Istoria del Concilio tridentino/Libro quarto/Capitolo III

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Libro quarto - Capitolo III (ottobre - novembre 1551)

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CAPITOLO III

(ottobre-novembre 1551).

[Sessione decimaterza: decreto dogmatico e canoni sull'eucaristia; decreto di riforma della giurisdizione episcopale, di dilazione di alcuni articoli sull'eucaristia. — Tenore del salvocondotto pei teologi protestanti. — Ricevimento degli inviati dell’elettore di Brandeburgo. — Risposta alla protesta di Enrico II. — Critiche dei protestanti ai decreti di questa sessione ed alla forma del salvocondotto. — In congregazione si fissano gli articoli della penitenza e dell’estrema unzione e quindici articoli di riforma degli abusi. — Nuovi tentativi del papa per trarre gli svizzeri al concilio. — Critica del metodo seguito dai teologi nella discussione. — Il decreto dogmatico della penitenza ed i relativi canoni. — Obbiezioni dei teologi di Lovanio e di Colonia sul potere di riservare i casi e sulle parole quaecumque ligaveritis; dei francescani sulla materia e parti della penitenza e sul significato dell’assoluzione; del Pelargo sull’istituzione di questo sacramento. — Fermo contegno del legato papale. — Decreto dogmatico e canoni sull’estrema unzione.]

Venuto il giorno 11 ottobre, secondo il modo usato s’andò alla chiesa: cantò la messa il vescovo di Maiorica, il sermone fu fatto dall’arcivescovo di Torre, tutto in encomio del sacramento dell’eucaristia: e fatte le altre solite ceremonie, dal vescovo celebrante fu letto il decreto della dottrina. La sostanza del quale fu: che la sinodo, congregata per espor l’antica fede e rimediar agl’incomodi causati dalle sette, sin dal principio ebbe desiderio di estirpar il loglio seminato in materia della eucaristia. Per il che, insegnando la dottrina cattolica sempre creduta dalla Chiesa, proibisce a tutti li fedeli per l’avvenire di creder, insegnare o predicar altrimente di quanto è esplicato. Prima, insegna che nell’eucaristia dopo la consecrazione si contien Cristo vera, real e sustanzialmente [p. 116 modifica] sotto le apparenzie delle cose sensibili, non repugnando che egli sia in cielo nel modo di esser naturale, e nondimeno presente in suasustanzia in molti altri luochi sacramentalmente, con un modo di essere che si crede per fede e appena si può esprimer con parole. Imperciocché tutti li antichi hanno professato Cristo aver instituito questo sacramento nell’ultima cena, quando dopo la benedizione del pane e del vino disse di dare il suo corpo e il suo sangue con chiare e manifeste parole, le quali avendo apertissima significazione, è gran scelleratezza torcerle a figure immaginarie, negando la veritá della carne e del sangue di Cristo. Insegna appresso che Cristo ha instituito questo sacramento in memoria di sé, ordinando che fosse ricevuto come spiritual cibo dell’anima e come medicina per le colpe quotidiane, e preservativo dai peccati mortali, pegno della futura gloria e simbolo del corpo del quale egli è capo. E se bene questo sacramento ha di comune con gli altri che è segno di cosa sacra, nondimeno questo ha di proprio, che avendo gli altri la virtú di santificar nell’uso, questo contiene l’autor della santitá inanzi l’uso; imperciocché li apostoli non ancora avevano ricevuto l’eucaristia di mano del Signore, quando egli diceva che era suo corpo. E sempre la Chiesa ha creduto che il corpo di Cristo sia sotto la specie del pane, e il sangue sotto quella del vino per virtú della consecrazione; ma per concomitanza l’uno sia con l’altro, e l’anima e la divinitá sotto ambidue, onde tanto vi sia sotto ciascuna delle specie e sotto ciascuna delle parti loro, quanto sotto ambidue: dechiarando che per la consecrazione del pane e del vino si fa una conversione di tutta la sustanzia di essi nella sustanzia del corpo e sangue di Cristo; la qual conversione la chiesa cattolica ha chiamato transubstanziazione, con termine conveniente e proprio. Per il che li fedeli danno l’onor di latria debito a Dio a quel sacramento; e religiosamente è stato introdotto di lui far una particolar festa ciascun anno, e portarlo in processione pei luochi pubblici. Similmente la consuetudine di conservarlo in luoco sacro è antica, sino dal tempo del concilio niceno, e il portarlo [p. 117 modifica] agl’infermi è cosa costumata antichissimamente, oltra che è ragionevole e in molti concili comandata. E se non conviene che sia trattata alcuna cosa santa senza santitá, tanto piú non si potrá andar a questo sacramento senza gran reverenzia e fatta prova di se stesso; la qual prova ha da essere che nessun, avendo peccato mortalmente, se ben contrito, lo ricevi senza la confessione sacramentale. Il che debbia osservar eziandio il sacerdote che ha da celebrare, purché abbia comoditá di confessore; e non l’avendo, debbia confessarsi immediate dopo. Insegna ancora esservi tre modi di ricever l’eucaristia. Uno, solo sacramentalmente, come fanno li peccatori; l’altro, spiritualmente, come di quelli che lo ricevono con fede viva e desiderio; il terzo, in tutti doi i modi insieme, come da quelli che, provati nel modo di sopra detto, vanno a quella mensa. E per tradizione apostolica si ha, e cosí si debbe servare, che li laici ricevino la comunione dai sacerdoti, e li sacerdoti comunichino se medesimi. In fine prega la sinodo tutti i cristiani che convengano in questa dottrina.

Dopo finito il decreto furono letti li undici anatematismi.

