L'isola misteriosa/Parte prima/Capitolo XIV

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Parte prima - Capitolo XIV

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Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
Parte prima - Capitolo XIV
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CAPITOLO XIV.


La misura della muraglia granitica — Un’applicazione del teorema dei triangoli simili — La latitudine dell’isola — Una escursione al nord — Un banco d’ostriche — Disegni per l’avvenire — Il passaggio del sole al meridiano — Le coordinate dell’isola Lincoln.

Il domani, 16 aprile, domenica di Pasqua, i coloni uscivano dai Camini all’alba e procedevano alla lavatura della biancheria, ed alla pulitura delle vestimenta. L’ingegnere si proponeva di fabbricare del sapone non appena si fosse procurato le materie prime necessarie alla saponificazione, soda o potassa, grasso od olio. La quistione importantissima del rinnovamento del vestiario doveva pure essere trattata a tempo e luogo. In ogni caso gli abiti potrebbero durare ancora sei buoni mesi, perchè erano solidi e potevano resistere alle fatiche di lavori manuali. Ma [p. 18 modifica]tutto doveva dipendere dalla situazione dell’isola rispetto alle terre abitate, e ciò si doveva determinare in quel medesimo giorno se il tempo lo permetteva.

Ora il sole, levandosi sopra l’orizzonte puro, annunziava una giornata magnifica, una di quelle belle giornate d’autunno che sono come gli ultimi addii della calda stagione.

Si trattava adunque di compiere gli elementi delle osservazioni della vigilia, misurando l’altezza dell’altipiano di Lunga Vista sopra il livello del mare.

— Non vi occorre un istrumento analogo a quello che v’ha servito jeri? domandò Harbert all’ingegnere.

— No, fanciullo mio, procederemo altrimenti ed in modo quasi egualmente preciso.

Harbert, amando istruirsi di tutto, seguì l’ingegnere, il quale s’allontanò dal piede della muraglia di granito scendendo fino all’orlo del greto. In questo mentre, Pencroff, Nab ed il reporter si occupavano di diversi lavori.

Cyrus Smith si era munito di una specie di pertica diritta, lunga una dozzina di piedi, che egli aveva misurato esattamente quanto gli era stato possibile, paragonandola alla propria statura, di cui conosceva l’altezza quasi linea per linea. Harbert portava un filo a piombo che Cyrus Smith gli aveva dato, vale a dire un semplice sasso legato in capo a una fibra flessibile.

Giunto ad una ventina di piedi dal lembo del greto, ed a cinquecento piedi circa dalla muraglia di granito che sorgeva perpendicolarmente, Cyrus Smith conficcò la pertica due piedi nella sabbia, e calandola con cura, riuscì, col filo a piombo, a collocarla perpendicolarmente al piano dell’orizzonte. Ciò fatto indietreggiò quanto fu necessario perchè, sdrajandosi sulla sabbia, il raggio visuale partito dall’occhio sfiorasse insieme l’estremità della pertica e la cresta [p. 19 modifica]della muraglia, poi segnò attentamente quel punto con un piuolo, e, rivolgendosi ad Harbert, domandò:

— Conosci tu i primi elementi della geometria?

— Un poco, signor Cyrus, rispose Harbert, non volendo spingersi troppo.

— Ti ricordi quali sono le proprietà di due triangoli simili?

— Sì, i loro lati omologhi sono proporzionali.

— Ebbene, fanciullo mio, io ho costrutto due triangoli simili, rettangoli tutti e due; il primo, il più piccino, ha per lati la pertica perpendicolare, la distanza che separa il piuolo dalla pertica ed il mio raggio visuale per ipotenusa; il secondo, ha per lati la muraglia perpendicolare di cui vogliamo misurare l’altezza, la distanza che separa il piuolo da questa muraglia ed il mio raggio visuale, che forma egualmente la sua ipotenusa prolungando quella del primo piano.

