L'apatista o sia L'indifferente/Atto II

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Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Il Cavaliere e Fabrizio.

Cavaliere. Dunque, per quel ch’io sento, restano qui con noi.

Fabrizio. Sì signor, me l’han detto i servidori suoi.
Cavaliere. Dunque pensar conviene a un trattamento onesto.
Io vi darò il danaro, voi penserete al resto.
Fabrizio. Quanti saranno a tavola?
Cavaliere.   Non li vedeste or ora!
Fabrizio. Resta fra i commensali don Paolino ancora?
Cavaliere. Credo che sì.
Fabrizio.   Perdoni, s’io parlo e dico male;
Parmi don Paolino del mio padron rivale.
Cavaliere. Rival per quale oggetto?
Fabrizio.   Par che mi dica il core,
Ch’egli colla Contessa faccia un poco all’amore.

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Cavaliere. E per questo, che importa?

Fabrizio.   Cospetto! in casa mia
Non soffrirei un uomo di simile genia.
Un che mi fa l’amico, e poi, che sottomano
Viene a far il grazioso? lo caccerei lontano.
Cavaliere. Anzi ho piacer ch’ei resti, ed abbia il campo aperto
Qualunque suo pensiere di rendere scoperto.
Può darsi che la dama per lui conservi stima;
Se ciò è ver, non mi preme, ma vuò saperlo in prima.
Certo, ch’ei non doveva coprire i fini sui;
Ma se l’azione è indegna, peggio sarà per lui.
Fabrizio. E soffrir lo potete senz’ira e senza sdegno?
Cavaliere. Non perdo la mia pace per un sì lieve impegno.
Di quanto male al mondo l’uomo recarci aspira,
Maggior è il mal che interno noi ci facciam coll’ira.
Può rapirci alcun bene forse l’altrui livore,
Ma ogni perdita è lieve, se ci risparmia il cuore.
E chi dall’ira ardente sentesi il cuore oppresso,
Trova ovunque il motivo di macerar se stesso.
So distinguer gli oltraggi, detesto il vil costume,
So che rispetto esige dell’amicizia il nume;
Ma senza ch’io rilasci alle querele il freno,
Lascio che il reo puniscano i suoi rimorsi in seno.
Fabrizio. Io che non son filosofo, siccome è il mio padrone,
Quando qualcun mi oltraggia, adopero il bastone.
Mi faccia questa grazia, caro il mio padroncino,
Mi lasci, come merita, trattar don Paolino.
Cavaliere. Quel che per me non si usa, nei servi miei detesto.
Fabrizio. Se indifferente è in tutto, può esserlo anche in questo.
Cavaliere. Indifferente io sono al mal siccome al bene.
Ma non già nel discernere quel che all’onor conviene.
In casa mia non voglio che un ospite si oltraggi;
Non servaci di scusa l’esempio dei malvaggi.
Alle incombenze vostre sollecito badate;
Lasciate a me il pensiere di regolarmi: andate.

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Fabrizio. Non parlo più, signore. Vuol così? così sia.

Questa bella politica non si usa in casa mia;
Perchè certo proverbio io mi ricordo ancora,
Che quando un si fa pecora, il lupo la divora.
E innanzi di vedermi dal dente divorato,
Questa è la mia sentenza, prima il lupo accoppato.
(parte)

SCENA II.

Il Cavaliere, poi Fabrizio.

Cavaliere. Spirito di vendetta è una passione indegna;

Un così vil diletto entro al cuor mio non regna.
Che giovami vedere il mio nemico oppresso?
Perisca, o non perisca, io son sempre lo stesso.
Fabrizio. Signore, un forastiero brama venire avanti.
Cavaliere. Venga pure.
Fabrizio.   Il suo nome non mi domanda innanti?
Cavaliere. Inutile domanda. Quando verrà, il saprò.
Ma via, come si chiama?
Fabrizio.   In verità nol so.
Cavaliere. Dunque non sei curioso, se ancor non l’hai saputo.
Fabrizio. Son curioso benissimo. Ma dir non l’ha voluto.
Cavaliere. Fa ch’ei venga.
Fabrizio.   Non deggio pria ricercar che brama?
Saper di dove viene, saper come si chiama?
Cavaliere. Lo farò da me stesso.
Fabrizio.   Ma necessario egli è,
Ch’esponga l’imbasciata prima di tutti a me.
Cavaliere. La ragion?
Fabrizio.   A me pare, che voglia ogni ragione,
Ch’io conosca chi vuole venir dal mio padrone.
Cavaliere. O via, per questa volta fallo venir.
Fabrizio.   Cospetto!
S’ei non si dà a conoscere, venir non gli permetto.

