Uccidimi per Dio, non consentire
     Ch’io viva tanto in questo mondo, ch’io
     Il cuor del corpo mi veggia partire.
     Deh fallo morte, i’ ten prego per Dio,
     Assai mi dorrà quel più che ’l morire,
     Contenta in questa parte il mio disio;
     Tu n’uccidi ben tanti oltre al volere,
     Che ben puo’ fare a me questo piacere.

LXIII.


Così piangendo si rammaricava
     Troilo, e Pandar facea similmente,
     E nondimen sovente il confortava,
     Quanto poteva il più pietosamente;
     Ma tal conforto nïente giovava,
     Anzi cresceva continovamente
     Il pianto doloroso ed il tormento,
     Tant’era di cotal cosa scontento.

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LXIV.


A cui Pandaro disse: amico caro,
     Se non t’aggradan gli argomenti miei,
     Ed étti tanto quanto par discaro
     Il dipartir futuro di costei,
     Perchè non prendi in quel che puoi riparo
     Alla tua vita, e via rapisci lei?
     Paris andò in Grecïa e menonne
     Elena, il fior di tutte l’altre donne.

LXV.


E tu in Troia tua non ardirai
     Di rapire una donna che ti piaccia?
     Tu fara’ questo se mi crederai:
     Caccia via il dolor, caccia via, caccia
     L’angoscia tua e li dolenti guai;
     Rasciuga il tristo pianto della faccia,
     E l’animo tuo grande ora dimostra,
     Oprando sì che Griseida sia nostra.

LXVI.


Troilo allora a Pandaro rispose:
     Ben veggio amico ch’ogni ingegno poni
     Per levar via le mie pene angosciose:
     I’ ho pensato ciò che tu ragioni,
     E divisate ancor molt’altre cose,
     Come ch’io pianga e tutto m’abbandoni
     Nel dolore ch’avanza ogni mia possa,
     Sì grave è stata la sua gran percossa;

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LXVII.


Nè mai però da consiglio dovuto
     Potuto ho tor nel mio fervente amore;
     Anzi pensando, ho con meco veduto
     Che ’l tempo non concede tale errore,
     Che se ciascun de’ nostri rivenuto
     Qui ritto fosse, ed ancora Antenore,
     Di romper fede i’ non mi curerei,
     Fosse ciò che potesse, anzi il farei.

LXVIII.


Poi temo di turbar con violenta
     Rapina, il suo onore e la sua fama,
     Nè so ben s’ella ne fosse contenta,
     Ed io so pure ch’ella molto m’ama;
     Per che a prender partito non s’attenta
     Il cuor, che d’una parte questo brama,
     E d’altra teme di non dispiacere,
     Che non piacendol, non la vorre’ avere.

LXIX.


Pensato ancora avea di domandarla
     Di grazia al padre mio che la mi desse;
     Poi penso questo fora un accusarla,
     E far palese le cose commesse;
     Nè spero ancora ch’el dovesse darla,
     Sì per non romper le cose promesse,
     E perchè la direbbe diseguale
     A me, al qual vuol dar donna reale.

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LXX.


Così piangendo, in amorosa erranza
     Dimoro lasso, e non so che mi fare;
     Imperocchè ’l valor, se pure avanza,
     Forte d’amor, il mi sento mancare,
     E d’ogni parte fugge la speranza,
     E crescon le cagion del tormentare:
     Vorrei io esser morto il giorno ch’io
     Prima m’accesi in sì fatto desio.

LXXI.


Pandaro disse allora: tu farai
     Come ti piacerà, ma s’io acceso
     Fossi, come tu mostri essere assai,
     Quantunque fosse grave questo peso,
     Avendo la potenza che tu hai,
     Se non mi fosse per forza difeso,
     Di portarla farei il mio potere,
     A cui ch’el si dovesse dispiacere.

LXXII.


Non guarda amor cotanto sottilmente,
     Quanto par che tu facci, quando cuoce
     Ben da dover l’innamorata mente;
     Il qual, se quanto di fiero ti nuoce,
     Seguita ’l suo volere, e virilmente
     T’opponi a questo tormento feroce,
     E vogli innanzi esser ripreso alquanto,
     Che con martír morire in tristo pianto.

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LXXIII.


Tu non hai da rapir donna che sia
     Dal tuo voler lontana, ma è tale,
     Che di ciò che farai contenta fia;
     E se di ciò seguisse troppo male,
     O biasimo di te, tu hai la via
     Di riuscirne tosto, ch’è cotale,
     Renderla indietro: la fortuna aiuta
     Chiunque è ardito, e’ timidi rifiuta.

LXXIV.


E se pur questa cosa a lei gravasse,
     In breve tempo ne riavrai pace.
     Non che io creda ch’ella sen crucciasse,
     Tanto l’amor che le porti le piace;
     Della sua fama, perch’ella mancasse,
     A dirti il ver men grava e men dispiace:
     Passisene ella come fa Eléna,
     Pur ch’ella faccia la tua voglia piena.

LXXV.


