Il sacrificio di Ieronima

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Giulia Turco Turcati Lazzari

1898 Indice:Turco - Il sacrificio di Ieronima.djvu Il sacrificio di Ieronima Intestazione 4 agosto 2022 25% Da definire


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CONCORSO DELLA “RIVISTA PER LE SIGNORINE„

Novella premiata 1.


Il sacrificio di Ieronima.

I.

Erano seduti a tavola, i genitori e i sei bambini: i più piccoli vicini alla madre, i maggiori accanto al babbo. Mangiavano tutti molto. attentamente una minestra di pasta al pomodoro.

Un po’ discosto dal desco, presso alla finestra; donde veniva, a traverso le chiuse persiane; il flebile suono d’una musica lontana di chitarre e mandolini, stava una fanciulla vestita di nero. L’armonia delle forme, alquanto esili ma molto gentili, sostituendosi alla bellezza, dava una distinzione, una grazia singolare alla sua svelta persona: gli occhi grandi, profondi, d’un colore fra il glauco e l’azzurro che illuminavano a tratti il volto abbattuto, anzi come estenuato da un grave dolore, a tratti si velavano di lagrime.

L’appetito dei piccini, le loro domande, la loro allegria vivace, soffocata a stento dalle ammonizioni dei genitori, le richiamarono a poco a poco sulla bocca un triste, dolcissimo sorriso.

— «Dunque, Ieronima, ci hai pensato?» chiese il giovane che sedeva in capo di tavola, rivolgendosi a lei.

— «Ho pensato molto, ma non ho concluso nulla...»

— «Mi faresti un gran piacere, e anche a Serafina...», continuò egli, cercando con gli occhi il volto di sua moglie che assentiva, «quali altri piani puoi avere così giovane, così sola?..»

— «Il piano lo avevo, ma forse non è effettuabile...», disse Ieronima.

Egli la interrogò collo sguardo.

— «Volevo andare a Milano o a Napoli per perfezionarmi...»

— «A vent’anni in un conservatorio di musica! E i mezzi, ove li prenderesti?», domandò egli brutalmente. [p. 9 modifica]

— «L’ostacolo è questo, lo so, lo vedo... e non mi so convincere lo stesso. »

— «Mi sembri avviata per una strada falsa, Ieronima. Le donne, in arte, non hanno mai fatto nulla, ch'io sappia... sono vite sbagliate, codeste, stanne sicura. Accetta l’ospitalità nella mia famiglia... una camera per te vi sarà sempre, e col piccolo reddito che t’ ha lasciato nostro padre...

— «Sì sì, quello potresti accettarlo tu per il mio mantenimento », disse la fanciulla entrando con visibile ripugnanza in simili particolari, «e forse non basterebbe nemmeno, ma io cercherei di rendermi utile ai bambini...»

— « Oh per questo, non ci pensare!» esclamarono marito e moglie ad una voce.

In quel breve dialogo era stata discussa la sorte d’ un'intera esistenza di donna. Ieronima Moras era la figlia d'un maestro di pianoforte che congiungeva, ai meriti d'insegnante, le attrattive d’un'anima d’ar- tista. Buono e corretto scrittore, ma per troppa modestia e per costante sfortuna ignorato dalla fama capricciosa, egli aveva vissuto nel silenzio dei suoi ideali, cercando di trasmetterne la poesia agli scolari intelli- genti, rinchiudendosi tutto in un freddo convenzionalismo di professione laddove non gli sembrava di non poter trovare propizio terreno.

la moglie gli era morta giovane, lasciandogli due figli dei quali soltanto Ieronima, la gentile fanciulla, aveva ereditatro la tendenza e la qualità artistica. Giordano, non privo di ingegno, ma nato a intendimenti affatto comuni, s'era messo di proprio mpulso negli studi legali e percorreva la carriera dell'impiegato.

Se il vecchio maestro aveva raddoppiato il lavoro per procurare al figliuolo una posizione onorevole, con Ieronima, la geniale e amorosa consolatrice della sua vita era stato largo di tutta la sua tenerezza, di tutti i tesori dell'intelletto e del cuore. Ieronima, che era la più intelligente allieva, il solo pubblico dei suoi concerti, forse l’unica fida in- terprete dei suoi lavori.

Giordano,che contava dieci anni più di lei, s'era separato presto dalla famiglia, aveva voluto ammogliarsi ed era già carico di prole: rimasti soli Moras e la figlia, si deliziavano d’ affetto e di musica, sor- retti, aiutati in tutte le traversie della sorte da queste due fonti vive dell'umano conforto, le quali, così diverse come sono, fondendosi una nell’altra, danno al sentimento la più poetica intensità.

E delle Arti, non sola la musica li attraeva: leggevano molto insieme, sempre libri scelti, spessissimo i poeti nazionali e stranieri; la domenica [p. 10 modifica] erravano studiando nelle gallerie, nei musei e visitavano le chiese, onde s’erano fatti intimi di Donatello, del Masaccio, del Botticelli, di tanti grandi, e sovrattutti di fra Angelico. Allorché andavano a contemplare i mirabili affreschi nella cappella del palazzo Riccardi, pareva sempre al maestro entusiasta che la sua figliuola rassomigliasse ad uno di quegli angeli così puri, così raccolti che Benozzo Gozzoli vi ha divinamente raffigurati.

