Il libro dei morti/Capitolo VIII

Da Wikisource.
Capitolo VIII

../Capitolo VII ../Capitolo IX IncludiIntestazione 29 aprile 2019 100% Da definire

Capitolo VII Capitolo IX

[p. 131 modifica]


CAPITOLO VIII.


Quando vide passare presso di sè quella enorme macchina, corrusca di fuliggine, di scintille e di ottoni, che trascinavasi dietro il profumo dei campi e dei monti attraversati la notte, provò un sussulto al cuore e come un fremito di cosa nuova e paurosa: quel mostro, opera de l’uomo, gli sembrava aver forza propria e nemica; come il demone de la favola che il boscaiuolo invocò ne la sua ignoranza e poi vorrebbe mandar via perchè lo spaventa e gli ha tolto ogni pace. Ma quegli risponde: — Tu mi hai voluto, tu mi hai concepito e chiamato! — [p. 132 modifica]

La macchina s’era fermata, ma non cessava per anche di fremere d’un rombo sordo e impaziente che pareva dire: — Affrettatevi, affrettatevi! —

Una guardia gli prese la tessera, la forò; gli aperse lo sportello d’una carrozza e ve lo ribattè con violenza; e il buon uomo ebbe appena tempo di salutare il figliuolo, che il treno si era mosso con aneliti e fremiti: poi leggero, sonante, rapidissimo fuggiva divorando il piano — fuggiva con gran disprezzo del sole che lento, immenso s’alzava nel cielo, laggiù dietro i campi brinati.

Già radeva la campagna in piena corsa, quando potè G. Giacomo ravvisare i suoi compagni di viaggio: gente sonnolenta, vestita di strane fogge, che dopo la sosta a la stazione, si erano di nuovo rincantucciati e distesi sotto le grosse loro coperte, come incresciosi de la luce viva del giorno.

Si pose a sedere compostamente in un angolo e guardava i lunghi filari de le viti e dei pioppi che, segnando grandi rettangoli del terreno arato per la seminagione, gli giravano in semicerchio vorticosamente e scomparivano.

In fondo si perdevano in una tinta azzurra i [p. 133 modifica]colli e le montagne del suo dolce paese; davanti si stendevano terre di un’Italia per lui inesplorata.

Quella macchina che si sentiva asimare col suo convoglio nero e breve, rimbombava fuggendo dinanzi a le stazioni dei piccoli villaggi e de le borgate, attraversava rotaie con fragore violento e sicuro, si lasciava dietro di sè lunghi traini di merci e gli occhi spalancati dei buoi, sporgenti il muso e le corna fuori de gli sporti de’ carrozzoni ove erano stivati. Rombava sui ponti, sibilava strisciando in vicinanza de le stazioni maggiori e vi si arrestava per pochi minuti, come sdegnosa e impaziente di proseguire la sua corsa.

Il nuovo viaggiatore si sentiva, a poco a poco, i pensieri confondersi in un vago assonnamento e come vinto dal piacere di essere trasportato a furia per lande, su per erte, giù per declivi tortuosi, o entro gallerie cupe e sonanti.

Passò la mattina, il meriggio breve: il sole piegava verso occidente.

Gente nuova montò: parlavano nuovi dialetti e que’ suoni gli facevano venire in mente il suo paese con gran desiderio. [p. 134 modifica]

Verso le tre, l’aria si fece pungente ed il sole, sino allora luminoso, cominciò a disparire dietro una cortina di nebbie dense: ma la macchina che s’intravedeva ne le curve, rompeva quelle caligini e vi s’immergeva furente.

Attraverso le brume crescenti appariva un paesaggio nuovo ed una campagna coltivata in modo strano: non filari di viti, non colline in lontananza, non olivi cinerei e sacri; ma una pianura uniforme si stendeva a perdita d’occhio e scompariva ne le nebbie. Ogni tanto boscaglie, fiumi d’acqua verdastra e cupa, praterie, su cui filari di giunchi e di pioppi contorti e nani disegnavano figure geometriche smisurate e monotone. Il treno valicava le pianure, echeggiava su i ponti di ferro sospesi su quelle fiumane, faceva tremare le immote frondi dei pini de le boscaglie vicine.

Ogni rumore del giorno era cessato, e per quelle lande si sentiva quasi crescere il silenzio, perchè più fragoroso e monotono era il rombo del treno. Non parea che s’avvicinasse a la città, ma che si sprofondasse entro le tenebre verso spiagge ignote. [p. 135 modifica]

— A quest’ora a casa mia diranno le preghiere de la sera! — pensò G. Giacomo; e la sua anima si restrinse in un desiderio mite e lagrimoso del suo seggiolone, ne la sua stanza, fra la sua famigliuola. Le tenebre montano, ma il lumicino de la Madonna arde come un faro e la buona Madre sorride più dolce in quel raccoglimento silenzioso de la sera.



Da qualche ora il treno correva ne le tenebre, quando un lontano chiarore nel cielo, poi un attraversar ripetuto di rotaie, un sibilo continuato e lamentoso annunziarono l’avvicinarsi de la città immensa. Allora fu ne lo scompartimento un destarsi di sonnolenti, quasi increscioso. Era pur dolce cosa l’essere trascinati così attraverso tutta la notte, lasciare che la macchina seguisse la sua via e dormire intanto, o almeno stare lì assopiti, ritardando l’ora dei nuovi dolori e de le nuove fatiche! Giù le valigie da le reticelle, addosso i pastrani e gli scialli! [p. 136 modifica]

Uno scotimento improvviso di piattaforme stridenti a l’urto del treno, un rimbombo sotto una galleria di vetri, in mezzo a una luce scialba che toglieva la vista; e il convoglio s’arrestò quasi di colpo. Si era giunti.

G. Giacomo scese. La macchina era lì a pochi metri davanti, asimante, fumida di fuliggine, sempre pronta a ripigliare la sua corsa.

La folla dei viaggiatori lo travolse ne la discesa dai vagoni, nel marciapiede d’asfalto sino a la sala d’uscita.

Si trovò sotto una grande tettoia, dinanzi ad uno spiazzale, su cui batteva la stessa luce bianca da certi globi immoti in alto, lontani, fra la nebbia. Una fila di omnibus, un incrociarsi di grida aspre dei famigli de gli alberghi, più lungi un’altra fila di carrozzelle coi lumini fiochi, i cavalli curvi, i cocchieri fermi a cassetta: si riempivano di quella fiumana di gente e via di galoppo.

Montò in un omnibus, vi si rassettò in un angolo, e poi si partì con gran fragore su l’acciottolato.

Passavano palazzi superbi, alti di cinque o sei [p. 137 modifica]piani, vie ampie, mirabili: e ogni tanto bagliori di quella luce bianca e viva così che si vedeva cadere giù di traverso la nebbia, sottile e continua: su i marciapiedi un luccicare abbagliante di vetrine, due file nere e confuse di gente; accanto, un roteare di carri, un balenare di cocchi gentilizi, un inseguirsi di carrozzelle: uomini, veicoli, tutti in fuga, curvi, sotto le ondate de la nebbia gelida e de la luce gelida.

L’omnibus si fermò davanti ad un albergo. Una porta a vetri, un grosso tappeto per terra, un cameriere in abito nero che gli toglie la valigia e l’accompagna da un signore che sta in un gabbiotto di cristalli a viva luce, davanti uno sportello.