— Ah! signor Cyrus, ho compreso, nello stesso modo che la distanza della pertica dal piuolo è proporzionale alla distanza del piuolo dalla base della muraglia, così l’altezza della pertica è proporzionale all’altezza della muraglia.

— Appunto, Harbert, e quando avremo misurato le due prime distanze, conoscendo l’altezza della pertica, non ci rimarrà più a far altro che un calcolo di proporzione per avere l’altezza della muraglia, risparmiando la fatica di misurarla direttamente.

Le due distanze orizzontali furono rilevate per mezzo della pertica, la cui lunghezza fuori della sabbia era esattamente di dieci piedi. La prima distanza era di quindici piedi fra il piuolo ed il punto in cui la pertica era affondata nella sabbia. La seconda distanza, fra il piuolo e la base della muraglia, era di cinquecento piedi.

Fatte queste misure, Cyrus Smith ed il giovinetto tornarono ai Camini. Colà l’ingegnere prese una pie[p. 20 modifica]tra liscia che aveva raccolto nelle precedenti escursioni, specie di ardesia su cui era facile tracciare delle cifre per mezzo d’una conchiglia aguzza, poi stabilì la proporzione seguente:

15: 500: : 10: x
500 × 10 = 5000
5000
15 = 333,33

d’onde risultò che la muraglia di granito era alta 333 piedi 1.

Cyrus Smith riprese allora l’istrumento fabbricato alla vigilia e di cui le tavolette, col loro allontanamento, gli davano la distanza angolare della stella Alfa all’orizzonte. Misurò esattissimamente quest’angolo sopra una circonferenza che divise in 360 parti uguali; ora quest’angolo, aggiungendo i 27 gradi che separano Alfa dal polo antartico, e riducendo all’altezza del mare l’altipiano su cui l’osservazione era stata fatta, si trovò essere di 53 gradi; e togliendo questi 53 gradi dai 90, distanza dal polo all’equatore, rimanevano 37 gradi. Cyrus Smith ne dedusse adunque che l’isola Lincoln era situata sul 37 grado di latitudine australe. Tenendo conto, vista l’imperfezione degli strumenti, d’un errore di 5 gradi, argomentò essere situata fra il 35° ed il 40° parallelo.

Rimaneva ad ottenere la longitudine per compiere le coordinate dell’isola, ed è ciò che l’ingegnere si proponeva di fare nello stesso giorno, al mezzodì, cioè all’ora in cui il sole passerebbe al meridiano.

Fu dunque determinato che quella domenica venisse impiegata in una passeggiata, o meglio in una esplorazione di quella parte dell’isola situata tra il [p. 21 modifica]nord del lago ed il golfo del Pesce-cane, e se il tempo lo permettesse di spingere questa ricognizione fino alla falda settentrionale del capo Mandibola sud. Si doveva far colazione alle due e non tornare che a sera.

Alle otto e mezzo del mattino il piccolo drappello seguiva la sponda del canale. All’opposto lato, sull’isola della Salute, passeggiavano gravemente molti uccelli; erano apteroditi, facilmente riconoscibili al loro grido spiacevole che ricorda il raglio dell’asino. Pencroff non li considerò se non dal lato commestibile, ed apprese, non senza una certa soddisfazione, che la loro carne, sebbene nerastra, è buonissima.

Si vedevano pure strisciare sulla sabbia grossi anfibî, foche, senza dubbio, che sembravano aver scelto l’isolotto per rifugio. Non era guari possibile guardare questi animali rispetto all’alimentazione, poichè la loro carne oleosa è detestabile. Nondimeno, Cyrus Smith li osservò attentamente, e senza far conoscere la propria idea, annunciò ai compagni che presto si farebbe una visita all’isolotto.

La via seguíta dai coloni era sparsa di innumerevoli conchiglie, le quali avrebbero fatto la gioja d’un dilettante di malacologia; erano fra le altre fasianelle, terebratule, trigonie, ecc., ma ciò che doveva essere più utile fu una grossa ostrica, scoperta a marea bassa, che Nab segnalò fra le roccie a quattro miglia circa dai Camini.

