Istoria del Concilio tridentino/Libro quarto/Capitolo II

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Libro quarto - Capitolo II (2 settembre - 10 ottobre 1551)

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CAPITOLO II

(2 settembre-10 ottobre 1551).

[Il concilio fissa gli articoli sull'eucaristia tratti dalla dottrina luterana e zuingliana. — Istruzioni ai teologi sul metodo da seguire nella trattazione: malcontento dei teologi italiani. — Esame degli articoli e redazione dei canoni. — Si approva di formare anche i canoni della dottrina. — I rappresentanti imperiali insistono che, per fissare la dottrina dell'eucaristia e trattare della comunione del calice, si attenda l’arrivo dei protestanti, pei quali chiedono un salvocondotto conciliare. — Il papa acconsente al salvocondotto e a differire la trattazione del calice, non dell'eucaristia. — Disputa fra i domenicani e i francescani sul modo come Cristo è presente nell’eucaristia. — Proposte di riforma degli abusi riguardanti questo sacramento. — La giurisdizione episcopale: excursus dell’autore sull’origine di essa e dei suoi abusi. — Sulle appellazioni: critica del Groppero e difesa del Castelli: proposta di riforme. — Sulle degradazioni e loro abusi. — In congregazione si conclude per la concessione del salvocondotto e per la dilazione di alcuni capi dell’eucaristia.]

Ma ritornando a Trento, il 2 settembre, che seguí la sessione, fu fatta la congregazione generale, e in quella deputati li padri a formar gli articoli dell’eucaristia per dar alli teologi e per raccogliere gli abusi introdotti in quella materia. Dopo si ragionò della riforma, la qual dovendo esser per levar le cause di non riseder alli vescovi, molte ne furono commemorate, parte proposte per inanzi in Trento e in Bologna, e parte allora di novo. Finalmente si fermarono su la giurisdizione, dicendo che si ritrovavano li vescovi a fatto privati di quella, parte con le evocazioni di cause, parte per appellazioni, e finalmente per le esenzioni; anzi che piú frequentemente dalli sudditi era esercitata giurisdizione sopra e contra di loro, o per speciale commissione da Roma, o per virtú di conservatorie che dá loro sopra li sudditi: e sopra queste materie [p. 90 modifica] furono eletti padri che dovessero formar gli articoli. Il legato e presidenti, attendendo l’instruzione avuta dal pontefice di evitar le pericolose contenzioni tra teologi e le dispute loro inintelligibili, con quali si esacerbavano, e anco le confusioni nel dire, diedero fuori gli articoli formati, per dover principiar a trattare sopra di quelli il martedi agli 8 dopo il disnare, e v’aggionsero il modo e ordine da tenersi nelle congregazioni, molto limitato, che li necessitava a parlar sobriamente.

Li articoli furono dieci, tratti dalla dottrina de’ zuingliani e de’ luterani.

I. Che nell’eucaristia non è veramente il corpo e sangue, né la divinitá di Cristo, ma solo come in segno.

II. Che Cristo non è dato a mangiare sacramentalmente, ma solo spiritualmente, e per fede.

III. Che nell’eucaristia vi è il corpo e sangue di Cristo, ma insieme con la sustanza del pane e del vino, sí che non è transustanziazione, ma unione ipostatica dell’umanitá e delle sostanzie del pane e vino; in maniera che è vero dire: «questo pane è il corpo di Cristo e questo vino è il sangue di Cristo».

IV. Che l’eucaristia è instituita per sola remissione de’ peccati.

V. Che Cristo non si debbe adorar nell’eucaristia, né onorar con feste, né portar in processione, né ad infermi, e che gli adoratori sono veri idolatri.

VI. Che l’eucaristia non debbe esser salvata, ma consumata e distribuita immediate; e chi altrimente fa, abusa questo sacramento; e che non è lecito ad alcuno comunicar se stesso.

VII. Che nelle particole che avanzano dopo la comunione non resta il corpo del Signore, ma solo mentre si riceve, e non inanzi né dopo.

VIII. Che è de iure divino comunicar il popolo e li fanciulli ancora con l’una e l’altra specie, e che peccano quelli che constringono il populo ad usarne una sola.

IX. Che tanto non si contiene sotto una, quanto sotto tutte dua, né tanto riceve chi comunica con una, quanto con tutte due. [p. 91 modifica]

X. Che la sola fede è sufficiente preparazione per ricever l’eucaristia, né la confessione è necessaria, ma libera, specialmente ai dotti; né gli uomini sono tenuti comunicare nella Pasca.

Dopo questi articoli era aggiorno un precetto in questa forma: che li teologi debbino confirmare il parer loro con la sacra Scrittura, tradizioni degli apostoli, sacri e approbati concili, e con le constituzioni e autoritá dei santi Padri; debbino usar brevitá e fuggir le questioni superflue e inutili e le contenzioni proterve; dovendo esser questo l’ordine di parlar tra loro, che prima dicano li mandati dal sommo pontefice, doppoi quelli dell’imperatore, in terzo luoco li teologi secolari, secondo l’ordine delle promozioni loro, e in fine li regolari, secondo la precedenza dei loro ordini. E il legato e li presidenti, per l’autoritá apostolica concessagli, danno facoltá e autoritá di tener e leggere tutti li libri proibiti alli teologi che doveranno parlare, ad effetto di trovar la veritá e confutar e impugnar le opinioni false.

Questa ordinazione non fu dalli teologi italiani veduta con buon occhio: dicevano che era una novitá ed un dannare la teologia scolastica, la qual in tutte le difficoltá si valeva della ragione; e perché non era lecito che si trattasse come san Tomaso, san Bonaventura e altri famosi? L’altra dottrina che si dice positiva, e sta in raccoglier li detti della Scrittura e Padri, esser una sola facoltá di memoria, o vero fatica di scrivere; ed esser vecchia, ma conosciuta insufficiente e poco utile dalli dottori, che da trecentocinquanta anni in qua hanno difesa la Chiesa: che questo era un darla vinta alli luterani, perché quando si tratterá di varia lezione e di memoria, essi sempre supereranno per la cognizione delle lingue e varia lezione d’autori; alle qual cose non può attender uno che vogli deventar buon teologo, al qual è necessario esercitar l’ingegno e farsi atto a ponderar le cose, e non a numerarle. Si dolevano che questo anco fosse un avergognarli appresso li teologi tedeschi: perché essi, soliti a contender con luterani, s’erano esercitati in quel genere di lettere che in Italia non era introdotto. Che quando [p. 92 modifica] s’avesse a parlar per vera teologia, s’averebbe veduto che niente sapevano: ma li presidenti aver voluto, per compiacer a loro, far questa vergogna alla nazione italiana. E se ben alcuni di loro ne fecero querimonia, poco giovò, perché all’universale delli padri piaceva piú sentir parlar in quel modo che intendevano, che con termini astrusi, come fecero nella materia della giustificazione e nelle altre giá trattate. Certo è che l’ordinazione serví a facilitar l’espedizione.