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Cavaliere. Nemmen per farmi grazia?

Fabrizio.   Vuò fare il mio dovere.
Cavaliere. Ma non son io il padrone?
Fabrizio.   E io non son cameriere?
Cavaliere. Che vuol dir?
Fabrizio.   Che vuol dire, egli non passerà,
Se il nome ed il cognome svelar non mi vorrà.
Cavaliere. No davver?
Fabrizio.   No davvero.
Cavaliere.   Parli di cor?
Fabrizio.   Di core.
Cavaliere. Evvi d’andare in collera un’occasion migliore?
Ma non vuò che un mio servo l’ira mi desti in petto,
E licenziarti in pace saprò, te lo prometto.
Per evitare in tanto ogni bilioso eccesso,
Il forastier che aspetta, introdurrollo io stesso.
Venga, signor. (accostandosi alla porta)
Fabrizio.   Perdoni.
Cavaliere.   Basta così, per ora.
Fabrizio. (Un padron più pacifico non ho veduto ancora).
(da sè, e parte)

SCENA III.

Il Cavaliere, poi il Signor Giacinto.

Cavaliere. Perch’io mai non mi sdegno, prende costui baldanza,

Ma saprò colle buone fargli cambiare usanza.
E se poi persistesse a far meco il dottore,
Costami poca pena cambiare un servidore.
Giacinto. Cavalier, vi saluto.
Cavaliere.   Vostro buon servitore.
Giacinto. Voi non mi conoscete.
Cavaliere.   Non ho ancor quest’onore.
Giacinto. Io son Giacinto Ottangoli, nobile milanese.
Cavaliere. Della famiglia vostra molto parlar s’intese.

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Qual fortuna, signore, havvi da me guidato?

Giacinto. Compatite, vi prego, un cuore innamorato.
Ritornato da un viaggio, trovai fuor di città
Quella che mia consorte un giorno esser dovrà.
Seppi ch’era in campagna, a ritrovarla andai,
Ma i passi miei fur vani, e più non la trovai.
Mi dissero le genti, ch’ella sul far del dì
Partissi, e che il suo viaggio esser dovea fin qui.
Onde di voi sapendo la bontà generosa,
Venni qui arditamente a ritrovar la sposa.
Cavaliere. Bellissima davvero!
Giacinto.   Andiamo per le corte;
La contessa Lavinia venuta è a queste porte?
Cavaliere. Sì signore, è venuta.
Giacinto.   Partì da questo loco?
Cavaliere. Non ancor.
Giacinto.   Con licenza...
Cavaliere.   Piano, signore, un poco.
(lo trattiene)
Giacinto. Deh non mi trattenete, deh lasciate che almeno
Provi qualche respiro, nel rivederla, in seno!
Cavaliere. Quant’è che voi mancate?
Giacinto.   Tre mesi... (come sopra)
Cavaliere.   Favorite.
Carteggiaste con essa?
Giacinto.   Non carteggiai... (come sopra)
Cavaliere.   Sentite.
Vi è noto il testamento...
Giacinto.   Che importa a me di questo?
Lasciate ch’io la veda, poi mi direte il resto.
(come sopra)
Cavaliere. Signor, voi finalmente siete nel tetto mio;
Prima che la vediate, vorrei parlare anch’io.
Giacinto. Come! sareste forse mio rivale in amore?
Cavaliere. Voi non saprete nulla, se non calmate il cuore.

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Giacinto. Informatemi dunque.