Adunque piglia ardir, sii valoroso,
     Amor promessa non cura nè fede;
     Mostrati un poco al presente animoso,
     Abbi di te medesimo mercede.
     Io sarò teco in ciascun periglioso
     Caso, cotanto quanto mi concede
     Il poter mio; presumi pur di fare,
     Gl’iddii ci avranno poscia ad aiutare.

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LXXVI.


Troilo il detto molto bene intese
     Di Pandaro, e rispose: io son contento;
     Ma s’elle fosser mille volte accese
     Le fiamme mie, e maggiore il tormento
     Che el non è, alla donna cortese,
     Per soddisfarmi, un picciol gravamento
     Io non farei; in pria vorrei morire,
     Però da lei il vo’ prima sentire,

LXXVII.


Dunque leviamci quinci e più non stiamo;
     Lávati il viso, e ritorniamo a corte,
     E sotto il riso il dolore occultiamo;
     Di nulla ancor si son le genti accorte,
     Che stando qui, maravigliar facciamo
     Ciascun che ’l sa; or fa’ che tu sii forte
     In ben celare, ed io terrò maniera,
     Che con Griseida parlerai stasera,

LXXVIII.


La fama velocissima, la quale
     Il falso e ’l vero ugualmente rapporta,
     Era volata con prestissim’ale
     Per tutta Troia, e con parola sciolta
     Narrato aveva chente fosse e quale
     L’ambasciata de’ Greci stata porta,
     E che Griseida data dal signore
     Alli Greci era in cambio d’Antenore.

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LXXIX.


La qual novella siccome l’udio
     Griseida, che già non si curava
     Del padre più, oimè tristo il cor mio!
     Disse fra sè, e forte le noiava,
     Come a colei ch’avea volto il disio
     A Troilo, il quale più che altro amava,
     E per paura ciò ch’udia contare
     Non fosse ver, non ardia domandare.

LXXX.


Ma come noi veggiam che egli avviene,
     Che l’una donna all’altra a visitare
     Ne’ casi nuovi va se le vuol bene,
     Così sen venner molte a dimorare
     Con Griseida il giorno, tutte piene
     Di pietosa allegrezza, e a raccontare
     Le cominciaron con ordine il fatto,
     Com’ell’era renduta, e con che patto.

LXXXI.


Diceva l’una: certo assai mi piace
     Che tu torni al tuo padre e sii con lui.
     L’altra diceva: e a me me ne dispiace
     Vederla dipartir quinci da nui.
     L’altra diceva: ella potrà la pace
     Nostra ordinare, e far con esso lui,
     Il qual sapete, come avete udito,
     Che prender fa qual vuol d’ogni partito.

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LXXXII.


Questi e molt’altri parlar femminili,
     Quasi quivi non fosse, udiva quella,
     Senza risponder, tenendogli a vili;
     E non potea celar la faccia bella,
     Gli alti pensier ch’avea d’amor gentili,
     Venuti in lei per l’udita novella;
     Il corpo era ivi, e l’anima era altrove,
     Cercando Troilo senza saper dove.

LXXXIII.


E queste donne che far le credeano
     Consolazione stando, sommamente
     Parlando seco assai le dispiaceano,
     Come a colei che sentia nella mente
     Tutt’altra passïon che non vedeano
     Color che v’erano, ed assai sovente
     Donnescamente accomiatava quelle,
     Tal voglia avea di rimaner senz’elle.

LXXXIV.


Non potea ritenere alcun sospiro,
     E tal fïata alcuna lagrimetta
     Cadendo, davan segno del martiro
     Nel qual l’anima sua era costretta:
     Ma quelle stolte che le facean giro
     Credevan, per pietà, la giovinetta
     Far ciò, ch’avesse d’abbandonar esse,
     Le quali esser solean sue compagnesse.

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LXXXV.


E ciascuna voleva confortarla
     Pur sopra quello ch’a lei non dolea,
     Parole assai dicean di consolarla
     Per la partenza la qual far dovea
     Da loro, e non era altro che grattarla
     Nelle calcagne, ove ’l capo prudea;
     Ch’ella di lor nïente si curava,
     Ma di Troilo solo il qual lasciava.

LXXXVI.


Ma dopo molto cinguettare in vano,
     Come fanno le più, s’accomiataro,
     E girsen via; ed ella a mano a mano
     Vinta e sospinta da dolore amaro,
     Nella camera sua piangendo piano
     Se n’entrò dentro, e senza far riparo
     Con consiglio nessuno al suo gran male,
     Tal pianger fe’, che mai non si fe’ tale.

LXXXVII.


Erasi la dolente in sul suo letto
     Gittata stesa, piangendo sì forte,
     Che dir non si poria; e il bianco petto
     Spesso batteasi, chiamando la morte
     Che l’uccidesse, poichè ’l suo diletto
     Lasciar le convenia per dura sorte;
     E i biondi crin tirandosi rompea,
     E mille volte ognor morte chiedea.

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LXXXVIII.


Ella diceva: lassa sventurata,
     Misera me dolente, ove vo io?
     O trista me, che ’n mal punto fu’ nata,
     Dove ti lascio dolce l’amor mio?
     Deh or fuss’io nel nascere affogata,
     O non t’avessi, dolce mio disio,
     Veduto mai, poichè sì ria ventura,
     E me a te, e te a me or fura.

LXXXIX.