Furono in diverse congregazioni detti li pareri: tutti conformi quanto al primo articolo, che dovesse esser condannato per eretico, come altre volte anco era stato fatto. Nel secondo furono tre opinioni: alcuni dissero che dovesse esser tralasciato, perché nessun eretico nega la comunione sacramentale; altri l’avevano solo per suspetto, e alcuni averebbono voluto concepirlo con parole piú chiare. Quanto al terzo, fu comune opinione che fosse eretico; ma non esser opportuno condennarlo né parlarne, perché fu opinione inventata da Roberto Tuicense, giá quattrocento e piú anni, e non piú seguita da alcuno; onde il parlarne averebbe piú tosto, contra il precetto del savio, commosso il male che stava bene quieto. Aggiongevano esser congregato il concilio contra le eresie moderne, e però non doversi travagliare sopra le antiche. Sopra il quarto articolo furono diversi pareri: dicevano alcuni che, levato quell’aggettivo «sola», era cattolica sentenzia il dire che l’eucaristia è in remissione dei peccati, e che l’aggionta dell’adiettivo «sola» non era posta da alcuno degli eretici; per il che reputavano che si dovesse tralasciarlo. Altri, in -contrario, dicevano che egli fosse eretico, ancoraché si levasse il termine «sola», imperocché il sacramento dell’eucaristia non è instituito in remissione dei peccati. Nel quinto convennero tutti; anzi molte amplificazioni furono usate, persuadendo la venerazione, e molti novi modi furono anco proposti per ampliarla, secondo che la devozione di ciascuno aveva escogitato. Nel sesto parimente convennero tutti, fuor che nell’ultima parte, cioè non esser lecito ad alcuno comunicar se stesso. Dicevano alcuni che intendendosi dei laici era cattolico, e [p. 93 modifica] però conveniva esprimer che si condennava solo quanto ai sacerdoti. Altri dicevano che manco quanto a questi conveniva averla per eretica, poiché nel sesto concilio, al capo CI, non era stato condannato. Altri volevano che si escludesse anco quanto ai laici il caso di necessitá. Nel settimo tutti si consumavano in invettive contra li moderni protestanti, come inventori d’una opinion empia e non mai piú udita nella Chiesa.

Sopra l’ottavo furono li discorsi di tutti longhissimi, se ben uniformi. Le principal ragioni loro di condannarlo erano perché al ventesimo quarto di san Luca il nostro Signore alli doi discepoli benedisse solo il pane, e perché nell’orazion dominicale si domanda il pane quotidiano, e perché negli Atti degli Apostoli, al secondo capo e al vigesimo, del pane solo si parla; e parimente al vigesimo settimo san Paulo nella nave non benedisse se non il solo pane. S’adducevano autoritá de dottori antichi e qualche esempi de Padri: ma il fondamento principale era sopra il concilio di Costanza e sopra la consuetudine della Chiesa. Si fondavano anco sopra diverse figure del Testamento vecchio, e a questo senso tiravano anco molte profezie. E quanto alli fanciulli, tutti concordavano che da qualche particolare fosse stato ciò in altri tempi fatto, ma da tutti gli altri conosciuto per errore. Nell’articolo nono, la parte prima, che tanto sia contenuto sotto una specie quanto sotto tutte dua, dalli teologi tedeschi era stimata per eretica; li italiani dicevano che conveniva distinguerla prima che condannarla. Perché, se era intesa quanto alla virtú della consecrazione, esser cosa chiara che sotto la specie del pane vi è il solo corpo, e sotto la specie del vino vi è il solo sangue; ma per consequenza che li teologi dicono «concomitanzia», sotto quella del pane vi è anco il sangue, l’anima e la divinitá, e sotto quella del vino il corpo e le altre cose; per il che non è da condannar in termini cosí generali. Ma quanto alla seconda, cioè che tanto si riceva con una quanto con due, vi fu disparere; perché molti sentivano che, se ben non si riceveva piú del sacramento, si riceveva però piú grazia; onde ci voleva la dechiarazione. [p. 94 modifica]

Sopra il decimo ancora, quanto alla prima parte della fede, volevano certi che si esprimesse della fede morta, perché la viva non è dubbio esser sufficiente. Quanto alla necessitá della confessione, li dominicani misero in considerazione che molti cattolici dottissimi e santissimi avevano tenuto quella opinione, il condannar la quale sarebbe condannarli loro. Altri per temperamento proponevano che non si condannasse come eretica, ma come perniciosa. Volevano anco alcuni che se vi aggiongesse la condizione: «essendovi comoditá di confessore». L’ultima parte, toccante alla comunione della Pasca, non essendo quella comandata per legge divina, ma di precetto solo della Chiesa, la comune opinione era che non si condannasse per eretica, essendo cosa inaudita che si condanni di eresia per non approvare un precetto umano particolare. Molti teologi anco proposero un altro articolo, tratto dalli scritti di Lutero, che era necessario dannare: e questo era che, quantonque fosse necessario recitar le parole di Cristo, nondimeno quelle non sono causa della presenzia di Cristo nel sacramento, ma la causa è la fede di chi lo riceve.

Doppoiché ebbero tutti li teologi parlato, dai loro pareri raccolsero li padri deputati sette anatematismi. E proposti quelli nella congregazione generale, inanzi ad ogn’altra cosa fu messo a campo che non era bene passar quella materia con soli anatematismi; che questo era non un insegnare, ma solo un confutare; che non avevano cosí fatto li antichi concili, quali sempre avevano dechiarato la sentenza cattolica e poi dannata la contraria. L’istesso era ben riuscito a questo concilio nella materia della giustificazione; e se ben fu costretto nella sessione del li sacramenti mutar proposito per urgenti rispetti, esser piú da imitare quello che allora fu fatto con ragione, che quello che dopo fu mutato per necessitá. Questa opinione era fomentata dalli teologi italiani, i quali vedevano esser una via di recuperar la reputazione perduta; imperocché sí come volevano li tedeschi e fiammenghi improvar le conclusioni con autoritá, cosí per dechiararle e trovar le sue cause vi era bisogno della teologia scolastica, nella quale essi valevano. Prevalse questa [p. 95 modifica] opinione; e si diede ordine che fossero formati li capi di dottrina e deputati padri per esequirlo.

Furono ridotti li capi a otto: della real presenzia, della instituzione, della eccellenzia, della transubstanziazione, del culto, della preparazione per ricever il sacramento, dell’uso del calice nella comunione de’ laici e della comunione de’ putti. Fu ancora proposto di far raccolta delli abusi occorrenti e soggionger li remedi. Poi passarono li padri in quella congregazione e in alcune delle sequenti a dir il parer loro sopra li sette anatematismi, nel che non fu detto cosa rilevante; se non che nel condennare quei che non confessano la real presenza del corpo di nostro Signore, molti desideravano (cosí erano le loro parole) che il canone fosse ingrassato e fatto piú pregnante con esplicare che nell’eucaristia vi è il corpo di Gesú Cristo, quello stesso che è nato della Vergine, che ha patito in croce e fu sepolto, che resuscitò, ascese in cielo, siede alla destra di Dio e verrá al giudicio. E la maggior parte di loro raccordarono che vi mancava un capo molto importante, cioè di esplicare che il ministro di questo sacramento è il sacerdote legittimamente ordinato; e questo perché Lutero e gli altri seguaci suoi spesso dicono che lo possi far ogni cristiano, eziandio una donna.