Cavaliere.   Saprete, che suo zio...
Giacinto. Voglio prima di tutto veder l’idolo mio.
(in alto di partire)
Cavaliere. Ma non così furioso.
Giacinto.   Se voi provaste il foco...
Cavaliere. Prima di rivederla, voglio informarvi un poco.
Giacinto. Presto per carità.
Cavaliere.   Presto più che potrò.
La Contessa, il saprete, aveva un zio.
Giacinto.   Lo so.
(con impazienza)
Cavaliere. Or sappiate che è morto.
Giacinto.   Che ho da far io per ciò?
Cavaliere. Avete da sapere, che il zio col testamento
Ordinò alla nipote un altro accasamento.
Giacinto. Come, a un uomo mio pari si fan di questi torti?
Vengono a mio dispetto a comandare i morti!
Saprò chi vuol rapirmi della mia bella il cuore,
Mandare all’altro mondo unito al testatore.
Cavaliere. (Viene a me il complimento).
Giacinto.   Voglio veder la sposa.
(in alto di partire)
Cavaliere. Prima che la vediate, sentite un’altra cosa.
Giacinto. Che pazienza!
Cavaliere.   L’erede, che pur dovria sposarla,
Senza rammaricarsi non pena a rinunziarla.
Con lui l’aggiusterete, ma il punto sta, signore,
Ch’evvi, a quel che si vede, un altro pretensore.
Giacinto. Ditemi chi è l’indegno, ditelo all’ira mia.
Cavaliere. Più di ciò non vi dico, se date in frenesia.
Giacinto. Compatite l’amore.
Cavaliere.   Calmatevi un pochino.
Giacinto. Se lo so, se lo scopro, so io quel che destino.
Cavaliere. Siete assai furibondo.

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Giacinto.   Mi scaldo all’improvviso.

Cavaliere. Ditemi in confidenza, quanti ne avete ucciso?
Giacinto. Come! mi deridete?
Cavaliere.   No, vi rispetto e stimo.
Giacinto. Niun mi ha deriso al mondo, nè voi sarete il primo.
Cavaliere. Ma voi col vostro merito, e poi con il valore,
Concepir non dovreste di perderla il timore.
Vi ama la Contessina?
Giacinto.   So che mi ama, e molto.
Cavaliere. Ve l’ha detto?
Giacinto.   Finora non l’ho veduta in volto.
Cavaliere. Mai l’avete veduta?
Giacinto.   Mai; ma so ch’è vezzosa.
(con tenerezza)
Cavaliere. (Oh che bel capo d’opera!) Ma come è vostra sposa?
Giacinto. Come, come, lasciate ch’io vada in un momento...
Cavaliere. No, prima di vederla, svelate il fondamento.
Giacinto. Pensate voi, signore, ch’io mi lusinghi invano?
Preso forse mi avete per un parabolano?
La Contessa è mia sposa, lo proverò col fatto:
Delle nozze concluse eccovi qui il contratto.
(mostra un foglio)
Ecco la soscrizione del di lei genitore.
Sposa mia benedetta! idolo del mio cuore!
(bacia la carta)
Cavaliere. Veggo il padre soscritto, ma non la figlia istessa.
Giacinto. Figlia non sottoscrive dal genitor promessa.
E poi so che Lavinia è di me innamorata.
Cavaliere. Dubito questa cosa non se la sia scordata.
Giacinto. Perchè?
Cavaliere.   Perchè mi pare che a qualcun altro inclini.
Giacinto. No, se spender dovessi centomila zecchini.
E poi suo padre istesso, s’è un cavalier d’onore,
Manterrà la parola.
Cavaliere.   Ecco il suo genitore.

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Giacinto. Viene a tempo. Cospetto!

Cavaliere.   In casa mia badate
Non perdergli il rispetto, e di non far bravate.
Giacinto. Io, dovunque mi trovi, vuò dir le mie ragioni.
Cavaliere. Zitto, che in casa io tengo servi, corde e bastoni.
(mostra dirlo in confidenza, e Giacinto si modera un poco)

SCENA IV.

Il Conte Policastro e detti.

Conte. Cavaliere, mia figlia...