Che farò io, dogliosa la mia vita,
     Allor che più non ti potrò vedere?
     Che farò io da te, Troilo, partita?
     Certo non credo mai mangiar nè bere;
     E se per sè non sen va la smarrita
     Anima fuor del corpo, a mio potere
     Le caccerò con fame, perch’io veggio
     Che sempre mai andrò di male in peggio.

XC.


Or vedova sarò io daddovero,
     Poichè da te dipartir mi conviene,
     Cuor del mio corpo, e ’l vestimento nero
     Ver testimonio fia delle mie pene.
     Oimè lassa, che duro pensiero
     È quello in che la partenza mi tiene!
     Oimè, come potrò io sofferire,
     Troilo vedermi da te dipartire?

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XCI.


Come potrò io senza anima stare?
     Ella si rimarrà qui per lo certo
     Col nostro amore, e teco a lamentare
     Il partir doloroso, che per merto
     Di tanto buono amor ci convien fare;
     Oimè Troilo, or fia egli sofferto
     Da te vedermi gir, che non t’ingegni,
     Per amore o per forza mi ritegni?

XCII.


Io me n’andrò, nè so se fia giammai
     Ch’io ti riveggia, dolce mio amore;
     Ma tu che tanto m’ami, che farai?
     Deh potra’ tu sostener tal dolore?
     Io già nol sosterrò, perocchè guai
     Soperchi mi faran crepare il core;
     Deh foss’egli pur tosto, perchè poscia
     Io sarei fuor di questa grave angoscia.

XCIII.


O padre mio, iniquo e disleale
     Alla patria tua, sia tristo il punto
     Che nel petto ti venne sì gran male,
     Qual fu volere a’ Greci esser congiunto,
     E li Troian lasciar! nell’infernale
     Valle fustu, volesse Iddio, defunto
     Te iniquo vecchio, che negli ultimi anni
     Della tua vita hai fatti tali inganni.

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XCIV.


Oimè lassa, trista e dolorosa,
     Ch’a me convien portar la penitenza
     Del tuo peccato, che tanto noiosa
     Vita non meritai per mia fallenza.
     O verità del ciel luce pietosa,
     Come sofferi tu cotal sentenza,
     Ch’un pecchi, e l’altro pianga, com’io faccio,
     Che non peccai, e di dolor mi sfaccio?

XCV.


Chi potrebbe giammai narrare a pieno
     Ciò che Griseida nel pianto dicea?
     Certo non io, che al fatto il dir vien meno,
     Tant’era la sua noia cruda e rea.
     Ma mentre tai lamenti si facieno,
     Pandaro venne, a cui non si tenea
     Uscio giammai, e ’n camera sen gio,
     Là dov’ella faceva il pianto pio.

XCVI.


El vide lei in sul letto avviluppata
     Ne’ singhiozzi, nel pianto e ne’ sospiri;
     E ’l petto tutto e la faccia bagnata
     Di lacrime le vide, ed in disiri
     Di pianger gli occhi suoi, e scapigliata,
     Dar vero segno degli aspri martirj;
     La qual come lui vide, fra le braccia
     Per vergogna nascose la sua faccia.

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XCVII.


Crudele il punto, cominciò a dire
     Pandar, fu quel nel quale i’ mi levai;
     Che dovunque oggi vo doglia sentire,
     Tormenti, pianti, angoscie, ed altri guai,
     Sospiri, noia, ed amaro languire
     Mi par per tutto: o Giove, che farai?
     Io credo che dal ciel lacrime versi,
     Tanto ti son li nostri fatti avversi.

XCVIII.


Ma tu isconsolata mia sorella,
     Che credi far? credi cozzar coi fati?
     Perchè disfar la tua persona bella
     Con pianti sì crudeli e smisurati?
     Levati su, e volgiti, e favella,
     Leva alto il viso, e gli occhi sconsolati
     Rasciuga alquanto, ed odi quel ch’io dico,
     A te mandato dal tuo dolce amico.

XCIX.


Voltossi allor Griseida, facendo
     Un pianto tal che dir non si poria,
     E rimirava Pandaro, dicendo:
     Oh lassa me! che vuol l’anima mia?
     La qual conviemmi abbandonar piangendo,
     Che così vuole la sventura ria;
     Vuol ei sospiri, o pianti, o che domanda?
     Io n’ho assai s’egli per questi manda.

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C.


Ell’era tale a riguardar nel viso,
     Qual’è colei ch’alla fossa è portata;
     E la sua faccia, fatta in paradiso,
     Tututta si vedea trasfigurata,
     La sua vaghezza e ’l piacevole riso
     Fuggendosi, l’aveano abbandonata;
     E intorno agli occhi un purpurino giro,
     Dava vero segnal del suo martiro.

CI.


Il che vedendo Pandaro, ch’avea
     Con Troilo pianto il giorno lungamente,
     Le lagrime dolenti non potea
     Tener, ma cominciò similemente,
     Lasciando star quel che parlar volea,
     A pianger con costei dogliosamente;
     Ma poi ch’ebber ciò fatto insieme alquanto,
     Temperò prima Pandaro il suo pianto,

CII.


