Il tesoro (Deledda)/Capitolo X

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Capitolo X

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Capitolo IX Capitolo XI

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X.


In casa Brindis gli avvenimenti incalzavano. Una notte di febbraio, che soffiava un vento tremendo, sollevando in alto e disperdendo la neve caduta nei giorni prima, Costanza fu svegliata di soprassalto da fortissimi colpi battuti al portone.

— Cicchedda — gridò sollevandosi sul letto.

— Cosa c’è? — domandò la ragazza svegliandosi spaventata.

— Senti? senti? Picchiano al portone.

Cicchedda ascoltò, ma non avendo alcuna voglia di levarsi, disse:

— È il vento.

— Ma che vento! Lèvati su e va sopra a svegliare zio Salvatore.

Ma l’altra, invasa anche da un po’ di paura, non volle muoversi; Costanza, adirata, imprecò, e poichè i colpi seguitavano più che mai, si gettò giù dal letto borbottando:

— Ah, non ti levi per questo? Per altro sì che ti saresti levata.

Cicchedda restò così colpita da questa osservazione che subito si alzò, rabbrividendo. Cosa Costanza voleva dire? Fu per chiederglielo, ma essa, semivestita, scalza e all’oscuro uscì e [p. 201 modifica] invece di salire da Salvatore, bussò alla porta di Alessio.

— Lèvati presto! Battono forte al portone.

— Chi? — gridò Alessio.

— Non lo so.

— Chi è? chi è? Aspettate! — gridò Costanza dal portico verso chi picchiava. La sua voce si smarrì nel vento, ma tosto cessarono i colpi, e un’altra voce rispose:

— Sono ioooo!

— Mi sembra la voce di Antoni Canu. — Cosa sarà accaduto, Dio mio? — disse ella con voce alterata.

Tremando di freddo, rientrò nella cameretta, dove Cicchedda accendeva il lume, e si infilò le scarpe.

— Cosa è? chi è? — domandò la servetta, ma ella non si degnò risponderle.

Intanto, al chiasso, Salvatore ed Agada si levavano; Alessio, in manica di camicia, attraversò il cortile pieno di neve e di fango, e aprì il portone. Era infatti Antoni, uno dei due servi pastori che guardavano i porci.

Il poveretto era più morto che vivo, e narrò in poche parole un avvenimento assai facile ad accadere nel nuorese, ma non perciò molto allegro. Era avvenuta una bardàna (una razzìa), cioè un gruppo di ladri, camuffati e tinti, nelle prime ore della notte s’erano introdotti nell’ovile, legando fortemente i pastori e rubando i [p. 202 modifica] porci grassi e belli. La notte era propizia, perchè la neve copriva le tracce dell’onesta comitiva, e il rumore del vento poi finiva di accomodar la faccenda.

Solo dopo molti sforzi i pastori s’erano liberati dai loro lacci, e Antoni era sceso nel paese mentre l’altro si era messo coraggiosamente dietro i ladri; ma la graziosa compagnia era già molto lontana.

Alessio e Salvatore, bianchi in viso per la rabbia e il dolore, giacchè il danno era enorme per loro, cominciarono a imprecare maledettamente. Senza indugio furono sellati i cavalli, e il pastore corse ad avvisare i carabinieri e la compagnia dei barraceli, di cui Salvatore e Alessio facevano parte; ma zio e nipote partirono subito, come due anime dannate, armati e incappucciati. Cicchedda volle uscir col lume fino al portone, ma il vento glielo spense, le sollevò le vesti e le strappò di testa il fazzoletto.

La notte era intensamente fredda, il cielo basso, di una bianchezza fosca e uniforme; una luce tenue e triste, emanata dalla neve, illuminava stranamente la via, e il vento furiosissimo imperversava.

I cavalli, spronati crudelmente, partirono con galoppo rapido e disperato, senza tuttavia produrre alcun rumore sulla neve della strada; Cicchedda richiuse il portone battendo i denti [p. 203 modifica] per l’emozione e il freddo. Quasi quasi piangeva, tanto partecipava al dolore di Alessio, tanto soffriva nel vederlo partire così, di notte, tra il vento e la neve, incontro a una misteriosa avventura.

Benchè il giorno fosse ancor molto lontano, le donne non pensarono di tornare a letto; erano spaventate, dolenti e sofferenti; Agada e Cicchedda specialmente, la prima perchè dalla vendita dei porci sperava di rimediare a molte cose, a molti fastidi che ora le tornavano dolorosamente al pensiero; la seconda perchè pensava sempre al dispiacere e allo strapazzo di Alessio.

Costanza, muta e rigida, sentiva pur essa un’emozione sgradevole e ansiosa, ma se non ci fosse stato di mezzo zio Salvatore e i suoi interessi avrebbe provato un gusto malvagio e segreto nel veder soffrire così evidentemente Cicchedda.

