L'isola misteriosa/Parte prima/Capitolo XXI

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Parte prima - Capitolo XXI

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Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
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CAPITOLO XXI.


Alcuni gradi sotto zero — Esplorazione della parte pantanosa del sud-est — Vista del mare — Una conversazione sull’avvenire dell’oceano Pacifico — Il lavoro incessante degl’infusori — Ciò che diventerà il globo — La caccia — Marese dei Tadornes.

Quind’innanzi non passò più giorno senza che Pencroff andasse a visitare ciò che egli chiamava sul serio “il suo campo di frumento.” Disgraziati gli insetti che vi si fossero avvicinati, perocchè non avrebbero potuto aspettarsi grazia.

Verso la fine del mese di giugno, dopo pioggie interminabili, il tempo divenne assolutamente freddo, ed il 29 il termometro Fahrenheit avrebbe certamente segnato venti gradi soltanto sopra zero (sei gradi, sessantasette centigradi sotto il gelo).

Il domani, 30 giugno, giorno che corrisponde al 13 dicembre dell’anno boreale, era un venerdì. Nab fece osservare che l’annata finiva con cattivo giorno, ma Pencroff gli rispose che naturalmente l’altro incominciava con un giorno buono, il che valeva meglio.

In ogni caso esso esordì con un freddo vivissimo.

Massi di ghiaccio s’ammucchiarono alla foce della Grazia, ed il lago non tardò a congelarsi tutto.

Si dovette più volte rinnovare la provvista di combustibile. Pencroff non aveva aspettato che il fiume [p. 90 modifica]fosse agghiacciato per condurre enormi carichi di legna alla loro destinazione. La corrente era un motore infaticabile, e fu adoperata a caricare del legname fino a tanto che il freddo venne ad incatenarla.

Al combustibile fornito copiosamente dalla foresta furono aggiunti molti carichi di carbon fossile, che bisognò andar a cercare a’ piedi dei contrafforti del monte Franklin. Codesto poderoso calore del carbone fu vivamente apprezzato durante la bassa temperatura, che nel 4 luglio scese sino ad otto gradi Fahrenheit (tredici gradi centigradi sotto zero. Un secondo camino era stato fatto nella sala da pranzo, e colà tutti lavoravano in comune.

Durante questo periodo di freddo, Cyrus Smith ebbe a rallegrarsi di aver derivato fino al Palazzo di Granito un filo del lago Grant. Prese sotto la superficie ghiacciata, e condotte per l’antico sbocco, le acque conservavano la loro liquidità, ed arrivavano ad un serbatojo interno, che era stato scavato all’angolo del retro-magazzino, ed il cui soverchio se ne andava per il pozzo fino al mare.

Verso quel tempo, l’aria essendo asciuttissima, i coloni, vestiti alla meglio, risolvettero di consacrare una giornata all’esplorazione della parte dell’isola compresa al sud-est fra la Grazia ed il capo Artiglio. Era un vasto terreno acquitrinoso, e si poteva presentare l’opportunità di alcune buone caccie, poichè gli uccelli acquatici dovevano pullularvi.

Bisognava contare otto o nove miglia per l’andata ed altrettante per il ritorno, onde la giornata doveva essere bene spesa. Siccome si trattava altresì della esplorazione d’una parte incognita dell’isola, tutta la colonia dovette prendervi parte. Laonde, il 5 luglio, dalle sei del mattino, sul far dell’alba, Cyrus Smith, Gedeone Spilett, Harbert, Nab, Pencroff, armati di spiedi, di lacci, di archi e di freccie, e forniti di provviste sufficienti, lasciarono il Palazzo di Granito, [p. 91 modifica]preceduti da Top saltellante. Si prese la via più certa, e fu di attraversare la Grazia sui ghiacci.

— Ma, fece osservare giustamente il reporter, questo non può sostituire un ponte serio.