E disse: donna, io credo ch’abbi udito,
     Ma ne son certo, come se’ richesta
     Dal padre tuo, e preso è già il partito
     Di renderti dal re, sicchè di questa
     Semmana ten dei gir, s’ho ’l ver sentito;
     E quanto questo sia cosa molesta
     A Troilo, appien non si potrebbe dire,
     Il qual del tutto in duol ne vuol morire.

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CIII.


Ed abbiam tanto pianto oggi egli ed io,
     C’ho maraviglia donde egli è venuto;
     Ora alla fine pel consiglio mio
     Alquanto s’è di pianger ritenuto,
     E par che d’esser teco abbia desio,
     Per ch’io a dir, siccome gli è paciuto,
     Tel son venuto, pria che vi partiate,
     Acciocchè insieme alquanto vi sfoghiate.

CIV.


Grande è, disse Griseida, il mio dolore,
     Come di quella che più che sè l’ama,
     Ma ’l suo m’è di gran lunga maggiore,
     Udendo che per me la morte brama;
     Or s’aprirà, s’aprir si dee mai cuore
     Per fera doglia, il mio; ora si sfama
     La nemica fortuna in su’ miei danni,
     Ora conosco i suoi occulti inganni.

CV.


Grave m’è la partita, Iddio il vede,
     Ma più m’è di veder Troilo afflitto,
     E incomportabil molto, per mia fede,
     Tanto ch’io ne morrò senza rispitto,
     E morir vo’ senza sperar mercede,
     Poichè ’l mio Troilo veggio sì trafitto;
     Di’ quando vuol venir, questo mi fia
     Sommo conforto nell’angoscia mia.

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CVI.


E questo detto, ricadde supina,
     Poi ’n sulle braccia ricominciò il pianto:
     A cui Pandaro disse: oimè, meschina,
     Or che farai? Non prenderai alquanto
     Di conforto, pensando che vicina
     Si è l’ora già, che quel ch’ami cotanto
     Ti sarà in braccio? Leva su, racconcia
     Te, ch’esso non ti trovi così sconcia.

CVII.


Se el sapesse che così facessi,
     Esso s’uccideria, nè il potrebbe
     Ritenerlo nessuno; e s’io credessi
     Che così stessi, el non ci metterebbe
     Credimi il piè, se io far lo potessi,
     Ch’io so che noia ne gli seguirebbe:
     Però levati su, rifatti tale,
     Che tu alleggi e non cresca ’l suo male.

CVIII.


Va’, Griseida disse, io ti prometto,
     Pandaro mio, io me ne sforzeraggio;
     Come partito ti sarai, dal letto
     Senza indugio nïun mi leveraggio,
     Ed il mio male e ’l perduto diletto
     Tutto nel cor serrato mi terraggio:
     Fa’ pur ch’el venga, e venga al modo usato,
     Che troverà qual suol l’uscio appoggiato.

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CIX.


Ritrovò Pandar Troilo pensoso,
     E sì forte nel viso sbigottito,
     Che per pietà ne divenne doglioso,
     Ver lui dicendo: or se’ tu sì invilito
     Come tu mostri, giovin valoroso?
     Ancor non s’è da te il tuo ben partito;
     Perchè ancora cotanto ti sconforti,
     Che gli occhi in testa ti paion già morti?

CX.


Tu se’ vissuto assai senza costei,
     Non ti dà ’l cuor poter vivere ancora?
     Nascesti tu al mondo pur per lei?
     Dimostrati uomo, e alquanto ti rincora,
     Caccia questi dolori e questi omei
     Almeno in parte: io non fe’ poi dimora
     In altro luogo se non qui con teco,
     Ch’io le parlai e fui gran pezza seco.

CXI.


E per quel che mi paia, tu non senti
     La metà noia che la donna face;
     E’ suoi sospiri son tanto cocenti,
     E sì questa partenza le dispiace,
     Che trapassano i tuoi per ognun venti;
     Dunque con teco datti alquanto pace,
     Che almen puoi tu in questo caso amaro
     Conoscer quanto tu a lei se’ caro.

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CXII.


I’ ho con esso lei testè composto
     Che tu ad essa ne vadi, e stasera
     Sarai con seco, e quel c’hai già disposto
     Le mostrerai per più bella maniera
     Che tu potrai; tu t’avvedrai ben tosto
     Quel che a grado le fia con mente intera:
     Forse che troverete modi i quali
     Fian grandi alleggiamenti a’ vostri mali.

CXIII.


A cui rispose Troilo sospirando:
     Tu parli bene, ed io così vo’ fare:
     Ed altre cose assai disse, ma quando
     Tempo gli parve di dovere andare,
     Pandaro sopra ciò ’l lasciò pensando,
     Ed el sen gì, e mille anni gli pare
     D’essere in braccio al suo caro conforto,
     Il qual fortuna poi gli tolse a torto.

CXIV.


Griseida, quando ora e tempo fue,
     Com’era usata con un torchio acceso
     Sen venne a lui, e nelle braccia sue
     Il ricevette, ed esso lei, compreso
     Da grave doglia, e mutoli amendue
     Nasconder non poteano il core offeso,
     Ma abbracciati senza farsi motto
     Incominciaro un gran pianto e dirotto.