Zia Agada si accoccolò accanto al fuoco, bianca in volto e con gli occhi smarriti; il suo pensiero lavorava angosciosamente, e la visione dei ladri che tra la bufera e nel mistero delle montagne spingevano il branco dei porci e quella di Salvatore e d’Alessio che galoppavano contro al vento, nell’orrore della notte, esposti a tutti i pericoli, la impressionavano dolorosamente. Anche Cicchedda era dietro di lui e aveva paura, e un presentimento di cose angosciose e terribili le serrava la gola. A un tratto, affievolito dal [p. 204 modifica] rumore del vento, s’udì il pianto di Domenico come un gemito lontano.

— Domenico è sveglio! piange! — disse Agada sollevando il capo. Fu per alzarsi, ma Costanza disse:

— Vado io! — e corse.

Dopo un poco, siccome il pianto del bimbo non cessava, anche Cicchedda uscì; nel portico si fermò ad ascoltare, e sentì la voce di Costanza che cercava di chetare Domenico.

— Voglio Cicchedda.... voglio! — gridava il bimbo dimenandosi.

— Perchè la vuoi? — disse Costanza stizzita. — Non ci sono io, sciocco?

— Voglio Cicchedda, voglio Cicchedda! — ripetè Domenico fra i singhiozzi.

Cicchedda, nel suo dolore, sentì una tenerezza più che mai intensa per il piccino. Qualche tempo prima Costanza, per levarglielo dal letto, aveva fatto di tutto onde indurlo a dormire con lei o con zia Agada. Inutile. Domenico aveva fatto un chiasso infernale, e neppur ella, pregandolo di contentare Costanza, l’aveva vinto; nè si può dire la sua gioia segreta e l’ira della padroncina che cominciava ad involger nell’odio anche il bambino.

— Dormi! — gli disse ruvidamente, viste inutili le carezze. — Altrimenti chiamo i bobboi per rapirti. Non la senti la mamma dei venti, in cerca di bambini? Eh, apro la porta? [p. 205 modifica]

Domenico s’impaurì e pianse più piano, gemendo sconsolatamente e dicendo con disperazione:

— Cicchedda.... dov’è Cicchedda?...

Ella, fuori, ne ebbe una gran pietà, ma non entrò ancora perchè Costanza la imprecava.

— Se l’ha presa la madre dei venti, perch’è cattiva, perch’è maligna, miserabile che altra non è!...

C’era tant’odio e disprezzo in queste parole, con le quali forse voleva suggestionare il bimbo, che Cicchedda coi denti stretti per la rabbia, entrò.

— Sono qui! Sono qui, cuoricino mio! — esclamò, contenendosi e correndo dal piccino, che le porse le sue graziose braccine, e, attaccandosele tenacemente al collo, col viso illuminato da un sorriso, si calmò sull’istante. Questa prova d’affetto calmò anche lei. Disse dolcemente:

— Dormi, dormi, cuoricino mio!

E Domenico ritirò le braccia e chiuse gli occhi.

Costanza s’allontanò dal letto piena di stizza; avrebbe volentieri strozzata la ragazza e dato un paio di schiaffi a Domenico, ma si contentò di ritornare in cucina borbottando. Zia Agada però, che diceva il Rosario, con le visioni dei ladri, e di suo marito, e di Alessio, e dei barracelli, e dei carabinieri, non le diede retta.

Domenico s’addormentò subito, e Cicchedda, [p. 206 modifica] col braccio stretto intorno al suo corpicino, semisdraiata sul letto, si mise a piangere silenziosamente, con un gran freddo per tutta la persona. Seguiva Alessio nella pericolosa corsa notturna, e visioni spaventose la tormentavano; così fu colta da una specie di sopore gelido e doloroso; in una sensazione confusa e spasmodica le pareva che il vento volesse portarla via davvero, come Costanza aveva detto, e si aggrappava disperatamente al bimbo che le sembrava un masso di neve ghiacciata; e la voce odiata di Costanza sibilava, incitando il vento alla sua attrazione vertiginosa.... E giù, in uno sfondo nebbioso, Alessio cadeva da cavallo, e spari e tuoni rumoreggiavano.

Invece Alessio e zio Salvatore stavano in quell’ora ben fermi in sella, benchè i cavalli salissero faticosamente la montagna. Il vento diventava sempre più furioso, ma più si saliva, più una strana luce bianca orizzontava i due cavalieri. Anche sotto gli elci, che il vento urlando scuoteva, il buio non era profondo; e il cammino si rendeva meno difficile e pericoloso, essendo le chine meno scoscese e meno alta la neve.

I due viandanti tacevano; solo di tratto in tratto zio Salvatore, tutto bagnato per la neve che cadeva dagli elci, sbuffava ed imprecava.

Alessio, per una divinazione assai facile in simili casi, sapeva press’a poco chi erano i ladri della bardàna e la direzione che avevano [p. 207 modifica] preso; e fremeva di rabbia, non tanto per la perdita quanto per l’affronto subito; ma conservava un mirabile sangue freddo, freddissimo anzi, con tanta neve che gli piombava addosso, e col vento che a momenti, battendogli di fronte, faceva fermare il cavallo.