I. Contra chi negherá che nell’eucaristia si contenga vera, real e sustanzialmente il corpo e il sangue con l’anima e la divinitá di Cristo, cioè tutto Cristo intiero; ma dirá che sia solamente come in segno, o figura, o virtú.

II. Che nell’eucaristia resti la sustanzia del pane e del vino col corpo e sangue di Cristo, o vero negherá quella mirabile conversione di tutta la sustanzia del pane in corpo e del vino in sangue, restandovi solamente le specie; qual conversione la Chiesa chiama transustanziazion appositissimamente.

III. Che nel sacramento dell’eucaristia sotto ciascuna specie e sotto ciascuna parte, fatta la separazione, non si contenga tutto Cristo.

IV. Che, fatta la consegrazione, non vi sia se non in uso, e non inanzi o dopo, e che non vi rimanga nelle particole che restano dopo la comunione.

V. Che il principal frutto dell’eucaristia sia la remission delli peccati, o ver che altro effetto in quella non nasca. [p. 118 modifica]

VI. Che Cristo nell’eucaristia non debbia esser adorato di onor di latria e venerato con una festa particolare e portato in processione, ed esposto in luoco pubblico per esser adorato, o vero che li adoratori siano idolatri.

VII. Che non sia lecito servarla in luoco sacro, ma convenga distribuirla agli astanti; o vero che non sia lecito portarla onorevolmente agl’infermi.

VIII. Che Cristo nell’eucaristia sia mangiato solo spiritualmente, e non sacramentalmente e realmente.

IX. Che li fedeli adulti non siano tenuti ogni anno almeno a la Pasca comunicarsi.

X. Che non sia lecito al sacerdote che celebra comunicar se stesso.

XI. Che la sola fede è sufficiente preparazione per riceverlo. Dechiarando in fine che la preparazione debbe essere per mezzo della confessione sacramentale, avendo per scomunicato chi insegnerá, predicherá, affermerá pertinacemente o defenderá in pubblica disputa il contrario.

Il decreto della riforma contiene prima una longa ammonizione alli vescovi di usar la giurisdizione con moderazione e caritá, poi determina che nelle cause di visita, correzione e inabilitá, e nelle criminali, non si possi appellare dal vescovo o suo vicario generale inanzi la difinitiva, o vero da gravame irreparabile; e quando vi sará luoco di appellazione e s’averá da commettere per autoritá apostolica in partibus, non sia commessa ad altri che al metropolitano o suo vicario; o vero quando egli fosse suspetto o troppo lontano, o da lui fosse appellato, non sia commessa se non ad un vescovo vicino o ad un vicario. Che il reo appellante sia tenuto nella seconda instanzia produr gli atti della prima, dovendogli esser dati in termine di trenta giorni senza pagamento. Che il vescovo o il suo vicario generale possi proceder contra ciascuno alla condennazione e deposizion verbale, e possi anco degradar solennemente coll’assistenzia di tanti abbati di mitra e pastorale, se ne averá, o vero di altre dignitá ecclesiastiche, di quanti vescovi la presenza dai canoni è ricercata. Che il [p. 119 modifica] vescovo, come delegato, possi cognoscere dell’assoluzione de ogni inquisito e della remissione della pena di ogni condennato da lui summariamente; e constandogli che sia ottenuta con narrar il falso o tacer il vero, non fargliela bona. Che un vescovo non possi esser citato a comparer personalmente, se non per causa per quale meritasse esser deposto o privato, con qualsivoglia forma di giudicio si proceda. Che li testimoni in causa criminale contra il vescovo non possino esser ricevuti per informazione, se non contesti e di buona fama, castigandoli gravemente se averanno deposto per affetto; e le cause criminali de’ vescovi non possino esser terminate se non dal pontefice.

Fu dopo di questo pubblicato un altro decreto, nel quale la sinodo diceva che, desiderando estirpar tutti gli errori, aveva trattato accuratamente quattro articoli:

I. Se era necessario alla salute, e comandato da Dio, che tutti li fedeli ricevessero il sacramento sotto ambedue le specie.

II. Se meno riceva chi comunica con una che con ambedue.

III. Che la santa Chiesa ha errato comunicando con la sola specie del pane li laici e li sacerdoti che non celebrano.

IV. Se anco li fanciullini debbono esser comunicati.

Ma perché li protestanti di Germania desiderano di esser uditi sopra questi articoli inanzi la difinizione, e perciò hanno dimandato salvocondotto di venir, star, liberamente parlar e proponer e partire, la sinodo, sperando di ridurli nella concordia d’una fede, speranza e caritá, condescendendo loro, gli ha dato fede pubblica, cioè salvocondotto (quanto s’aspetta a lei) dell’infrascritto tenore; e ha differito a difinir quegli articoli sino ai 25 gennaro del seguente anno, ordinando insieme che in quella sessione si tratti del sacrificio della messa, come cosa connessa; e tra tanto nella sessione prossima, che sará a’ 25 novembre, si tratti delli sacramenti della penitenzia e della estrema onzione. [p. 120 modifica]

Il tenore del salvocondotto era: che la santa sinodo concede pubblica fede, piena sicurezza, cioè salvocondotto, con tutte le clausule necessarie e opportune, ancorché ricercassero special espressione, per quanto s’aspetta ad essa, a tutte le persone ecclesiastiche e secolari di Germania, di qualunque grado, stato e qualitá siano, le quali vorranno venir a questo general concilio; che possino con ogni libertá conferire, proponere e trattare; venire, stare, presentar articoli o in scrittura o in parola; conferire con i padri deputati dalla sinodo, e disputare senza ingiurie e villanie, e partirsi quando a loro piacerá. Compiacendosi inoltre essa sinodo che, se per maggior loro libertá e sicurtá desidereranno che gli siano deputati giudici per li delitti commessi o che commetteranno, ancorché fossero enormi e sentissero d’eresia, possino nominare quelli che averanno per benevoli.