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CXV.


E forte insieme amendue si strignieno,
     Di lagrime bagnati tutti quanti,
     E volendo parlarsi non potieno,
     Sì gl’impedivan gli angosciosi pianti,
     E’ singhiozzi e’ sospiri, e nondimeno
     Si baciavan talvolta, e le cascanti
     Lacrime si bevean, senza aver cura
     Ch’amare fosser oltre lor natura.

CXVI.


Ma poscia che gli spiriti affannati,
     Per l’angoscia del pianto e de’ sospiri,
     Furon nelli lor luoghi ritornati
     Per l’allentar de’ noiosi martirj,
     Griseida ver Troilo levati
     Gli occhi dolenti per gli aspri disiri,
     Con rotta voce, disse: o signor mio,
     Chi mi ti toglie, e dove ne vo io?

CXVII.


Poi gli ricadde col viso in sul petto
     Venendo meno, e le forze partirsi,
     Da tanta doglia fu il suo cor costretto,
     Ed ingegnossi l’alma di fuggirsi;
     E Troilo guardando nel suo aspetto,
     E lei chiamando, e non sentendo udirsi,
     E gli occhi suo velati a lei cascante,
     Che morta fosse gli porser sembiante.

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CXVIII.


Il che vedendo Troilo, angoscioso
     Di doppia doglia, la pose a giacere,
     Spesso baciando il viso lacrimoso,
     Cercando se potesse in lei vedere
     Alcun segno di vita, e doloroso
     Ogni parte tentava, ed al parere
     Di lui, di vita così sconsolata,
     Dicea piangendo, ch’era trapassata.

CXIX.


Ell’era fredda e senza sentimento
     Alcun, per quel che Troilo conoscesse,
     E questo gli parea vero argomento
     Che ella i giorni suoi finiti avesse;
     Per che dopo lunghissimo lamento,
     Prima che ad altro atto procedesse,
     L’asciugò ’l viso, e ’l corpo suo compose,
     Come si soglion far le morte cose.

CXX.


E fatto questo, con animo forte
     La propria spada del fodero trasse,
     Tutto disposto di prender la morte,
     Acciocchè il suo spirto seguitasse
     Quel della donna con sì trista sorte,
     E nell’inferno con lei abitasse,
     Poichè aspra fortuna e duro amore
     Di questa vita lui cacciava fuore,

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CXXI.


Ma prima disse acceso d’alto sdegno:
     O crudel Giove, e tu fortuna ria,
     A quel che voi volete ecco ch’io vegno;
     Tolta m’avete Griseïda mia,
     La qual credetti che con altro ingegno
     Tor mi doveste; e dove ella si sia
     Ora non so, ma il corpo suo qui morto
     Veggio da voi a grandissimo torto.

CXXII.


Ed io lascerò il mondo, e seguiraggio
     Con lo spirito lei poichè ’l vi piace;
     Forse di là miglior fortuna araggio
     Con lei, avendo de’ miei sospir pace,
     Se di là s’ama, sì come udito aggio
     Alcuna volta dir che vi si face;
     Poichè vedermi in vita non volete,
     L’anima mia almen con lei ponete.

CXXIII.


E tu città, la qual’io lascio in guerra,
     E tu Priamo, e voi cari fratelli,
     Fate con Dio, ch’io me ne vo sotterra,
     Di Griseida dietro agli occhi belli;
     E tu, per cui tanto il dolor mi serra,
     E che dal corpo l’anima divelli,
     Ricevimi, Griseida volea dire,
     Già colla spada al petto per morire;

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CXXIV.


Quand’ella risentendosi, un sospiro
     Grandissimo gittò, Troilo chiamando;
     A cui el disse: dolce mio disiro,
     Or vivi tu ancora? E lagrimando,
     In braccio la riprese, e ’l suo martiro,
     Come potea, con parole alleggiando,
     La confortò, e l’anima smarrita
     Tornò al core, onde s’era fuggita.

CXXV.


E stata alquanto tutta alïenata
     Si tacque; e poscia la spada veggendo,
     Cominciò: quella perchè fu tirata
     Del foder fuori? A cui Troilo piangendo,
     Narrò qual fosse la sua vita stata:
     Ond’ella disse: che è ciò ch’io intendo!
     Dunque s’io fossi stata più un poco,
     Tu ti saresti ucciso in questo loco.

CXXVI.


Oimè dolente a me, che m’ha’ tu detto!
     Io non sarei in vita stata mai
     Di dietro a te, ma per lo tristo petto
     Fitta l’avrei: or noi abbiamo assai
     A lodar Dio: per ora andiamo a letto,
     Quivi ragionerem de’ nostri guai;
     S’io considero il torchio consumato,
     El n’è di notte già gran pezzo andato.

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CXXVII.


Come altra volta gli stretti abbracciari
     Erano stati, così furon ora,
     Ma questi fur più di lagrime amari,
     Che stati fosser di dolcezza; ancora
     I piacevoli e tristi ragionari
     Fra loro incominciar senza dimora;
     E cominciò Griseida: dolce amico,
     Ascolta bene attento quel ch’io dico.

CXXVIII.