Quando Moras doveva uscire per gl’impegni della professione e che le poche faccenduole di casa erano sbrigate, la fanciulla suonava, e, valendosi delle dotte lezioni d’armonia avute dal padre sin dalla prima giovinezza, componeva canzoni o melodie, in cui la sua mente appassionata del bello pareva effondersi nella più malinconica dolcezza. Il maestro, tornando, trovava i fogli sparsi sul pianoforte, criticava mitemente qualche dissonanza per lui troppo moderna, in fondo era rapito dal talento della sua creatura e finiva collo stringersela al cuore.

Ma la sventura venne a troncare barbaramente quella semplice, modesta e ideale felicità. Costretto, nell’inverno, a cambiare spesso d’ambiente, Moras che non era robusto, non resistette agli squilibri d’una stagione capricciosa: ammalò di polmonite, riuscì a superarla, ma rimase debolissimo e colla salute infranta.

Tre mesi la desolata Ieronima vegliò giorno e notte al capezzale del diletto infermo, alleviandone talvolta, per suo desiderio, i patimenti con qualche breve sonata. Un harmonium era stato collocato nella camera, in faccia al letto, ed ella, reprimendo la propria emozione angosciosa, cercava gli accordi, gli andamenti preferiti dal padre. La musica accompagnò soavemente fino alla morte l’artista che si spense benedicendo la figliuola e la suonatrice.

Quella perdita crudelissima abbuiava l’intera giovinezza di leronima, troncando le sue più geniali abitudini e con esse ogni sua più cara aspirazione: non le era morto soltanto il padre ma ben anco un amico d’Arte e tin comoscitore profondo della sua anima. Il suo pensiero sempre così sereno, sempre avvezzo ad un pascolo elevato e purissimo, si trovava stretto all’improvviso entro una cerchia di fatali necessità.

Della tenue somma risparmiata negli anni del lavoro, il povero maestro aveva fatto egual parte fra i suoi due figliuoli, pensando che se Giordano era già circondato da una numerosa famiglia, non gli man- cavano tuttavia i mezzi di guadagnarsi onoratamente il pane, mentre Ieronima, che cosa farebbe Ieronima?.. Troppo geniale nella sua coltura e forse un tantino troppo altera per dedicarsi all’insegnamento, la fanciulla non aveva dinanzi a sè altra prospettiva se non quella di andare in casa del fratello; ma il risolversi a sì grave passo, l’abbandonare per [p. 11 modifica] sempre quelle care stanze ove aveva vissuto col padre suo in un’intensa felicità dello spirito, rinunciando a tutto un passato di altissime soddisfazioni intellettuali, era un’amarezza per lei quasi insuperabile.

Tuttavia le circostanze urgevano: un signore aveva chiesto in affitto l’appartamento che non metteva conto di tenere. Giordano, da uomo positivo qual era, non voleva lasciarsi sfuggire la buona occasione e spingeva insistentemente la sorella a concludere.

In quella triste serata, quando il desinare fu finito e i bambini sonnacchiosi si dispersero sulle seggiole e sui sofà, egli trasse Ieronima in disparte per tornare alle sue tenaci esortazioni.

— «Sono tre giorni che ti prego!..» ripeteva il giovane, «sarebbe contento anche il babbo se tu m’ascoltassi.»

— «Il babbo, poveretto! forse...

— «Senza forse, Ieronima. Ne sono sicuro, perché un giorno durante la sua malattia, parlandomi di te, mi espresse questo desiderio. Qui trovi una famiglia... che cosa diverresti così, sola al mondo, senza appoggio, senza mezzi?... Rifletti un poco...»

— «Domani... domani..!» mormorava leronima angustiata.

— «Perché domani? perché esiti tanto? che cosa vuoi fare se non unirti con noi?»

— «La pianista vorrei fare!» disse la fanciulla, con un certo esaltamento, tornando sempre alla sua idea fissa; — «quella è la mia vocazione!..»

— «La pianista! quale idea! una ragazza sola, errante per il mondo come un’avventuriera... e poi... a dar concerti c’è il caso di morir di fame. È pieno il mondo di concertisti disperati.»

— «Non sono tutti eguali, Giordano.»

— «Tu dunque ti supponi fra i migliori?»

— «Ora no, certamente, ma credo che lo diverrei...», rispose Ieronima con dolcezza.

— «Questo non si può sapere, sono, cose troppo incerte io farne la prova e perdere tempo e denaro in vane illusioni...

La fanciulla lo guardò con un’espressione di accoramento profondo; non aveva mai misurato con tale sicurezza l’abisso morale che la divideva da suo fratello. Ma il giovane, nulla comprendendo, continuò imperturbato:

— «Dà retta a me, Ieronima, lascia da parte codeste fantasticherie e ringrazia il Cielo di poter trovare un posto sicuro nella mia casa... rifletti anche alla volontà espressa dal babbo .

— «Caro babbo mio!.. non credo che fosse la sua volontà assoluta, egli mi conosceva troppo... ma, domani... a quest’ora, forse... ti saprò dire...», concluse la fanciulla tristissimamente. [p. 12 modifica]

— «Senza fallo domani?.. Prometti?»

— «Te lo prometto...»

— «Sta bene.»

E dopo aver baciato ad uno ad uno i bimbi dormenti e salutata la cognata più che stanca, esausta dalle fatiche del lungo giorno trascorso, Ieronima, colla scorta di Giordano, s’avviò verso la sua casa.

Non v’era più nessuno adesso nel deserto quartierino, nemmeno la domestica ch’ella aveva licenziata per. prendere una donna che veniva soltanto alla mattina; ma la casa essendo tutta abitata da onesta gente, la fanciulla viveva ancora lì, sola fra le sue ricordanze.

