L'isola misteriosa/Parte prima/Capitolo XII

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Parte prima - Capitolo XII

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Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
Parte prima - Capitolo XII
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CAPITOLO XII.


Il regolamento degli orologi — Pencroff è soddisfatto — Un fumo sospetto — Il corso del rivo Rosso — La flora dell’isola Lincoln — La fauna — I fagiani di montagna — Inseguimento dei kanguri — L’agutis — Il lago Grant — Ritorno ai Camini.

I coloni dell’isola Lincoln volsero un’ultima occhiata intorno a sè, fecero il giro del cratere nella sua stretta cresta, ed un’ora dopo erano ridiscesi sul primo altipiano, là dove si erano attendati per la notte. Pencroff pensò che era ora di far colazione, ed in proposito di ciò si trattò di regolare i due orologi di Cyrus Smith e del reporter. Si sa che quello di Gedeone Spilett era stato rispettato dall’acqua marina, poichè il reporter era stato gettato sulla sabbia al sicuro dalle onde. Era uno strumento eccellente, un vero cronometro cui Gedeone Spilett non aveva mai dimenticato di dar la corda ogni giorno. Quanto all’orologio dell’ingegnere si era necessariamente fermato nel tempo che Cyrus Smith aveva passato nelle dune. L’ingegnere lo rimontò, ed argomentando dall’altezza del sole che fossero le nove circa del mattino, pose le freccie su quest’ora.

Gedeone Spilett stava per imitarlo, quando l’ingegnere, trattenendolo colla mano, gli disse:

— No, caro Spilett, aspettate. Voi avete conservato l’ora di Richmond, non è vero?

— Sì, Cyrus.

— Dunque il vostro orologio è montato sul [p. 119 modifica]meridiano di questa città, meridiano che è all’incirca quello di Washington.

— Senza dubbio.

— Ebbene, conservatelo così, contentatevi di dargli corda esattamente, ma non toccate le freccie: ciò potrebbe servirci.

— A qual uso? pensò il marinajo.

Si mangiò e tanto che la provvista di selvaggina o mandorle fu esaurita, ma Pencroff non fu punto in quieto pensando che si rifarebbero le provvigioni per via.

Top, che aveva avuto una porzione congrua, saprebbe ben scovare qualche altra selvaggina nei boschi. Inoltre il marinajo pensava a domandare semplicemente all’ingegnere di fabbricar della polvere, un paio di fucili da caccia, ed immaginava che ciò non dovesse trovare alcuna difficoltà. Lasciando l’altipiano, Cyrus Smith propose ai compagni di prendere una nuova via per tornare ai Camini. Egli desiderava di conoscere il lago Grant, così splendida mente incorniciato fra gli alberi. Fu dunque seguíta la cresta d’uno dei contrafforti, fra i quali probabilmente traeva origine il rivo che lo alimentava. Cianciando, i coloni adoperavano già i nomi propri che avevano scelto, e ciò rendeva singolarmente facile lo scambio delle loro idee. Harbert e Pencroff, l’uno giovane ed un po’ fanciullo l’altro, eran felici. Per via il marinajo diceva:

— Che ne dici, Harbert? La va a meraviglia! non è possibile perderci, fanciullo mio; sia che seguiamo la via del lago Grant o sia che giungiamo alla Grazia attraverso i boschi di Far-West, arriveremo necessariamente all’altipiano di Lunga-Vista e poi alla baja dell’Unione.

Era stato convenuto che, senza formare un drappello compatto, i coloni non si allontanerebbero troppo gli uni dagli altri. Certamente qualche pericoloso ani[p. 120 modifica]male abitava le folte foreste dell’isola, ed era prudenza star sull’avvisato. Di solito Pencroff, Harbert e Nab camminavano innanzi preceduti da Top, che frugava da per tutto; il reporter e l’ingegnere seguivano a costa l’un dell’altro; Gedeone Spilett era pronto a notare ogni incidente; l’ingegnere, silenzioso quasi sempre, non usciva dalla sua via se non per raccogliere ora una cosa ora un’altra, sostanza minerale o vegetale, che metteva in tasca senza dir nulla.