Poscia ch’io seppi la trista novella
     Del traditor del mio padre malvagio,
     Se Dio mi guardi la tua faccia bella,
     Nulla giammai sentì tanto disagio
     Quant’io ho poi sentito, come quella;
     Ch’oro non curo, città nè palagio,
     Ma sol di dimorar sempre con teco
     In festa ed in piacere, e tu con meco.

CXXIX.


E voleami del tutto disperare
     Non credendo giammai più rivederti;
     Ma poi che tu la mia anima errare
     Vedesti, e ritornar dinuovo, certi
     Pensier mi sento per la mente andare,
     Utili forse, i quali vo’ che aperti
     Prima ti sien che noi più ci dogliamo,
     Che forse sperar bene ancor possiamo.

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CXXX.


Tu vedi che mio padre mi richiede,
     Al qual di girne non ubbidirei
     Se ’l re non mi strignesse, la cui fede
     Convien s’osservi, come saper dei;
     Per che andar mi conviene con Diomede,
     Ch’è stato trattator de’ patti rei,
     Qualora tornerà: volesse Iddio
     Ch’el non tornasse mai nel tempo rio.

CXXXI.


Tu sai che qui è ogni mio parente
     Fuor che mio padre, e ciascuna mia cosa
     Ancora ci rimane; e s’alla mente
     Mi torna ben, di questa perigliosa
     Guerra si tratta continuamente
     Pace tra voi e’ Greci, e se la sposa
     Si rende a Menelao, credo l’avrete,
     Ed io so già che voi presso vi siete.

CXXXII.


Qui mi ritornerò se voi la fate,
     Perocchè altrove non ho dove gire;
     E se per avventura la lasciate,
     Nel tempo delle tregue di venire
     Ci avrò cagione, e così fatte andate
     Sai che non s’usa alle donne disdire;
     E i miei parenti mi ci vederanno
     Di buona voglia, e mi c’inviteranno.

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CXXXIII.


Allor potremo alcun sollazzo avere,
     Come che l’aspettar sia grave noia;
     Ma conviensi apparare a sostenere
     Della fatica, chi vuol che la gioia
     Li venga poscia con maggior piacere;
     Io veggio pur, che stando noi in Troia,
     Senza vederci più dì ci conviene
     Talor passar con angosciose pene.

CXXXIV.


Ed oltre a questo, maggiore speranza,
     O pace o no, mi nasce del tornarci;
     Mio padre ha ora questa disianza,
     E forse avvisa ch’io non possa starci
     Per lo suo fallo, senza dubitanza
     Di forza, o di biasmo ad acquistarci;
     Come saprà che io ci sia onorata,
     Più non curerà della mia tornata.

CXXXV.


Ed a che far tra’ Greci mi terrebbe,
     Che come vedi son sempre nell’armi?
     E s’el non mi tien ivi, ove potrebbe
     In altra parte, io nol veggio, mandarmi?
     E se ’l potesse credo nol farebbe,
     Perciocchè a’ Greci non vorria fidarmi;
     Qui dunque rimandarmi egli è opportuno,
     Nè ben ci veggio contrario nessuno.

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CXXXVI.


Egli è, come tu sai, vecchio ed avaro,
     E qui ha ciò che gli può fare udire
     Il che io gli dirò, s’egli l’ha caro,
     Per lo miglior mi faccia qui reddire,
     Mostrandogli com’io possa riparo,
     Ad ogni cosa che sopravvenire
     Potesse, porre, ed el per avarizia
     Della mia ritornata avrà letizia.

CXXXVII.


Troilo attento la donna ascoltava,
     Ed il dir suo gli toccava la mente,
     E quasi verisimil gli sembrava
     Dover ciò che diceva certamente
     Esser così, ma perchè molto amava,
     Pur fede vi prestava lentamente;
     Ma alla fin, come che vago fosse,
     Seco cercando, a crederlo si mosse.

CXXXVIII.


Laonde parte della grave doglia
     Da lor partissi, e ritornò speranza;
     E divenuti poi di men ria voglia,
     Ricominciaron l’amorosa danza:
     E sì come l’uccel di foglia in foglia
     Nel nuovo tempo prende dilettanza
     Del canto suo; così facean costoro,
     Di molte cose parlando fra loro,

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CXXXIX.


Ma non potendo a Troilo passare
     Dal cor, che questa partir si dovea,
     Incominciò in tal guisa a parlare:
     O Griseida mia, più ch’altra dea
     Amata assai, e più da onorare
     Da me, che dianzi uccider mi volea
     Credendo morta te, che vita credi
     Che fia la mia, se tosto tu non riedi?

CXL.


Vivi sicura, come del morire,
     Che io m’ucciderei, se tu penassi
     Nïente troppo di qui rivenire;
     Nè veggio bene ancor com’io mi passi
     Senza doglioso ed amaro languire,
     Sentendo te altrove; e dubbio fassi
     Novello in me, che el non ti ritegna
     Calcas, e quel che parli non avvegna.

CXLI.


Non so se pace fra noi si fia mai:
     O pace o no, appena che tornarci
     Credo che Calcas ci voglia giammai,
     Perchè non crederia dovere starci
     Senza infamia del fallo, che assai
     Fu, se in ciò non vogliamo ingannarci,
     E se con tanta istanza ti richiede,
     Ch’el ti rimandi appena vi do fede.