Salvatore si sentiva meno sicuro; non aveva paura, certo, ma meno svelto e freddo di Alessio, soffriva della faticosa cavalcata, e i pensieri gli si intorbidivano; a momenti quel bagliore bianco ed uniforme che sfumava ogni cosa in un’allucinazione strana e suggestiva, gli dava una vertigine pericolosa. Solo per un miracolo d’equilibrio non piombava a capo fitto sulla neve; ma più d’una volta rise fra sè, d’un riso caratteristico, causatogli dalla percezione della figura ridicola che avrebbe fatto cadendo, e quasi si trattasse d’un’altra persona, mormorò:

— Aspetta! Aspetta! Ora ci siamo!

E avanti, avanti, i due generosi cavalli forti e pazienti, con la testa atteggiata ad una rassegnazione, salivano, evitando con mirabile istinto ogni pericolo, ritrovando la via sotto la neve, fra i cespugli che il vento liberava dal folto mantello bianco, fra le rupi cangiate in immensi blocchi di marmo, sotto i boschi coperti da grandi merletti di cui il vento disfaceva ad ogni soffio l’incanto.

Per molto tempo camminarono così; zio Salvatore aveva esaurito tutte le sue imprecazioni, e [p. 208 modifica] non aveva più il coraggio di ridere vedendosi far dei capitomboli, ma sudava come se fosse in un meriggio di agosto, e gli venivano davvero le vertigini. Non distingueva più nulla in tutta quella vanescente visione bianca; solo la macchia nera di Alessio che gli apriva la strada; una macchia nera che si allungava, si stendeva, sfumava in grigio e spariva a intervalli in quel biancore vertiginoso.

Sibili acuti, urli, gemiti, scrosci, rumori di cascate, di torrenti, di voci umane e infernali vibravano per la montagna; e tutto, cielo, terra, monti ed alberi si confondevano in una nuvola bianca, in un soffio potente e misterioso.

Ma un forte abbaiare di cani, spinto dal vento, ebbe il potere di disfare un poco il malefizio; zio Salvatore chiuse gli occhi, e riaprendoli distinse un muro coperto di neve, vide un foro luminoso e s’accorse che erano giunti all’ovile. I cani abbaiavano furiosamente; Alessio gettò un grido e tacquero.

Nella capanna, circondata di neve e addossata a una rupe, c’era un ragazzo, fratello d’uno dei pastori, ancora mezzo inebetito per lo spavento. Era un ragazzo sudicio, col volto così nero, dalle labbra grosse e il naso camuso che sembrava un moro; quella notte poi, nello stato in cui si trovava, alla luce del fuoco acceso sulle pietre, era davvero spaventoso. Sembrava che il ragazzo [p. 209 modifica] avesse relazione coi ladri; Alessio guardò il fanciullo acutamente.

— Non è tornato Sidòre? — domandò.

— No — rispose il ragazzo.

— Come andò la faccenda?

Il fanciullo raccontò, con parole tronche e quasi singhiozzando.

— A che ora tu sei venuto? — gli chiese Alessio duramente.

— Ieri, alle tre.

— Non hai incontrato nessuno? — domandò l’altro, sempre con accento duro. Il ragazzo sollevò gli occhi, quasi attratti dall’acuto sguardo di Alessio, e non rispose.

— Chi hai incontrato? — gridò allora Alessio — forse Scoppetta?

Era questo il nome del bandito, che un giorno zio Salvatore e il nipote avevano incontrato nel salire all’ovile; si aggirava spesso per quel tratto di montagna, fra la chiesetta e il monte Palas de Casteddu, e aveva l’abitudine anche di recarsi nell’ovile dei Brindis e dormirvi. I pastori lo trattavano bene, egli si mostrava amico, ma ciò nonostante i dubbi d’Alessio eran subito caduti su lui.

— Sì — rispose timidamente il ragazzo, e il padrone fiammeggiò negli occhi e alzò un braccio in atto di minaccia.

— Oh! — gridò — che cosa ti ha detto?

— A me? nulla.... — tentò di negare il [p. 210 modifica] fanciullo, ma l’altro lo fulminò con lo sguardo e con la voce.

— Cosa ti ha detto? Rispondi la verità, altrimenti ti prendo a schiaffi, che non vedi dove vai a finire...

Allora il ragazzo confessò. Sì, Scoppetta gli aveva chiesto se il padrone saliva quella sera all’ovile, se i pastori sarebbero rimasti soli, se nessuno sarebbe venuto da Nuoro in quel giorno.

E il ragazzo aveva risposto tutto ciò che sapeva.

— Lo vedete? — gridava Alessio rivolto allo zio — lo dicevo io ch’era lui, Scoppetta, anima vile, anima dannata, vigliacco, miserabile! Su diaulu sa terra chi ti reghet! Ma ora la farai con me, anima vile! E questo animale qui — e prese il ragazzo per il ciuffo — questa bestiolina nera e schifosa che non diceva nulla! Perchè non hai avvertito tuo fratello, perchè non ti sei aperto nelle costole, miserabile che altro non sei, ladruncolo vile? Oh che ti hanno promesso di farti parte della bardàna, figlio di donna.... che se ti piglio, ti metto il muso sul fuoco?