La costruzione d’un ponte serio fu dunque notata nella categoria dei lavori futuri. Era la prima volta che i coloni mettevano il piede sulla riva destra della Grazia e si avventuravano in mezzo a quelle grandi e superbe conifere allora coperte di neve.

Ma non avevano percorso un mezzo miglio, quando da una fitta forra fuggiva tutta una famiglia di quadrupedi che vi avevano eletto il domicilio, e che i latrati di Top misero in fuga.

— Ah! si direbbero volpi! esclamò Harbert quando vide tutta la frotta svignarsela frettolosamente.

Erano volpi infatti, ma volpi di grossissima statura, che facevano intendere una specie di latrato di cui Top parve egli medesimo molto stupito, perchè s’arrestò e diede a quei veloci animali il tempo di scomparire.

Il cane aveva il diritto di essere meravigliato, poichè egli non sapeva la storia naturale; ma coi loro latrati, quelle volpi dal pelame grigio e rossiccio, dalle code nere terminate da una punta bianca, avevano svelato la loro origine. Epperò Harbert le chiamò, senza esitare, col loro vero nome di culpeux. Codesti culpeux s’incontrano frequentemente al Chilì, alle Maluine ed in tutti i paraggi americani attraversati dai paralleli trenta e quaranta. Harbert si dolse molto che Top non avesse potuto acciuffare uno di quei carnivori.

— Forse che si mangiano? domandò Pencroff, il quale non considerava mai i rappresentanti della fauna dell’isola se non sotto un punto di vista speciale.

— No, rispose Harbert; ma i zoologi non hanno ancora riconosciuto se la pupilla di queste volpi sia [p. 92 modifica]diurna o notturna e se convenga metterli nel genere cane propriamente detto.

Cyrus Smith non potè trattenersi dal sorridere, intendendo la riflessione del giovinetto, che attestava serio criterio. Quanto al marinajo, dal momento che quelle volpi non potevano essere classificate nel genere commestibile, poco gl’importava. Peraltro egli fece osservare che quando nel Palazzo di Granito si avesse un pollajo, sarebbe bene prendere qualche precauzione contro la probabile visita di questi predoni a quattro zampe; il che nissuno contrastò.

Dopo di aver fatto il giro della punta del Rottame, i coloni trovarono una lunga plaga bagnata dal vasto mare. Erano allora le otto del mattino, il cielo era purissimo, come accade durante i gran freddi prolungati; ma riscaldati dalla loro corsa, Cyrus Smith ed i suoi compagni non sentivano gran fatto il morso dell’atmosfera. D’altra parte non tirava vento, e ciò rendeva più sopportabile il freddo. Un sole splendido, ma senza azione calorifera, usciva allora dall’oceano, ed il suo enorme disco si librava all’orizzonte. Il mare formava una zona tranquilla ed azzurra come quella d’un golfo del Mediterraneo quando il cielo è puro. Il capo Artiglio, curvato in forma di scimitarra, si disegnava nettamente a circa quattro miglia verso il sud-est. A sinistra il lembo del marese era bruscamente arrestato da una breve punta che i raggi solari tingevano allora come una striscia di fuoco. Certo in quella parte della baja dell’Unione, non riparata in alcun modo dal largo, nemmeno da un banco di sabbia, le navi battute dai venti d’est non avrebbero trovato alcun riparo. Si sentiva dalla tranquillità del mare, dal suo colore uniforme non macchiato da macchie giallastre, dall’assenza in fine di ogni scogliera, che quella costa era scoscesa e che l’oceano copriva colà abissi profondi. Più oltre, nell’ovest, si svolgevano, ma ad una distanza di quattro miglia, le prime [p. 93 modifica]linee d’alberi della foresta di Far-West. Sarebbe parso d’essere, per così dire, sulla costa desolata di qualche isola delle regioni antartiche che i ghiacci avessero invasa. I coloni s’arrestarono in quel luogo per far colazione. Un fuoco di frasche fu acceso, e Nab preparò la colazione di carne fredda, a cui aggiunse alcun po’ di thè di Oswego.