— Che diamine raccoglie così? mormorava Pencroff; ho un bel guardare, ma non vedo nulla che valga la pena di curvarsi.

Verso le dieci la comitiva scendeva gli ultimi gradini del monte Franklin. Il terreno era sparso solo di cespugli e di pochi alberi. Si camminava sopra una terra giallastra e calcinata formante una pianura lunga un buon miglio che precedeva il lembo del bosco. Grossi massi di quel basalto che secondo le esperienze di Biscof abbisognò per raffreddarsi di 350 milioni d’anni, ingombravano la pianura qua e là accidentata. Peraltro non v’erano traccie di lave, le quali s’erano versate specialmente per le falde settentrionali. Cyrus Smith credeva adunque di giungere senza incidenti al rivo, che secondo lui doveva scorrere sotto gli alberi nell’orlo della pianura, quando vide tornare precipitosamente Harbert, mentre Nab ed il marinajo si nascondevano dietro le roccie.

— Che è stato, giovinetto? domandò Gedeone Spilett.

— Un fumo, rispose Harbert, abbiamo visto un fumo elevarsi fra le roccie a cento passi da noi.

— Uomini in questo luogo? esclamò il reporter.

— Evitiamo di mostrarci prima di sapere con chi abbiamo da fare, rispose Cyrus Smith. Io temo gli indigeni, se pure ve n’ha in quest’isola, più che non li desideri. Dove è Top?

— Top è andato innanzi. [p. 121 modifica]

— Non abbaja?

— No.

— È strano; proviamo a richiamarlo.

In pochi istanti l’ingegnere, Gedeone Spilett ed Harbert avevano raggiunto i loro compagni, ed al pari d’essi si nascosero dietro massi di basalto. Di là videro limpidamente un fumo che turbinava levandosi in alto; fumo il cui color giallastro era molto caratteristico. Top, richiamato da un fischio del padrone, tornò, e costui, facendo cenno al compagno di aspettarlo, si cacciò fra le roccie.

I coloni, immobili, aspettavano con una certa ansietà il risultato di questa esplorazione, quando un richiamo di Cyrus Smith li fece accorrere. Subito lo raggiunsero, e furono impressionati alla prima dallo spiacevole odore che impregnava l’atmosfera. Quest’odore, facilmente riconoscibile, aveva bastato all’ingegnere per indovinare di qual natura fosse quel fumo che da principio aveva dovuto inquietarlo non senza ragione.

— Questo fuoco, diss’egli, o meglio questo fumo, è opera della sola natura; non vi è qui altro se non una sorgente sulfurea che ci permetterà di curare con molta efficacia le nostre laringiti.

— Buono! esclamò Pencroff; peccato ch’io non sia costipato!

I coloni si diressero allora verso il luogo da cui sfuggiva il fumo. Colà videro una sorgente sulfurea sodica che scorreva abbondantemente fra le roccie e le cui acque mandavano un odore penetrante di acido solfidrico, dopo di aver assorbito l’ossigeno dell’aria.

Cyrus Smith, bagnandosi la mano, trovò quelle acque viscide al tatto, le assaggiò, e notò che il loro sapore era dolciastro; quanto alla loro temperatura, riputò essere di novantacinque gradi Fahrenheit (35 gradi centigr. sopra zero), ed avendo Harbert [p. 122 modifica]domandato sopra che cosa fondasse questa stima, egli rispose:

— Semplicissimamente su ciò, che immergendo la mano in quest’acqua, io non ho provato alcuna sensazione di freddo o di caldo; dunque essa ha la medesima temperatura del corpo umano, vale a dire circa novantacinque gradi.

Siccome la sorgente sulfurea non offriva alcun utile presente, i coloni si diressero verso il fitto lembo della foresta che si svolgeva a qualche centinajo di passi.

Colà, come avevano immaginato, il ruscello scorreva vivo e limpido tra gli argini di terra rossa, il cui colore indicava la presenza dell’ossido di ferro. Codesto colore procurò immediatamente al corso d’acqua il nome di Rivo Rosso.