Giacinto.   Dov’è la sposa mia? (al Conte)
Conte. Servitore umilissimo di vostra signoria.
(a Giacinto, con sorpresa)
Cavaliere. Conte, lo conoscete?
Conte.   Mi pare e non mi pare.
Cavaliere. Vi dovreste di lui meglio assai ricordare.
Conte. (Il diavol l’ha mandato). (da sè)
Giacinto.   Eccomi ritornato
Al suocero cortese.
Cavaliere.   Servitore obbligato.
Giacinto. Con si poca accoglienza il genero incontrate?
Conte. Genero? (con ammiraziom)
Giacinto.   Poffar bacco! voi vi maravigliate.
Non è genero vostro, colui che la parola
Ebbe da voi di dargli per sposa una figliuola?
Genero non si dice ad un, che per contratto
Deve la Contessina sposare ad ogni patto?
So che scherzar volete, ma non è il tempo e il loco.
Vado a veder la sposa; ci rivedrem fra poco.
(in atto di partire)
Cavaliere. Fermatevi un momento. (trattenendolo)
Giacinto.   Ma questa è un’insolenza.
(al Cavaliere)
Cavaliere. Chi è di là? (mostrando di chiamare i servitori)

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Giacinto.   Non signore. Sto qui con sofferenza.

(con qualche timore)
Cavaliere. Prima di passar oltre, dilucidiamo il fatto.
Voi col signor Giacinto formaste alcun contratto?
(al Conte)
Conte. Non mi ricordo bene.
Giacinto.   Se non vi ricordate,
Il contratto l’ho meco; eccolo qui, mirate.
(mostra il foglio al Conte)
Cavaliere. Il carattere è vostro?
Conte.   È mio, non so negarlo.
Ma ho fatto quel che ho fatto, senza intenzion di farlo.
Cavaliere. Lo faceste dormendo?
Conte.   Pur troppo er’io svegliato.
Venne questo signore furioso indiavolato;
Non mi vergogno a dirlo, sono un pochin poltrone,
E ho fatto per paura la mia sottoscrizione.
Che ciò sia ver, mirate, che cifera è codesta?
Cavaliere. Un C. ed un P.! la cifera è chiara e manifesta;
Il Conte Policastro rilevasi a drittura.
Conte. No, quel C. con quel P. voglion dir con paura.
Giacinto. Non soffrirò l’oltraggio, sia frode, ovver pazzia.
Prometteste la figlia, e la figliuola è mia.
Conte. Sono tre i pretensori; io lascio, in quanto a me,
Per contentar ciascuno, che si divida in tre.
Giacinto. Quai sono i miei rivali?
Conte.   Eccone uno qui.
(accennando il Cavaliere)
Giacinto. Il Cavalier? (con ammirazione)
Cavaliere.   La cosa non sarà poi così.
È ver che un testamento a lei mi ha destinato,
Ma di seguirlo ancora non trovomi impegnato.
Giacinto. Strano pareami al certo, che ardisse in faccia mia
Accendermi un rivale di sdegno e gelosia.
Non soffrirei l’insulto, signor, ve lo protesto.

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Cavaliere. Eppure i miei riguardi non nascono da questo.

Siccome indifferente sono in ogni altro impegno,
La stessa indifferenza avrei pel vostro sdegno.
Quello che mi trattiene a stringere il legame,
È del cuor della dama il non saper le brame.
Giacinto. Ella, ne son sicuro, a me non farà torto.
Ditel voi, s’ella mi ama. (al Conte)
Conte.   Non me ne sono accorto.
So che quando le dissi la vostra inclinazione,
Risposemi Lavinia con tutta sommissione:
Padre, ai vostri comandi io contrastar non soglio;
Datemi voi lo sposo, ma questo io non lo voglio.
Cavaliere. Veramente vi adora.
Giacinto.   Eh, non gli credo un fico.
Questa cosa è impossibile, con fondamento il dico.
Nessuna in questo mondo l’amor mi ha ricusato,
L’idolo delle donne sempre finor son stato.
Hanno fatto pazzie per me le più vezzose;
Tutte ambiscono a gara di divenir mie spose;
Esser non può codesta all’amor mio nemica.
Questo vecchio insensato non sa quel che si dica.
Conte. Sarà com’ella dice.
Giacinto.   Uomo senza intelletto.
Cavaliere. Basta, signor Giacinto. Portategli rispetto.
Lo merta per il grado, lo merta per l’età.
Giacinto. Vi abbraccio e vi perdono. (al Conte)
Conte.   Grazie alla sua bontà.
Giacinto. Andiam dalla Contessa. Parvi sia tempo ancora?
(al Cavaliere)
Cavaliere. Andiam; vuò presentarvi io stesso alla signora.
Giacinto. No, non v’incomodate...
Cavaliere.   So il mio dover...
Giacinto.   Vi prego...
Cavaliere. Voglio assolutamente...
Giacinto.   Costantemente il nego...