— Nab non perderà la sua giornata, disse Pencroff osservando il banco di ostriche che si stendeva al largo.

— È una felice scoperta invero, disse il reporter, e solo che, come si pretende, ogni ostrica produca da cinquanta a sessantamila uova ogni anno, avremo una provvista inesauribile.

— Solamente io credo che l’ostrica non sia troppo nutriente, disse Harbert. [p. 22 modifica]

— No, rispose Cyrus Smith, l’ostrica contiene pochissime materie azotate, ed un uomo che ne facesse unico suo cibo dovrebbe mangiarne non meno di quindici o sedici dozzine al giorno.

— Ebbene, rispose Pencroff, potremo ingojarne dozzine e dozzine senza esaurire il banco; se ne pigliassimo qualcuna per colazione?

E senza aspettar risposta alla proposizione, che sapeva tacitamente approvata, il marinajo e Nab staccarono una certa quantità di quei molluschi, che posero in una specie di rete di fibre d’ibisco, fatta da Nab, ed in cui già si conteneva il necessario per il pasto; poi si proseguì a risalir la costa fra le dune ed il mare.

Ogni tanto, Cyrus Smith consultava il proprio orologio per prepararsi a tempo all’osservazione solare che doveva essere fatta al mezzodì in punto.

Tutta quella porzione dell’isola era aridissima fino alla punta che chiudeva la baja dell’Unione e che aveva ricevuto il nome di capo Mandibola sud. Non ci si vedeva altro che sabbia e conchiglie, miste a rottami di lave. Alcuni uccelli marini frequentavano quella costa desolata, gabbiani, grossi albatri, come pure anitre selvatiche, che a buon diritto eccitarono la bramosia di Pencroff. Costui cercò pure di atterrarli a colpi di freccia, ma sempre senza alcun risultato, perchè non posavano e sarebbe stato necessario colpirle a volo.

Codesto fatto indusse il marinajo a dire all’ingegnere:

— Vedete, signor Cyrus, sino a tanto che non avremo dei fucili da caccia, il nostro materiale lascierà molto a desiderare.

— Senza dubbio, Pencroff, rispose il reporter, ma non dipende che da voi; procurateci del ferro per le canne, dell’acciajo per le batterie, del salnitro e del carbone e dello zolfo per la polvere, del mercurio e [p. 23 modifica]dell’acido azotico per il fulminato, ed infine del piombo e Cyrus vi farà dei fucili di prima per le palle qualità.

— Oh, disse l’ingegnere, queste sostanze potremo senza dubbio trovarle nell’isola, ma l’arma da fuoco è un istrumento delicato e richiede utensili di gran precisione; dopo tutto, vedremo più tardi.

— Oh perchè, esclamò Pencroff, oh perchè abbiamo gettato quelle armi che la navicella portava con noi, ed i nostri utensili e perfino i nostri coltelli da tasca!

— Ma se non li avessimo gettati, Pencroff, il pallone avrebbe gettati noi stessi in fondo al mare, disse Harbert.

— Gli è pur vero quello che dite, fanciullo mio, rispose il marinajo.

E passando ad un’altra idea, soggiunse:

— Chissà quale fu lo stupore di Janathan Forster e dei suoi compagni, quando al domattina avranno trovato la piazza netta ed il pallone fuggito.

— M’importa proprio poco di sapere quello che hanno potuto pensare.

— E sono io che ho avuto quell’idea! disse Pencroff con soddisfazione.

— Una bella idea, Pencroff, rispose Gedeone Spilett ridendo, e che ci ha ridotti al punto in cui siamo.

— Preferisco essere qui che in mano dei Suddisti! esclamò il marinajo; sopratutto dacchè il signor Cyrus ha avuto la bontà di venirci a raggiungere.