Ma il conte di Monfort, vedendo trattarsi di materia tanto controversa, e massime della comunione del calice, che era la piú palpabile e populare e da tutti intesa, giudicò che, se quella fosse determinata, non s’averebbe potuto indur li protestanti a venir al concilio, e tutta l’opera sarebbe riuscita vana; e comunicato il pensiero suo con li colleghi e con li ambasciatori di Ferdinando, andarono tutti insieme alli presidenti: e fatto prima longa narrazione delle fatiche fatte da Cesare e in guerra e col negozio per far sottometter li protestanti al concilio, il che non s’averebbe potuto effettuare senza che vi fossero intervenuti, mostrò che a questo bisognava principalmente attendere; e perciò Cesare aveva dato loro salvocondotto. Ma di tanto non si contentavano, allegando il concilio di Costanza aver decretato, e in fatto anco esequito, che il concilio non sia obbligato per salvocondotto [p. 96 modifica] dato da qualsivoglia, onde ne ricercavano uno dalla medesima sinodo, quale da Cesare li era stato promesso, e dato carico ad essi ambasciatori di ottenerlo dalla sinodo. Al che avendo il legato dato risposta con molte parole di complemento, ma remessosi alla sessione che si farebbe, e questo per aver tempo di darne conto a Roma, soggionse il conte per la medesima causa non li parer opportuno che inanzi la loro venuta si trattasser le materie controverse dell’eucaristia; che non mancavano le cose della riforma da trattare, o veramente altre in quali non vi fosse differenza. Rispose il legato che giá era deliberato di trattar dell’eucaristia, né s’averebbe potuto far altro, essendo per inanzi concluso che del pari in ogni sessione andassero li decreti della fede e della riforma; e la materia dell’eucaristia seguir necessariamente dopo quella della confirmazione, che ultima fu trattata prima che andar a Bologna; ma però quella era controversa piú tosto con li svizzeri zuingliani che con li protestanti, che non erano sacramentari come quelli. Saltò il conte alla comunione del calice, e mostrò che, quando fosse deciso quel punto contra loro, da tutto il populo inteso, e dove fa maggior insistenza, era impossibile trattar piú di ridurli. Che anco Cesare nel decreto della interreligione fu costretto accomodarsi in questo; però essi ancora volessero differirlo alla venuta delli protestanti. Il legato non repugnò, ma la passò con parole generali e inconcludenti, per intender prima sopra di questo il voler del pontefice: al quale diede conto di tutte le cose trattate dalli teologi e delli anatematisini formati, e anco di quello che s’era divisato in materia di riforma, di che di sotto si dirá; e poi avvisò le due richieste delli ambasciatori imperiali, ricercando risposta.

Il pontefice misse le cose in consulta: quanto al salvocondotto trovò varietá d’opinioni. Non volevano alcuni che si dasse, allegando che mai era stato fatto, se non dal basiliense, che non era bene in cosa alcuna imitare: e che era gran pregiudicio ubbligarsi alli ribelli. E poi quando vi fosse stata speranza di guadagnarli, tutto s’averebbe potuto comportare; [p. 97 modifica] ma niente esservene: anzi piú tosto in luoco di quella potersi con ragione temer che qualcuno fosse sovvertito, come è avvenuto a Vergerio; e, se non in tutto, almeno in qualche parte; dalla qual contagione prelati principalissimi e ubbligatissimi alla santa Sede non sono stati esenti. Dall’altra parte si diceva che non per speranza di convertirli, la qual era perduta a fatto, ma per non lasciarli luoco di scusa conveniva darli ogni sodisfazione; ma piú perché l’imperatore averebbe per li interessi suoi fatto maggior instanza, e sarebbe stato necessario compiacerlo in quel tempo, quando, stante l’alienazione del re di Francia, bisognava depender totalmente da lui: e quello che si prevedeva dover fare per forza, era meglio prevenendo farlo di volontá; e quanto alli pregiudici, si poteva dar tal forma che fosse di nessuna o di leggiera obbligazione. Prima, non descendendo a nominar protestanti, ma in generale ecclesiastici e secolari della nazione germanica d’ogni condizione, perché cosí sotto le parole generali si potrá dire che sono compresi, e si potrá anco difender che sia inteso de’ soli cattolici, e non di loro, allegando che per essi sarebbe stata necessaria una specifica ed espressa menzione. Poi, la sinodo concederá il salvocondotto quanto a lei, e sará riservata l’autoritá del papa; e poi si potrá deputar giudici sopra le colpe commesse, e per non insospettirli lasciar a loro l’eletta: onde si ritenerebbe il vigor della disciplina e l’autoritá di punire, e non si mostrerá di cedere o rimettere cosa alcuna. Prevalse questa opinione appresso al papa, e fece secondo quella formar la minuta del salvocondotto, e fece risponder al legato, lodando la prudenza nelle risposte date e risolvendo che il salvocondotto fosse concesso nella forma che gli mandava, e fosse differita la materia del calice ad effetto di aspettarli, ma non oltre tre mesi o poco piú; non stando fra tanto ociosi, ma facendo una sessione intermedia con trattar della penitenza, la qual non si differisse oltre li quaranta giorni o poco piú. Gli avverti anco che li canoni in materia dell’eucaristia erano troppo pieni, e che meglio sarebbe dividerli. [p. 98 modifica]

Fra tanto che in Roma si consultava, in Trento si passò inanzi trattando li capi di dottrina, nel che si camminò con la medesima facilitá che per inanzi nel discuter gli articoli. Ma quando si venne ad esprimere il modo dell’esistenza, cioè in che maniera Cristo sia nel sacramento, e la transustanziazione, cioè come di pane si faccia il corpo di Cristo e di vino sangue, non si potè trattare senza contenzione tra le due scole dominicana e franciscana; la quale fu di molta noia alli padri per la sottilitá e per il poco frutto, non sapendo essi medesmi esprimere il proprio senso.