Una grande proprietà e una certa eleganza gentile regnava nelle tre modeste stanzette, perché Ieronima amava di appagare il suo gusto semplice ma squisito, coll’armonia delle linee e delle tinte, con un’abbondanza di fiori spesso raccolti dalle sue mani, col sapiente collocamento degli oggetti.

La fanciulla accese una lampada, depose il paltoncino e il cappello dal lungo velo nero ed entrò nel salotto ove dominava, nel mezzo, un grande Pleyel a coda.

Sulle pareti null’altro che ritratti d’artisti celebri, parecchi dei quali firmati, qualche schizzo a penna o a carbone di buon autore e due o tre riproduzioni fotografiche di affreschi dell’antica scuola fiorentina; fra le finestre un gesso del San Giovannino di Donatello; pochi mobili semplici ma eleganti, due scansie cariche di libri e di opere musicali sceltissime completavano, con una pianta ornamentale, un’immensa corypha coltivata con cura amorosa, il modesto [....?] La fanciulla aveva mandato al camposanto tutti gli altri suoi vasi di gerani e di garofani.

Ella mise la piccola lampada sopra un tavolino, dietro a sé, e sedette inconsciamente al pianoforte. Da un mese, dopo la morte di suo padre, non aveva più suonato, ma il dolce istrumento l’attraeva adesso con un fascino irresistibile, colla stessa voluttà del dolore.

Le sue mani lunghette, affilate, nervose, vere mani di pianista, si posarono tremanti sulla tastiera, cercando degli accordi minori; un lungo brivido la fece fremere da capo a piedi, e chinandosi, tutta tremebonda, colla testa sul leggio, la fanciulla scoppiò in un singhiozzo disperato. Ma si riebbe, perché era una tempra forte e volonterosa, e le sue dita errarono nuovamente sui tasti bianchi. Ad un tratto le tornarono alla mente certi canti che il padre suo aveva prediletti, cose semplici e grandi dei tempi trascorsi; indi una foga di passione la morse nella fantasia che si esaltava; quieta alla prima, quasi abbattuta, poi a grado a grado. sempre più agitata e ardente, improvvisò con tutto il trasporto d’un’anima che gt [p. 13 modifica] ha collegato il sacro pensiero dell’Arte alle sofferenze e alle giole più vitali. Ella guardava in alto come vagando coll’occhio e colla mente nel mistero dell’infinito, e il pianoforte, istrumento così positivo, sotto le sue dita rispondeva, cantando, all’esuberanza di quella giovinezza tutta compresa ma non annientata dal proprio dolore. Era come un canto supremo d’addio all’ideale che si dilegua.

Ella stette lì a quel pianoforte, tufto obliando intorno a sè, anche i vicini che potevano udirla, e l’alba la trovò ancora assorta in una profonda concentrazione dello spirito, come in una inarticolata preghiera.

Un grande desiderio la stringeva, l’affannava, quello di seguire la via dell’Arte che la fervida immaginazione giovanile le dipingeva facile e poetica, di poter vivere col pensiero costantemente assorto nelle cose alte e belle, lontana, lontana da tutto quello che costituisce il positivismo delle cure familiari. Ella vi si era dedicata, un tempo, per suo padre con vero intelletto d’amore e coll’assennatezza che gl’ingegni ben fatti portano in tutte le occupazioni ancorché ripugnanti; ma il dovere a cui era stato concesso d’altronde sì largo compenso, cessava dinanzi alla tomba recente; la sventura l’aveva dolorosamente svincolata dai suoi obblighi di donna e di figlia; attratta da una forza irresistibile verso il suo sogno, ella non sapeva più discendere senza un certo ribrezzo agli umili particolari della vita casalinga, agl’intingoli, ai rattoppi.

Musica, libri, fiori e la deliziosa indipendenza del pensiero... E poi, i concerti, oh il fascino dei concertil.. Essere in una grande sala, tutta illuminata e gremita di gente, dinanzi al proprio istrumento, ed effondere sè stessa, l’anima della propria anima nell’interpretazione dei grandi, e far palpitare quel pubblico; soggiogarlo, incatenarlo colla magia d’una forte individualità artistica, essere una specialità, nel canto, come lo fu un giorno Thalberg, dimenticare i freddi acrobatismi della moda, cantare e far piangere...

Sogno ambizioso: ma divino! E d’altronde, che cosa le restava?.. la prospettiva di far la bambinaia ai suoi nipotini, di corrispondere col lavoro alla generosità di suo fratello che le offriva un asilo protettore.

Un istinto quasi invincibile dominava così imperiosamente le inclinazioni di Ieronima, che quanto di tenero, di dolce può dare la famiglia, nulla, più nulla ormai le sorrideva. In quell’inclinazione era per lei come una sacra chiamata della sorte; nè difficoltà, nè ostacoli l’avrebbero fatta indietreggiare, ma si sentiva sola, indifesa, priva d’aiuto dinanzi alla grande battaglia, e la sua giovinezza, sempre così gelosamente custodita, provava ancora una casta titubanza al pensiero dell’incerto avvenire. [p. 14 modifica]

La dolce memoria del padre perduto, l’incertezza della sua approvazione la indussero a reprimere momentaneamente il suo ardente impulso.

Giordano non aspettò la sera, per la risposta. Egli andò da Ieronima sul mezzogiorno, la trovò sottomessa, non vinta.

— «E dunque?» domandò egli, lievemente commosso, entrando.

— «Ho deciso Giordano. Per ora non posso fare altrimenti. Ti ringrazio, verrò da te.»