Dopo di questo fu letto il mandato di Gioachin elettore di Brandeburg nelle persone di Cristoforo Strassen iurisconsulto e Gioanni Offmanno, mandati ambasciatori al concilio. Dal primo fu fatta una longa orazione, mostrando la buona volontá e la reverenzia del suo prencipe verso li padri, senza dechiararsi piú oltre quello che sentisse in materia della religione. Fu risposto dalla sinodo, cioè dal promotore per suo nome, aver sentito con gran piacere il ragionamento dell’ambasciatore, e massime in quella parte dove quel prencipe si sottomette al concilio e promette di osservare li decreti, sperando che alla promessa sará corrisposto anco con fatti. Ma la proposta de’ brandeburgici fu notata da molti, perché l’elettore era della confessione augustana, e si sapeva chiaro che gl’interessi lo movevano ad operare cosí per bella apparenzia, acciò da Roma e dalli cattolici di Germania fosse cessato dalli impedimenti che mettevano a Federico suo figlio, eletto arcivescovo di Magdeburg dalli canonici, beneficio al quale è congionto un principato molto grande e ricco. La risposta data dal concilio non fu meno ammirata per una bellissima e avvantaggiosa maniera di contrattare, stipulando dieci e per virtú della promessa pretendendo dieci mila; e non minor [p. 121 modifica] porzione è da quel numero a questo, che dalla riverenza promessa dall’elettore alla soggezione ricevuta dalla sinodo. Si diceva ben in difesa che la sinodo non aveva guardato alle cose dette, ma a quelle che si dovevano dire; e questo esser un solito e pio allettamento della santa chiesa romana che, condescendendo alla debolezza dei figli, mostra aver inteso che abbiano complito al loro debito. Cosi avendo li padri del concilio cartaginense scritto a papa Innocenzo I, dandoli conto d’aver condannato Celestio e Pelagio, ricercandolo che si conformasse alla dechiarazione loro, egli rispose lodandoli che, come memori dell’antica tradizione e della ecclesiastica disciplina, avessero riferito il tutto al giudicio suo, dal quale tutti debbono imparare chi assolvere e chi condannare. E veramente questo è un modo grazioso di far dir agli uomini col silenzio quello che non vogliono con le parole.

Poi, seguendo l’intimazione fatta all’abate di Bellozana di esibirgli in questo tempo la risposta alle lettere e protestazione regia, fu dalli cursori proclamato alla porta della chiesa se alcuno era lá per il re cristianissimo; ma non comparso alcuno, perché il conseglio regio aveva giudicato che alcuno non comparisse per non entrar in contestazione di causa, (massime non potendo aspettare risposta se non formata in Roma dal papa e da spagnoli), fece il promotor instanza che la resposta decretata fosse pubblicamente letta: e cosí, acconsentendo li presidenti, si esequí. La sostanza di quella fu che li padri, dopo aver concetto una gran speranza nelli favori del re, avevano sentito grandissimo dispiacere per le parole del noncio suo, che glie l’aveva sminuita; però non l’avevano perduta affatto, sapendo di non averli dato causa alcuna di restar offeso. E quanto a quello che disse, esser il concilio congregato per utilitá di alcuni pochi e per fini privati, non aver luoco in loro; che non dal papa presente solo, ma anco da Paulo III furono congregati per estirpare l’eresie e riformare la disciplina, che non può esser causa piú comune e piú pia. Pregavanlo di lasciar andare li suoi vescovi ad aiutare questa [p. 122 modifica] santa opera, dove averanno ogni libertá; e se con pazienza e attenzione fu udito il suo noncio, con tutto che persona privata e che portava cose dispiacevoli, quanto maggiormente persone di tanta dignitá saranno ben vedute? Soggiongendo però che anco senza quelli il concilio averá la sua dignitá e autoritá, essendo legittimamente convocato e per giuste cause restituito. E quanto a quello che Sua Maestá protestò, di usare li rimedi costumati da’ suoi maggiori, aver la sinodo buona speranza che non fosse per rimetter in piedi le cose giá abrogate con grande benefício di quella corona; ma riguardando alli suoi maggiori, al nome di re cristianissimo e al padre Francesco che onorò quella sinodo, seguitando quell’esempio non vorrá esser ingrato a Dio e alla madre Chiesa, ma piú tosto per le cause pubbliche condonerá le offese private.

Furono immediate stampati li decreti della sessione; quali visti in Germania e altrove con curiositá, per quello che aspetta all’eucaristia diede da parlar assai in piú cose. Prima perché, trattando del modo dell’esistenzia, dice che a pena si può esprimere con parole, e nondimeno dopo si afferma che la conversione è chiamata propriamente transubstanziazione; e in un altro luoco, che è termine convenientissimo: il che essendo, non bisogna far dubbio di poter esprimerlo propriamente. Si diceva di piú che, avendo dechiarato che Cristo dopo la benedizione del pane e vino disse quello che dava esser il suo corpo e il suo sangue, veniva a determinare contra tutti li teologi e contra l’opinione della chiesa romana che le parole della consecrazione non fossero quelle, cioè «questo è il mio corpo»; poiché afferma essere dopo la consecrazione dette. Ma il provare che il corpo del Signore sia nell’eucaristia inanzi l’uso, perché Cristo la disse suo corpo nel porgerla e prima che dai discepoli fosse ricevuta, mostrava di presupporre che il porgere non pertenesse all’uso: cosa che appariva in contrario. Era anco notato come parlare molto improprio l’usato nel quinto capo della dottrina, dicendo che a quel sacramento era debito il culto divino; poiché è certo per sacramento non intendersi la cosa significata o contenuta, [p. 123 modifica] ma la significante e continente; e però meglio nel canone sesto essere stato corretto con dire che si debba adorar il figliuolo di Dio nel sacramento. Fu anco notata quella parola nell’anatematismo terzo: che tutto Cristo sia in ciascuna delle parti dopo fatta la separazione, poiché di lá par necessario inferire che non sia tutto in ciascuna delle parti, eziandio inanzi la divisione.