Volevano in somma li dominicani che si dicesse non esser Cristo nell’eucaristia perché da altro luoco, dove prima fosse, sia andato in quella; ma perché la sostanza del pane è convertita nel suo corpo, quello esser nel luoco dove il pane era, senza esservi andato; e perché tutta la sostanza del pane si transmuta in tutta la sostanza del corpo, cioè la materia del pane nella materia del corpo e la forma nella forma, chiamarsi propriamente «transustanziazione». E però doversi tener due modi di essere di Cristo nostro Signore, ambidua reali, veri e sostanziali: uno, il modo come è in cielo, perché egli lassú è salito partendo di terra, dove prima conversava; l’altro, come è nel sacramento, nel qual si ritrova per esser dove la sostanza del pane e vino, convertite in lui, erano prima. Il primo modo chiamarsi naturale perché a tutti li corpi conviene; il secondo, sí come è singolare, cosí non potersi esprimere con alcun nome conveniente ad altri, e non potersi chiamar sacramentale, che vorrebbe dir esser non realmente ma come in segno, non essendo altro sacramento che sacro segno, eccetto se per sacramentale non si voglia intendere un modo reale proprio a questo sacramento solo e non agli altri sacramenti.

Li francescani desideravano che si dicesse un corpo per la divina omnipotenza poter esser veramente e sustanzialmente in piú luochi; e quando di novo acquista un luoco, esser in quello perché ci va, non però con mutazione successiva, come quando lascia il primo per acquistar il [p. 99 modifica] secondo, ma con una instantanea, per quale acquista il secondo senza perder il primo. E aver cosí Dio ordinato che, dove il corpo di Cristo sia, non vi resti la sostanza d’altra cosa, ma quella cessi di essere, non però annichilandosi, perché in vece sua succede quella di Cristo; e per tanto veramente chiamarsi transustanziazione, non perché di quella si faccia questa, come li dominicani dicono, ma perché a questa quella succede. Il modo come Cristo è in cielo e come nel sacramento non esser differenti quanto alla sustanza, ma solo per la quantitá. Esser in cielo, occupando la magnitudine del corpo suo tanto spacio quanto ella è; nel sacramento la magnitudine esservi sostanzialmente e senza occupare. Imperò ambidue li modi esser veri, reali e sostanziali, e quanto alla sustanza anco naturali; rispetto alla quantitá l’esser in cielo è naturale, l’esser nel sacramento miracoloso: differenti in questo solo, che in cielo la quantitá si trova con effetto di quantitá, e nel sacramento ha condizione di sostanza.

Ambedua le parti sposavano cosí la sentenza propria, che l’affermavano piana, chiara e intelligibile a tutti, e dall’altra parte opponevano infinitá di assurdi che seguirebbono dalla contraria. L’elettor di Colonia, che insieme con Gioanni Groppero fu assiduo alle dispute per intender questa materia, in quello che le parti una contra l’altra opponevano, dava ragione ad ambedue; in quello che ciascuno affermava, averebbe desiderato (cosí diceva) qualche probabilitá che cosí parlassero intendendo la materia, e non, come mostravano di fare, per consuetudine e abito di scola. Furono formate diverse minute, con esprimere questi misteri da ambedue le parti, e altre furono composte, preso qualche cosa da ambedue. Nessuna fu di sodisfazione, massime al noncio Verona, il quale era principale in sopraintendere a questa materia. Nella congregazione generale fu deliberato di usar manco parole che possibile fosse, e far una espressione cosí universale, che potesse servir ad ambe le parti ed esser accomodata alli sensi di tutte dua; e la cura fu data ad alcuni padri e teologi, con la sopraintendenza del noncio suddetto. [p. 100 modifica]

In fine della congregazione si propose di raccoglier li abusi in questa stessa materia con li remedi per estirparli. E nelle sequenti congregazioni furono raccontati molti: che il santissimo sacramento in alcune chiese particolari non è conservato, e in altre è tenuto con grande indecenza; che, quando è portato per la strada, molti non s’ingenocchiano e altri non degnano manco scoprirsi il capo; che in alcune chiese è tenuto per cosí longo spazio, che vi nasce delle putredini; che nel ministrare la santa comunione è usata da alcuni parrochi grande indecenza, non avendo pur un panno che il comunicante tenga in mano. Quello che piú importa, li comunicati non sanno quello che ricevono, né hanno instruzione alcuna della dignitá né del frutto di questo sacramento. Che alla comunione sono admessi concubinari, concubine e altri enormi peccatori, e molti che non sanno il Pater noster né l’Ave Maria. Che alla comunione sono dimandati danari sotto nome di elemosina; e peggio di tutto in Roma vi è un’usanza, che chi ha da comunicarsi tiene in mano una candela accesa con qualche danaro infisso dentro, il qual con la candela, dopo la comunione, resta al sacerdote; e chi non porta la candela, non è admesso alla comunione. Per rimedio di parte di questi e altri abusi furono formati cinque canoni con un bellissimo proemio. Nel primo si statuiva che, mostrandosi il sacramento nell’altare, o portandosi per la via, ognun debbi ingenocchiarsi e scoprirsi il capo; che in ogni chiesa parrocchiale si debbi servar il sacramento e rinovarlo ogni quindici giorni, e far ardere inanzi a lui giorno e notte una lampada; che sia portato agl’infermi dal sacerdote in abito onorevole, e sempre con lume; che li curati insegnino alli suoi popoli la grazia che si riceve in questo sacramento, ed esequiscano contra loro le pene del capitolo Omnis utriusque sexus; che gli ordinari debbino aver cura della esecuzione, castigando li transgressori con pene arbitrarie, oltre le statuite da Innocenzo III nel capitolo Statuimus, e da Onorio III nel capitolo Sane.

Della riforma fu trattato nel medesimo tempo che si disputava della fede, ma da altre congregazioni, nelle quali [p. 101 modifica] intervenivano canonisti; le qual trattazioni, per non interromper le materie, ho portate qui tutt’insieme. E perché il proposito fu di riformar la giurisdizione episcopale, per intelligenza delle cose che si narreranno in questa occasione e in molte altre seguenti, questo luoco ricerca che si parli dell’origine sua, e come, venuta a tanta potenza, sia resa alli principi sospetta e alli popoli tremenda.

Avendo Cristo agli apostoli ordinato la predicazione dell’Evangelio e ministerio de’ sacramenti, a loro, anco in persona di tutti li fedeli, lasciò questo principal precetto, di amarsi l’un l’altro e rimettersi le ingiurie, incaricando ciascuno d’intromettersi fra li dissidenti e componerli, e per supremo rimedio dandone la cura al corpo della Chiesa, con promessa che sarebbe sciolto e legato in cielo quello che sciogliesse e legasse in terra, e dal Padre sarebbe conceduto quello che doi dimanderanno di comun consenso. In questo caritatevole ufficio di procurar sodisfazione all’offeso e perdono all’offensore si esercitò sempre la Chiesa primitiva. E in consequenza di questo san Paulo ordinò che li fratelli, avendo liti civili l’un contra l’altro, non andassero a tribunali de infedeli, ma fossero constituite savie persone che giudicassero le differenze. E questo fu una specie di giudicio civile, sí come quell’altro piú similitudine ha col criminale; ma in tanto differenti dalli giudici mondani, che sí come questi hanno l’esecuzione per la potestá del giudice che costringe a sottoporsi, cosí quelli per la sola volontá del reo a riceverli: quale non volendo egli prestare, il giudicio ecclesiastico resta senza esecuzione; né altra forza ha, se non che è pregiudicio del divino, che seguirá secondo l’onnipotente beneplacito o in questa vita o nella futura. E veramente il giudicio ecclesiastico meritava il nome di caritá, poiché quella sola induceva il reo a sottoporsi, e la Chiesa a giudicarlo con tanta sinceritá del giudice e obedienza dell’errante, che né in quello poteva aver luoco cattivo affetto, né querimonia in questo, e l’eccesso della caritá nel castigare faceva sentir maggior pena al correttore; sí che nella Chiesa non si passava all’imposizione della pena senza [p. 102 modifica] gran pianto della moltitudine e maggiore delli piú principali: il che fu causa che il castigare allora si chiamasse «piangere». Cosí san Paulo, reprendendo li corinti di non aver castigato l’incestuoso, disse: «Voi non avete pianto per separar da voi un tal transgressore». E nell’altra epistola: «Temo che, ritornato a voi, non sii per trovarvi quali vi desidero, ma in contenzioni e tumulti; e che, venuto, io non pianga molti di quelli che inanzi hanno peccato».