Detto nome e cognome, segue il cameriere su per una scala di marmo bianco, il tappeto rosso, le pareti scialbe: da per tutto manifesti, orari, quadri di fotografie, tabelloni con chiavi, tessere, numeri. Si attraversa un corridoio — una camera è aperta. Il cameriere accende due candele, domanda se il signore ha bisogno di qualche cosa e, avutane risposta che no, augura la buona notte e se ne va. [p. 138 modifica]

Era un albergo signorile e la camera non poteva essere migliore — non diceva nulla assolutamente. Molte stanze d’alloggio per lo meno ragionano a la fantasia con quel po’ di sudiciume che i viaggiatori precedenti vi hanno lasciato: spalliere di poltrone unte e consunte, mozziconi di zigari, qualche pettine o giornale dimenticato nel comodino, ed altre piccole miserie de la nostra immondizia. Quella invece era assolutamente pulita; le poltrone e le sedie coperte di mussola candida, il lavamano di marmo, il letto alto, bene imbottito, le lenzuola fresche, il bottone elettrico, il soppedaneo largo, denso. Però tutti quei mobili parevano arcigni e seccati di dovere servire quell’ospite esotico e mandavano un lezzo di vernice e di roba nuova.

G. Giacomo levò da la sacca un mezzo pollo che gli era rimasto de la colezione fatta in treno, una bottiglia di vino, un po’ del suo pane e si mise a mangiare: gli piaceva mangiare di quella roba sua. Il pollo era stato cotto la sera prima de la partenza da la sua buona vecchia; avea cotto anche quattro uova, poi aveva tutto avvoltolato ben [p. 139 modifica]bene ne la carta e legato il cartoccio con lo spago; e anche v’era un cartoccino col sale e un piccolo bicchiere. Mangiò lentamente pensando, e nel pensare si commoveva: il rumore de la via giungeva confuso, soffocato dai cortinaggi grevi de la finestra; le due candele bruciavano sopra il comò di marmo; gli origlieri del letto formavano una pila incomoda a quell’ospite melanconico.



L’indomani dopo mezzodì andò dal notaio. O povero studio del suo povero babbo, come ci avrebbe sfigurato al paragone! E gli veniva a mente quella stanza a pian terreno, laggiù ne la sua casa deserta, con que’ scaffali di legno greggio, rosi dai tarli, il seggiolone di cuoio dove il vecchio era morto. Lì invece era un luccicare di mobili fini, bei scaffali di noce, tavoli foggiati ad arte, tappeti, scrivani molti.

Evidentemente era aspettato, chè, appena detto il nome, fu introdotto. Il notaio, uomo ancor [p. 140 modifica]giovane, fine ne la parola, nel vestire, nel gesto, lo accolse con molta affabilità. Certo in quell’ora era oppresso da affari; pure disse aver modo di conferire col nuovo cliente; e ciò fu per più tempo che non avesse imaginato, però che G. Giacomo, per quel po’ di esperienza che aveva fatto col babbo, volle di molte cose sincerarsi; e, benchè ne la voce del notaio sentisse già fremere qualche nota d’impazienza, pure ebbe forza di resistere, e volle vedere documenti e di molte questioni avere chiara risposta. In verità era giunto assai inopportuno quel provinciale, e il notaio si domandò poi perchè non gli venne di dirgli così press’a poco:

— Veda, caro signore, oltre a’ suoi affari, ho anche quelli de gli altri: venga in altra ora, domani; oggi non ho tempo. —

Ma il vecchio ragionava con parole così pacate, senza timidezza nè presunzione, con così schietta urbanità, come uomo parla ad uomo, che quel degno signore lo stette ad ascoltare mal suo grado, come colui che era abituato a ben diverso genere di favellare e di porgere.

Inoltre e ne le frasi e ne lo sguardo e nel [p. 141 modifica]muoversi era quel non so che di umano che s’impone per dignità, sopravanza al mutarsi dei costumi e farebbe sì che uomini anche di diversi tempi e di lontane nazioni bene si potrebbero intendere fra loro.

Il notaio ne fu vinto e lo fornì di tutti quegli schiarimenti che furono chiesti. Le cose, d’altra parte, erano a buon punto e più liquide che non accada in simili affari di eredità: poche pratiche ancora da sbrigare, due o tre sedute con gli eredi, insomma una settimana di tempo a far molto. E come lo vide alzarsi dal seggiolone e avviarsi verso la porta, lo accomiatò con bel modo; e, come seppe che era nuovo de la città e solo, così gli diè il recapito d’un albergo ove egli soleva recarsi per l’asciolvere: gli avrebbe tenuto compagnia e, se il tempo lo avesse concesso, pur gli avrebbe fatto un po’ da cicerone per la città.



Il vecchio uscì e si trovò impigliato in una grande via, in mezzo a molta gente, che era l’ora vagabonda del vermouth e de l’assenzio! [p. 142 modifica]

Quel morente sole d’autunno rinfrangeva i vividi raggi su le guglie, su le cupole, su le grandi vetrine e chiamava a passeggiare una folla compatta di gentiluomini e di dame. Andavano lentamente come chi adempie a solenne funzione de la vita.

L’acciottolato scintillava sotto la zampa di cavalli frementi, guidati da cocchieri gravi ed eccelsi. Seguivano carrozze sospese a grandi cinghie, lucide di argenti e di raso; e fuori sporgevano mani di microscopica finezza, volti di donna, pallidi come perla, con occhi grandi, capelli, o fulvi come bronzo o neri come ala di corvo. E innanzi a lui e ai fianchi e dietro fluiva un’interminabile fiumana di gente elegante: uomini con pastrani di fogge peregrine, cappelli a tuba, baffi irti, cravatte e goletti smisurati: framezzo donne che vibravano da tutta la persona profumi ebbri di sensualità.

Vestivano tutte press’a poco ad una maniera in quella loro abituale manifestazione de la moda trionfante: abiti da passeggio corretti, piedi esili, calzati ne le scarpine di capretto lucido, la caviglia [p. 143 modifica]ben lineata da la calza di seta nera, cui una freccia d’oro tagliava: sotto, la sottana incontaminata e mirabile di pieghe e di merletti; sopra, la veste guarnita con parsimonia e ben dipinta a la vita; il boa, il cappellino chiuso, le mani serrate entro guanti di camoscio, l’una entro il manicotto, l’altra a rialzarsi la veste.

G. Giacomo non distinse la gentildonna da la cortigiana; ma quella pompa di donne andanti gli s’impresse tristamente a la fantasia come una mostra di carni lussuriose, di forme opime, snaturate e rilevate sotto la pudicizia di quell’andar grave e di quegli esotici indumenti.

E poi tutta quella gente avea per G. Giacomo l’aspetto d’un non so che d’automatico e d’innaturale: andavano a spasso e non ridevano; e di quel loro gestire forzato, strano; di quelle vesti in cui erano come costretti e rigidi, parevano, a vedere, assai superbi e soddisfatti. Se egli, pensava, avesse parlato loro, non sarebbe stato inteso, nè eglino lo avrebbero inteso. In verità non avrebbe mutato la sua vita col più ricco e col più felice di quanti erano in quella folla, e l’opprimeva un [p. 144 modifica]bisogno di libertà come di levarsi da quella calca, di sorgere dal fondo di quelle vie per quanto magnifiche e dove coloro pareano vivere così bene.