Della riforma si dolevano li preti che l’autoritá dei vescovi fosse aggrandita troppo, e il clero redutto in servitú. Ma li protestanti, veduto quel capo dove si dice che richiedevano d’esser uditi in quattro articoli soli, restarono tutti pieni di maraveglia da chi poteva esser stata fatta una tal instanzia per loro nome; poiché essi avevano tante e tante volte nelle pubbliche diete e in altre scritture pubbliche detto e replicato che volevano la discussione di tutte le materie controverse, né volevano ricever alcuna cosa delle giá determinate in Trento, ma che il tutto fosse reesaminato. La forma del salvocondotto ancora fu da loro giudicata molto capziosa, mentre che cosí nel decreto del concederlo, come nel medesmo tenore d’esso vi era la clausola reservativa, «quanto s’aspetta ad essa sinodo»; perché non esservi alcuno che dimandi all’altro se non quello che a lui s’aspetta concedere; ma questa affettata diligenzia di esprimerlo e replicarlo esser indicio che giá si fosse escogitato un modo come contravvenire e scusarsi sopra altri. E non dubitavano che la mente della sinodo avesse mira a lasciar aperta una porta al papa di poter con onor e suo e del concilio operar quel che fosse stato di servizio d’ambidua. Oltraché quel trattar di deputar giudici per cose ereticali commesse, o vero che si commettessero, pareva loro una sorta di rete per prender dentro alcun incauto. Sino i pedanti se ne ridevano che il verbo principa le fosse piú di centocinquanta parole lontano dal principio. Passò tra protestanti un consenso e voce comune di non contentarsene né fidarsi in quello, ma chiedere un altro che fosse nel tenor a punto di quello che diede il concilio basiliense alli boemi; qual se fosse concesso, ottenevano un gran ponto, cioè che [p. 124 modifica] le controversie fossero decise con la divina Scrittura; ma se non fosse dato, avessero come iscusarsi appresso l’imperatore.

Il giorno seguente la sessione, fu congregazione generale per disponere di trattar della penitenzia ed estrema onzione e di continuar la riforma. Fu considerato che da’ teologi era stato ecceduto il modo prescritto di trattare, onde erano nate contenzioni, le quali non potevano servire a renderli tutti uniti contra luterani; che però bisognava rinnovar il decreto, non permettendo che si usino ragioni di scola, ma si parli positivamente, e servando anco l’ordine; il qual era bene di novo fermare, cosí perché il non averlo osservato aveva partorito confusione, come perché li fiamenghi si dolevano che non fosse tenuto quel conto di loro che meritavano; e l’istesso facevano li teologi che erano con li prelati di Germania. Il trattare della penitenzia ed estrema onzione era giá deciso: fu detto qualche parola in materia di riforma, e deputati quelli che col noncio veronese ordinassero li articoli in materia della fede, e col sipontino in materia della riforma. In materia di fede furono formati dodici articoli sopra il sacramento della penitenza, tratti di parola in parola dalli libri di Martino e altri suoi discepoli, per esser disputati dai teologi se si dovevano tener per eretici, e come tali dannarli. Li quali furono talmente mutati e alterati nel formar li anatematismi, dopo uditi li voti dei teologi, che non restandone vestigio, è superfluo recitarli. A questi articoli furono congionti quattro altri dell’estrema onzione, per tutto corrispondenti alli quattro anatematismi stabiliti. Nel medesimo foglio, dove erano li articoli descritti, erano soggionti tre decreti: che li teologi dovessero dir il parer loro, traendolo dalla sacra Scrittura, tradizioni apostoliche, sacri concili, constituzioni e autoritá de’ sommi pontefici e santi padri, e dal consenso della chiesa cattolica, con brevitá, fuggendo le questioni inutili e le contenzioni pertinaci; che l’ordine del parlare fosse prima delli mandati dal sommo pontefice, in secondo luoco li mandati dall’imperatore, in terzo quei di Lovanio mandati dalla regina, in quarto li teologi venuti con li elettori, in [p. 125 modifica] quinto li chierici secolari secondo le promozioni loro, in sesto li regolari secondo li loro ordini; che le congregazioni fossero fatte due volte al dí, la mattina da quattordici ore sino a diciassette, il dopo pranzo da venti sino a ventitré. Li articoli della riforma furono formati quindici, li quali corrispondono alli capi che poi furono stabiliti, eccetto il decimoquinto, nel quale si proponeva di statuire che non si potessero dare benefici in commenda se non a persona che avesse la medesima etá ricercata dalla legge a chi debbe averlo in titolo; il qual articolo, quando di lui si parlò, fu facilmente posto in silenzio, come quello che impediva molti prelati dal rinonciar li benefici a’ nepoti.