Il giudicio della Chiesa (come è necessario in ogni moltitudine) conveniva che fosse condotto da uno che preseda e guidi l’azione, proponga le materie e raccolga li partiti per deliberare: cura che, dovendosi alla persona piú principale e piú idonea, senza difficoltá fu sempre del vescovo. E dove le chiese molto numerose erano, le proposte e deliberazioni si facevano dal vescovo, prima nel collegio de’ preti e diaconi che chiamavano presbiterio, e lá si maturavano per ricevere poi l’ultima risoluzione nella general congregazione della Chiesa. Questa forma era ancora in piedi del 250; e dall’epistole di Cipriano si vede chiaro, il quale nella materia dei sacrificati e libellatici scrive al presbiterio che non pensava a far cosa senza il loro conseglio e consenso della plebe; e al popolo scrive che, tornato, esaminerá le cause e meriti in presenza loro e sotto il loro giudicio; e a quei preti, che di proprio capriccio ne avevano reconciliati alcuni, scrisse che renderanno conto alla plebe.

La bontá e caritá delli vescovi faceva che il loro parere fu per il piú seguito, e a poco a poco fu causa che la Chiesa, refreddata la caritá e poco curandosi del carico impostogli da Cristo, lasciò la cura al vescovo; e l’ambizione, affetto assai sottile e che penetra in specie di virtú, la fece prontamente abbracciare. Il colmo della mutazione fu, cessate le persecuzioni. E allora li vescovi eressero come un tribunale, il quale divenne frequentatissimo, perché crebbero anco con le comoditá temporali le cause delle liti. Il giudicio, se ben non era come l’antico quanto alla forma di deliberare il tutto col parer della Chiesa, restava però della stessa sinceritá. Onde Costantino, vedendo quanto era di frutto per terminar le liti, e che [p. 103 modifica] con l’autoritá della religione erano scoperte le azioni capziose non penetrate dai giudici, fece legge che le sentenzie del li vescovi fossero inappellabili, e fossero eseguite dalli giudici; e se in causa pendente inanzi al giudice secolare, in qualonque stato di essa, qual si voglia delle parti, eziandio repugnante l’altra, dimandasse il giudicio episcopale, gli fosse immediate rimesso.

Qui incominciò il giudicio episcopale ad esser forense, avendo l’esecuzione col ministerio del magistrato, e acquistar nome di giurisdizione episcopale, audienza episcopale e altri tali. Ampliò ancora quella giurisdizione Valente imperatore, che del 365 li diede cura sopra tutti li prezzi delle cose vendibili. Questa negoziazione forense alli buoni vescovi non piacque. Racconta Possidio che, se ben Agostino vi intendeva alle volte sino all’ora di desinare, alle volte sino a sera, era solito dire che era un’angaria, e che lo divertiva dalle cose proprie a lui: ed esso stesso scrive che era un lasciar le cose utili e attendere alle tumultuose e perplesse; che san Paulo non lo prese per sé, come non conveniente a predicatore, ma volse che fosse dato ad altri. Poi incominciando qualche vescovi ad abusar l’autoritá datagli dalla legge di Costantino, dopo settanta anni quella legge fu da Arcadio e Onorio revocata, e statuito che non potessero giudicare se non cause della religione; e nelle civili, se non intervenendo il consenso e compromesso d’ambe le parti e non altramente; e dechiarato che non s’intendessero aver fòro. La qual legge in Roma poco osservandosi per la gran potestá del vescovo, Valentiniano (essendo in quella cittá del 452) la rinnovò e fece metter in esecuzione. Ma poco dopo fu dalli seguenti principi ritornata parte della potestá levata; tanto che Giustiniano li stabili fòro e audienza, e li assegnò le cause della religione, li delitti ecclesiastici delli chierici e diverse giurisdizioni volontarie anco sopra li laici. Per questi gradi la caritativa correzione da Cristo instituita degenerò in una dominazione, e fu causa di far perder alli cristiani l’antica riverenza e ubedienza. Si nega bene in parole che la [p. 104 modifica] giurisdizione ecclesiastica sia un dominio come quella del secolare; ma non si sa por tra loro differenza reale. San Paulo ben vi statuí la differenza, mentre a Timoteo scrisse e a Tito replicò che il vescovo non fosse cupido di guadagno né percotitore; al presente in contrario si fa pagar li processi, impregionar le persone, non altrimenti di quello che al fòro secolare si faccia.

Ma separate le provincie occidentali, e fatto di Italia, Francia e Germania un imperio, e di Spagna un regno, in tutte quattro queste provincie li vescovi per il piú erano assonti per conseglieri del principe, che fece, con la mistura de carichi spirituali e di cure temporali, accrescer l’autoritá del fòro episcopale in immenso. Non passarono duecento anni che pretesero assolutamente ogni giudicio criminale e civile sopra li chierici, e in diverse materie anco sopra li laici, con pretesto che la causa sia ecclesiastica. E oltra questo genere ne inventarono un altro, chiamato di fòro misto, volendo che contra il secolare possi procedere cosí il vescovo come il magistrato, dando luoco alla prevenzione con la quale per l’esquisita loro sollecitudine, non lasciando mai il luoco al secolare, se gli appropriano tutti; e quelli che restano fuori di sí gran numero, vengono in fine compresi da una regola universale stabilita da loro come fondamento di fede, cioè che ogni causa si devolva al fòro ecclesiastico, se il magistrato non vorrá o sará negligente a far giustizia. Ma se le pretensioni del clero fossero fra questi termini fermate, lo stato delle repubbliche cristiane sarebbe tollerabile. Li popoli e principi, quando si vedessero arrivar a termini insopportabili, potrebbono con leggi e ordinazioni ridur li giudici a forma comportabile, come nelli antichi tempi al bisogno s’è fatto. Ma chi ha messo il cristianesmo sotto il giogo, li ha in fine levato il modo di scuoterlo dal collo. Imperocché dopo il 1050 essendo giá fatte proprie del fòro episcopale tutte le cause de’ chierici, e tante dei laici con titolo di spiritualitá, e participate quasi tutte le altre sotto nome di misto fòro, e soprapostosi alli magistrati secolari, con pretesto di [p. 105 modifica] denegata giustizia, si passò a dire che quella potestá di giudicare, estesa a tante cause, non l’aveva il vescovo nè per concessione de principi, né per connivenza loro, o per volontá dei popoli, o per consuetudine introdotta, ma che era essenziale alla dignitá episcopale e datagli da Cristo.