Era solo un largo rigagnolo, profondo e limpido, formato dalle acque della montagna; partecipava del rio e del torrente, e qui scorreva placido sulla sabbia, colà muggiva fra le roccie e si precipitava in cascatelle, correndo verso il lago per un buon miglio e mezzo di lunghezza e con una larghezza variabile dai trenta ai quaranta piedi; le sue acque erano dolci: il che dovea far supporre che tali fossero pure le acque del lago; cosa fortunata per il caso si potesse trovare sulla sponda un’abitazione più comoda dei Camini. Quanto agli alberi, che qualche centinajo di piedi più sotto ombreggiavano le sponde del rio, appartenevano in gran parte alle specie che abbondano nella zona moderata dell’Australia e della Tasmania, e non più a quelle conifere che facevano irta la porzione dell’isola già esplorata a qualche miglio dall’altipiano di Lunga Vista. A quel tempo dell’anno, al principio del mese d’aprile, che in quell’emisfero rappresenta il mese d’ottobre, vale a dire in autunno, il fogliame non mancava loro ancora. Erano più specialmente casuarine od eucalyptus, al[p. 123 modifica]cuni dei quali dovevano fornire nella prossima primavera una manna zuccherina assolutamente analoga alla manna d’Oriente.

Gruppi di cedri australiani sorgevano pure nelle radure rivestiti di quell’alta erba che si chiama tussac nella Nuova Olanda; ma l’albero del cocco, così abbondante nell’arcipelago del Pacifico, sembrava mancare all’isola, la cui latitudine era senza dubbio troppo bassa.

Che disgrazia, un albero così utile e che ha di così belle noci!

Quanto agli uccelli pullulavano fra i rami alquanto magri degli eucalyptus e delle casuarine, che non imbarazzavano lo spiegamento delle loro ali, kakatoes neri, bianchi o grigi, parrocchetti e pappagalli dalle penne di tutti i colori, re di un verde splendido, coronati di rosso, eloris azzurri, bleues montains, parevano non lasciarsi vedere che attraverso un prisma e svolazzavano con un chiacchierio assordante. D’un tratto un bizzarro concerto di voci discordi eccheggiò nel più fitto del bosco. I coloni intesero successivamente il canto degli uccelli, il grido dei quadrupedi ed una specie di scoppiettío che avrebbero potuto credere uscito dalle labbra d’un indigeno. Nab ed Harbert s’erano slanciati verso quella macchia, dimenticando i principî elementari della prudenza. Per buona sorte non v’erano là nè belve formidabili, nè indigeni pericolosi, ma semplicemente una mezza dozzina di quegli uccelli beffatori e cantatori che vennero riconosciuti per fagiani di montagna. Alcuni colpi di bastone tirati con destrezza diedero fine alla scena d’imitazione, procurando insieme un’eccellente selvaggina pel desinare della sera.

Harbert segnalò pure magnifici piccioni dalle ali bronzate, gli uni sormontati da una cresta superba, gli altri dalle piume verdi come i loro congeneri di Port Macquarie, ma non fu possibile coglierli, come [p. 124 modifica]non fu possibile cogliere le gazze ed i corvi che fuggivano a frotte. Una schioppettata a pallini avrebbe fatto un ecatombe di quei volatili; ma i cacciatori erano ancora ridotti, in fatto d’armi da tiro, ai sassi, ed in fatto d’armi in asta, al bastone.

L’insufficienza di questi strumenti primitivi fu di mostrata meglio quando una frotta di quadrupedi, veri mammiferi volanti, apparvero saltelloni, facendo balzi di trenta piedi, e fuggirono valicando i cespugli così lestamente ed a tanta altezza, che si sarebbe potuto credere s’avventassero da un albero all’altro, come gli scojattoli.

— Kanguri! esclamò Harbert.

— Roba che si mangia? domandò Pencroff.

— Accomodati in istufato valgono quanto la migliore selvaggina.

Gedeone Spilett non aveva ancora compita questa frase eccitante, che il marinajo, seguito da Harbert, s’era cacciato sulle traccie dei kanguri. Invano Cyrus Smith li richiamò, ed invano pure essi stavano per inseguire quegli animali che rimbalzavano come palle. Dopo cinque minuti di corsa i cacciatori ansimavano e la frotta spariva nei boschi. Top non era riuscito meglio de’ suoi padroni.