Il giovane ch’era buono, non seppe dissimulare la sua contentezza e l’abbracciò con effusione.

— «Una cosa sola ti chieggo», implorò la fanciulla, «lasciami il mio Pleyel!»

— «Non vi starà nella tua stanzetta...»

— «Ve lo farò stare, vi deve stare... a costo di dormire alla peggio, mi farò un lettuccio sul sofà.»

— «Si potrebbe venderlo e prendere un pianino... tornerebbe...»

— «No, no Giordano. È una reliquia. Non posso separarmene; soltanto a questa condizione accetto. Il Pleyel e la musica sono miei... tu prendi il resto, Giordano, sono felice di lasciarti tutto...»

Il giorno seguente, Ieronima ebbe il coraggio d’aspettare finché l’appartamento fu sgombrato. Vide portar via il letto dov’era morto suo padre e a poco a poco l’intera mobilia: oggetti che le erano stati familiari sino dalla fanciullezza o che non avrebbe ritrovati mai più, poiché Giordano non potendo collocarli nella sua ristretta abitazione, aveva risolto di mandarne la maggior parte all’asta.

Rimasero ultimi il Pleyel, gli scaffali della musica, il bianco lettuccio di lei. Ieronima non sapeva risolversi ad abbandonare quelle piccole stanze vuote come se ad esse la legasse un’ultima speranza.

Ella stava lì, immobile, nel deserto salottino, guardando intorno a sè, con occhio smarrito. Erano partiti i facchini, col pianoforte; Giordano li aveva seguiti, la fanciulla era sola. Ad un tratto, il rumore di un passo noto le colpì l’orecchio, la sua pallidezza si velò d’una fuggevole fiamma e dagli usci spalancati un giovane signore passò liberamente, venne difilato a lei, fece un atto di maraviglia, d’interrogazione, stendendo la mano con amichevole confidenza.

— «Ella parte Ieronima?»

— «Parto, conte.»

— «Da Firenze?» [p. 15 modifica]

— «Oh no. Parto da questa casa... parto da un passato che più non torna...», e la sua voce si soffocava.

— «Dove va?»

— «Da mio fratello»

— «Ha famiglia suo fratello?»

— «Ha moglie e sel figliuoli.»

— «Che fa?»

— «È impiegato al tribunale.»

— «Ella vivrà dunque con lui?»

— «Sì, vivrò con lui.»

Vi fu una breve sosta, nel rapidissimo dialogo, indi il giovane chiese più lentamente:

— «E la musica?»

Ieronima fece un atto vago, di dolore.

— «E il pianoforte?»

— «L’ho mandato laggiù... lo prendo meco.»

— «Scriverà ancora, spero...»

— «Non so, conte. Non credo. Ella ha compiuto qualche nuovo lavoro?»

— «Sì, una piccola elegia. Gliela portavo...».

—.«Grazie!» mormorò la fanciulla, con una superabile commozione. «Non ho nemmeno più una seggiola da offrirle!..» E avvicinatasi alla finestra che dava sopra un piccolo giardino, e preso con mano tremante il rotolo ch’egli le porgeva, lo aperse e scorse collo sguardo, adagio, adagio il manoscritto.

— «In do diesis minore!'» esclamò ella, «era il tono prediletto di mio padre.»

— «L’ho scelto apposta, Ieronima.»

Ella sollevò verso di lui gli occhi ove una riconoscenza appassionata ardeva sotto il velo delle lagrime.

Il giovane, appoggiato al davanzale della finestra, la contemplava a capo chino, con grande compassione.

Il conte Wilmos Kemeny era un patrizio ungherese che una sorella sposata a Firenze richiamava sei mesi dell’anno presso di sè. Cul- tore fervidissimo delle Arti, specie della musica, egli aveva scelto a suo maestro di contrappunto il padre di Ieronima, s’era fatto uno scrittore elegante e si compiaceva di passare qualche ora della settimana col vecchio professore, studiando i classici. Senza accorgersi, egli era diventato familiare in quella casa modesta, ove trovava nel padre un amico d’Arte, nella figliuola un’intelligente ammiratrice del suo talento, in entrambi anime nobilissime. Convinto della profonda rettitudine del suo [p. 16 modifica] carattere e sicuro della saggezza di Ieronima, Moras non aveva saputo negargli il conforto di penetrare nell’intimità della loro vita musicale; ma le creature sagge sono quelle in cui il sentimento mette più facili e più salde radici, e Wilmos, il giovane geniale e fino, era tutt’altro che privo di seduzioni.

Quand’ebbe finito di scorrere l’elegia, Ieronima chiese:

— «Posso tenerla?..»

— «Senz’altro. È per lei, gliela dedicherò, se permette.»

— «Grazie, conte Kemeny.»

— «Mi concederà di rivederla qualche volta?» domandò il giovane, dopo un lungo silenzio, esitando.

— «In Cielo, ci rivedremo!» rispose ella con un breve, tristissimo sorriso, «in Cielo, ove tutti quelli che hanno amato la musica si ritroveranno.»

— «Ella lo crede fermamente?» domandò Kemeny non senza commozione.

— «Guai se non lo credessi! Questa sicurezza dell’altra vita è l’unico mio conforto. Sono certa che incontreremo altrove i nostri cari e che nella eternità delle cose la musica diverrà sempre più grande...»