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Cavaliere. Ed io costantemente accompagnarvi or bramo.

Giacinto. Troppo onor...
Cavaliere.   Mio dovere...
Giacinto.   Non so che dire...
Cavaliere.   Andiamo.
(parte con Giacinto)
Conte. Povero me! l’ho fatta, e non vi ho rimediato;
Volea dopo ricorrere, e me ne son scordato.
A quest’uomo collerico che dire or non saprei;
Parli pur con mia figlia, io lascio fare a lei.
Nasca quel che sa nascere, alfin non mi confondo,
Vuò vedere un poltrone quanto sa stare al mondo. (parte)

SCENA V.

La Contessa Lavinia e don Paolino.

Contessa. Orsù, l’intolleranza del vostro cuore ardito

Potrà sollecitarmi a prendere un partito.
Meglio avereste fatto, almen per questo giorno,
Con simile imprudenza a non venirmi intorno.
Paolino. Lo so, dovea lasciarvi in piena libertà
Di assicurarvi il bene di vostra eredità;
Pretender non doveva, in faccia al Cavaliere,
Suggerirvi la legge del giusto e del dovere.
Contessa. Qual dover, qual giustizia?
Paolino.   Se vi ho donato il core,
È giustizia, è dovere, non mi neghiate amore.
Contessa. Il cuor non è più un dono, se ne chiedete il prezzo.
Paolino. Sia qualunque l’offerta, non merita un disprezzo.
Contessa. Il merito si perde col voler, col pretendere:
Devesi la mercede con sofferenza attendere.
Paolino. Ma il prossimo periglio fa palpitarmi il seno.
Contessa. In faccia mia la tema dissimulate almeno.
Paolino. Farlo non posso.
Contessa.   Andate dunque lontan di qua.

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Paolino. Che fia di me, s’io parto?

Contessa.   Sarà quel che sarà.
Paolino. Perfida!
Contessa.   Olà, gl’insulti io tollerar non soglio.
Paolino. Promettetemi almeno...
Contessa.   Promettere non voglio.
Paolino. Posso perdervi adunque.
Contessa.   È l’avvenire incerto.
Paolino. Disperatemi almeno; ditemi chiaro, e aperto:
Vanne, non lusingarti; per te non sento amore,
Ti abborrisco, ti sprezzo.
Contessa.   Non lo acconsente il cuore.
Paolino. Ah, se quel cor pietoso segue ad amarmi ancora.
Ditemi: sarò tuo.
Contessa.   Nol posso dir per ora.
Paolino. Questa dubbiezza ingrata... Ah il Cavalier!

SCENA VI.

Il Cavaliere e detti.

Cavaliere.   Seguite,

Anime innamorate, per me non vi smarrite;
Un uom compassionevole, un galantuomo io sono.
Agli accidenti umani, alle passion perdono.
Contessa. Signor, la mia condotta giustificar desio.
Paolino. Pria di giustificarvi, preceda il partir mio.
Cavalier, lo confesso, lo dico a mio rossore.
Col manto d’amicizia qui mi ha condotto amore:
Parto in questo momento; perdono a voi domando.
Cavaliere. No, partir non dovete; vi priego, e vel comando.
S’è ver che meco siate reo di qualche delitto,
Questo lieve castigo da me vi vien prescritto:
Per questo giorno almeno meco restar dovete;
Quando vel dica io stesso, da queste soglie andrete.