Durante il pasto si guardava. Quella parte dell’isola Lincoln era veramente sterile, e contrastava con tutta la regione occidentale; la qual cosa indusse il reporter a fare questa riflessione, che se il caso avesse addirittura gettato i naufraghi su quella plaga, essi si sarebbero fatti del loro futuro dominio un’idea deplorabile.

— Credo anzi che non avremmo potuto giungervi, rispose l’ingegnere, perchè il mare è profondo e non ci offriva uno scoglio per rifugiarci. Dinanzi al Palazzo di Granito vi erano almeno dei banchi, ed un isolotto, che moltiplicavano le probabilità di salvezza. Qui, non altro che l’abisso.

— È singolare, fece osservare Gedeone Spilett, che quest’isola, cotanto piccina, presenti un suolo così variato. Questa diversità d’aspetto non appartiene logicamente se non ai continenti di una certa estensione. Si direbbe per verità che la parte occidentale dell’isola, così ricca e così fertile, sia bagnata dalle acque calde del golfo Messicano e che le sue rive del nord e del sud-est si stendano sopra una specie di mare Artico.

— Avete ragione, mio caro Spilett, rispose Cyrus Smith; è un’osservazione che ho fatto anch’io. Quest’isola, nella sua forma, come nella sua natura, mi sembra strana. La si direbbe un riassunto di tutti gli aspetti che presenta un continente, e non sarei meravigliato che una volta fosse stata un continente.

— Come! un continente in mezzo al Pacifico! esclamò Pencroff. [p. 94 modifica]

— Perchè no? rispose Cyrus Smith; perchè l’Australia, la Nuova Irlanda e tutto ciò che gli Inglesi chiamano Australasia, riunite all’arcipelago del Pacifico, non potevano formare un tempo una sesta parte del mondo, importante al par dell’Europa o dell’Asia, dell’Africa o delle due Americhe? Il mio animo non si ribella ad ammettere che tutte le isole emerse da quel vasto oceano siano le vette di un continente oramai inghiottito, ma che dominava il mare nelle età preistoriche.

— Come già l’Atlantide, rispose Harbert.

— Sì, fanciullo mio, se pure ha esistito.

— E l’isola Lincoln avrebbe fatto parte di quel continente? domandò Pencroff.

— È probabile, rispose Cyrus Smith, e ciò spiegherebbe abbastanza questa diversità di prodotti che si vede alla sua superficie.

— Ed il numero considerevole degli animali che ancora l’abitano, aggiunse Harbert.

— Appunto, rispose l’ingegnere, e tu mi fornisci un nuovo argomento in appoggio della mia tesi. È certo, stando a quanto abbiamo visto, che gli animali sono numerosi nell’isola. Ed il più straordinario è che le specie sono svariatissime. Vi ha una ragione, e per me è questa, che l’isola Lincoln ha potuto un tempo far parte di qualche vasto continente che si è a poco a poco abbassato sotto il Pacifico.

– Allora un bel giorno, replicò Pencroff, il quale non pareva assolutamente convinto, quel che rimane di questo continente potrà scomparire, e non vi sarà più nulla tra l’America e l’Asia?

— Sì, rispose Cyrus Smih, vi saranno i nuovi continenti che miliardi e miliardi di animaluzzi sono in questo momento intenti a fabbricare.

— E chi sono codesti muratori? domandò Pencroff.