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CXLII.


E’ ti darà fra li Greci marito,
     E mostreratti che stare assediata
     È dubbio di venire a rio partito;
     Lusingheratti, e farà che onorata
     Sarai da’ Greci, ed el v’è riverito
     Sì come intendo, e molto v’è pregiata
     La sua virtù, perchè non senza noia
     Temo che tu giammai non torni in Troia.

CXLIII.


E questo m’è a pensar tanto grave,
     Che dir nol ti potria, anima bella;
     E tu sol’ hai nelle tue man la chiave
     Della mia vita e della morte, e quella
     Sì, che la puoi e misera e soave
     Come ti piace fare, o chiara stella,
     Per cui io vado al grazïoso porto;
     Se tu mi lasci pensa ch’io sia morto.

CXLIV.


Dunque, per Dio, troviam modo e cagione
     Che tu non vada, se trovar si puote;
     Andiamcene in un’altra regïone,
     Non ci curiam se le promesse vote
     Vengon del re, se la sua offensione
     Fuggir possiamo; e’ son di qui remote
     Genti che volentieri ci vedranno,
     E per signori ancor sempre ci avranno.

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CXLV.


Fuggiamci dunque quinci occultamente,
     E là n’andiamo insieme tu ed io;
     E quel che noi abbiam di rimanente
     Nel mondo a viver, cor del corpo mio,
     Viviamlo con diletto insiememente;
     Questo vorrei, e questo ho in disio,
     S’el ti paresse; e questo è più sicuro,
     Ed ogni altro partito mi par duro.

CXLVI.


Griseida sospirando gli rispose:
     Caro mio bene e del mio cor diletto,
     Tutte potrebbon’esser quelle cose,
     Ed ancor più, nella forma c’hai detto;
     Ma io ti giuro per quelle amorose
     Saette che per te m’entrar nel petto,
     Comandamenti, lusinghe, o marito,
     Non torceran da te mai l’appetito.

CXLVII.


Ma ciò che d’andar via tu ragionavi,
     Non è savio consiglio al mio parere:
     Pensar si deve in questi tempi gravi,
     E di te e de’ tuoi li dee calere;
     Che s’andassimo via, come parlavi,
     Tre cose ree ne potresti vedere,
     L’una verrebbe per la rotta fede,
     Che porta più di mal ch’altri non crede:

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CXLVIII.


E ciò sarebbe delli tuoi in periglio,
     Che se per una femmina lasciati
     Gli avessi fuor d’aiuto e di consiglio,
     Darian paura agli altri degli aguati.
     E se io ben con meco m’assottiglio,
     Voi ne sareste molto biasimati,
     Nè vi saria il ver giammai creduto,
     Da chi n’avesse sol questo veduto.

CXLIX.


E se tempo nïun fede o leanza
     Richiede, quel della guerra par esso;
     Perocchè nullo ha tanto di possanza,
     Che guari possa per sè solo stesso:
     Aggiungonvisi molti ad isperanza
     Che quel che metton per altrui sia messo
     Per lor; che se in avere ed in persona
     Mettono, in ciò sperando s’abbandona.

CL.


D’altra parte, che pensi tra le genti
     Della partita tua si ragionasse?
     E’ non dirien ch’amor co’ suoi ferventi
     Dardi a cotal partito ti menasse,
     Ma paura e viltà: dunque ritienti
     Da tal pensier se mai nel cor t’entrasse,
     Se el t’è punto la tua fama cara,
     Che del valor tuo suona tanto chiara.

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CLI.


Appresso pensa che la mia onestate
     E la mia castità, somme tenute,
     Di quanta infamia sarien maculate,
     Anzi del tutto disfatte e perdute
     Sarieno in me, nè giammai rilevate
     Per iscusa sarieno, o per virtute
     Ch’io potessi operar, che ch’io facessi,
     Se anni centomila in vita stessi.

CLII.


Ed oltre a questo, vo’ che tu riguardi
     A ciò che quasi d’ogni cosa avviene;
     Non è cosa sì vil, se ben si guardi,
     Che non si faccia disiar con pene,
     E quanto più di possederla ardi,
     Più tosto abominío nel cor ti viene,
     Se larga potestade di vederla
     Fatta ti fia, e ancor di ritenerla.

CLIII.


Il nostro amor, che cotanto ti piace,
     È perchè far convien furtivamente,
     E di rado venire a questa pace;
     Ma se tu m’averai liberamente,
     Tosto si spegnerà l’ardente face
     Ch’ora t’accende, e me similemente;
     Perchè se ’l nostro amor vogliam che duri,
     Com’or facciam, convien sempre si furi.

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CLIV.


Dunque prendi conforto, e la fortuna
     Col dare il dosso vinci e rendi stanca;
     Non soggiacette a lei giammai nessuna
     Persona in cui trovasse anima franca:
     Seguiamo il corso suo, fingiti alcuna
     Andata in questo mezzo, e in quella manca
     Li tuoi sospiri, ch’al decimo giorno
     Senza alcun fallo qui farò ritorno.

CLV.