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Paolino. La dolcissima legge di sofferir non sdegno.

Spero pietà e perdono da un Cavalier sì degno.
Faccia di me la sorte quello che far destina,
Al voler delle stelle il mio voler s’inchina. (parte)

SCENA VII.

Il Cavaliere e la Contessa Lavinia.

Cavaliere. (Sì fa vedere a ridere.)

Contessa. Signor, perchè ridete?
Cavaliere.   Non son mie risa insane;
Tutte mi fanno ridere le debolezze umane.
Contessa. Debolezza vi sembra il sospirar d’amore?
Cavaliere. Ogni passion derido, quando si perde il cuore.
Contessa.   Dunque voi non amate.
Cavaliere. Anzi d’amar mi vanto.
Ma credo amar si possa senza i sospiri e il pianto.
Contessa. Se amar senza sospiri, signor, voi siete avvezzo,
Non conosceste ancora del vero amore il prezzo.
Cavaliere. Se il vero amor fa piangere, Contessa mia, vel giuro,
Questo sì bell’amore conoscere non curo.
Contessa. Buon per me, ch’io lo sappia pria che per voi mi accenda.
Cavaliere. Per me non vi è pericolo, che accesa amor vi renda.
Siete già prevenuta.
Contessa.   Tutto ancor non sapete,
Vi svelerò il mio cuore.
Cavaliere.   Ne avrò piacer. Sedete.
(siedono)
Contessa. Da molt’anni, il sapete, perdei la cara madre;
Per custodir miei giorni debole troppo è il padre;
Veggo che nell’etade principio ad avanzarmi.
Onde è in me necessario l’idea di collocarmi.
Nel povero mio stato gran sorte io non sperai,
Un mediocre partito di conseguir bramai;

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Ma più d’ogn’altro bene, più di ricchezze e onori,

Cuor rinvenir mi calse colmo d’onesti ardori.
Parve a me don Paolino d’ogni amator più acceso.
Per amor mio più volte a sospirar l’ho inteso.
Procurava i momenti di starsi meco allato,
Mille sincere prove dell’amor suo mi ha dato.
Posso dir con costanza don Paolin mi adora,
Sposo in cuor mio lo elessi, ma non gliel dissi ancora.
Seppi che il padre mio, senza aspettar consiglio,
Si espose incautamente di perdermi al periglio.
Egli al signor Giacinto, quivi teste veduto,
Giovine stravagante da voi ben conosciuto,
Promise la mia mano dal timor sopraffatto,
E senza mia saputa soscrissero il contratto.
Da ciò sollecitata, più assai che dall’amore,
Porger volea la mano a chi mi offriva il cuore;
Stava per dire il labbro, don Paolino è mio,
Quando impensatamente manca di vita il zio.
S’apre il suo testamento, odo la legge espressa;
Colla ragion principio a consigliar me stessa.
All’amator rallento i segni dell’affetto,
E rilevar gli arcani del vostro cuore aspetto.
Ma invan da voi tentando lungi sapere il vero,
Venni col padre io stessa a sciogliere il mistero;
E arrossendo che fosse la mia intenzion saputa,
Finsi d’altro disegno cagion la mia venuta.
Or sarebbe un delitto il simular più innante:
Tradirei me medesima, e tradirei l’amante.
Deggio sinceramente svelarvi il mio pensiero;
Tutto il mio cuor vi dico, e quel ch’io dico, è vero.
Non ho per don Paolino passion qual vi pensate.
Per voi serbo la mano e il cuor, se lo bramate;
Vi amerò eternamente, mi scorderò di tutti,
Pur che sperare io possa della mia fede i frutti.
Pure che voi mi amiate, sarò contenta appieno,

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Ma se amar non sapete, non mi tradite almeno.