— Gl’infusorî del corallo, rispose Cyrus Smith. [p. 95 modifica]Sono essi che con un lavoro assiduo hanno fabbricato l’isola Clermont-Tonnerre e molte altre isole di corallo che vanta l’oceano Pacifico. Occorrono quarantasette milioni di codesti infusorî per formare il peso d’un grano, eppure coi sali marini che essi assorbono, cogli elementi solidi dell’acqua che si assimilano, codesti animalucci producono il calcare, ed il calcare forma enormi substruzioni marine, la cui durezza e solidità eguagliano quella del granito. Una volta, nei primi tempi della creazione, la natura, adoperando il fuoco, ha prodotto le terre per sollevamento; ora invece essa incarica animaletti microscopici di sostituire questo agente: la cui forza dinamica all’interno del globo è evidentemente scemata, come prova il gran numero dei vulcani spenti alla superficie della terra. Ed io credo bene che succedendo i secoli ai secoli e gli infusorî agli infusorî, codesto Pacifico potrà mutarsi in vasto continente cui nazioni novelle abiteranno ed inciviliranno alla loro volta.

— Sarà una cosa lunga, disse Pencroff.

— La natura non ha fretta.

— Ma a qual pro nuovi continenti? domandò Harbert. Mi pare che l’odierna estensione delle regioni abitabili basti all’umanità. Ora la natura non fa nulla d’inutile.

— Nulla d’inutile è vero, rispose l’ingegnere, ma ecco come si potrebbe spiegare nell’avvenire la necessità di continenti nuovi, e precisamente su questa zona tropicale occupata dalle isole coralligene; almeno questa spiegazione mi sembra plausibile.

– Vi ascoltiamo, signor Cyrus.

— Ecco il mio pensiero: gli scienziati ammettono generalmente che un giorno il nostro globo finirà, od almeno che la vita animale e vegetale non vi sarà più possibile per causa del raffreddamento intenso che dovrà subire. Non vanno d’accordo che solo circa la causa di questo raffreddamento. Gli uni credono [p. 96 modifica]che dipenderà dall’abbassarsi della temperatura del sole dopo milioni d’anni; altri dalla graduata estinzione dei fuochi interni del nostro globo, che hanno sovr’esso un influsso maggiore di quello che generalmente si crede. Quanto a me, sto a questa ipotesi, in quanto che la luna è veramente un astro raffreddato e non abitabile, sebbene il sole continui a gettare sovr’essa la medesima quantità di calorico. Se dunque si è raffreddata, gli è perchè i fuochi interni, ai quali, come tutti gli astri del mondo stellare essa ha dovuto la sua origine, si sono completamente spenti. Infine, qualunque ne sia la causa, il nostro globo si deve raffreddare un giorno, ma questo raffreddamento non si farà che a poco a poco. Che avverrà allora? Che le zone temperate, in un tempo più o meno lontano, non saranno più abitabili, come ora non sono abitabili le regioni polari. Adunque le popolazioni d’uomini, al par delle aggregazioni d’animali, rifluiranno verso le latitudini più direttamente soggette all’influenza solare. Si compirà un’immensa emigrazione. L’Europa, l’Asia centrale, l’America del nord saranno a poco a poco abbandonate, al par dell’Australasia o delle parti basse dell’America del sud. La vegetazione seguirà l’emigrazione umana. La flora darà indietro verso l’equatore allo stesso tempo della fauna. Le parti centrali dell’America meridionale e dell’Africa diventeranno i continenti abitati per eccellenza. I Lapponi ed i Samojedi ritroveranno le condizioni climateriche del mare polare sulle rive del Mediterraneo. Chi ci dice che a quel tempo le regioni equatoriali non saranno troppo piccine, così da non poter contenere l’umanità terrestre e nutrirla? Ora perchè la previdente natura, per dar rifugio a tutta l’emigrazione vegetale ed animale, non getterebbe fin d’ora sotto l’equatore le basi d’un nuovo continente, e non avrebbe incaricato gl’infusorî di costrurlo? Ho pensato molte volte a tutte codeste cose, amici miei, [p. 97 modifica]e credo seriamente che l’aspetto del nostro globo sarà un giorno interamente trasformato e che per il sollevarsi dei nuovi continenti i mari copriranno gli antichi, e che nei secoli futuri vi saranno dei Colombi che andranno a scoprire le isole del Chimborazo, dell’Imalaja o del monte Bianco, reliquie d’un’America, d’un’Asia e di un’Europa inghiottite. Finalmente questi nuovi continenti diventeranno anch’essi inabitabili alla loro volta. Il calore si spegnerà come quello d’un corpo abbandonato dall’anima e scomparirà la vita, se non definitivamente, dal globo, almeno momentaneamente. Forse allora il nostro sferoide si riposerà per risuscitarne un giorno in condizioni superiori; ma tutto ciò, amici, è il segreto dell’Autore di tutte le cose, e parlando del lavoro degli infusori io mi sono forse lasciato trascinare un po’ lungi nello scrutare i segreti dell’avvenire.