Il pontefice, qual (come s’è detto) scrisse lettere alli svizzeri cattolici invitandoli al concilio, continuò sempre per mezzo degli uffici di Gerolemo Franco suo ambasciatore a far la stessa instanza; nel che anco era aiutato da Cesare. In contrario operava il re di Francia per mezzo di Morleo Musa suo ambasciatore, aiutato dal Vergerio, il quale, come conscio delli secreti e fini romani, li sumministrò il modo di persuader quella nazione, e scrisse anco un libro in questa materia: sí che nella dieta di Bada, che in allora si tenne, non solo li svizzeri evangelici, ma li cattolici ancora restarono di non mandar alcuno; e li grisoni, per li avvertimenti del Vergerio entrati in suspetto che il pontefice macchinasse cosa di loro pregiudicio, chiamarono Tomaso Pianta vescovo di Coira, che giá era nel concilio.

In Trento furono sollecitate le congregazioni de’ teologi, da’ quali se ben si parlò con l’ordine delli dodici articoli proposti, fu nondimeno trattata tutta la materia della penitenza, non solo secondo che li scolastici, ma anco come li canonisti la trattano, seguendo Graziano che ne fece una questione, per la longhezza sua divisa poi in sei distinzioni. E l’esser stato dalli presidenti prescritto il modo di dedur e provar le conclusioni per li cinque luochi sopraddetti non fece evitare la prolissitá e superfluitá, e le inutili e vane questioni, anzi diede occasione a maggiori abusi. Poiché parlando scolasticamente [p. 126 modifica] si stava almeno nella materia, e il discorso era tutto serio e severo: con questo novo modo, che chiamavano «positivo» (voce italiana tratta dal vestir semplice e senza superflui ornamenti), si dava nelle inezie. Allegando la divina Scrittura, furono portati tutti li luochi de’ profeti e de’ Salmi, massime dove si trova il verbo confiteor e il suo verbale confessio (che nell’ebreo significa laude, o piuttosto religiosa professione), e strascinati al sacramento della confessione; e, quello che meno era in proposito, tirate dal vecchio Testamento figure per mostrare che era presignificata, senza alcun risguardo se si applicavano con similitudine; e quello si teneva piú dotto che piú portava in tavola. Tutti li riti significativi dell’umiltá, dolore e pentimento usati da confitenti si chiamavano arditamente tradizioni apostoliche; furono narrati innumerabili miracoli antichi e moderni, avvenuti in bene alli devoti della confessione, e in male alli negligenti o sprezzatori. Furono piú volte recitate tutte le autoritá allegate da Graziano, con darli però vari e diversi sensi, secondo il proposito, e aggiuntone anco delle altre; e chi sentiva a parlare quei dottori non poteva concludere se non che gli apostoli e gli antichi vescovi mai facessero altro che o star in ginocchia a confessarsi, o sentati a confessar altri: in somma quello in che tutti terminavano, e che piú faceva in proposito, era il concilio fiorentino. Tra le memorie non si vede cosa degna di esserne fatta particolar menzione, la qual non s’abbia da dire recitando la sostanza della dottrina; ma questo era necessario non tacere. Da questi fasci di varie sorti di paglia portate nell’ara non è maraviglia se fu battuto grano di genere diverso, traendone li capi della dottrina, la quale per la mistura a pochi piacque interamente. Né fu servato in questa materia, come nelle altre, di non dannar alcuna opinione de cattolici; ma dove vari erano li pareri tra li teologi, far l’espressiva con tal temperamento che tutte le parti ricevessero sodisfazione; il che constringe a non tenir l’ordine incominciato, ma esponer prima la sostanza del decreto come fu stabilito per leggere nella sessione, e soggiongendo quello che le stesse persone del concilio non approvavano. [p. 127 modifica]