E inferocito, accecato dall’ira, accennava ad eseguir la minaccia, e l’avrebbe eseguita se Salvatore non avesse protetto il ragazzo che piangeva disperatamente. Alessio continuò a urlare improperi contro il bandito ed il fanciullo, finchè arrivarono i barracelli e due carabinieri guidati da Antonio; risalirono a cavallo dopo aver interrogato il ragazzo, più morto che vivo; [p. 211 modifica] e dietro gli indizi dati dal pastore, che diceva d’aver riconosciuto fra i ladri qualche paesano di Oliena, decisero subito qual via pigliare.

Il tempo incalzava; i cavalli furono spronati a sangue, ed Alessio aprì la strada. Ora discendevano; non si trattava di ritrovar la traccia dei ladri, cosa impossibile per la neve caduta nelle prime ore della notte, ma di attraversar loro la via, che secondo l’istinto dei barracelli, gente avvezza a simili operazioni, doveva essere fra le montagne di Nuoro e quelle di Oliena.

Scendevano quindi per il versante sud-est dell’Orthobene e la comitiva, composta di gente forte e coraggiosa, armata di tutto punto, era più che mai epica e bizzarra, sullo sfondo della gelida notte nivale e del paesaggio misterioso.

Verso l’alba il vento cessò, e il cielo si fece un po’ chiaro e diafano, ma il freddo diventò più acuto. Quando ad oriente, al disopra del mare, sulle vette di monte Pizzinnu, lo strano monte inesplorato, rifugio di banditi e di leggende, apparve una linea di cielo limpido, verdognolo, d’una indicibile tristezza, nunzio dell’aurora, giù ad occidente, verso il monte Gonare, l’orizzonte si aprì un poco, quasi per riflesso, e comparve la luna al tramonto, una luna bianca, la cui luce, spandendosi sul solenne paesaggio nevoso, sembrò uno sguardo di sovrumana melanconia. E fu un silenzio immenso, ineffabile, una fantasmagoria di boschi, rupi, picchi, [p. 212 modifica] vallate rese marmoree da una maga capricciosa e strana, fino all’orizzonte ove le ultime montagne svanivano grigie e fredde.

In questa luce vaga, bianca e smorta, il viso di Alessio apparve d’un pallore fosco e livido; i cavalli affondavano fino a metà zampa nella neve; però ora si distinguevano i pericoli, e Salvatore Brindis, assonnato, malconcio e di pessimo umore, poteva evitarli.

La luce fredda del giorno, diradando a poco a poco il profondo velario delle nubi vinse il bagliore della luna, che tramontava come una piccola nuvola sbiadita, e Alessio, arrivato il primo sulla pianura di Oliena, scorse col suo acuto sguardo di falco la figura lontana d’un uomo.

— Ecco Sidòre, eccolo! — gridò.

Era infatti il pastore partito coraggiosamente dietro i ladri; ritornava in uno stato miserabile, fradicio fino alle ossa; camminava a stento: ma quando vide il padrone sorrise fieramente.

— Ah — disse con semplicità — temevo che avreste preso altra via!

— Ebbene? — domandò Alessio chinandosi sulla sella.

— È questa, proprio questa la via! Guai, guai se questa volta non fate iscaddura! (Esempio che desti spavento e timore) — disse il pastore, e a sua volta cominciò a imprecare orrendamente. [p. 213 modifica]

Fu circondato da tutta la comitiva, e li in mezzo alla pianura bianca, coi piedi affondati nella neve, coi capelli bagnati appiccicati alla fronte ed al viso paonazzo, con poche parole e pochi gesti energici narrò come erano andate le faccende di quella notte. «Sì, aveva inseguito e seguito i ladri; giusto, giusto per quella via erano passati; andavano abbastanza in fretta, ma non tanto come volevano, per causa della neve. E lui dietro. Voleva vedere dove andavano a finire, perchè certamente in qualche luogo si sarebbero fermati, e l’aveva veduto, perdio! Erano laggiù, in un ovile di pastori olianesi — e accennò alla sua sinistra, dietro un’altura lontana — ed egli correva verso Oliena per avvisare i carabinieri e mandar gente a Nuoro, quando, per fortuna, aveva incontrato il padrone.»

— Presto, presto, avanti! — conchiuse.

Alessio se lo prese in groppa e la comitiva s’avviò di nuovo; parlavano tutti animatamente, e il pastore additava la traccia dei ladri, che si scorgeva chiaramente nella pianura, dove la neve era scarsa.

La luce cresceva; le montagne d’Oliena apparivano come una muraglia d’alabastro sul pallore azzurrognolo del cielo.

Un quarto d’ora dopo l’ovile fu in vista, ma contrariamente alle affermazioni di Sidore, fu trovato deserto; la capanna cadeva in rovina, nessuno si vedeva intorno. I ladri, forse [p. 214 modifica] avvisati, forse accortisi d’esser inseguiti, avevan ripreso la corsa verso i salti d’Orgosolo.

L’inseguimento durò quasi tutta la giornata; buona parte dei porci, sbandati o sfuggiti, fu ritrovata per via, ma Alessio volle proseguire. Era livido, divorato da una rabbia inesorabile, e gli stessi patimenti sofferti in quella strana caccia faticosa lo spronavano alla vendetta.