Nelle lunghe serate d’inverno s’erano intrattenuti qualche volta su quell’argomento ed egli s’era compiaciuto di contraddirla per provocare quelle sue ardenti professioni di fede. Adesso, dinanzi alla sventura si raddoppiava il suo rispetto per lei e per quella stessa fede in Dio e nell’Arte. Egli stette un poco pensoso, poi, seguendo quasi l’intimo corso dei propri pensieri, mormorò: «Peccato!.. Era proprio necessario che rinunziasse interamente al passato?»

Ella ebbe un singhiozzo represso e rispose con un filo di voce:

— «Ragioni morali e materiali mi costringono a farlo. Mio padre lo ha forse desiderato, mio fratello lo vuole... la carriera dell’insegnamento mi ripugna; per aspirare all’esclusiva vita dell’Arte non sono preparata abbastanza... non vi pensai prima... ero così felice con mio padre! ma amare la musica per sé stessa è altra cosa che coltivarla per il pubblico...»

— «Ha ragione; ma quando un vero talento esiste, la volontà può superare qualunque inciampo. Tuttavia... ella adempia coraggiosamente al desiderio di suo padre», concluse Vilmos dopo qualche minuto di riflessione.»

— «È questo il suo consiglio? anch’ella Kemeny pensa così?» dgmandò sospirando leronima.

— «Forse... Un posto sicuro è una gran ventura per la donna, e la visione che a lei tanto [sorride] non è probabilmente che un ingannevole miraggio ...» [p. 17 modifica]

— «Ella parla della gloria, ma io non aspiro alla gloria. La mia anima è assetata da cose belle e non può vivere lontana da esse... io ho bisogno della musica come dell’aria che respiro...»

— «Ebbene, Ieronima, si consoli. Le vocazioni così forti sono imperiose e presto o tardi il loro destino si compie...»

— «Iddio la rimeriti per queste buone parole, Kemeny!» esclamò Ieronima colla faccia illuminata. Il giovane sorrise e ripeté la sua domanda:

— «Potrò venire a trovarla qualche volta?..»

— «In casa di Giordano, fra tanti bambini?»

— «Io amo i bambini. E poi, domanderò di lei...»

Ieronima esitò un minuto e le sue pallide labbra tremarono. Poi ella rispose molto piano ma risolutamente:

— «No, conte Kemeny, non venga, è meglio così. Io entro ora nella vita comune, nella vita borghese, ove l’unica idealità è quella della virtù e del dovere. Mi perdoni se le sembro scortese e... si ricordi qualche volta di me...», balbettò ella angosciata.

Il giovane le prese dolcemente una mano, quella manina sottile e nervosa di pianista che sembrava tocca da un gelo di morte, la tenne un momento fra le sue, indi se la portò alle labbra, baciandola con un senso di devozione e di rispetto.

— «Io la ricorderò sempre, Ieronima», mormorò egli, non senza commozione. «Ella è una nobile [figura]. Ove io possa servirla, ora e per l’avvenire, non mi faccia torto, mi comandi e mi troverà sempre.»

E inchinandosi, con amorevole ma grave deferenza, s’accomNiatò senz’altre parole, forse per troncare pietosamente un colloquio troppo doloroso: uscì a passo lento dalla deserta stanza, si soffermò un momento sul limitare con un cenno d’addio e scomparve.

Quando l’ultimo rumore dei suoi passi si fu allontanato per le scale e smorzato nel silenzio, la fanciulla mise un grido straziante: anche quello, l’estremo sacrifizio, la volontaria rinuncia ai conforti di amicizia che le sembrava poco conveniente per lei e assai pericolosa, doveva consumarsi eroicamente.

II.

Chiusa nella sua cameretta che il pianoforte occupava quasi per intero, seduta all’unica finestra prospiciente un tetro cortilaccio, Ieronima, nella quiete d’un giorno domenicale, leggeva il Rath Krespel di Hoffmann. Lo leggeva in tedesco, perché quella lingua che Moras [p. 18 modifica] aveva imparata in Germania, le era stata familiare sin dall’infanzia, e la sua attenzione era intensa, perché la storia fantastica di Antonia destava nel suo animo un tumulto di pensieri.

Ad un tratto l’uscio si spalancò e uno dei piccini comparve, precipitandosi fra le braccia della fanciulla.

— «Non hai ancora aperto il pianoforte, zia Ieronima?» chiese egli.

— «No,Valdo.»

— «Perché?»

— «Perché non suono. Sta meglio chiuso.

— «Aprilo zia, aprilo per me, voglio suonare io!» insistette il bambino colla sua vociolina amabile.

— «Lo guasterai Valdo, hai le manine sudicie.»

Il piccino si guardò le mani, sorpreso, poi continuò, carezzevole:

«La chiave, zietta, la chiave!» Vinta dalle reiterate preghiere, Ieronima si levò di tasca la chiavina che portava costantemente seco, la fece girare lenta lenta nella toppa e sollevò il coperchio del Pleyel.

La bianca tastiera apparve. Valdo, entusiasmato, vi pose sopra i piccoli pugni e cominciò a picchiare, furiosamente.

— «Lo guasti, bambino, te l’ho detto!» esclamò Ieronima, impallidendo, Senti come si fa a suonare...» E sedette al pianoforte.

Una melodia dolce ma tristissima e incalzante come uno spasimo di dolore, parve uscire dalle mani tremanti della suonatrice, ma il grande istrumento condannato a sì esiguo spazio, aveva la voce chiusa, strozzata. Ieronima scosse la testa dolorosamente:

— «Non va, non va!» mormorò ella.

— «A me piaceva!» disse il bambino ch’era stato a sentirla, in estasi, colla testina bionda inclinata sopra una spalla, «a me piaceva tanto! Zia Ieronima, suona ancora!..»