Se tu, allor disse Troilo, ci sarai
     Infra ’l decimo giorno, i’ son contento:
     Ma in questo mezzo i miei dolenti guai
     Da cui avranno alcuno alleggiamento?
     Già non poss’ora, siccome tu sai,
     Passare un’ora senza gran tormento
     Se non ti veggio, come i dieci giorni
     Passar potrò infin che tu non torni?

CLVI.


Deh per Dio trova modo a rimanere,
     Deh non andar, se tu vedi alcun modo:
     Io ti conosco d’arguto sapere,
     Se bene intendo ciò che da te odo;
     E se tu m’ami, tu puoi ben vedere
     Che pur di ciò pensar tutto mi rodo,
     Cioè che tu te ne vada; e creder puoi,
     Se te ne vai, qual fia mia vita poi.

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CLVII.


Oimè, disse Griseida, tu m’uccidi,
     Ed oltre al creder tuo malinconia
     Troppa mi dai, e veggio non ti fidi
     Quant’io credea nella promessa mia;
     Deh ben mio dolce, perchè sì diffidi,
     Perchè a te di te toi la balía?
     Chi crederia che uomo in arme forte,
     L’aspettar dieci dì el non comporte?

CLVIII.


Io credo di gran lunga sia il migliore
     Di prendere il partito ch’io t’ho detto;
     Siine contento, dolce mio signore,
     E cappiati per certo dentro al petto
     Ch’el me ne piange l’anima nel core
     Di allontanarmi dal tuo dolce aspetto,
     Forse più che non credi o non ci pensi,
     Ben lo sent’io per tutti quanti i sensi.

CLIX.


L’aspettar tempo è utile talvolta
     Per tempo guadagnare, anima mia:
     Io non ti son come tu mostri tolta,
     Perch’io al padre mio renduta sia;
     Nè ti cappia nel cor ch’io sia sì stolta,
     Che non sappia trovare e modo e via
     Di ritornare a te, cui io più bramo
     Che la mia vita, e vie più troppo t’amo.

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CLX.


Ond’io ti prego, se ’l mio prego vale,
     E per lo grande amore il qual mi porti,
     E per quel ch’io a te porto, ch’è altrettale,
     Che tu di questa andata ti conforti;
     Che stu sapessi quanto mi fa male
     Veder li pianti e li sospir sì forti
     Che tu ne gitti, el te ne increscerebbe,
     E di farne cotanti ti dorrebbe.

CLXI.


Per te in allegrezza ed in disio
     Spero di vivere e di tornar tosto,
     E trovar modo al tuo diletto e mio:
     Fa’ ch’io ti veggia in tal guisa disposto
     Pria che da te io mi diparta, ch’io
     Non abbia più dolor, che quel che posto
     M’ha nella mente amor troppo focoso;
     Fallo, ten prego, dolce mio riposo.

CLXII.


E pregoti, mentr’io sarò lontana,
     Che prender non ti lasci dal piacere
     D’alcuna donna, o da vaghezza strana;
     Che s’io ’l sapessi, dei per certo avere
     Che io m’ucciderei siccome insana,
     Dolendomi di te oltra ’l dovere.
     Mi lasceresti per altra, che sai
     Che t’amo più che donna amasse uom mai?

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CLXIII.


A quest’ultima parte sospirando
     Rispose Troilo: s’io fare volessi
     Ciò che tu ora tocchi sospicando,
     Non so veder com’io giammai potessi;
     Sì m’ha per te ghermito amore amando,
     Non so veder com’io in vita stessi.
     Questo amor ch’io ti porto e la ragione
     Ti spiegherò, ed in breve sermone.

CLXIV.


Non mi sospinse ad amarti bellezza,
     La quale spesso altrui suole irretire;
     Non mi trasse ad amarti gentilezza
     Che suol pigliar de’ nobili il desire;
     Non ornamento ancora, non ricchezza
     Mi fe’ per te amor nel cor sentire;
     Delle qua’ tutte se’ più copïosa,
     Che altra fosse mai donna amorosa;

CLXV.


Ma gli atti tuoi altieri e signorili,
     Il valore e ’l parlar cavalleresco,
     I tuoi costumi più ch’altra gentili,
     Ed il vezzoso tuo sdegno donnesco,
     Per lo quale apparien d’esserti vili
     Ogni appetito ed oprar popolesco,
     Qual tu mi se’, o donna mia possente,
     Con amor mi ti miser nella mente.

[p. 168 modifica]


CLXVI.


E queste cose non posson tor gli anni
     Nè mobile fortuna, laond’io
     Con più angoscia e con maggiori affanni
     Sempre d’averti spero nel disio.
     Oimè lasso, qual fia de’ miei danni
     Ristoro, se ten vai, dolce amor mio?
     Certo nessun, se non la morte omai,
     Questa fia sola fine de’ miei guai.

CLXVII.


Poscia ch’egli ebber molto ragionato
     E pianto insieme, perchè s’appressava
     Già l’aurora, quello hanno lasciato,
     E strettamente l’un l’altro abbracciava;
     Ma poich’e’ galli molto ebber cantato,
     Dopo ben mille baci si levava
     Ciascun, l’un l’altro sè raccomandando,
     E così dipartirsi lagrimando.