Verso sera ricominciò a nevicare. Erano giunti quasi sotto il villaggio d’Orgosolo, in una vallicella alpestre e selvaggia; grandissime rocce a picco coperte di neve, e intricate macchie, fra cui riusciva impossibile passar a cavallo, arrestarono la comitiva. Furono rinvenuti gli ultimi porci, e Alessio ed un carabiniere, arrampicatisi sulle rocce, videro tre o quattro individui sbandarsi fra le macchie, e fecero fuoco. Le fucilate echeggiarono acute; in lontananza si ripercossero sordamente, più volte, perdendosi sonore nel silenzio della montagna per ignote gole.

A piedi, affondando nella neve, Alessio, i carabinieri e due barracelli proseguirono la caccia, ma poco dopo vi fu una sorpresa. Fu fatto fuoco alle loro spalle, e precisamente su Alessio; la palla lo ferì leggermente alla gamba sinistra, e il sangue colorò la neve. Egli non emise un gemito, tanto più che sulle prime non sentì dolore alcuno, ma trasportato a braccia fino al cavallo, volle subito ritornare verso Nuoro, [p. 215 modifica] benchè zio Salvatore lo scongiurasse di pernottare ad Orgosolo per curare subito la ferita.

La comitiva così andò disgiunta; i pastori riunirono i porci e ripresero la via dell’Orthobene, Alessio e lo zio discesero allo stradale e i carabinieri coi barracelli cercarono ancora i ladri, ma inutilmente. Più tardi si seppe che il bandito era stato ferito dalla prima fucilata d’Alessio, e forse era stato lui a ricambiargliela; avendo dopo questo fatto eseguito altre prodezze, diventò famoso, e gli fu posta una taglia di tremila lire.

Zio e nipote giunsero a Nuoro verso la mezzanotte.

Le donne avevan trascorso una giornata triste e angosciosa; al sopraggiunger della notte l’ansia si era resa più viva e grave; zia Agada piangeva, col volto bianco come cenere, e Cicchedda usciva spesso sulla strada, sussultando ad ogni passo di cavallo, ad ogni voce.

Cosa accadeva in lontananza, cosa mai accadeva? Perchè non ritornavano, perchè non mandavano notizie?

Presentimenti paurosi le serravano la gola; avrebbe voluto correre, andar dietro Alessio, vederlo, esser certa di quanto gli accadeva, fosse pure una triste cosa. Meglio la certezza di un male definito che l’incertezza di un male misterioso, ingrandito dall’ignoto.

Sparsasi la notizia per la città, molte persone eran venute ad informarsi e ciascuna esprimeva [p. 216 modifica] il suo parere, facendo pronostici ed augurii. Una seccatura enorme, tanto più che in qualche persona Costanza intravedeva benissimo una certa segreta compiacenza, un certo desiderio pio che la disgrazia divenisse più completa. Persino comare Franzisca non aveva mancato di ficcar il naso nella faccenda, rimanendo più di un’ora chiacchierando e abbrustolendosi davanti al focolare. Chiedeva con malignità a Cicchedda:

— Eh, come sei gialla; cosa hai?

— Oh, cosa ho? Oh, volete che rida oggi?

Ma andandosene comare Franzisca strizzò un occhio, e additando Cicchedda, disse piano a Costanza:

— Eh, neppur tu sei così addolorata!

E Costanza pensò che la donnicciuola doveva saperla lunga.

Venne anche Cosimo Bancu in persona, con le mani sprofondate nelle tasche del soprabito e i pantaloni ripiegati su gli stivali pieni di fango e di neve.

Zia Agada voleva riceverlo nella stanza buona, ma egli restò ritto in cucina, informandosi della faccenda, e se ne andò subito via. Agada e Costanza, tutte altere per questa visita, cominciarono a parlare delle Bancu e della fidanzata del giovine.

— Quelle sì che son fortunate, quelle sì che stanno bene, quelle sì che son felici.... — [p. 217 modifica] cominciò Costanza, sospirando, con mal celata invidia; e non la finiva più.

Quando scoccò il coprifuoco Costanza disse: — Zia, andate a letto. Forse non ritornano ancora: andate; resterò io, se ritornano o mandano notizie vi sveglierò.

Ma Agada non volle neppur sentirla: come la si riteneva capace di dormire? Mandarono adunque a letto solo Cicchedda e il bambino; ma la fanciulla, messo Domenico a letto, si sedette, avvolse le mani nel grembiale, e chinata la testa sulle coltri, chiuse gli occhi con suprema stanchezza. Si lasciò vincere da un sonno leggero e febbrile, dal quale la destarono di soprassalto forti colpi battuti al portone; si sollevò spaventata, coi piedi e le mani fredde e indolenzite, mentre dal lume spentosi per mancanza d’olio, il lucignolo rosso fumava con odore sgradevole. Con dolore si portò le mani alla testa, e fu per uscire; ma ricordandosi che le padrone la credevano coricata, si fermò tremando vicino alla porta. Sentì che dei cavalli entravano nel cortile, ma nessuna voce; che era avvenuto? chi ritornava? perchè tacevano? No, non poteva restar là rinchiusa; aprì la porta e guardò: vide solo alla luce rossastra di una fiaccola le ombre dei cavalli agitarsi nel cortile. E nessuno parlava ancora.