Era adunque il decreto che quantunque, trattando della giustificazione, si fosse molto parlato del sacramento della penitenzia, nondimeno per estirpare diversi errori di questa etá conveniva illustrar la veritá cattolica, la qual la santa sinodo propone da osservare perpetuamente a tutti li cristiani; soggiongendo che la penitenzia fu sempre necessaria in ogni seculo, e dopo Cristo anco a quelli che hanno da ricever il battesmo; ma questa non è sacramento. Ve n’è un’altra instituita da Cristo, quando soffiando verso li discepoli li diede lo Spirito Santo per rimetter e ritener li peccati, cioè riconciliare li fedeli caduti in peccato dopo il battesmo. Che cosí ha sempre inteso la Chiesa; e la santa sinodo approva questo esser il senso delle parole del Signore, condannando quelli che le intendono esser dette per la potestá di predicare l’Evangelio. Questo sacramento esser differente dal battesmo, oltraché la materia e la forma dell’uno e dell’altro sono diverse, perché il ministro del battesmo non è giudice, ma il peccatore dopo il battesmo si presenta inanzi al tribunal del sacerdote come reo, per esser liberato con la sentenzia di quello; e per il battesmo si riceve intiera remissione dei peccati, dove per la penitenzia non si riceve senza pianti e fatiche. E questo sacramento è cosí necessario alli peccatori dopo il battesmo, come il battesmo medesimo a chi non l’ha ancora ricevuto. Ma la forma di esso sta nelle parole del ministro: «Io ti assolvo», alle quali sono aggiunte altre preghiere lodevolmente, se ben non necessarie; e la quasi materia di esso sacramento sono la contrizione, confessione e satisfazione, che perciò sono chiamate parti della penitenza. La cosa significata e l’effetto del sacramento è la reconciliazione con Dio, dalle quali ne nasce qualche volta la pace e serenitá di conscienzia. E perciò la sinodo condanna quelli che pongono le parti della penitenzia: li spaventi della conscienzia e la fede. La contrizione è un dolor di animo per il peccato commesso, con proposito di non peccar piú; e fu sempre necessaria in ogni tempo; ma nel peccatore dopo il battesmo è preparazione alla remissione de’ peccati, quando sia congionto col [p. 128 modifica] proposito di far tutto quel resto che si richiede per ricever legittimamente questo sacramento. La contrizione non è il solo cessar del peccato, o vero il proponimento o principio di nova vita, ma anco insieme odio della passata. E quantunque la contrizione alcune volte si congiunga con la caritá e riconcili l’uomo a Dio inanzi che ricevuto il sacramento, nondimeno non se gli può ascriver questa virtú senza il proposito di riceverlo. Ma l’attrizione, che nasce o per la bruttezza del peccato o per il timor della pena con speranza di perdono, non è ipocrisia, ma dono di Dio, dal quale il penitente aiutato s’incammina a ricever la giustizia; e se ben quella non può senza il sacramento condur alla giustificazione, dispone nondimeno ad impetrar la grazia da Dio nel sacramento della penitenza. Dalle qual cose la Chiesa ha sempre inteso che Cristo abbia instituito la confessione intiera dei peccati come necessaria per legge divina alli caduti dopo il battesmo; perché, avendo instituito li sacerdoti suoi vicari giudici di tutti li peccati mortali, certa cosa è che non possono esercitar il giudicio senza cognizione della causa, né servar l’equitá nell’imponer le pene, se li peccati non li sono manifestati singolarmente, e non in genere. Per il che il penitente nella confessione debbe narrar tutti li peccati mortali, eziandio occultissimi, poiché li veniali, se ben si possono confessare, si possono anco tacer senza colpa. Ma di qua anco nasce che è necessario esplicare in confessione le circostanzie che mutano specie, non potendosi altramente giudicar la gravezza dei eccessi e imponer condegna pena; onde è cosa empia dire che questa sorte di confessione sia impossibile, o che sia una carnificina di conscienza, perché non si ricerca altro se non che il peccatore, dopo aversi diligentemente esaminato, confessi quello che si raccorda, poiché li smenticati s’intendono inclusi nella medesima confessione. E se ben Cristo non ha proibito la pubblica confessione, non l’ha però comandata; né sarebbe utile il comandare che i peccati, massime secreti, si confessassero in pubblico: onde, avendo li Padri sempre lodato la confession sacramentale secreta, viene ributtata la [p. 129 modifica] vana calonnia di quelli che la chiamano invenzione umana escogitata dal concilio lateranense, il quale non ordinò la confessione, ma bene che quella fosse eseguita almeno una volta all’anno. Ma quanto al ministro, dechiara la sinodo essere false quelle dottrine che estendono a tutti li fedeli il ministerio delle chiavi e l’autoritá data da Cristo di ligare e sciogliere, rimettere e ritenere li peccati pubblici con la correzione e secreti per confessione spontanea; e insegna che li sacerdoti, ancorché peccatori, hanno l’autoritá di rimetter li peccati, la qual non è un nudo ministerio di dechiarar che li peccati sono remessi, ma un atto giudiciale. Per il che nessun debbe fondarsi sopra la sua fede, riputando che senza contrizione e senza che il sacerdote abbia animo dissolverlo, possi aver la remissione. Ma perché la sentenzia è nulla prononciata contra chi non è suddito, è nulla anco l’assoluzione del sacerdote che non abbia autoritá delegata o ordinaria sopra i penitenti; e anco li maggior sacerdoti ragionevolmente riservano a sé alcuni delitti piú gravi, e meritamente lo fa il papa, e non è da dubitare che li vescovi non lo possino fare ciascuno nella sua diocese. E questa riserva non è per sola polizia esterna, ma è di vigore anco inanzi a Dio: però fu sempre osservato nella Chiesa che in articolo di morte tutti li sacerdoti possino assolvere ogni penitente da qualonque caso. Della satisfazione, la sinodo cosí dechiara: che remessa la colpa, non è condonata tutta la pena, non essendo conveniente che con tanta facilitá sia ricevuto in grazia chi ha peccato inanzi il battesmo, come dopo; e sia lasciato il peccatore senza freno che lo ritiri dagli altri peccati; anzi convenendo che s’assimigli a Cristo, che patendo pene satisfece per noi; dal quale ricevono anco forza le satisfazioni nostre, come da lui offerte al Padre e per sua intercessione ricevute: però debbono li sacerdoti imponer le satisfazioni convenienti, risguardando non solo a custodir il penitente da novi peccati, ma anco a castigar li passati; dechiarando nondimeno che si satisfá non solo con le pene spontaneamente ricevute o vero imposte dal sacerdote, ma ancora con sopportar in pazienzia li flagelli mandati dalla Maestá divina. [p. 130 modifica]

In conformitá di questa dottrina furono anco formati quindici anatematismi.

I. Contra chi dirá che la penitenzia non sia vera e propriamente sacramento instituito da Cristo per reconciliar li peccatori dopo il battesmo.

II. Che il battesmo sia il sacramento della penitenzia, o vero che esso non sia la seconda tavola dopo il naufragio.

III. Che le parole di Cristo: Quorum remiserítis peccata non s’intendino del sacramento della penitenza, ma dell’autoritá di predicar l’Evangelio.

IV. Che non si ricerchi la contrizion, confessione e satisfazione per quasi materia e come parti della penitenzia: o vero dirá che li spaventi della conscienzia e la fede siano le parti.

V. Che la contrizione non sia utile, ma faccia ipocrita, e sia dolor sforzato e non libero.

VI. Che la confession sacramentale non sia instituita e necessaria per legge divina, o che il modo di confessarsi dal sacerdote in secreto sia invenzion umana.