Imbruniva: ed allora in alto lo sorprese un balenare di lampo, poi i globi de la luce elettrica si accesero diffondendo raggi come di luna. Allora si mosse in cerca d’un albergo dove cenare; ed era sì confuso e smarrito che imboccò nel primo che gli si parò dinanzi.

Era una sala grande, con vetriate altissime, lievemente appannate. Colonne di marmo reggevano il soffitto tutto a stucchi e a dorature. Alcune pareti erano coperte da specchiere che rinfrangevano lo scintillare dei lampadari, del vasellame, de le tovaglie: in uno di quelli specchi vide avanzare timidamente la sua povera figura di vecchio; ma un cameriere fu lesto a levarlo da l’imbarazzo.

Gli tolse il pastrano, gli porse una seggiola presso un tavolino appartato, e postogli innanzi [p. 145 modifica]un cumulo di stoviglie, cominciò con rapidità e con fare imperterrito a sfilare una lista di vivande dai nomi più eterocliti che egli avesse udito mai.

G. Giacomo, levando l’occhio in su, oltrepassò lo sparato abbagliante di colui, fissò per un momento quel viso scialbo, e accennando con la mano di cessare, disse: — Mi porti semplicemente una zuppa ed un po’ di bollito. —

Venne poi un altro cameriere arrecando una bottiglia; l’avvolse in una tovagliuola, la stappò, ne forbì l’orlo e con molta gravità ne versava il liquore entro una coppa, sottile come velo di cipolla. Poi venne la zuppa in una terrina d’argento, fumante ed odorosa.

Egli avrebbe desiderato un semplice brodo, di quello che maturava per lunghe ore nel bel pentolone di coccio presso i ceppi candenti: bel brodo limpido e pieno di stelle. Quella invece era una mistura di un liquido denso e scuro, pieno di vari ingredienti. Ad ogni modo era buona al palato, ancor che non avvezzo a simili salse, ed il vino si lasciava bere; ma non era il suo vino, olio profumava di tralcio e di vendemmia. [p. 146 modifica]

Quei primi bocconi ingollati, chè avea fame, quel tepore denso che lo ravvolgeva, lo ebbero alquanto confortato e volse l’occhio a l’intorno. Che melanconici commensali! Sedevano impettiti, toccavano appena le vivande con la punta de la forchetta e del coltello; gesti e parole parche e misurate.

Anche qui, pensava, gente che mangia e che non ride; e gli veniva a mente la sua tavola a casa sua: le stoviglie capaci, le posate col manico di corno, il pane ferrigno ma saporoso, i bei pollastri a lo spiedo, aulenti di rosmarino, la minestra semplice e molta. Il gatto attendeva immoto, il cane da l’altro lato sbadigliava ingordo. Egli impartiva la benedizione, poi si sedevano e si mangiava ridendo e conversando. Lì invece tutti stavano gravi; e nel trinciar le vivande e ne l’usar le stoviglie adempivano moti così compassati che per lui sarebbe stato un supplizio doversi cibare a quel modo. E poi pensava: perchè manipolare le vivande con tante salse e in tante forme? come può fare buon prò un simile mangiare? Forse è per questo che hanno quelle facce pallide e sdegnose. [p. 147 modifica]

Quando uscì, la folla turbinava più che mai. Incerto del luogo, montò su d’una vettura e si fece condurre a l’albergo dove avea posato la sua valigia. La carrozza si mosse rapida, svoltò, attraversò un dedalo di vie con gran fragore di ruote.

Vedeva i palazzi elevarsi altissimi, con terrazze sorrette da cariatidi sporgenti fuor de le tenebre ed appena segnato il profilo grottesco da la luce dei fanali. In alto, in una sottile striscia di cielo, pendeva la luna. Ma chi la guardava la bella luna che addormenta le biade e fa i grilli cantare?

Quando fu nel letto e si riebbe dal primo gelo de le coperte umidicce, incrociò le mani sul petto e pregò Dio che lo facesse ritornare a casa sua. Un senso di sgomento l’opprimeva, pensando di trovarsi solo ed ignoto in quella metropoli; e quella gente gli pareva d’altra umanità, d’altra fede, di altri tempi. Cento e cento miglia lontano esisteva ancora la sua villetta fra i vigneti e le biade? Quasi gli pareva d’esser stato trasportato in un paese fuori de la terra! Finalmente il sonno fece cadere su le palpebre del vecchio la sua polvere d’oro e lo addormentò placidamente. [p. 148 modifica]


Il signor notaio fu una cara e gentil persona, che, oltre al suo tempo prezioso impiegato a definire presto gli affari de la eredità di G. Giacomo, gli tenne compagnia quasi due ore al giorno, a l’albergo indicato, dopo mezzodì, appunto come avea promesso. Mangiava copiosamente e lautamente e si compiaceva di ordinare quelle vivande e quei vini che maggiormente eccitavano le osservazioni del suo modesto compagno. Il quale lo interrompeva sovente, dicendo: — Ma perchè, signore, tutti quegli intingoli? ma mangi meno in fretta! E forse perchè è sempre agitato? Creda, a la mia età non ci arriva certo! — e simiglianti parole.

Non era privo d’ingegno il signor notaio, ma un ingegno di tal natura che non eccede in dolorose solitudini, ma sa più forse per istinto che per raziocinio, adattarsi ai tempi ed a le circostanze, cercando anzi il modo di volgerle a suo [p. 149 modifica]profitto: nè credente nè scettico, prendeva allegramente la vita; e allora si divertiva ad intessere con fare scherzoso o paradossale, la cronaca de la città, perchè ora lo stupore, ora lo sdegno, ora la pietà si dipingevano con sì viva sollecitudine sul volto del vecchio che era un piacere il proseguire.



Un giorno G. Giacomo pregò assai vivamente il suo nuovo commensale perchè facesse presto a sbrigargli i suoi affari, chè più non si poteva trovare in fondo di quelle vie lunghe che sembrano senz’uscita, con quelle case enormi di sette od otto piani, dove la gente deve vivere senz’aria nè sole. Ci voleva uscire da quella prigione. Ma ciò che sopra tutto lo turbava e lo meravigliava era l’incessante andare de la gente, l’agitazione turbinosa di quella vita.

— Io mi sono domandato — diceva — come fanno ad avere il cuore, lo stomaco e il cervello [p. 150 modifica]sani, e mi sono risposto che il corpo si può abituare ad un regime di vita contro natura. Mitridate (se ha letto la storia lo deve sapere) s’era usato ai veleni. Poi mi sono domandato come fanno ad essere felici, perchè a vederli in faccia sembrano assai soddisfatti del fatto loro, padroni e servi; così dico seguendo una vecchia divisione de la società, sebbene qui non appaia, giacchè vestono tutti ad un modo e vanno tutti con egual furia. Sarà questione d’uso, mi sono detto, chè io certo mi troverei infelicissimo se dovessi condurre quel genere di vita.