Allora la fanciulla tentò di rammentarsi uno degli studi del Chopin, quello in mi bemolle minore, ma s’accorse subito, con un senso di viva amarezza, che dopo due mesi di riposo quasi assoluto le sue dita non scorrevano più sui tasti colla facilità consueta. Fino agli ultimi giorni della sua vita, Moras aveva voluto ch’ella facesse mattina e sera le scale; quelle scale così eguali, così nitide che si sfilavano come perle dalle mani leggere di Ieronima, davano ancora diletto al vecchio professore. Ma adesso, quando farle le scale? ove trovarne la voglia?..

Ieronima chiuse il Pleyel, prese il bambino in grembo e soffocò e disperse fra i suoi riccioli biondi un impeto di lagrime infocate.

— «Perché piangi, Ieronima?» domandò il piccino.

— «Perché... perché, Valdo, penso al nonno, penso alla musica che ho perduto. anch’essa...» [p. 19 modifica]

— «Cerchiamola insieme, la ritroveremo la musica!» sclamò con uno slancio il fanciullo.

Ieronima coperse di baci la cara e geniale creaturina; ma molti’ giorni trascorsero prima ch’ella riaprisse il pianoforte.


In quella numerosa famiglia, c’era da fare assai. La moglie di Giordano, da più mesi indisposta, non concludeva nulla. Tra la spesa, il ripulimento delle stanze, il bucato continuo per i bambini, il risciaquare e il portare l’acqua e la legna, la domestica era occupata da mane e sera; per necessità Ieronima doveva dare una mano in cucina all’allestimento dei cibi, e molte volte, quando Serafina stava meno bene, era costretta a preparare tutto lei. Poi c’era sempre un monte di biancheria da rivedere ed aggiustare.

I piccini si mostravano tutti d’indole spensierata, meno Valdo che ricordava il nonno e che possedeva una di quelle tempre tranquille che solo le circostanze appassionano ed infiammano. Roberto, il maggiore, era l’immagine fisica della madre e prometteva di assomigliarle anche moralmente, così Peppina, la terza: creature molli e neghittose, sembravano già predestinate alla più comune mediocrità della vita. Sandrino palesava, a sei anni, precocemente, un ingegno positivo e calcolatore.

I più piccoli, Nena e Carluccio rimanevano ancora allo stato d’incognite; e tutti saltavano, facendo un chiasso indiavolato, resistendo alle fiacche e querule ammonizioni dell’impotente Serafina.

Giordano stava parte del giorno all’ufficio; le ore libere le passava in casa, in un angolo della camera da pranzo, ridotto ad uso di studio, a scegliere e registrare certe antiche carte di famiglia, per incarico d’un ricco signore.

Egli lavorava con visibile stanchezza, chinandosi sotto il cappello d’una piccola lampada a petrolio, infastidito dai figliuoli che gli si accalcavano d’attorno. Alle nove, quando Ieronima e Serafina li avevano collocati a due a due nei loro lettucci e un grande silenzio cominciava a regnare nella casa, Giordano metteva da parte le sue pergamene, andava a sedere accanto alle due donne, presso la tavola da pranzo, e studiava da capo a fondo la Gazzetta di Firenze, che un impiegato superiore da molto tempo soleva cedergli in seconda lettura.

Serafina era sempre sprofondata in qualche romanzo di biblioteca circolante e Ieronima portava seco, dalla sua cameretta, un libro prediletto, una cara reliquia del tempo passato; ma in fondo, il libro era un pretesto, ella non sempre leggeva: una pagina, una strofa, un aforisma bastavano a rievocare nella sua mente le più care visioni, e il suo triste pensiero amava di errare lontano nel dolce mondo della ri[p. 20 modifica] cordanza, in quell’ora di quiete, dopo la materiale, faticosa giornata. Tutta la vita trascorsa si riaffacciava con ineffabile e malinconica dolcezza alla sua fervida fantasia di sognatrice: le belle passeggiate sugli ameni colli di Firenze ove dai muri degli orti si sporgevano le rose a ciocche a ciocche, gli entusiasmi per la natura commisti alle gioie dell’Arte, i lieti, sereni soggiorni in qualche romito paesello dell’Appennino durante i mesi delle vacanze, le indimenticabili serate d’inverno, quando nel salottino reso più ospitale dall’allegra fiamma del caminetto, il maestro Moras correggeva le fughe del gentiluomo straniero, ed ella, Ieronima, dopo aver preparato colle sue mani, sopra un tavolino a parte, il thè e dei saporiti sandwiches, si ritirava in un angolo a lavorare o a leggere, ascoltando il mormorio di quelle due voci così diversamente e così intensamente care entrambe.

Poi, alle volte, quando Giordano s’addormentava dopo la lettura della quarta pagina del suo giornale, ella [s’impossessava della] Gazzetta, cercava le notizie artistiche dei teatri, sovrattutto dei concerti, e le scorreva avidissima con un turbamento represso, con una specie d’esaltazione, ma nessuno, oh! nessuno mai penetrava nel mistero di quella povera anima straziata dal tormento del suo fallito sogno; e se questa sofferenza, sempre gelosamente contenuta, per caso si tradiva, suo fratello e sua cognata la guardavano con maraviglia, colla sterile compassione di chi non comprende.