E con tutto che rimangano le leggi degl’imperatori nelli codici di Teodosio e di Giustiniano, nelli capitolari di Carlo Magno e Lodovico Pio, e altre de principi posteriori occidentali e orientali, che tutte apertamente mostrano come, quando e da chi tal potestá è stata concessa, e tutte le istorie cosí ecclesiastiche come mondane concordino in narrare le medesme concessioni e le consuetudini introdotte, aggiongendovi le ragioni e cause; nondimeno una cosí notoria veritá non è stata di tanto potere che la sola affermazione contraria, senza prova alcuna, non abbia superato, e li dottori canonisti non l’abbino sostenuta, sino al predicar per eretici quelli che non sopportano esser trattati da ciechi: non fermandosi manco in questi termini, ma aggiongendo che né il magistrato, né il principe medesmo può in alcuna di quelle cause, che il clero s’ha appropriato, intromettersi, perché sono spirituali, e delle cose spirituali li laici sono incapaci.

Il lume però della veritá non fu cosí estinto, che in quei primi tempi persone dotte e pie non s’opponessero a questa dottrina, mostrando esser false ambedue le premesse di quel discorso; e la maggiore, cioè che li laici siano incapaci di cose spirituali, esser assurda ed empia. Poiché essi sono presi in adozione dal Padre celeste, chiamati figli di Dio, fratelli di Cristo, partecipi del regno celeste, fatti degni della grazia divina del battesmo, della comunione, della carne di Cristo, che altre cose spirituali vi sono oltra queste? E quando bene ve ne fossero, come chi partecipa di queste supreme si doverá chiamar assolutamente con termini generali incapace delle cose spirituali? Ma esser anco falsa la minore, che le cause appropriate alli giudici episcopali siano spirituali, poiché tutte sono de delitti o de contratti, che, considerate le qualitá assegnate dalla Scrittura divina alle cose spirituali, sono piú lontane da [p. 106 modifica] esser tali che la terra dal cielo. Ma l’opposizione della parte migliore non ha potuto ottenere che la maggiore non superasse; e cosí sopra la spiritual potestá data da Cristo alla Chiesa di ligare e sciogliere, e sopra l’instituto di san Paulo di componer le liti tra cristiani senza andar al tribunal de infedeli, in molto tempo e per molti gradi è stato fabbricato un temporal tribunale, piú risguardevole che mai nel mondo fosse, e nel mezzo di ciascun governo civile instituitone un altro independente dal pubblico; che mai chi scrisse delli governi averebbe saputo immaginare che un tal stato di repubblica potesse sussistere.

Tralascierò di dire come le fatiche di tanti, oltre l’aver ottenuto il disegnato fine di farsi un fòro independente dal pubblico, ne abbino sortito un altro improvveduto di fabbricar un imperio: essendo nata e con mirabil progresso radicata una nova opinione molto piú ardua, che tutto in un tratto dá al solo pontefice romano quanto in milletrecento anni è stato da tanti vescovi in tanti modi admirabili acquistato, rimovendo dall’esser fondamento della giurisdizione il ligar e sciogliere, e sostituendo il pascere; e con questo facendo che tutta la giurisdizione da Cristo sia data al solo papa nella persona di Pietro, quando li disse: «Pasci le mie pecorelle»; atteso che di ciò si parlerá nella terza riduzione del concilio, quando per questa opinione furono eccitati li gran tumulti che allora si racconteranno. Ma da quel che al presente ho narrato ognun potrá da se stesso conoscere che rimedi erano necessari per dar forma tollerabile ad una materia passata in tante corruzioni, e compararli con li proposti.

In Trento furono conosciuti due difetti, cioè che dal canto dei superiori la caritá era convertita in dominazione, e dal canto degl’inferiori l’obedienza voltata in querele e subterfugi e querimonie: e si pensò prima di provvedere in qualche parte ad ambedua. Ma nel proseguire, quanto alla prima, che è la fontana dove la seconda ha origine, non si venne se non ad un rimedio esortatorio alli prelati di levar la dominazione e restituir la caritá. Ma per quel che alli sudditi tocca, essendo [p. 107 modifica] fatta menzione di molti subterfugi usati per deluder la giustizia, furono pigliati tre capi solamente: le appellazioni, le grazie assolutorie e le querele contra li giudici.

Delle appellazioni parlò con molta dignitá Giovanni Groppero, che in quel concilio interveniva e per teologo e per iurisconsulto, dicendo che, mentre il fervor della fede durò nei petti dei cristiani, fu inaudita l’appellazione; ma, raffreddata la caritá nelli giudici e dato luoco agli affetti, sottentrò nella Chiesa, per le stesse ragioni che l’introdussero nel fòro del secolo, cioè per sollevazione degli oppressi: e sí come li giudici primi non erano del solo vescovo, ma di lui col concilio de’ suoi preti, cosí l’appellazione si devolveva non ad uno, ma ad un’altra congregazione. Ma li vescovi, levate le sinodi, instituirono li fòri e ufficiali a guisa dei secolari. Né il male si fermò in questo grado, anzi passò ad abusi maggiori che nel fòro secolare; imperocché in quello l’appellazione non si può interporre se non al superior immediato; il saltar alla prima al supremo non è lecito; né meno è permesso negli articoli della causa appellare dalli decreti del giudice che chiamano interlocutorii, ma è necessario aspettar il fine; dove negli ecclesiastici s’appella d’ogni atto, che fa le cause infinite; e immediate al supremo, che porta le cause fuori delle regioni, con dispendi e altri mali intollerabili. Questo egli diceva aver narrato per concludere che, volendo riformar questa materia, la qual è tutta corrotta, e non solo impedisce la residenza, come nelle congregazioni da tanti valenti dottori e padri era stato considerato, ma maggiormente perché corrompe tutta la disciplina ed è di gravame alli popoli, di spesa e di scandolo, conveniva ridurla al suo principio, o quanto piú prossimo fosse possibile, mettendosi inanzi gli occhi un’idea perfetta, e a quella mirando accostarsi quanto la corruzione della materia comporta. Che le religioni monacali ben instituite hanno proibita ogni appellazione; e questo è il rimedio vero. Chi non ha potuto gionger tant’alto, le ha moderate, concedendole tra il loro ordine con proibizione di quelle di fuori: cosa che riuscendo, come si [p. 108 modifica] vede, a tenir in buona regola quei governi, farebbe l’istesso effetto nelli pubblici della Chiesa, quando le appellazioni restassero nella medesma provincia; e per effettuar questo e per raffrenar la malizia dei litiganti basta ridurle alla forma delle leggi comuni, con proibir il salto di poter andar al supremo senza passar per li intermedi superiori, e con vietar le appellazioni dalli articoli o decreti interlocutorii; con le qual provvisioni le cause non anderanno lontane, non saranno tirate in longo, non intervenirá l’eccessiva spesa e li innumerabili gravami: e acciocché li giudici passino con sinceritá, restituire li sinodali, non soggetti a tanta corruzione; levando quei degli ufficiali, de’ quali il mondo è tanto scandalizzato, che non è piú possibile che la Germania li sopporti.