Ma quello che proprio non arrivo ad intendere è come mai un’idea riposata e serena di famiglia, di bontà, di sapienza si possa posare e possa germogliare in mezzo a così strana agitazione; e poi mi son chiesto: a quale fine quest’immenso lavoro? perchè tutta questa gente si ammazza per vivere? forse che attraverso il sereno azzurro del cielo esiste un ponte che conduca ad un mondo più felice e più bello di questo? In verità non ho trovato risposta. —

— Ma lei si meraviglia? ma lei ha torto — [p. 151 modifica]rispose il notaio. — Ella si trova specialmente nel bel mezzo di una battaglia, ecco tutto; ma la vita non fu sempre una guerra?

Un tempo si combatteva in campo; e più erano forti le nazioni più avevano onore: gli uomini vestivano di ferro ed erano pronti a menar le mani ogni ora e ogni giorno. Ora il sentimento di questa forma barbarica di guerra va decadendo da gli animi; ed ella vede che gli eserciti che sono in piedi per tutti i quartieri d’Europa, da lungo tempo fanno la parte di comparsa; va decadendo appunto perchè un secondo genere di guerra assorbe tutte le energie e s’impadronisce de le coscienze. Ma la guerra sussiste lo stesso: non si veste più di ferro, ma di stoffe inglesi; le armi non sono più quelle di prima, ma il combattimento rimane. Il campo si è esteso a tutto il mondo. Ma i grandi centri sono appunto quelli dove la battaglia si manifesta in modo più visibile e violento. Non se ne accorge come tutti vi accorrano da ogni parte? È come un istinto; non altrimenti che i cavalieri sono trascinati al luogo da cui si ode lo schianto dei cannoni, e si vede il fumo de [p. 152 modifica]la polvere. Il telegrafo, il giornale, il libro, la tribuna, le linee ferroviarie ne sono i mezzi; si combatte con le industrie, con le operazioni finanziarie, con i commerci, con le invenzioni meccaniche e scientifiche, per un’idea o politica o sociale, per il trionfo di una classe su un’altra, infine per tutto quello che vuole, anche per combattere la guerra, ed i forti sono sempre quelli che hanno ragione.

Non si bivacca nè si dorme più sotto la tenda; ma ogni mattina capitani e gregari, levandosi dai loro letti, sono al posto di combattimento; e se non si sparge sangue, ciò non toglie che vi siano lo stesso vincitori e vinti, feriti e morti. È questo forse un buon motivo di commuoversi o di affliggersi come ella fa?

Sono i vincitori che contano, vincano a torto e a ragione. G. Cesare che a Farsalo ordina di menare in faccia ai gentiluomini di Pompeo, non è un buon cavaliere, ma è sempre G. Cesare: il finanziere che ha accumulato dei milioni, anche passando per i tribunali, è sempre una persona molto rispettabile. Solo i vinti non hanno mai formato la storia. — [p. 153 modifica]

— Ma lei — rispose il vecchio — pare che disapprovando la prima forma di guerra, approvi la seconda, e qui le sue arguzie cadono ne l’illogico: a me invece, se sembra barbara l’una, nemmeno l’altra mi appare meno crudele e dolorosa. Io sono partigiano de la pace, non solo contro i cannoni, ma anche contro questa morbosa agitazione de gli animi e de le cose, di cui ella pare gloriarsi. —

— Ma niente affattissimo — replicò ridendo il notaio — io non mi glorio, io accetto semplicemente la battaglia quale essa è, e non giudico se essa sia buona o cattiva: io sono figlio del mio tempo, e non sono nè un sognatore del passato nè un utopista de l’avvenire, e nemmeno un filosofo: categorie di persone sventurate. Ma dica un po’: se ella fosse vissuto nel medio evo e avesse avuto un figliuolo, io scommetto che lo avrebbe educato ad essere un gagliardo e prode cavaliere; e, avendo un figlio oggi, ne vorrà certo fare un uomo moderno, capace di conoscere e di destreggiarsi in questa nuova forma di guerra, il cui servizio è obbligatorio ed a la quale non si può esimersi [p. 154 modifica]come a l’antica, indossando la cocolla, e che certo richiede una perizia ben maggiore. —

A questo punto il notaio vide con meraviglia che il volto di G. Giacomo si era fatto scuro e doloroso. Gli era venuto a mente il suo figliuolo, null’altro che semplice e buon coltivatore di campi, che pregava la Madonna e si commoveva leggendo le storie antiche di Furio Camillo e di M. Attilio Regolo.

E poi un’imagine gli s’affacciava al pensiero doloroso: ecco; li aveva visti ieri, giorno di festa, e con lo sguardo e con l’animo intento li avea seguiti tra la folla.

Lui, un giovane emaciato e scarno, con un pastrano stinto ma pulito, le grosse scarpe lucide, la cravatta di raso verde, i guanti, il cappello quasi a la moda: portava in braccio un bambino pallido pallido: lo accompagnava una donna che il fiore de la giovinezza più non serbava se non nel numero de gl’anni che pochi dovevano essere. Pure nel vestire era anche in lei la pretesa d’una certa eleganza, tanto da non stonare in mezzo a la gente. Ella avea per mano un bambino. Entrarono da un [p. 155 modifica]pasticcere e comperarono alcuni dolci, di quelli vistosi e colorati a varie tinte: poi svoltarono in un vicolo stretto, entrarono ne la porta di un gran casamento tetro e scomparvero in un andito umido e buio.

Ecco una famigliuola felice, non è vero? Lui (e l’arguirlo era facile) ha il suo impiego, la sua paga sicura, la sua casa, i suoi figliuoli. Il riposo domenicale concede a loro di fare la passeggiata con gli abiti da festa.

Hanno comperato i loro dolci; domani lui riprenderà il suo lavoro sempre uguale, sempre al medesimo tavolo o al medesimo finestrino d’ufficio. Libero cittadino, con tutti i diritti civili e politici, che cosa poteva domandare di più? La società gli assicura anche la pensione, e dà ai figliuoli l’istruzione gratuita, per potere avere un impiego uguale al padre o migliore se è possibile; se poi possiede una polizza d’assicurazione, può dormire fra due guanciali. Perchè dunque a G. Giacomo gli si strinse il cuore? Avrebbe voluto trasportare quella donna scarna, quei bimbi pallidi ne’ suoi liberi campi al lavoro sereno sotto il sole, ne la casa [p. 156 modifica]piccina dove le rondini appendono il nido a le gronde e i veroni fioriscono di garofani? Sì certo, e come — pensava — rifiorirebbero anch’essi, quei volti pallidi di bimbi!

Quell’imagine di quella famigliuola gli ritornò al pensiero per le parole del notaio. Forse il suo figliuolo, chi lo sa! forse i figli del suo figlio un tempo rapiti da la ruina di questa nuova età, avrebbero dovuto emigrare da le loro terre; e lui, rivivendo dopo molti anni, li avrebbe trovati così come quella famiglia.

Disse infine il vecchio: — Ma così voi volete vivere in un perpetuo combattimento! e dire che con tutti i mezzi di cui la civiltà oggi dispone (bisogna riconoscerlo) si potrebbero ridurre tutti gli uomini ad una vita virtuosa, lieta e soprattutto in pace.