— Ed anch’io, in verità! replicò il reporter; d’altra parte, che ci manca? Nulla!

— Tranne... tutto, rispose Pencroff scoppiando dalle risa e sollevando ed abbassando le larghe spalle, ma un giorno o l’altro troveremo il mezzo di andarcene.

— E forse più presto che non imaginiate, amici, disse allora l’ingegnere, se l’isola Lincoln non è che ad una media distanza da un arcipelago abitato o da [p. 24 modifica]un continente. Fra un’ora lo sapremo; io non ho carta del Pacifico, ma la mia memoria ha conservato un ricordo esattissimo della sua parte meridionale. La latitudine avuta jeri mette l’isola Lincoln in faccia alla Nuova Islanda, all’ovest, e dalla costa del Chilì, all’est; ma fra queste due terre la distanza è almeno di seicento miglia. Rimane dunque a determinare qual punto occupi l’isola su quel largo spazio di mare, ed è ciò che la longitudine ne dirà fra breve e spero con sufficiente approssimazione.

— Non è l’arcipelago delle Pomotu, domandò Harbert, che è più vicino a noi in latitudine?

— Sì, rispose l’ingegnere, ma la distanza che ce ne separa è di oltre mille dugento miglia.

— E da questa parte? disse Nab, il quale seguiva la conversazione con estremo interesse, indicando colla mano la direzione del sud.

— Da questa parte nulla, rispose Pencroff.

— Nulla infatti, aggiunse l’ingegnere.

— Ebbene, Cyrus, domandò il reporter, se l’isola Lincoln non si trova che a due o trecento miglia dalla Nuova Zelanda o dal Chilì?....

— Ebbene, rispose l’ingegnere, invece di fare una casa, faremo un battello, e mastro Pencroff s’incaricherà di manovrarlo.

— Ed io, signor Cyrus, esclamò il marinajo, sono pronto a diventar capitano appena abbiate trovato il modo di costrurre una scialuppa che possa stare in mare.

— La faremo, se è necessario, rispose Cyrus Smith.

Ma intanto che questi uomini, invero non dubitosi di nulla, cianciavano, si accostava l’ora in cui doveva essere fatta l’osservazione. Come farebbe Cyrus Smith per accertare il passaggio del sole al meridiano dell’isola senza nessun istrumento? È ciò che Harbert non poteva indovinare.

Gli osservatori si trovavano allora ad una distanza [p. 25 modifica]di sei miglia dai Camini, non lungi da quella parte delle dune in cui l’ingegnere era stato ritrovato dopo il suo enigmatico salvamento. Si fe’ una fermata in quel luogo, e tutto fu preparato per la colazione, essendo già le undici e mezzo. Harbert andò a cercare dell’acqua dolce al rigagnolo che scorreva li presso, e la portò in una brocca di cui Nab si era munito.

Durante questi preparativi, Cyrus Smith dispose il tutto per l’osservazione astronomica. Scelse sul greto uno spazio sgombro, che il mare, ritirandosi, aveva livellato perfettamente. Quello strato di sabbia finissima era liscio come vetro. Poco importava, del resto, fosse orizzontale o no, come pure non importava che la bacchetta alta sei piedi che vi fu piantata si drizzasse perpendicolarmente; anzi l’ingegnere l’inclinò verso il sud, vale a dire dal lato opposto al sole, poichè non bisogna dimenticare che i coloni dell’isola Lincoln, per ciò appunto che l’isola era situata nell’emisfero australe, vedevano l’astro radioso descrivere il suo arco diurno sull’orizzonte del nord e non sull’orizzonte del sud.

Harbert comprese allora in qual modo l’ingegnere voleva procedere per accertare la culminazione del sole, vale a dire il suo passaggio al meridiano dell’isola, od in altri termini il mezzodì del luogo. Era per mezzo dell’ombra gettata dalla bacchetta sulla sabbia, mezzo che in mancanza di strumenti dovea dargli una conveniente approssimazione per il risultato che voleva ottenere.