VII. Che non sia necessario confessar tutti li peccati mortali, eziandio occulti, e le circostanzie che mutano specie.

VIII. Che questa sia impossibile, o vero che tutti non siano obbligati a quella una volta all’anno, secondo il precetto del concilio lateranense.

IX. Che l’assoluzione sacramentale non sia atto giudiciale, ma ministerio di dechiarar la remissione dei peccati a chi crede, o vero che un’assoluzione data per gioco giovi, o vero che non si vi ricerchi la confessione del penitente.

X. Che li sacerdoti in peccato mortale non hanno potestá di ligare e sciogliere, o vero che tutti li fedeli abbino questa potestá.

XI. Che li vescovi non abbino autoritá di reservar casi, se non per polizia esterna.

XII. Che tutta la pena sia rimessa insieme con la colpa, e che altra satisfazione non si cerchi, se non fede che Cristo abbia satisfatto. [p. 131 modifica]

XIII. Che non si satisfaccia sopportando le afflizioni mandate da Dio, le pene imposte dal sacerdote e le spontaneamente pigliate, e che l’ottima penitenzia sia solo la vita nova.

XIV. Che le satisfazioni non sono culto divino, ma tradizioni umane.

XV. Che le chiavi della Chiesa siano solamente per sciogliere e non per ligare.

Li teologi di Lovanio opposero al particolare della reservazion dei casi che non era cosa di tanta chiarezza, perché non s’averebbe trovato che padre alcuno mai di ciò avesse parlato; e che Durando, che fu penitenziero, e Gerson e il Gaetano, tutti affermano che non peccati ma censure sono reservate al papa; e per tanto era troppo rigida cosa aver per eretico chi sentisse altramente. Nel che avevano congionti seco li teologi di Colonia, i quali chiaramente dicevano che non s’averebbe trovato alcun antico che parlasse se non di reservazione de peccati pubblici, e che il condannar il cancellano parisiense, tanto pio e cattolico scrittore, che biasmava le reserve, non era condecente. Che gli eretici solevano dire queste reserve esser per uccellar a danari, come anco disse il Cardinal Campegio nella sua riforma; e che se gli dava occasione di scrivere contra, al che li teologi non averebbono risposto né potuto rispondere. E per tanto doversi moderare cosí la dottrina come il canone, in maniera che non dia scandalo e non offendi alcun cattolico.

Li medesimi coloniensi dicevano, per quello che tocca alla intelligenzia delle parole: Quæcumque ligaveritis, la qual è condennata nel decimo canone, che espressamente e formalmente Teofilatto cosí l’intende, e che il condennarlo sará dar allegrezza agli avversari: e per quel che nell’ultimo vien detto, che la potestá di ligare s’intende quanto all’imporre le penitenzie, avvertirono che li santi vecchi cosí non hanno inteso, ma ligare intendevano far astener dal ricevere i sacramenti sino alla compita satisfazione. Dimandavano ancora che si dovesse fare menzione della penitenzia pubblica, tanto commendata dai [p. 132 modifica] Padri, da Cipriano massime e da san Gregorio papa, che in molte epistole la dechiara necessaria de iure divino; la quale, se non si rimette in uso quanto agli eretici e pubblici peccatori, mai la Germania si libererá: e con tutto ciò il decreto, cosí nella dottrina come nei canoni, non solo non ne dice parola a favore, ma piú tosto la snerva e li detrae. Desideravano ancora che si dechiarasse qualche segno esterno certo per materia del sacramento, perché altramente non si risponderá mai alla obiezione degli avversari.

Alli teologi franciscani due cose sopra modo dispiacevano. L’una, l’aver dechiarato per materia del sacramento la contrizione, confessione e satisfazione; non perché non le avessero per necessari requisiti alla penitenzia, ma non per parte essenziale di esso. Dicevano esser cosa chiara che la materia ha da esser cosa che dal ministro è applicata al recipiente, e non operazione del recipiente medesimo; che in tutti li sacramenti questo appare, e però esser grand’inconveniente metter gli atti del penitente per parte del sacramento. Esser cosa indubitata che la contrizione non si ricerca meno al sacramento del battesmo che a quello della penitenza, e pur tuttavia non si mette per parte del battesmo. Che gli antichi inanzi il battesmo ricercavano la confessione de’ peccati, come anco san Gioanni da quelli che battezzava, e facevano anco star li catecumeni in penitenzie; e nondimeno nessun disse mai che queste fossero parti né materia del battesmo: e però il condennar questa opinione, tenuta dagli antichi teologi della religione franciscana, e anco al presente da tutta la scola di Parigi, era un passar li termini. Ancora si lamentavano che fosse dechiarato per eresia il dire l’assoluzion sacramentale esser declarativa, poiché questo fu il senso aperto di san Gerolimo; e il Maestro delle sentenze e san Bonaventura e quasi tutti li teologi scolastici hanno chiaramente detto che l’assolvere nel sacramento della penitenzia è un dechiarar assoluto. A questo ultimo gli era bene risposto che non era dannato per eretico assolutamente chi diceva l’assoluzione esser una dechiarazione che li peccati sono remessi, ma che [p. 133 modifica] li peccati sono remessi a chi crede certamente che rimessi gli siano; per il che vien compreso il solo parer di Lutero. Ma essi non restavano satisfatti, affermando che dove si tratta di eresia convien parlar chiaro, e che per tutto non vi sará uno che dará questa dechiarazione; e dimandavano che cosí nel capo della dottrina come nell’anatematismo fosse bene dechiarato questo particolare.