— Questa, di fatto, caro signore, è la bandiera che si fa sempre portare avanti dal vessillifero per incoraggiare l’esercito dei combattenti e farseli sottomessi; ma nel fatto è una meta assurda. —

— Però lo scopo de la vita è di raggiungere il bene e la pace! Lo dice anche Aristotele nel principio de la sua etica. — [p. 157 modifica]

— Ecco l’errore: quello è lo scopo apparente; ma lo scopo vero de la vita è la lotta stessa: la battaglia per la battaglia come l’arte per l’arte; e la storia è lì per provare a chi sa leggere questo dogma — il solo che sia vero.

Sapere poi secondo i tempi e le idee indovinare il genere, il punto, il modo di combattimento, costituisce quella dote di genio che fa sì che l’umile gregario esca da le file e si metta il berretto di generale ed abbia gli onori del trionfo. —

E così detto il notaio se ne andò perchè avea fatto un po’ tardi, lasciando il vecchio assai confuso e melanconico.



E’ fu un altro giorno dopo colezione — la quale era stata succolenta, e le bottiglie erano state sparecchiate con una frequenza poco dicevole a la gravità del notariato — che, presa occasione da una superba carrozza che trascinava un più [p. 158 modifica]superbo signore, cominciò il notaio a tessere la storia de le molte persone che, da sconosciute e povere che erano, avevano saputo raggiungere i più alti gradi de la società.

Lo stupore, ma più spesso l’indignazione di G. Giacomo, svegliavano in lui la più lepida parlantina che fosse mai, e diceva tra le altre cose:

— Chi sono essi? da dove vengono? Nessuno se ne cura più di saperlo, tanto più che il rimproverare il passato è un arma spuntata, e il presente lo scancella: ma da alcuni si ricorda che il vagone di terza classe li aveva sbarcati, pochi anni fa col fagotto su le spalle e le scarpe tenute su con la corda; ma ciò non torna che a loro merito.

Oggi tutte le case aristocratiche sono loro aperte, anzi sono essi che aprono le proprie a la vecchia nobiltà in miseria. Ma la nostra è un’età democratica!

Vede il tale che passa ora? — e indicò un elegante signore, molto tronfio e sdegnoso — quegli è riuscito con la politica: ha avuto del genio. Dieci anni or sono era un miserabile giornalista, oggi è deputato, domani, forse, ministro: uno dei capi saldi de la società. [p. 159 modifica]

L’altro che ci pranza da presso è uno dei principali editori, ricco a milioni. Le assicuro che di arte ce ne intendiamo di più io e lei; eppure quegli è colui che fa il buono e il cattivo tempo, lancia le celebrità nel pubblico, inalza ed abbatte secondo che gli talenta. —

— Ma il merito, signor mio, dove se ne va? —

— Il merito?... ma il merito è la riuscita. Venir su dal nulla — ecco il problema che coloro hanno risolto; ecco il blasone e il motto dei nostri tempi. —

— E la coscienza?

— La coscienza?.... lo stesso; la coscienza è la riuscita.

— Ma riuscirono con mezzi onesti? —

— I mezzi onesti sono tutt’al più i mezzi legali. Prenda ad esempio il Debito pubblico, o Credito pubblico che è tutt’una, uno fra i più meravigliosi fattori de l’accumulazione, che trasforma senza alcun rischio il danaro improduttivo in capitale fornito de la virtù riproduttiva; ebbene le società per azioni, il commercio di ogni genere di valori negoziabili, le operazioni aleatorie, l’ [p. 160 modifica]aggiotaggio, i giuochi di borsa, la moderna bancocrazia non sono forse una derivazione naturale del Debito pubblico, istituzione più che legale? Ora chi riesce in ciò che è legale, compie opera onesta ed assolutamente coscienziosa. Guai a filosofare, caro signore, non si guadagna nulla fuori che il manicomio e non ci si arriva mai. E sa lei — aggiunse ridendo — che è tanto cara e buona persona, che, se non avesse del suo, non troverebbe con tutti i suoi scrupoli nemmeno chi gli volesse affidare un posto di fattorino? —

— E, dica un po’, e chi non riesce? —

— Lavora per riuscire o serve chi è arrivato, o se ne sta a contemplarli, o gli si strofina attorno. Creda anche questo è un divertimento, non le pare? Non potendo avere il fagiano arrosto, è qualche cosa deliziarsene le nari al profumo; e poi... poi il cuoco molte volte può essere balordo o disattento, ed allora non è difficile strapparne con destrezza uno spicchio o un lacerto. — [p. 161 modifica]


Un’altra volta gli disse: — Caro signor G. Giacomo, ha ella un’idea de la grande industria manifatturiera? —

— Io — rispose sorridendo il vecchio — conosco solo la buona manifattura di Dio che con un chicco di grano ne dà otto, e a l’uomo di buona volontà ne dà diciotto. —

— Sarà il vero, ma questa industria non ha azioni quotate a la borsa. Veniamo a noi: ha visto mai uno stabilimento metallurgico; una fabbrica con più di mille telai? —

— Non ho visto che il telaio che ho a casa mia. —

— Allora venga con me, che ho appunto alcune ore libere e le metto al suo servizio. —

Uscirono da l’albergo: La via turbinava di gente, di cocchi, di sole. Il signor notaio accese un grosso [p. 162 modifica]zigaro e pareva beato, le guance gli si erano accese; la pupilla scintillava dietro il monocolo.

— Ora pigliamo una carrozzella, chè è un po’ lontano. —

Mentre la vettura balzava su l’acciottolato, il giovane alzando la voce e gettando gran boccate di fumo, seguitava un altro filo di ragionamento di cui le frasi, come ondate fragorose, giungevano ad intervalli a l’orecchio del compagno.

Il notaio fu guida buona ed esperta; da una fabbrica si passava ad un’altra; magnificava ad interiezioni, ricorreva ai commenti del custode dato a compagno e li ampliava urlando in mezzo a l’orribile frastuono. Ma il vecchio non udiva: era come atterrito.

Quelli stanzoni immensi dove centinaia di macchine di carne e d’anima erano avvinte presso i telai, macchine di ferro, che precipitavano scintillanti, frementi; quelle ruote, quei volanti che stridevano con l’accelerata intensità del turbine; e le macchine motrici, mostri immani, affondate nei basamenti, le cui braccia d’acciaio s’alzavano e s’abbassavano con cupo e sincrono fragore; tutti [p. 163 modifica]quei forni accesi, quei ferri incandescenti, quei magli informi e soprattutto quella gente nera che lavorava sotto terra, a la luce scialba de’ riflettori elettrici, ne l’afa putre e untosa, gli si improntarono ne la fantasia come uno di quelli immensi sotterranei di tortura quali si vedono ne le antiche incisioni.

— E non si cessa mai — diceva la guida, — la macchina lavora giorno e notte, le squadre diurne si succedono a le notturne; bisogna vincere la concorrenza, inventare nuove produzioni, lanciarle, trovar nuovi sbocchi al commercio: mirabile non è vero? —

Finalmente uscirono a l’aperto: il rombo de le macchine giungeva attraverso l’aria del vespero dolce sopravveniente.