Ma presto la colpì la voce spaventata e desolata di Agada. [p. 218 modifica]

— Alessio! tu sei ferito!

Alessio ferito? Cicchedda si slanciò nel corlile, l’attraversò correndo ed entrò in cucina dietro Costanza. Ma che le importava di Costanza o degli altri se Alessio era ferito? Poteva ricordarsi d’altri che di lui? Sulle prime lo vide confusamente, con una gamba fasciata di bende macchiate di sangue; poi lo guardò in viso; viso grigio e disfatto. Ed emise un grido.

Egli sentì tant’angoscia in questo grido che ne sussultò nelle più intime fibre; s’intenerì, e dimenticando anch’egli che Costanza era presente, disse a Cicchedda con dolcezza:

— Non è nulla, non è nulla: non temere!...

— Cos’ha quella matta? Perchè grida così? — domandò Salvatore Brindis, levandosi il fucile. E imitò con beffe la voce di Alessio: — Non è nulla, non è nulla, non temere, gioia mia; è un rovo che ci ha graffiato le gambe. — E rise.

Dalla gaiezza di lui Agada capì che s’era fatta buona impresa, e il cuore le si alleggerì; ma il viso di Costanza si fece buio, e fu tale la sensazione odiosa che provò nel veder confermati i suoi dubbi, che le ginocchia le tremarono.

— C’era gran bisogno che li fossi levata! — gridò a Cicchedda con ironia. — Va, e rimetti i cavalli nella stalla!

L’altra non rispose, prese il lume, uscì, e pianse amare lagrime tirando per la briglia la cavalla d’Alessio. [p. 219 modifica]

Sentiva d’essersi tradita, e se la voce e le parole buone di lui raddolcivano come balsamo la sua angoscia, ora un nuovo strazio la torturava, pensando che Costanza e i padroni s’erano accorti. Che sarebbe avvenuto di lei? E piangeva, e desiderava di cader ai piedi di lui, e dirgli con le lagrime e i baci, l’ineffabile dolore, l’ansia provata in quella interminabile e tremenda giornata. Perchè non poteva farlo? Chi glielo proibiva, chi?

— Questo, dunque, il mio posto? — pensò con dolorosa umiliazione, togliendo la briglia alla cavalla, e attaccandola alla greppia. Pure, vista la stanca bestia ficcare avidamente il muso fra la paglia, pensò con tenerezza che Alessio l’aveva cavalcata, che aveva accompagnato e trasportato Alessio, e liberandola dalla sella la carezzò sul dorso fumante.

Rientrando in cucina vide che Salvatore voleva recarsi in cerca di un medico; ma Alessio lo tratteneva:

— Perchè? Sto forse per morire? Lasciate il medico a domattina: per ora mi accomoderà zia Agada....

E benchè soffrisse acuti dolori, si ritirò zoppicando, stringendo i denti per trattenere i gemiti; la zia gli andò dietro, e aiutata da Costanza gli curò la ferita con un unguento composto da lei con semi di lino, olio e tuorli d’uova, buono per ferite d’arma da fuoco. Cicchedda [p. 220 modifica] restò in cucina. Salvatore mangiava, prendendo il cibo da un canestro di pane e vivande posto sul davanti del focolare; le sue vesti fumavano al calore del fuoco e il viso gli si rifaceva sanguigno.

— Li avete ritrovati tutti? — arrischiò timidamente Cicchedda.

— Cosa abbiamo ritrovati tutti?

— I porci....

— Sicuramente.

— Ah sì? E dove? e come? — domandò ella con gli occhi luminosi, che dovette abbassare perchè Salvatore, fissandola acutamente, e in modo assai strano, invece di risponderle a proposito, le disse:

— E perchè ti sei messa a gridare vedendo Alessio? Perchè non hai gridato vedendo me?

Intanto divorava: ella esclamò:

— Oh, bella! Perch’egli è ferito e voi no. Eh, non avete neppur voglia di mangiare!...

— Che tu non possa mangiar più! Ferito! Ferito! Ferito un corno! È una graffiatura, e tu quasi morivi di spavento, figlia del diavolo! A me non la racconti giusta!

E continuava a guardarla con insistenza dentro gli occhi, dentro l’anima. Ella ne tremò internamente, ma rise e disse:

— Che matto voi siete!

Una strana melanconia apparve sul volto e nei torvi occhi di Salvatore; disse scuotendo la testa: [p. 221 modifica]

— Cicchedda, Cicchedda! Io sono matto, io sono vecchio, e quanto parlo è mal detto. Così almeno dice zia Agada, mia moglie, che il diavolo la scortichi. Buona donna del resto; e tu devi ascoltare tutto ciò che essa ti avverte, perchè è per il tuo bene. Ragazza, fa da savia! Noi ti amiamo come figliuola, e vorremmo vederli sulla buona via. Ascolta i consigli dei vecchi; non dar retta ai tentatori.

— Ma che state dicendo? Io non ho tentatori.... — rispos'ella a fior di labbro, curvando la testa.