Ieronima, per natura abilissima, si prestava a tutti i servigi con un’abnegazione piena di fierezza. Le sue mani fatte per iscorrere genialmente sulla tastiera, s’immergevavano volonterose nella farina e nelle uova delle tagliatelle, preparavano le carni sanguinolenti e il merluzzo dall’odore di fradicio, curavano verdure, spremevano il sugo dei pomidori; s’annerivano col carbone, ravvivando il fuoco del fornello. Tutti i giorni era lei che lavava i bimbi, che conduceva i maggiori a scuola, che li andava a riprendere. Passavano tristamente le settimane nella uniformità della vita giornaliera comune, così piacevole ai più, così pesante per le creature assetate di conforti intellettuali.

Verso la fine di marzo,una lontana parente invitò Ieronima a passare la giornata in una sua fattoria nei dintorni di Pistoiae la fanciulla scelse Valdo a compagno della piacevole gita primaverile. quando fu sola col bambino, suo unico conforeto ella dette sfogo alla repressa predilezione del suo cuore, a a tutta la tenerezza fatta di ricordi e di speranze che quell'[....] esistenza le ispirava. [p. 21 modifica] Valdo si sollazzava, sotto la sua sorveglianza nella grande ortaglia, innanzi alla fattoria, quando Ieronima, attratta dalla gioiosità del luminoso pomeriggio, avida di sole e d'aria lo prese dolcemente per mano e con atto quasi involontario uscì dal cancello nell'aperta campagna. Il [?...] verde dei germogli nuovi, intonandosi mitemente col grigio vaporoso e glauco degli ulivi sparsi per il piano, metteva un velo di tinte delicate sull’allegro paesaggio che i mandorli e i peschi fioriti spruzzavano a tratti di bianco e di rosa. Una fragranza amarognola si diffondeva nell’aria e gli usignuoli cantavano fra gli arbusti del biancospino carico di bottoni.

Ieronima e Valdo passavano di viottolo in viottolo, cogliendo qui un arum, lì un ranuncolo color d’oro. Ella nominava le piante, narrava qualche breve fiaba relativa al fiore onde fissarne il nome e l’immagine nella memoria del suo piccolo compagno, eccitandolo continuamente all’ammirazione delle forme, dei colori, dei profumi campestri, di quanto è di bello, di grande, di poetico nella natura.

— «Ti piace?» chiedeva ella sempre per avvezzarlo a riflettere.

— «Mi piace... sì, mi piace...», rispondeva il fanciullo un po' distratto, seguendo ora il volo d’una farfalla, ora il rapido corso d’un ruscello sul cui margine crescevano le piccole bellis bianche suffuse d’incarnato.

— «Quali sono le cose che ti danno maggior piacere, Valdo? pensa un pochino e rispondi... sono i tuoi balocchi, sono i libri, ifiori o le bellezze della creazione che ti circondano?..»

— «La musica e il cielo», disse il bambino con un’improvvisa serietà.

Ieronima si sentì trafiggere il cuore e lo strinse a sè, con impeto. Era così esile e sparuto!

Intanto, avevano infilato una strada solitaria fra i campi ed erano giunti ad una chiesetta di puro stile toscano che sorgeva a poca distanza da un villaggio. Un odore d’incenso venne loro incontro sulla porta: pareva che a quel mistico profumo, s’accoppiasse ancora il calore delle recenti preghiere.

Ieronima si volse al piccolo altare. Sopra le rozze palme di carta, in un tabernacolo del cinquecento, di legno corroso, un quadro della scuola del Rosselli metteva una vivida luce, una Santa sola, in adorazione, una figura purissima, rapita in una profonda estasi interna, come tutte le Sante degli antichi che hanno lo sguardo celestialmente distratto.

La fanciulla contemplò a lungo quella casta immagine su cui tanta spirituale bellezza era diffusa, poi, volgendosi ad una tavola singolare del trecento che ornava la parete destra, una fila di profeti sul fondo dorato, vide che sovra la porta v’era la cantorìa con un piccolo organo. [p. 22 modifica]

Nei tempi passati, quando Ieronima soleva villeggiare sull’Appennino, suo padre l’aveva addestrata con buon successo, a suonare quell’istrumento durante le funzioni sacre nelle chiesette di campagna. La vista dell’organo fu per lei una grande tentazione. Ella s’accertò che la porticina della cantorìa non era chiusa ma cedeva ad una lieve pressione, e senza riflettere più oltre, facendosi precedere dal suo piccolo compagno, salì per la ripida scaletta alla modesta tribuna e vinta da un fascino irresistibile, sedette sul vecchio scanno davanti alla tastiera ingiallita.

— «E chi tira su il mantice?» domandò l’intelligente bambino, cui la zia aveva spiegato una volta la costruzione dell’istrumento, «se fossi buono io!..» e tentava di sollevare la manovella.

— «No no, bimbo mio! ti farebbe male, aspettami qui tranquillo, che vado e torno...» E, scendendo rapidamente, uscì all’aperto, chiamò un contadinotto robusto che aveva visto ad oziare sopra un muricciuolo, lo invitò a salire con lei, gli mise la manovella in mano.

Accomodò quindi i registri, prese la «voce umana», e cominciò a suonare improvvisando. Un’invincibile commozione l’agitava: le lagrime, non più contenute, cadevano sui vecchi tasti sconnessi, e gli accordi ne uscivano gravi d’angoscia.