— Ecco veda — esclamò il notaio con vivace entusiasmo — il campo di battaglia di cui le parlai ieri l’altro: qui non è difficile diventar generali. È semplice questione d’audacia e di genio; ma il teatro de le guerre future è questo qui! —

— E che vorrebbe ella dire? — domandò il vecchio. [p. 164 modifica]

— Ecco: queste grandi industrie per sorgere al punto che esse sono (tanto che il mondo è per loro troppo piccolo mercato e tutti gli spedienti de la vita moderna, del lusso, de gli usi nuovi non bastano a consumarne i prodotti) hanno dovuto in origine impadronirsi de le piccole manifatture private e domestiche; quindi creare, allettare, ed in fine accentrare un numero infinito di salariati; trasformare gli arnesi del lavoro primitivo in utensili tecnici che non possono essere adatti che al lavoro collettivo, come ella ha veduto; in ultimo riunire tutti i popoli in un mercato universale e, valendosi del telegrafo, de la stampa, de la scienza, dei mezzi di comunicazione, de la politica, imporre i loro prodotti, idearne dei nuovi, renderli necessari. Mi segue fin qui? —

— Mi pare, ma non ne vedo la conclusione. —

— Eppure è semplice: di mano in mano che l’industria capitalista crebbe di sviluppo, crebbe anche il numero de’ salariati, tanto che quest’esercito reclutato ne la miseria dal capitale al suo esclusivo servizio, oggi forma una classe sociale minacciosa al capitale stesso; e la cosa più lepida e [p. 165 modifica]faceta che si possa vedere è in quanti e quali ingeniosi modi si cerchi di ammansare costoro: ma è una bestiaccia ingorda e più mangia e più ha fame e di zuccherini non si accontenta e le carezze non la persuadono più. Il loro numero è già formato per dar battaglia campale; sono al possesso de gli arnesi di lavoro, ma non sono organizzati, non conoscono bene l’uso e la forza de le loro armi.

Questi formano per così dire la milizia regolare; ma vi sono poi tutti i volontari (come i veliti ed i frombolieri che precedevano gli antichi eserciti) e costoro sono formati da tutti que’ diseredati che il capitale, precipitando come valanga, staccò da le loro piccole fortune o da le occupazioni modeste dei campi; ma sono in sì grande numero, che non li può più accogliere ne l’ambito del suo lavoro.

Ebbene, reggimentare queste genti, guidarle a l’espropriazione del loro padrone, il capitale, ecco l’impresa che si offre a gli uomini di genio. —

— Eh! — rispose il vecchio — se si trattasse proprio di liberare tutta quella povera gente da questa nuova forma di schiavitù, di ricondurla a vita individuale, semplice, lieta, io non dico di no; [p. 166 modifica]perchè dover passare tutta la vita in quelle officine, vicino a quelle macchine, mi pare la peggior condizione che vi sia, anche se avessero triplo salario che non hanno. Ma lei non mi ha parlato di questo. —

— Perfettamente; io dissi solo che il termine positivo de le future battaglie è quello di guidare quest’esercito a l’espropriazione del capitale; niente altro. —

— E allora mi spieghi che cosa intende per capitale. —

— Il capitale è la miseria dei molti come condizione di benessere dei pochi, cioè quello che uno non ha e desidera avere. —

— Per modo — disse il vecchio — che ella combatterebbe per togliere ad altri quello che altri poi col medesimo diritto toglierebbe a lei. Non le pare ciò assurdo? —

— Ma niente affatto; prima di tutto perchè il capitale è impersonale, e poi perchè ognuno, dopo averlo conquistato, ha diritto di goderselo finchè ha la forza di difenderlo. —

— Così che — replicò G. Giacomo — ammesso [p. 167 modifica]che tale rivolgimento dovesse succedere, quelle macchine seguiterebbero sempre il loro lavoro? —

— Sempre; se si arrestassero sarebbe come si fermasse il cuore. Addio vita! —

— E allora vi dovrebbero essere sempre i medesimi eserciti di lavoratori. —

— Necessariamente. —

— E chi sarebbero costoro? —

— Questo poco importa; ma se le preme di saperlo, le dirò che probabilmente saranno i medesimi salariati d’oggi, forse meglio retribuiti e in migliore condizione, forse i figli di quelli che oggi sono i padroni. —

— Bel guadagno! — esclamò amaramente G. Giacomo — bella felicità!

— Ma la felicità, glielo dissi altra volta, è un termine assurdo; la lotta solo è il termine vero!

Ma che si pensa lei che questi lavoratori diseredati si agitino per conquistare quella vita ideale, tranquilla, libera che lei s’imagina come assoluta condizione di benessere? Ma nemmeno per ombra! Essi si agitano perchè vogliono godere in proporzione esatta de le loro fatiche di quel piacere [p. 168 modifica]che deriva ai loro padroni da quanto producono, mentre oggi non ne godono che in proporzione minima.

Non furono essi che di propria volontà elessero questo genere di vita: è vero; anzi vi furono fatti entrare per forza; ma una volta entrati, ci vogliono rimanere e ci vogliono stare bene. Creda, ne la storia non si va a ritroso; ed oramai questi proletari sono entrati nel torrente de la vita moderna; ne sentono tutti gli stimoli, tutte le passioni, ne intuiscono tutte le squisite raffinatezze; e perciò la felicità che ella, mio buon signore, vorrebbe offrire loro, creda che i più la disprezzerebbero. Guardi, io le faccio una supposizione de le più arrischiate: ponga cioè come cosa possibile che i lavoratori, essi e non altri, non solo potessero, ma dovessero essere i padroni e gli arbitri assoluti di tutti gli utensili e de le materie di produzione: bene; crede forse che per questo essi desisterebbero dal loro lavoro o arrestassero l’andare di quelle macchine che a lei fanno tanta paura?

Nemmeno per sogno: essi sono affezionati a quei loro grandi e frementi ordigni come l’artigliere a [p. 169 modifica]la sua batteria; e poi essi medesimi sentono il bisogno di avere e di godere di ciò che producono, e supposto anche che volessero cessare, la rimanente umanità li costringerebbe a quell’opera, la quale oramai è divenuta condizione indispensabile di benessere, almeno pe’ nostri gusti; e necessaria autrice di sviluppo per la nostra civiltà. —

— Oh, signor mio — disse il vecchio con un certo turbamento di voce, — ella prima mi ha spiegato che il capitale è la miseria dei molti come condizione di benessere dei pochi, e sarà così, giacchè a produrre tutto questo infinito e multiforme superfluo di cui voi siete assetati, bisogna bene che in un modo o ne l’altro de gli schiavi vi siano. Ma a mio giudizio, esiste una miseria ben maggiore, la quale in fine non riesce a beneficio di alcuno; e questa miseria è ne l’aver dimenticato che il benessere vero consiste nel vivere secondo natura, secondo bontà e secondo i precetti del Signore, cioè semplicemente e virtuosamente. —

— Ma io non dico mica che ella abbia torto — rispose il notaio sorridendo e meravigliato del convincimento doloroso che era ne le parole del [p. 170 modifica]vecchio, — io dico solo che tutte le più sublimi verità, proclamate anche su gli affissi de le vie, non varrebbero a torcere d’un millimetro il cammino de la società; e perciò sono verità assurde o per lo meno inutili. —

— Io veda — proseguì ancora G. Giacomo, non tenendo conto de l’interruzione del compagno, — io non ho bisogno d’un cuoco francese, de la stoffa e di un abito de la foggia che ella porta; il soprabito nero che indosso è quello che mi sono fatto da sposo; i calzoni, belli o brutti che siano, furono filati e tessuti a casa mia.