In me sia debolezza, sia una passione innata,
Tutto il ben che desidero, è il ben d’essere amata;
Non con amor fugace, ma col più saldo e forte,
Quanto amar si può mai da un tenero consorte.
Se ciò mi promettete, vostro il mio cuor sarà;
Quando no, vi rinunzio ancor l’eredità:
Voglio uno sposo amante, voglio un sincero affetto.
Quel che dir vi voleva, ecco, signore, ho detto.
Cavaliere. Con un piacere estremo. Contessa, io vi ascoltai;
Un parlar più sincero non ho sentito mai;
Ed io, che al par di voi sincero esser mi vanto,
Vi dirò il mio pensiero schiettissimo altrettanto.
Se d’amor mi parlate, che è naturale in tutti,
Con cui l’uom si distingue dal genere dei brutti,
Di quell’amor, che ispira la cognizion del bene,
Che la ragion produce, che dal dover proviene,
Lo conosco, l’intendo, di coltivarlo ho cura,
Ma se passion diventa, entro al mio sen non dura.
So che voi siete amabile, lo veggo e lo confesso,
M’impegnerei d’amarvi, come amerei me stesso.
Ma io per me medesimo non piango e non sospiro.
Nè soffrirei per altri un simile deliro.
Contessa. Sareste voi geloso?
Cavaliere.   No, un simile sospetto
Mi sembra abbominevole.
Contessa.   Segno di poco affetto.
Cavaliere. Questa mia buona fede, sia vizio o sia virtù,
Pare che mi consoli, nè cerco aver di più.
Contessa. Dunque dareste a sposa la libertade intera.
Cavaliere. Certo la mia catena non le sarebbe austera.
Contessa. Ognun trattar potrebbe.
Cavaliere.   Chiunque piacesse a lei.
Contessa. Senza temer rivali.
Cavaliere.   Temere io non saprei.

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Contessa. E se la libertade soverchia a lei concessa,

D’altro amor la rendesse in vostro danno oppressa?
Cavaliere. No, preveder non posso, che in saggia onesta dama
Rendasi il cuor capace di biasimevol brama.
L’onore è quel tesoro che donna ha in maggior pregio,
E custodirlo insegna di nobiltade il fregio.
Con tal giusto principio cheto vivendo in pace,
Crederei la mia sposa d’una viltà incapace;
Certo, che se non vale il fren della ragione,
Ogni custodia è vana contro la rea intenzione.
Però non mi crediate stolido a sì alto segno,
Da tollerare aperto un trattamento indegno.
Senza scaldarmi il sangue, se tal pensiero avesse,
Io mi farei suo giudice colle mie mani istesse.
Contessa. Questo è quel che mi piace. (s’alza)
Cavaliere.   Simil discorso è vano
Con voi, che possedete cuore gentile e umano.
Contessa. Non sdegnereste adunque di essere mio consorte.
Cavaliere. Anzi di un dono simile ringrazierei la sorte.
Contessa. Cavaliere, mi amate? (con tenerezza)
Cavaliere.   Amo in voi la virtù.
Contessa. Questo amor non mi basta. (come sopra)
Cavaliere.   Io non so amar di più.
Contessa. È ver che il volto mio non può vantar bellezze,
Ma uno sguardo amoroso...
Cavaliere.   Non so far tenerezze.
Contessa. Possibile?
Cavaliere.   No certo.
Contessa.   Provatevi.
Cavaliere.   Ma come?
Contessa. Tenero pronunciate di cara sposa il nome.
Cavaliere. Cara sposa. L’ho detto.
Contessa.   Ma non con tenerezza.
Cavaliere. Non ci ho grazia, credetemi.
Contessa.   Fatelo per finezza.

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Cavaliere. Cara la mia sposina. (con qualche caricatura)

Contessa.   Non così caricato.
Cavaliere. Ve l’ho detto, Contessa, io non ne sono usato.
Se un buon cuor vi basta, ottimo cuore è il mio;
Ma se di più bramate, cara sposina, addio. (parte)
Contessa. Il cavalier si vede, che ha un cuor pien di virtù;
Ma lo vorrei vedere amante un poco più.
Per donna maritata la libertà è un tesoro.
Ma è un bel sentirsi a dire: idolo mio, ti adoro.
(parte)

Fine dell’Atto Secondo.


Note