— Signor Cyrus, disse Pencroff quando l’ingegnere ed il reporter l’ebbero raggiunto, signor Cyrus, vedete bene che è indispensabile fabbricar dei fucili; forse ciò non sarà possibile?

— Può darsi, rispose l’ingegnere; ma prima incominceremo dal fabbricare archi e freccie, e sono sicuro che diverrete destri a maneggiarli quanto i cacciatori australiani.

— Freccie ed archi! disse Pencroff in aria disdegnosa; ciò è buono pei fanciulli!

— Non fate il fiero, amico Pencroff, disse il reporter. Gli archi e le freccie hanno bastato per secoli ad insanguinare il mondo, la polvere è di [p. 125 modifica]jeri, pur troppo la guerra è vecchia quanto la razza umana.

— In fede mia, è vero, rispose il marinajo; io parlo sempre troppo presto: scusate.

Frattanto Harbert, tutto dedito alla sua scienza favorita, la scienza naturale, tornò ai kanguri, dicendo:

— Del resto, noi abbiamo avuto da fare colla specie più difficile a prendere: erano giganti dal lungo pelame grigio; ma, se non m’inganno, esistono kanguri neri e rossi, kanguri da roccie, ed altri, di cui è più facile impadronirsi. Se ne contano una dozzina di specie.

— Harbert, rispose sentenziosamente il marinajo, non esiste per me che una sola specie di kanguro, il kanguro arrosto, ed è quello appunto che ci mancherà stasera.

Non si potè trattenersi dal ridere, intendendo la classificazione di Pencroft. Il bravo marinajo non nascose quanto gli dolesse di essere ridotto a desinare coi fagiani cantori; ma la fortuna doveva mostrarsi ancora una volta compiacente per lui.

Infatti Top, che sentiva andarci di mezzo il suo interesse, frugava per ogni dove, con istinto cresciuto da un appetito feroce. Era anche probabile che se qualche selvaggina gli cadesse sotto i denti, non ne restasse nulla ai cacciatori, poichè Top andava allora a caccia per conto suo; ma Nab lo sorvegliava, e fece bene. Verso le tre il cane sparve nei cespugli, e sordi grugniti indicarono poco dopo ch’esso era alle prese con qualche animale. Nab si slanciò, ed infatti vide Top che divorava avidamente un quadrupede, che dieci minuti più tardi sarebbe stato impossibile riconoscere nello stomaco del cane; ma per buona sorte Top era caduto sopra una nidiata, aveva fatto colpo triplice, e, due altri roditori — gli animali appartenevano a quest’ordine — giacevano stran[p. 126 modifica]golati al suolo. Nab apparve adunque in trionfo, tenendo in mano uno di quei roditori, le cui dimensioni passavano quelle d’una lepre. Il loro pelame giallo era macchiato di verdastro, e la loro coda era affatto rudimentale.

I cittadini dell’Unione non potevano esitare a dare a questi roditori il nome che loro conveniva. Erano maras, specie di agutis, un po’ più grossi dei loro congeneri delle regioni tropicali, veri conigli d’America, dalle lunghe orecchie, dalle mascelle armate di cinque molari per parte, il che li distingue dagli agutis.

– Evviva! esclamò Pencroff, l’arrosto ce l’abbiamo, ed ora possiamo rientrare in casa.

Le mosse, per un istante interrotte, furono riprese. Il rivo Rosso scorreva sempre limpido sotto la vôlta delle casuarine, delle banksie e dei giganteschi alberi di gomma. Superbe liliacee si elevavano sino a venti piedi d’altezza. Altre specie arboree, ignote al giovane naturalista, si bagnavano nel ruscello, che s’udiva mormorare sotto quelle culle di verdura. Frattanto il corso d’acqua s’allargava sensibilmente, e Cyrus Smith era indotto a credere che presto giungerebbe alla foce. Infatti, all’uscire d’un fitto d’alberi, apparve d’improvviso.