Non fu gratamente udito questo parere se non dalli spagnoli e tedeschi; ma il cardinale e il noncio sipontino sentirono sommo dispiacere che cosí inanzi si passasse. Questo era un levar a fatto non solo l’utile della corte, ma la dignitá ancora; nessuna causa anderebbe a Roma, e a poco a poco si scorderebbe ognuno della superioritá del pontefice, essendo ordinario degli uomini non stimar quello superiore, l’autoritá del quale non si tema, o non se ne possi valere. Operarono però che da Giovan Battista Castelli bolognese fosse parlato nella congregazione seguente nell’istessa materia in modo che, senza contradire a Groppero, fosse mortificata l’apparenza delle ragioni da lui allegate. Egli incominciò dalle lodi dell’antichitá della Chiesa, toccando però con destrezza che in quei medesimi tempi vi erano le sue imperfezioni, in qualche parte maggiori delle presenti; ringraziato Dio, diceva, che non è oppressa la Chiesa, come quando li ariani a pena la lasciavano apparire: non si debbe tanto lodare la vecchiezza, che non si reputi anco che nei secoli posteriori qualche cosa non sia fatta megliore. Quelli che lodano li giudici sinodali, non hanno veduto li difetti di quelli, l’infinita longhezza nelle espedizioni, li impedimenti nel diligente esamine, la difficoltá nell’informar tanti, e le sedizioni per le fazioni. È ben da credere che siano stati intermessi, perché non bene [p. 109 modifica] succedevano. Li fòri e ufficiali furono introdotti per rimediare a quei disordini. Non si può negare che questi non ne portino altri degni di provvisione: questo bisogna fare, ma non rimettere in piedi quello che fu abolito per non potersi tollerare. Nelle appellazioni si costumava passare per li mezzi e non andar al supremo; e questo si è levato, perché li capi delle provincie e regioni erano fatti tiranni delle chiese: s’ha introdotto per rimedio il portare tutti li negozi a Roma. Questo ha il suo male: la lontananza, la spesa; ma piú tollerabili che l’oppressione. Chi ritornasse il modo di prima, si troverebbe, per aver rimediato ad un male, averne causato molti, e ciascuno maggiore. Ma sopra tutto doversi considerare che non conviene l’istesso modo di governo ad una cosa pubblica in tutti li tempi, anzi sí come quello fa delle mutazioni, cosí conviene mutare il governo; il modo di regger antico non sará fruttuoso, se insieme lo stato della Chiesa non torna l’antico. Chi, attendendo il modo come li putti si governano, e come quella libertá di mangiare e bere ogni cosa in ogni tempo è causa di sanitá e robustezza, pensasse a governar cosí un vecchio, si troverebbe molto ingannato. Le chiese erano picciole, circondate da pagani, unite tra loro come vicine al nemico; adesso sono grandi e senza contrario che le tenga in ufficio: onde le cose comuni sono neglette, ed è necessario che siano da uno curate. Se in ciascuna provincia le cause restassero, fra pochi anni tanta diversitá nascerebbe, che sariano contrarie l’una all’altra, che non apparirebbono della medesima fede e religione. Li pontefici romani negli antichi tempi non hanno assonto a loro molte parti del governo, quando vedevano che camminava bene; l’hanno riservate a sé, quando dagli altri sono state abusate. Molti sono dopo succeduti pontefici di santa vita e ottima intenzione, che le averebbono restituite, quando non avessero veduto che in materia corrotta non potevano esser bene usate. Concluse che per servar l’unitá della Chiesa era necessario lasciar le cose nell’istesso termine.

Ma né questo piacque manco alli prelati italiani, quali se [p. 110 modifica] ben volevano conservata l’autoritá del papa, desideravano esserci per qualche cosa; massime dovendo star alla residenza. Però si venne a temperamenti. Il restituir li giudici sinodali fu da quasi tutti escluso, ché diminuiva l’autoritá episcopale e teneva del populare; l’andar per gradi nell’appellazione, se ben sostentato da molti, fu escluso dalla pluralitá de’ voti. L’appellare dalle sole difinitive si accomodò con limitazione nelle sole cause criminali, lasciati li giudici civili nello stato stesso, se ben avevano quelli forse bisogno maggiore di esser riformati. Per quel che tocca il giudicio contra le persone dei vescovi, non desiderando alcuno di facilitar li giudici contra di sé, non si parlò di restituirli alle sinodi parrocchiali, de quali giá erano propri, ma di provvedere che, restando in mano del papa, passassero con maggior dignitá di quell’ordine, moderando le commissioni che da Roma si davano, per quali erano costretti comparire e sottomettersi a persone d’ordine inferiore. E questo fu cosí ardentemente da tutti desiderato che fu necessario al legato condescendervi, quantunque non li piacesse esaltazione alcuna dei vescovi, levandosi al papa tutto quello che a loro si dava.

Li prelati germani proposero che le leggi delle degradazioni fossero moderate, come quelle che erano fatte intollerabili e porgevano molta occasione di querimonia in Germania; poiché, essendo una pura ceremonia che impedisce la giustizia, e avendone chiesta la moderazione sino dal 1522 nel trigesimoprimo delli Cento Gravami, il vedere che si perseveri nell’abuso ad altri genera scandolo, ad altri è materia di detrazione.