Ma frate Ambrosio Pelargo, teologo dell’elettor di Treveri, considerò che le parole del Signore: Quorum remiseritis forse da nessun padre erano interpretate per instituzione del sacramento della penitenzia, e che da alcuni erano intese per il battesmo, e da altri in qualunque modo il perdono de’ peccati sia ricevuto; e però che il voler restringerle alla sola instituzione del sacramento della penitenzia e dechiarar eretici chi altramente l’esponessero sarebbe dar una gran presa al li avversari e materia di dire che nel concilio si fosse dannata l’antica dottrina della Chiesa. E però gli esortava che, prima che far cosí gran passo, si dovesse veder tutte le esposizioni dei Padri, ed esaminata ciascuna, deliberar poi quello che si dovesse dire.

Molti delli padri giudicarono le remostranze assai considerabili, e desideravano che di novo fosse consultato dalli deputati, e sí come s’era fatto nelle occasioni passate, rimover le cose che offendevano alcuno, e formar il decreto in maniera che da ognuno fosse approbato. Ma il Cardinal Crescenzio si oppose a questo con perpetua orazione, mostrando che il snervare li decreti e levarli l’anima per satisfar li umori de’ particolari non era dignitá della sinodo; che erano maturamente stabiliti, e cosí conveniva conservarli. Nondimeno, se pur il parer suo non aggradiva tutti, che inanzi ogn’altra cosa si dovesse trattare questo generale in una congregazione: se era bene far mutazione o no; e poi descender al particolare. Ma egli in questo non scoprí intieramente qual fosse la sua mira, la qual poi manifestò alli colleghi e alli confidenti: che non bisognava introdurre l’uso di contendere e parlare cosí liberamente; pericoloso se li protestanti fossero venuti, perché averebbono essi voluto altrettanto, quanto li nostri volevano, a favor delle opinioni [p. 134 modifica] proprie; che alla libertá del concilio onesta e ragionevole basta assai il poter dir la propria opinione mentre la materia si disputa; ma dopo, quando, sentiti tutti, li decreti sono formati dalli deputati e approbati dalli presidenti, veduti anco ed esaminati e approvati a Roma, il rivocarli in dubbio e ricercarvi mutazione per interessi particolari era cosa licenziosa. Vinse finalmente il cardinale, persuasa la maggior parte dei padri che la dottrina stabilita era dei piú sensati teologi, e piú opposta alle novitá luterane.

Ma poiché è detto quasi l’intiero di quello che tocca la materia di fede per questa sessione, è ben continuare quel poco che resta a dire del sacramento dell’estrema onzione. Intorno il quale parlarono li teologi con la medesima prolissitá, ma senza differenzia alcuna tra loro. E sopra i loro pareri furono formati tre capi di dottrina e quattro anatematismi. La dottrina conteneva in sustanzia: che l’onzione degl’infermi è vera e propriamente sacramento, da Cristo nostro Signore appresso san Marco insinuato, e da san Giacomo apostolo pubblicato; dalle parole del quale la Chiesa per tradizion apostolica imparò che la materia del sacramento è l’olio benedetto dal vescovo, e la forma le parole quali il ministro usa; ma la cosa contenuta e l’effetto del sacramento è la grazia dello Spirito Santo che monda le reliquie del peccato e solleva l’anima dell’infermo, e dona qualche volta la sanitá del corpo, quando è utile per l’anima. Li ministri del sacramento sono li preti della Chiesa, non intendendosi per il nome presbyteros li vecchi, ma li sacerdoti; e questa onzione si debbe dare principalmente a quelli che sono in stato per uscire di vita, li quali però risanandosi potranno di novo riceverlo, quando saranno nello stesso stato. E pertanto si prononcia l’anatema:

I. Contra chi dirá che l’estrema onzione non sia vera e propriamente sacramento da Cristo instituito.

IL Che non doni la grazia, non rimetta i peccati, non allevii gl’infermi, ma sia cessata come quella che perteneva giá alla grazia della sanitá. [p. 135 modifica]

III. Che il rito usato dalla chiesa romana sia contrario al detto di san Giacomo, e possi esser sprezzato senza peccato.

IV. Che il solo sacerdote non sia ministro, e che san Giacomo intendesse delli vecchi di etá, e non delli sacerdoti ordinati dal vescovo.

Ma se alcuno si maravigliasse perché nel primo capo della dottrina di questo sacramento sia detto che egli è da Cristo nostro Signore in san Marco «insinuato» e in san Giacomo «pubblicato», dove la antecedenza e la consequenza delle parole portava che non si dicesse «insinuato» ma «instituito», saperá che cosí fu primieramente scritto; ma avendo un teologo avvertito che li apostoli, delli quali san Marco dice che ongevano gli infermi, in quel tempo non erano ordinati sacerdoti, tenendo la chiesa romana che il sacerdozio gli fosse conferito solo nell’ultima cena, pareva cosa ripugnante affermare la onzione che essi davano esser sacramento, e che li soli sacerdoti siano ministri di quello. Al che se ben alcuni, tenendo quella per sacramento, e volendo che allora da Cristo fosse instituita, rispondevano che avendoli Cristo comandato di ministrar quell’onzione, li aveva fatti sacerdoti quanto a quell’atto solamente, sí come se il papa comandasse ad un semplice prete di dar il sacramento della cresma, lo farebbe vescovo quanto a quell’atto; nondimeno parve troppo pericolosa cosa raffermar questo assolutamente. Per il che in luoco della parola institutum fu presa quell’altra insinuatum; la qual che cosa possi significare in tal materia, lo giudicherá ognuno che intenda quello che sia «insinuare», e l’applichi a quello che gli apostoli operarono allora con quello che da san Giacomo fu comandato, e alla determinazione fatta da questo concilio.