Gli esploratori erano giunti alla riva occidentale del lago Grant; il luogo meritava un esame. Quella distesa d’acqua d’una circonferenza di circa sette miglia, e d’una superficie di dugentocinquanta acri, riposava in una cornice d’alberi variati. Verso l’est, attraverso una cortina di verdura, pittorescamente elevata in certi luoghi, appariva uno scintillante orizzonte marino. Al nord il lago tracciava una curva leggermente concava, che contrastava col disegno aguzzo della sua punta inferiore. — Molti uccelli acquatici frequentavano le rive di quel piccolo ontario, in cui le “mille isole” del suo omonimo americano [p. 127 modifica]erano rappresentate da uno scoglio che emergeva dalla superficie a poche centinaja di piedi dalla riva meridionale. Colà vivevano in comune molte coppie di martin-pescatori, posati su qualche sasso, gravi, immobili, spiando il pesce al passaggio, poi slanciandosi, tuffandosi, facendo udire un grido e riapparendo colla preda nel becco. Sulla riva dell’isolotto si pavoneggiavano anitre selvatiche, pellicani, gallinelle d’acqua, filedoni, muniti d’una lingua in forma di pennello, ed un pajo di campioni di quelle splendide manure, le cui foglie si foggiano a modo di lira.

Quanto alle acque del lago erano dolci, limpide, un po’ nere, e da certi ribollimenti, dai circoli concentrici che s’incrociavano alla superficie, non si poteva dubitare che non fossero ricche di pesci.

— È veramente bello questo lago! disse Gedeone Spilett; ci si vivrebbe sulle sponde!

— Ci si vivrà, rispose Cyrus Smith.

I coloni, volendo allora tornare per la via più breve ai Camini, discesero fino all’angolo formato al sud dal congiungimento delle rive del lago. Non senza fatica s’aprirono un passo attraverso que’ boschi e que’ pruneti, che la mano dell’uomo non aveva peranco diradati, e si diressero, a questo modo, verso il litorale, in guisa da giungere al nord dell’altipiano di Lunga Vista. Due miglia furono percorse in questa direzione, poi, dopo l’ultima cortina d’alberi, apparve l’ultimo altipiano tappezzato da folta erba, e più oltre il mare. Per tornare ai Camini bastava attraversare obliquamente l’altipiano per lo spazio d’un miglio e ridiscendere fino al gomito formato dalla prima giravolta della Grazia.

Ma l’ingegnere desiderava riconoscere come e da quale parte fuggisse il soverchio dell’acque del lago, e l’esplorazione fu prolungata sotto gli alberi per un miglio e mezzo verso il nord. Era infatti probabile che esistesse un versatojo da qualche parte, e senza [p. 128 modifica]dubbio attraverso il granito. Insomma, quel lago altro non era che un’immensa vasca, che s’era a poco alla volta riempita collo scolo del rivo, e bisognava che il soverchio si versasse in mare con qualche cascata. Se così era, l’ingegnere pensava che sarebbe forse facile cosa trar partito di quella cascata, e servirsi della sua forza, perduta ora senza profitto per nessuno. Si continuò adunque a seguir le rive del lago Grant, risalendo l’altipiano, ma dopo d’aver percorso ancora un miglio in questa direzione, Cyrus Smith non aveva potuto scoprire il versatojo che pur doveva esistere.

Erano allora le quattro e mezzo, i preparativi del desinare richiedevano che i coloni entrassero nelle loro abitazioni; onde il piccolo drappello rifece i propri passi, e per la riva sinistra della Grazia, Cyrus Smith ed i suoi compagni giunsero ai Camini. Colà fu acceso il fuoco, e Nab e Pencroff, ai quali spettavano naturalmente le funzioni di cuciniere, ad uno nella sua qualità di negro, all’altro come marinajo, prepararono, in un batter d’occhio, braciuole di agutis, alle quali fu fatto grande onore.

Finito il pasto, al momento in cui ognuno stava per abbandonarsi al sonno, Cyrus Smith trasse di tasca piccoli campioni di minerali di diverse specie, e si limitò a dire:

— Amici, questo è minerale di ferro, questo è pirite, questo argilla, questo calce e questo carbone; ecco ciò che ne dà la natura, ecco la sua parte nel lavoro comune; a domani la nostra.

FINE DEL VOLUME PRIMO.