E queste poche libbre di lana convertite in abiti nei momenti di riposo dai lavori campestri, costano un po’ di lieta cantilena de la donna al telaio; ma la stoffa del suo bellissimo pastrano è troppo cara, per Bacco! Quella lana trasportata al mercato, di lì a la fabbrica, poi al mediatore, quindi di nuovo al mercato, rappresenta un capitale venti volte superiore a quello vero di produzione: e tutto questo per sostenere una così miserabile popolazione di fabbrica che è capace di ricomprare in vanità ciò che ha dato in sangue, una classe di bottegai parassiti, [p. 171 modifica]un sistema commerciale e finanziario, che mi pare assolutamente fittizio. Se quella stoffa avesse sentimento, dovrebbe arrossire di vergogna!

Le salse ed i vini preziosi che stuzzicano il suo palato a me fanno nausea; e senza servi sbarbati, senza caffè concerto, senza rose di gennaio, senza giuochi di borsa e donne mondane io vivo bene lo stesso. Lei ha bisogno de la cravatta, dei profumi, dei guanti, dei mobili secondo la moda o il tempo, e di tant’altre cose che non so nemmeno di nome: io ne fo senza. E, se anche dovessero cessare tutti quei mezzi di comunicazione, che furono causa e necessaria condizione di sviluppo a le industrie, non per questo mi lamenterei. Veda dunque che se tutti fossero come me, non vi sarebbero nè capitalisti nè salariati, nè simili altre miserie. —

Ma lei — esclamò il notaio, — ma lei vorrebbe distruggere la vita, almeno quale noi l’intendiamo! ma che sarebbe essa mai senza il superfluo, senza le raffinatezze del lusso e de la civiltà, senza il tumulto de le passioni, il cozzo de le idee, senza l’eccitamento dei sensi? ma lei mi canzona! — [p. 172 modifica]

Caro giovane, — replicò G. Giacomo riprendendo con dolcezza la voce abituale, — se provasse quanto piacere e quanto bene arreca a l’animo un’esistenza riposata e modesta trascorsa in libero lavoro e ne l’adempimento di opere buone, certo non ragionerebbe così. Ebbene prenda moglie, cerchi una buona e savia giovane, si crei una famiglia, un genere di vita più conforme a natura, e vedrà che la vita le sembrerà piacevole lo stesso senza domandare ad essa troppe cose che non può dare. —

— Me ne guarderei bene dal far ciò e specialmente dal prender moglie — rispose l’altro ridendo, — tanto più che la scienza ha dimostrato che l’uomo è di sua natura poligamo, e il matrimonio non sussiste che come contratto o come solenne corbelleria. Per buona fortuna ella è solo, credo, a pensarla in questo modo, se no, addio progresso, addio civiltà! —



La notte dopo questo colloquio, stando nel suo letto d’albergo, si destò G. Giacomo ad uno squillo [p. 173 modifica]fresco e ripetuto di campana che vibrava nel silenzio torpido de l’alba. Aperse gli occhi e vide dietro i cortinaggi lumeggiare il giorno d’una luce gelida.

Poi, tendendo l’orecchio, gli parve udire come un lamento continuo che cresceva e svaniva ad un dato ritmo.

Si riebbe, si destò per intiero e riconobbe il salmodiare mattutino.

— Dunque si prega anche qui! — pensò, e senz’altro scese dal letto, si vestì e dopo non lieve fatica, attraverso corridoi e sale appena illuminate da la fioca luce de la candela del cameriere che avea chiamato e lo precedeva, intronate ogni tanto dal russare de gli altri ospiti, fu ne la via.

Tratto al rumore, non stette molto a scoprire lì presso una chiesa od oratorio che fosse.

Su la facciata, di cui appena il frontone in alto si tingeva d’una lieve zona di luce, s’apriva una gran finestra a vetriate piccole piccole, soffuse di un bagliore rossastro.

Salì i gradini, sospinse i cortinaggi di cuoio, che pendevano dietro la porta socchiusa, ed entrò. [p. 174 modifica]

Allora si risovvenne che quelle mattutine preghiere erano le novene dei morti, e pensando che, ne la chiesetta de la sua parrocchia, in quell’ora, si dicevano le stesse preghiere, si riconfortò; e in quella comunione di dolori e di ricordi, gli parve minore la distanza a la sua dolce terra; e pensava:

— Dunque anche in questa superba e sterminata città vi sono i buoni, gli umili, i dolorosi che vengono a confortarsi ne la fede e ne la benedizione del Signore? —

Erano, per la più parte, vecchie infagottate in istracci neri, lavoratori disfatti da fatiche dolorose e continue. Quasi ognuno avea un piccolo involto che deponevano presso la sedia che offriva loro lo scaccino.

Seguitavano ad entrare nel tempio senza salutarsi e conoscersi: si segnavano e si raccoglievano in silenzio.

Il tempio era freddo e nudo, e tutta quell’accolta di uomini e di donne si era ristretta presso un pulpito da cui parlava un giovane prete. Giovane in verità non si poteva discernere al lume fioco che spandevano alcune candele; ma a la [p. 175 modifica]vigoria de la voce, fresca e sonora, lo si sarebbe detto senz’altro.

Parlava del regno dei cieli concesso ai buoni, lieto e bello come una primavera, de la differenza fra la vergine vereconda e laboriosa e la fanciulla impudica con l’immancabile paragone de la mammoletta modesta e de la dalia sfacciata. In verità non era gran predicatore e si vedeva che era un nuovo prete che faceva le sue prime prove in corpore vili.

Gli illustri oratori de la chiesa non si destano certo a quell’ora antelucana, per confortare un umile ed ignorante uditorio.

Tuttavia non mancava d’una certa vigoria e scorrevolezza di parola, e quella consumata retorica composta di mammole e di primavera, era improntata da una melanconica convinzione e faceva uno strano effetto in quell’alba grigia, e fra quella gente.

Freddo era il tempio; ma quelle parole si capiva che scendevano su la turba tapina come raggio di sole.

Perchè mai spunta il giorno e vi richiama a lo scotimento del lavoro? Sotto le lapidi di marmo [p. 176 modifica]che pavimentano la chiesa, i sepolcreti sono apparecchiati; perchè ritardare ancora il momento del sonno sicuro?



Ma il sagrestano solerte ha spente le poche candele, e la luce livida del giorno già disegna i capitelli de le colonne, gli altari, i Cristi macilenti.

Il prete ha rivolto il suo invito per l’alba seguente e se ne è andato. Allora sorge da quella turba un tremito indistinto di ultime preghiere; poi ad uno ad uno, appena smovendo le seggiole, riprendono i loro fagotti e se ne vanno essi pure.

Erano profili smunti ed emaciati, schiene curve, capelli grigi: gente che varca la parabola de la vita senz’aver visto il sole che sui tetti de le loro soffitte, senza conoscere la primavera che nei pubblici giardini o ne le botteghe dei fruttivendoli, senza lasciare traccia di sè a l’infuori che a l’ufficio di stato civile, o a l’economato de gli ospedali, e al registro del cimitero. [p. 177 modifica]


G. Giacomo uscì dal tempio.

Pioveva come una nebbia frizzante e gelata, ed il silenzio cominciava ad essere rotto dal rumore grave dei carri, rapido e sonoro de le vetture.