In fatti il momento in cui quest’ombra raggiungesse il minimum di lunghezza, sarebbe il mezzodì preciso, e basterebbe seguire l’estremità dell’ombra per conoscere il momento in cui, dopo aver successivamente diminuito, incomincerebbe ad allungarsi. Inclinando la bacchetta dal lato opposto al sole, Cyrus Smith rendeva l’ombra più lunga, e per conseguenza [p. 26 modifica]più facile il seguirne le modificazioni. In fatti più grande è la freccia d’un quadrante, più si può tener dietro facilmente allo spostamento della punta. L’ombra della bacchetta altro non era che la freccia d’un quadrante.

Quando credette giunto il momento, Cyrus Smith s’inginocchiò sulla sabbia, e per mezzo di piccole biffe di legno, che conficcò a terra, cominciò a segnare la successiva decrescenza dell’ombra della bacchetta. I compagni, curvi alle sue spalle, seguivano l’operazione con estremo interesse. Il reporter teneva in mano il cronometro, pronto a rilevar l’ora che segnerebbe quando l’ombra fosse ridotta al punto più breve: inoltre, siccome Cyrus Smith operava il 16 aprile, giorno in cui il tempo vero ed il tempo medio si confondono, l’ora data da Gedeone Spilett doveva essere l’ora vera di Washington: il che doveva semplificare il calcolo.

Frattanto il sole s’avanzava lentamente, l’ombra della bacchetta scemava a poco a poco, e quando parve a Cyrus Smith che incominciasse a crescere, domandò:

— Che ora è?

— Le cinque ed un minuto, rispose subito Gedeone Spilett.

Più non rimaneva che far l’operazione, che era invero facilissima. Si avevano cinque ore di differenza fra il meridiano di Washington e quello dell’isola Lincoln, vale a dire che era mezzodì all’isola Lincoln, quando a Washington erano già le 5 pomeridiane. Ora il sole, nel suo movimento apparente intorno alla terra, percorre un grado ogni quattro minuti, ossia 15 gradi all’ora; 15 gradi moltiplicati per 5 ore danno 75 gradi.

Adunque, trovandosi Washington a 77°, 3’ 11", vale a dire a 77 gradi contati dal meridiano di Greenwich, che gli Americani e gl’Inglesi prendono per punto [p. 27 modifica]di partenza delle longitudini, ne seguiva che l’isola era situata a 77° più 75° all’ovest del meridiano di Greenwich, vale a dire al 152° di longitudine ovest.

Cyrus Smith annunciò questo risultato ai compagni e, tenendo conto degli errori d’osservazione come aveva fatto per la latitudine, credette di poter asserire che l’isola Lincoln era situata tra il 35º e il 37° parallelo, tra il 150° ed il 155° meridiano all’ovest del meridiano di Greenwich. L’errore possibile che ammetteva nell’osservazione era di cinque gradi per ogni verso: il che, a 60 miglia per grado, poteva dare uno sbaglio di trecento miglia in latitudine ed in longitudine. Ma codesto errore non doveva punto iniuire sul partito da prendere; era ben evidente che l’isola Lincoln era posta a tal distanza da qualsiasi terra od arcipelago, che non si potrebbe arrischiarsi a superare quella distanza sopra un semplice e fragile canotto.

Infatti doveva trovarsi a mille e dugento miglia almeno da Taïti e dalle isole dell’arcipelago delle Pomotu, a più di mille e ottocento miglia dalla Nuova Zelanda, e più di quattromila e cinquecento miglia dalla costa Americana:

E se Cyrus Smith interrogava le sue memorie, non ricordava punto che un’isola qualsiasi occupasse in quella parte del Pacifico la situazione assegnata all’isola Lincoln.

Note

  1. Piedi inglesi di 30 centimetri.