Il padrone continuò a farle la predica, sempre mangiando e bevendo: a un tratto la vide chinar vieppiù la fronte, fino a nasconder il viso su le braccia intrecciate, e credette d’averla annoiata; ma ben presto s’accorse che ella piangeva. Perchè si turbò come un bambino? Respinse il canestro e stette a guardarla trasognato.

Perchè piangeva quella sciocca? L’aveva offesa o toccata nel vivo forse?

Continuò a fissarla acutamente, con un’ombra fosca sul viso. Ella piangeva piano piano, amaramente, ma non era più il suo pianto sciocco ed infantile d’una volta. Era il pianto di chi soffre profondamente, e Salvatore conosceva troppo bene il mondo per non accorgersene. Così ripiegata, nella penombra giallastra della cucina, ella mostrava le larghe e belle spalle; e il velluto rosso della pala, nel lieve moto [p. 222 modifica] dei singhiozzi, tremava e splendeva; sul suo capo, al di sopra del focolare, la cannitta dondolava con sottile scricchiolio.

Salvatore guardò lassù e proruppe:

— Cosa diavolo hai tu, ragazza? Se ascoltassi i consigli di chi li vuol bene non piangeresti mai.

Ella sollevò improvvisamente e fieramente la faccia, rossa per il pianto, e aprì la bocca per parlare, ma sentì Agada e Costanza rientrare, ed ebbe solo un fremito sulle labbra.

Quando tutti furono a letto — quella notte Salvatore non si lavò neanche i piedi — Agada domandò malignamente:

— Cosa hai detto a Cicchedda che piangeva?

Egli, che si dimenava e sbuffava più del solito, non trovando una posizione adatta dopo gli strapazzi di quel giorno maledetto, non rispose.

— Lasciami star la testa — disse poi. — Se oggi piange, domani riderà.

Parve addormentarsi, ma a un tratto ricominciò a torcersi, a sospirare.

— Se non dormi — fece — ho da dirti una cosa. Faresti bene a sorvegliare quella ragazza! — e sommessamente le parlò dei suoi sospetti.

Agada, mezz’addormentata, si meravigliò altamente ch’egli, dopo una giornata simile, si preoccupasse di certe cose, e le parve una sciocchezza occuparsi di Cicchedda, mentre si avevano ben altri grattacapi! [p. 223 modifica]

— Dormi! — disse con voce velata, e non udì neppure le ultime parole del marito.

L’indomani Alessio non si levò. Aveva trascorso una notte orrenda, con spasimi alla gamba e un principio di febbre, che gli aveva reso il sonno penoso, affannoso, pieno delle impressioni e delle visioni della giornata, ma trasformate in sogni confusi e mostruosi. Tutta la notte aveva vagamente atteso Cicchedda, desiderandola vicina, ma sentendo che neppur la sua presenza l’avrebbe sollevato: essa però non era venuta, sicura che Costanza la sorvegliava. All’alba, udendo un passo nel cortile, chiamò:

— Cicchedda!

Invece entrò Costanza; ella gli toccò la fronte con la punta delle dita, e guardandolo affettuosamente gli chiese con premura:

— Che vuoi? Come hai passato la notte? Cicchedda è andata per il medico. Ora ti porterò un po’ di caffè.

Ma egli non voleva nè medico nè caffè: voleva vedere Cicchedda, e disse:

— Quando Domenico si sveglia, fammelo portare da Cicchedda....

La sua voce era lamentosa; il volto affilato dalle sofferenze della notte, e gli occhi smorti, nella prima grigia luce dell’alba invernale, apparivano quasi vinti da lunga malattia.

Costanza uscì pensando come mai quella [p. 224 modifica] strega di olianese lo avesse ammaliato, e più che mai decise di sorvegliare.

In tutti quei giorni fu un continuo via vai di gente, perchè s’era sparsa persino la voce che Alessio era stato ucciso.

I curiosi interrogavano Cicchedda per via, ma essa, triste e seria, rifiutava di rispondere. Salvatore, affaccendato e confuso, chiamato in tribunale per deporre nella faccenda della bardàna, non ebbe tempo di ricordarsi della ragazza, ed anzi parve dimenticarla.

Alessio restò sei giorni a letto, curato affettuosamente; poi si levò, ma rimase in camera, senza muoversi, seduto davanti ad un braciere di fuoco.

Domenico lo divagava, ma ciò non bastava; si sentiva cupamente triste e nervoso, e la sua debolezza fisica lo irritava talmente, che spesso faceva per alzarsi, slanciarsi sulla sua cavalla, e riprendere gli affari.

Dopo la neve ritornò un sole quasi primaverile, che rendeva il cielo intenso e profondo, ma nella camera un po’ umida e oscura regnavano il freddo e la tristezza, e il fuoco pareva spento al lontano riflesso di quel cielo tiepido e limpido. Alessio non doveva muoversi; e non avvezzo alla contemplazione soffriva orrendamente, e non sapeva con chi sfogarsi.

Cicchedda entrava ed usciva ogni tanto, recandogli il fuoco e da mangiare e da bere, ma [p. 225 modifica] egli la guardava con occhio profondamente indifferente, e non la curava affatto.