Si vedevano come uscire da la nebbia gruppi di gente, per lo più operai, nè allegri, nè tristi, il pane sotto l’ascella, la pipa in bocca.

Gemebondo, cupo, saliva il rombo de le macchine suburbane, che chiamava i lavoratori a le officine.



Si lasciò trasportare dal caso; ed ecco presso il muro in un gran casamento vide curvo un piccolo spazzacamino, e lì presso accoccolata su le calcagna era una bambina di sette od otto anni, [p. 178 modifica]tutta coperta e goffa sotto un gran scialle di maglia che le s’incrociava sul petto e si annodava a le reni.

Ambedue facevano un gran soffiare su di pochi carboni male accesi.

Quando sentirono il passo d’un uomo fermarsi dietro di loro, si voltarono; lo spazzacamino con una bella faccia tonda e rossa come una mela settembrina, la bimba con due occhi vivi e più sdegnosi che meravigliati de la indiscreta curiosità di quel signore.

Domandò: — Che fate lì, bambini? —

Rispose lo spazzacamino con voce un po’ timorosa:

— Accendiamo il fuoco. —

— E chi te lo ha dato il fuoco? —

Allora la bambina si levò, ritta su quei due stecchi di gambe, e con voce piuttosto insolente, torcendo e levando in su il volto per fissare quell’uomo, rispose:

— Glielo ho dato io, proprio io, perchè si scaldi che ha freddo. Ciao. —

Quest’ultima parola rivolse la bimba al suo [p. 179 modifica]amico spazzacamino, e asciugatosi con un gesto violento de la mano il naso, raccolse di terra un caldanino, voltò le spalle, e dritta su i suoi zoccoli sbatacchianti e sdrucciolanti sul lubrico acciottolato, s’allontanò.

Lo spazzacamino si stirò le membra entro le sue misere vesticciuole di cotone, con un senso di freddo e di benessere. Poi si sedette su di una banchetta, lasciando penzolare le gambe su quelle poche braci che già si velavano di cenere.

— Ma ti bastano per scaldarti? —

— Altrochè — rispose, — e poi qui non piove mica — ed indicò il cornicione del casamento che sporgeva a l’infuori.

— E che fai qui? —

— O bella! aspetto che mi chiamino per pulire i camini. —

— E quanto tempo stai qui? —

— Fino a la sera. —

— E per mangiare come fai? —

— Me lo porta il mio padrone: un pentolino di brodo con del pane o una bella fetta di polenta. — [p. 180 modifica]

— E quella bambina dove va? la conosci? —

— Proprio no; ma so che va a lavorare. Passa di qui tutte le mattine e mi dà metà del carbone del caldanino; ma ieri avea un segno su la faccia perchè l’avevano bastonata perchè c’era poco carbone. —

Evidentemente il piccolo lavoratore appariva seccato di quelle domande, e quando G. Giacomo si fu allontanato, riprese a soffiare su le sue braci.

— Poveri bimbi — mormorò il vecchio — così piccini, così soli in quest’ora che dovreste dormire nel letto tepido, vicino a le carezze materne! Povera vita, fredda e triste come questo mattino! Soffia, soffia, ma tutto si spegne su questo suolo viscido, sotto questo immenso grigio del cielo! —

Rivedeva le turbe de la vigilia affaticantisi presso le macchine, la gente che era venuta a pregare in quella chiesa, la misera famigliuola de l’impiegato, ricostruiva il corso de la vita di quelle due creaturine, e sospirò:

— Ohimè, non per questo lavoro, non per questo dolore Dio disse a l’uomo di guadagnare il pane col sudore de la sua fronte! — [p. 181 modifica]


La nebbia si era sciolta in una pioggia sottile, quasi invisibile, acuta come punte d’ago. E quel rumore indistinto che brontolava assopito e lontano, era improvvisamente scoppiato con fragore incessante e montava sempre.

Era l’immensa città che si destava dal sonno.

Le carrozze s’incrociavano, si scontravano con improvviso e sicuro arretrare di cavalli, poi riprendevano la loro corsa; carri, carrette, furgoni carichi de le più disparate mercanzie, facevano tremare il suolo, gemere le stagge de le ruote, tendere il collo ed i garetti ai vigorosi cavalli.

Ma su le rotaie polite scivolavano allegramente i tranvai, già pieni di gente, ad un bel trotto di cavalli, facendo con le ruote saltare, come ad ondate, l’acqua de le pozzanghere.

I commessi ripiegavano le imposte e sospingevano innanzi le vetrine; i venditori di giornali [p. 182 modifica]sbucavano dai trivi urlando le ultime notizie e diffondevano l’odore acre de l’impressione recente.

Ed in mezzo a quell’affaccendarsi, una nota gaia davano le sartine che sgambettavano vispe come passere, saltando le pozzanghere, evitando il fango de le carrozze, l’urto de’ viandanti con una grazia giovanile e senza intaccare de la più lieve pillacchera le scarpettine lucide.

Erano visini rosei, ridenti, su cui aleggiava l’ombra de l’ultimo sogno, troppo presto interrotto!

Come era lieto e vigoroso quel destarsi de la grande città che riprendeva con impeto il lavoro appena sospeso nel breve riposo notturno! Ma a G. Giacomo i pensieri si erano fatti cupi e con l’anima desiderosa ritornava a la sua villa, a’ suoi campi e a la sua libera vita serena; e tutta quella gente, tutti quei carri che fuggivano, si confondevano in lontananza ne le lunghe vie, sotto la sferza de la pioggia sottile, de l’aria gelida, gli mettevano ne l’anima come uno sbigottimento pauroso e gli facevano male al cuore.

Triste lavoro, quasi maledetto e fatale gli appariva. [p. 183 modifica]

Ma la folla gli passava davanti sempre più turbinosa e numerosa, così che quasi confondendosi a quella vista, gli pareva che le rigide braccia de le macchine non soltanto tenessero avvinte a sè le tristi squadre de’ lavoratori, ma si estendessero invisibili, immani, e tutta quella gente ne fosse afferrata e si movesse a quel moto.

— Chi avrà la forza — pensava — di arrestare, o, almeno, di rivolgere al vero bene quest’impeto fatale; chi, e dove e quando, potrà dire queste vere parole: — Oh cercate a più pure fonti la sorgente de la vita! —



Come fu lieto il giorno che il signor notaio gli disse: — Ecco tutto sbrigato, ecco la sua parte e, se vuole, se ne può andare! —

G. Giacomo gli seppe assai grado de la sollecitudine, e quegli volendolo assai cortesemente [p. 184 modifica]accompagnare a la stazione e domandandogli: — Ci rivedremo ancora, signor mio caro? — rispose:

— Qui certo non più; ma se ella un giorno fosse stanco e volesse vivere un po’ in pace, venga da me e ritroverà sempre un amico! —

— Chi lo sa! — rispose colui sorridendo; ma nel cuore aveva una certa tristezza, e non si partì da l’andana infino che il treno fu mosso e la testa bianca e la mano di G. Giacomo scomparvero rapidamente.