Non era più la sola «voce umana» ora; altri istrumenti più vibrati vi si aggiungevano, le viole, i flauti, il corno. Ieronima continuava a prendere nuovi registri e colla foga d’affetto e di dolore ond’era infiammato il suo cuore, l’onda sonora cresceva, incalzava, riempiva di sè la deserta chiesa facendo tremare i vetri delle finestre. Era il ripieno dell’organo in tutta la sua maestà. Mai, oh mai quell’antico istrumento s’era sentito ricercare così, nelle sue più intime fibre; una tale sofferenza umana non aveva mai turbato la solennità delle sue sacre armonie. Il fanciullo un po’ sorpreso, ma pieno d’ammirazione, ascoltava.

— «Io voglio diventare un musicista!..» proruppe egli finalmente.

— «Oh! caro, caro!» esclamò Ieronima, interrompendosi di scatto nella sua ispirazione,stringendolo con trasporto al suo petto anelante. «Diverrai come il nonno, tu, non è vero?»

— «Come il nonno! Suona ancora, suona ancora!..»

Ieronima pose di nuovo le mani sulla tastiera, ma adesso, il primo impeto doloroso era cessato, un senso di acquetamento le veniva da quello sfogo violentissimo e con esso il rimorso d’aver suonato con un’intenzione troppo terrena, d’aver profanato cogli accenti della passione quelle mura consacrate. Il suo pensiero s’inalzò ad una contemplazione musicale affatto mistica. Volle ricordarsi una fuga di Martini, ed essa le venne tutta di getto uscendo chiara, matematica dalla sua tenacissima memoria; passò quindi ad un preludio di Bach. Non era [p. 23 modifica] più triste adesso Ieronima; il dolore individuale si taceva nella sere- nità oggettiva dell’arte, ella aveva trovato ancora, dopo la lunga pri- vazione, quell’ intensa contentezza dello spirito che sembra assorbire tutte le facoltà dell'essere: ella sorrideva in un’ astrazione beata.

— « Se viene il sagrestano, ci sgrida tutti!» saltò su a dire il con- tadinotto, poco commosso da quel concerto, « la porticina è rimasta aperta a caso, perché l’ hanno chiamato in fretta, dopo le litanie... ma sono di guardia io!»

A nulla aveva pensato Ieronima fuori che a quella sua irresistibile passione di suonatrice. S’alzò come trasognata, mise una moneta in mano. al ragazzo, scese nella chiesa, s' inginocchiò davanti un altare e, tenendo Valdo per mano, gli fece recitare sommessamente alcune pre- ghiere; indi s'avviò di nuovo con lui, nell’ aperta campagna, ove can- tavano ancora gli usignuoli e le capinere fra le siepi, ove la brezza vivificante del pomeriggio scuoteva dagli alberi in fiore una piogge- rella di petali bianchi e rosa, mentre la luce calda del tramonto co- minciava a diffondersi sul pallido e immacolato azzurro del cielo.

Tornata a Firenze, nella tetra ed inospite casa di suo fratello, Ie- ronima si sentì ripiombare sul cuore una muta tristezza, ma subito i bambini reclamarono la sua vigile attenzione, ed essendo l'ora del de- sinare, ella si sedette amorosa a servirli, ad ammonirli che mangiassero ammodo.

— «Sandrino, tieni la forchetta più in su, e tu Roberto che sei grande, puoi prendere il bicchiere con una mano sola, adesso. An- diamo, Carluccio, non isbocconcellare il pane... Nena, come ti sei sbro- dolata ...», e via di seguito così. I piccini non rispondevano mai, i maggiori si lasciavano sfuggire qualche insolenza, a cui nè Serafina, nè Giordano badavano, e uno scoraggiamento profondo scendeva nell’ a- nimo della fanciulla.

Benché cresciuta in mezzo all’ Arte, Ieronima aveva l'istinto dell’ or- dine, non dell'ordine assoluto, pedante, intangibile che diviene talvolta il tiranno degli esseri positivi, ma di quello ch'è la proprietà e la bellezza morale della casa; vestiva con una certa disinvoltura geniale, ma portava sempre calzatura e guanti inappuntabili e da tutta la sua persona spirava sempre quella fragrante lindura che uno spirito raffinato esige, che dà anche l'abitudine della società più scelta. Era in lei un gusto innato e squisito delle cose, onde nella famiglia di Giordano tutto le urtava: la forma borghese dei mobili, già in parte sconnessi; i parati delle stanze a vivaci colori e fogliami; certe consuetudini radicate di gente volgare; [?...] l'educazione data ai bambini, la trascuratezza e l'inerzia di Serafina; perfino l'odore di [p. 24 modifica] soffritto che s’era diffuso nel piccolo appartamento del quale i muri stessi s’erano impregnati, che penetrava, inevitabile testimone della prosa giornaliera, anche nella sua cameretta costringendola a tenere il Pleyel chiuso, ravvolto nella sua custodia di tela per difenderlo da un contatto pericoloso.

E mai un sollievo, mai una distrazione a quella vita monotona: fuori della gita nel Pistoiese, Ieronima non aveva trovato il destro, in tutto l’anno, di concedersi un po’ di svago. Gli unici divertimenti che Giordano e Serafina amassero, erano certe rappresentazioni teatrali che ella aveva in orrore, come le operette e i drammi popolari. Quando v’andavano, una volta al mese, ella restava a casa, di sua elezione, a custodire i piccini, e dopo averli addormentati tutti, si ritirava nella sua cameretta a leggere, a ricordare, a piangere, spesso colle braccia protese e la testa appoggiata sul pianoforte come sul cuore d’una persona cara.

(Continua).

Giulia Turco Lazzari
(Jacopo Turco).


  1. Vedi N. 24 della Rivista per le Signorine, anno 1897. Questa novella aveva per motto: Picciol passo con picciol seguitando.