Nella sua perduta adorazione ella credeva che egli agisse così per prudenza, e lo guardava timidamente, ringraziandolo della sua stessa freddezza.

Intanto egli, col suo intuito fino di malato nervoso, andava accorgendosi di due cose sin allora sfuggitegli: prima di tutto dell’attaccamento di Domenico per Cicchedda. Ne provò quasi disgusto e dispiacere, perchè gli parve che se la ragazza fosse tolta al bimbo, questo ne avrebbe sofferto.

Pareva che oramai tutti gli altri personaggi della casa, neppur suo padre, contassero nulla per Domenico, più che mai viziato e grazioso. Era d’un egoismo formidabile e di una prepotenza irresistibile: strillava e piangeva spesso fino ad esaurire tutte le sue piccole forze, e solo Cicchedda riusciva a dominarlo.

L’altra scoperta disgustosa che Alessio fece, fu lo spionaggio assiduo e vile di sua cugina; benchè ne fosse edotto non credeva che le cose arrivassero a tal punto; vedeva, s’accorgeva, sentiva quando Costanza spiava, invisibile, dietro la porta o la finestra; quando piombava improvvisamente nella camera capiva le acri allusioni che ella rivolgeva a Cicchedda, e intuiva tutte le persecuzioni a cui la ragazza era fatta segno.

Ne provò sulle prime una collera sottile e [p. 226 modifica] nascosta, che poi si fece acuta ed acerba. Oh che cercava intorno a lui quella sciocca? Perchè lo spiava? Non poteva egli fare quel che gli pareva e piaceva? Si sentiva avvilito, e si domandava che avrebbe fatto quel sacco di fiele di sua cugina, se avesse scoperto quanto cercava di scoprire. Avrebbe forse suscitato uno scandalo, o forse gli avrebbe comandato di non fare quel che gli pareva e piaceva? Comandare? A chi? A lui?

Si mise a rider fra sè acerbamente. Pensò che Costanza poteva scacciar Cicchedda. Ma che forse egli non poteva vederla anche fuori di quella casa? Ma poteva andarsene magari lui, se continuavano a seccarlo! Non era già a peso loro, anzi il diavolo sapeva se era egli a mangiar del loro, o essi ad usufruir del suo!

— E come, perdio! — Si ricordò allora dei consigli e delle minacce di zio Salvatore, quel giorno che salivano sui monti ed avevano incontrato quel vigliacco di Scoppetta. Ma egli s’infischiava altissimamente di quel vecchio matto di zio Brindis, e di tutta la parentela.

Tornò a rider fra sè insensatamente, e provando un nervoso istinto di antipatia verso Costanza, che forse lo spiava d’accordo con quella vecchia strega di zia Agada e con quel vecchio sciocco di zio Salvatore, ebbe un vivo desiderio di far imprudenti dispetti. Cominciò a parlar [p. 227 modifica] male della cugina con Cicchedda che ne restò contenta e spaventata.

Per la prima volta Costanza compatì, benchè umiliata; ma alla seconda capì la manovra di Alessio, e uscì in cucina piangendo di rabbia e di umiliazione. Quel giorno in cucina ci fu l’inferno per Cicchedda. La povera ragazza ingoiò il veleno a grandi sorsi, ma tacque per paura, per il presentimento di disgrazie e dolori più acuti. Non pensava di andarsene, ed anzi il timore di venir scacciata l’angosciava: temeva che allontanandosi, Alessio l’avrebbe trascurata, forse dimenticata; ed ella voleva restargli vicino, anche a costo dei più grandi ed umilianti sacrifizi.

Ma quel giorno anche Agada, che talvolta la difendeva contro le invettive di Costanza, la strapazzò, e le fece capire che l’avrebbe mandata via.

Ed essa, no, non voleva, non voleva andar via, non voleva. Oh, perchè Alessio si comportava così? Perchè non usava prudenza? E intanto, spinta dal suo dolore, fu anch’essa imprudente.

Quando entrò dopo cena per prender Domenico, lo trovò addormentato sulla sua seggiolina bassa, con la testina appoggiata al ginocchio del padre che meditava più che mai cupo, benchè il medico gli avesse permesso d’uscire l’indomani. [p. 228 modifica]

Chinandosi sul bimbo ella disse con voce bassa e supplichevole:

— Perchè fai così, Alessio? Perchè le parli male? Perciò se la prende con me, oh, se sapessi come!...

Le lagrime le velarono gli occhi e la voce le tremò: egli ne sentì molto dolore, molta indignazione, e disse a denti stretti:

— Vorrei prenderla a schiaffi!

— Non farlo, non farlo, abbi carità di me! — gemè ella, e ancora china sollevò verso di lui gli occhi pieni di lagrime, con tale dolore e umiliazione e passione, ch’egli sentì aumentare il suo odio per la cugina.

In quello stesso punto sentì che Costanza spiava dietro la porta, e pensò che sarebbe schiantata dalla rabbia se finalmente si fosse accertata di quanto cercava sapere.

— Che t’importa di quella sciocca? — gridò, e stese le mani, prese quasi violentemente il capo di Cicchedda e la baciò. Allora Costanza, tremando per l’ira, con gli occhi velati, spinse la porta ed entrò.