Antico uso della Chiesa fu che, dovendo ritornare alcuna persona ecclesiastica allo stato secolare, acciocché non apparisca che li deputati al ministerio della Chiesa servissero a cose mondane, costumavano li vescovi di levarli il grado ecclesiastico, ad esempio della milizia, che per tenersi in onorevolezza non concedeva che un soldato ritornasse alle fazioni civili o fosse al giudice civile sottoposto, se prima non era spogliato del grado militare, che perciò fu detto degradazione, [p. 111 modifica] con levarli la cintura e arme, come con quelle era stato creato soldato. Per il che, quando alcun chierico, o per propria volontá, o per leggi, doveva ritornare alle fazioni secolari, o vero per delitti esser sottoposto a quel fòro, li vescovi li levavano il grado con quelle stesse cerimonie con quali era stato investito, spogliandolo degli abiti, e levandogli di mano li istromenti con l’assegnazione de’ quali erano deputati al ministerio; vestitolo prima a punto, come se fosse in atto di ministrar nel suo carico, e spogliandolo, con incominciar da quello che fu ultimo nell’ordinazione, e con parole contrarie a quelle che nella promozione sono usate. E questo era cosa assai quotidiana in quei primi tempi dopo Costantino per trecento anni. Ma intorno il Seicento fu introdotto di non permettere alli chierici di ordine sacro di poter tornar al secolo, e agli altri concesso che lo potessero fare a suo piacere; onde pian piano la degradazione de’ minori andò in total disuetudine, e quella dei maggiori si ristrinse solo quando dovevano esser sottoposti al fòro. E Giustiniano, regolando li giudici dei chierici, dopo aver ordinato che nelli delitti ecclesiastici fossero dal vescovo castigati, e nelli delitti secolari, che esso chiamò civili, fossero puniti dal giudice pubblico, aggionse che però la pena non si esequisse prima che il reo fosse spogliato del sacerdozio dal vescovo. E doppoi che alli vescovi furono concessi li giudici criminali sopra li chierici, la degradazione restò solo in caso dove la pena dovesse essere di morte, la qual, per dignitá dell’ordine suo, gli ecclesiastici non averebbono voluto che mai fosse inferita: ma nelli casi di esorbitante sceleratezza non pareva che senza scandolo si potesse negare. Però quello che non si poteva al diretto, trovarono modo di indirettamente effettuare, con dire esser ben giusto punir le sceleratezze delli chierici con la meritata morte, ma che era prima necessaria la degradazione; e con farla cosí difficile, con circostanze di solennitá che pochissime volte si potesse metter in pratica, operavano che poche volte fosse effettuata, dovendo anco questo servire a maggior riverenza dell’ordine clericale, nel sangue del quale la giustizia [p. 112 modifica] non poteva metter mano, senza tanta solennitá precedente. Per questa causa non fu concesso che dalli vescovi si facesse se non in pubblico, con le vesti sacre e, quello che piú importava, con assistenza di dodici vescovi nella degradazione d’un vescovo, di sei in quella d’un prete, di tre per un diacono, li quali con paramenti pontificali fossero presenti. E parendo cosa ardua che al vescovo, quale senza compagnia diede il grado, non sia concesso il solo far mostra di levarlo, papa Innocenzo III levò la maraveglia con una massima che non ha maggior probabilitá, dicendo che li edifici temporali con difficoltá sono fabbricati e con facilitá destrutti, ma li spirituali, in contrario, con facilitá edificati e destrutti con difficoltá. Il volgo teneva la degradazione per una cosa necessaria, e, quando accadeva, vi concorreva con indicibile frequenza. Gli uomini dotti conoscono il fondo, perché avendo statuito che nella collazione dell’ordine s’imprima un segno, chiamato carattere, nell’anima, il quale sia impossibile scancellare, e però non levandosi con la degradazione, quella resta una pura ceremonia fatta per riputazione. In Germania per la raritá de’ vescovi non si poteva fare senza una spesa immensa, a ridur in un luoco un tanto numero. E quei prelati tedeschi, che in concilio erano per la maggior parte principi, conoscevano piú di tutti quanto fosse necessario per esempio castigare nella vita la sceleratezza de’ preti, onde facevano instanza che si vi provvedesse. Fu assai discusso questo particolare, e in fine risoluto di non mutar la cerimonia in alcun conto, ma trovar temperamento che la difficoltá e la spesa fossero moderate.

Il legato, se ben ogni settimana aveva dato conto a Roma di tutte le occorrenze, nondimeno volse stabilire in congregazione le minute delli decreti, per poterne mandar copia e ricever la risposta inanzi la sessione: onde, redutta la congregazione generale, non facendo menzione di quello che da Roma li fosse scritto, fece relazione di quanto gli era stato dal conte di Monfort rappresentato, soggiongendo parerli ragionevole la petizione del salvocondotto e la dilazione di quello che con dignitá si poteva differire; perché, avendo giá [p. 113 modifica] statuito il primo settembre di parlar dell’eucaristia, non era possibile restar di farlo, ma lasciar qualche capo piú importante e piú controverso era cosa concessibile. E raccogliendosi li voti, tutti furono di parer che il salvocondotto si concedesse; ma quanto al differir la materia, consigliavano alcuni che non era dignitá farlo, se non assicuravano di dover venir a trattarla e sottoporsi alla determinazione della sinodo. Altri dissero che era assai salva la dignitá, quando si facesse a loro richiesta: e questa fu la piú comune opinione. Allora il legato soggionse che s’averebbe potuto riservare la materia del ministrar a’ laici il calice, e per mostrar che non dovessero venir per un solo articolo, aggiongerci la comunione dei putti. Cosi si prese ordine di formar il decreto in questo particolare. Il qual letto, parendo ad alcuni che fosse poco il riservar doi articoli, però esser meglio divider il primo in tre, e cosí reservarne quattro e aggiongervi il sacrifício della messa, del quale le controversie sono grandi (ché cosí apparirá esser riservate molte cose e le principali), in questo parere convennero. E quando si fu a dire che li protestanti fanno instanza d’esser ascoltati sopra di quelli, si levò un prelato di Germania, e dimandò da chi e a chi fosse questa instanza fatta, perché molto importava che questo apparisse: altrimenti, quando essi dicessero non esser vero, restava molto intaccato l’onor del concilio. Ma non essendoci altro che quanto il conte di Monfort aveva detto come da sé, e ciò anco non ristretto a quei quattro capi né alla materia dell’eucaristia, ma in generale di tutte le controversie, si trovarono molto bene impediti come risolversi. Il mostrar di riservare per proprio moto, oltre l’esser indignitá, tirar adosso un’obiezione che dovevano riservar tutto. Si trovò questo modo come il manco male: di non dire che protestanti fanno instanza né che richiedono, ma che desiderano esser uditi; il che non si può dubitare esser vero, poiché da loro in diverse occasioni è stato detto: e se ben riferendolo a tutte le controversie, nondimeno non è falsitá affermare di una parte quello che è detto del numero intiero, senza escluder le [p. 114 modifica] altre. A molti parve che fosse un nascondersi dietro ad un filo; ma non sapendo trovar meglio, questo passò. Dovendosi per tal causa levar dalli capi di dottrina e dalli anatematismi le materie che si riservavano, furono anco divisi li anatematismi che restavano per maggior chiarezza, e ridotti ad undici. Volendo stabilir li decreti contra gli abusi, fu difficoltá dove porli: tra quelli della fede non capivano, essendo di ceremonie e usi: tra quei della riforma non parevano condecenti per la diversitá della materia: il porli da sé, come un terzo genere, era novitá che alterava l’ordine instituito. Dopo molta disputa fu concluso di tralasciarli, per metterli poi insieme con li decreti della messa. Li capi della riforma furono accettati senza difficoltá, essendo giá stabiliti da quei medesimi. Restava la forma del salvocondotto, che fu rimessa alli presidenti, quali, chiamati li pratici di tali formule, la componessero: che aiutò il legato a far passar quella che da Roma li era stata mandata.