— Mio caro Cyrus, rispose Gedeone Spilett, queste teoriche sono per me profezie vere, e verrà giorno che si compiranno.

— È il segreto di Dio, disse l’ingegnere.

— Tutto ciò è bello e buono, entrò allora a dire Pencroff, che aveva ascoltato con tanto d’orecchi, ma mi apprenderete voi, signor Cyrus, se l’isola Lincoln fu costrutta dai vostri infusorî?

— No, rispose Cyrus Smith, essa è semplicemente di origine vulcanica.

— Dunque scomparirà un giorno?

— È probabile.

— Spero bene, noi non ci saremo più.

— No, rassicuratevi, Pencroff, non ci saremo più, poichè non abbiamo alcun desiderio di morirvi e finiremo forse per cavarcela.

— Frattanto, rispose Gedeone Spilett, accomodiamoci come per l’eternità. Non bisogna mai fare le cose a mezzo.

Così finì la conversazione. La colazione era termi[p. 98 modifica]nata; onde i coloni si rimisero in cammino, ed arrivarono al limite in cui cominciava la regione pantanosa.

Era proprio un marese, la cui estensione, fino alla costa arrotondata che terminava l’isola al sud-est, poteva misurare venti miglia quadrate.

Il suolo era formato d’un limo argillo-siliceo misto a molti frantumi vegetali. Lo coprivano giunchi, con ferre, scirpi, qua e là alcuni strati d’erbe fitti come grosse mocchette. Ai raggi del sole scintillavano parecchie pozze agghiacciate. Nè le pioggie, nè alcun fiume gonfiato da subitanea piena avevano potuto formare quelle provviste d’acqua. Si doveva naturalmente argomentare che quel pantano fosse alimentato da infiltrazioni del suolo, e così era infatti. Era anche da temere che durante i calori l’aria si caricasse di quei miasmi che generano le febbri delle paludi.

Sopra le erbe acquatiche, alla superficie delle acque stagnanti, volteggiava un mondo d’uccelli. Cacciatori di palude non vi avrebbero perduto una schioppettata. Anitre selvatiche, querquedule, beccaccini vivevano colà a frotte, e codesti volatili poco timorosi si lasciavano facilmente accostare. Un colpo a pallini avrebbe certamente atterrato qualche dozzina d’uccelli, tanto le loro schiere erano serrate. Bisognò accontentarsi di dar loro la caccia a colpi di freccia, con meschino risultato, ma col vantaggio che la freccia silenziosa non atterriva i volatili e non lì disperdeva, come avrebbe fatto lo sparo d’un’arme da fuoco. I cacciatori s’accontentarono adunque, per questa volta, d’una dozzina di anitre bianche nel collo, con cintura color cannella, colla testa verde e le ali nere, bianche e rosse, col becco schiacciato. Harbert riconobbe in esse la specie detta anitra tadorna. Top concorse alla cattura dei volatili, il cui nome fu dato a questa parte pantanosa dell’isola. I coloni avevano [p. 99 modifica]dunque colà un’abbondante provvista di selvaggina acquatica. Quando fosse venuto il tempo non si avrebbe a far altro che sfruttarla convenientemente, ed era probabile che molte specie di codesti uccelli potrebbero essere, se non addomesticate, almeno avvezzate a vivere nei dintorni del lago, il che le porrebbe più direttamente sotto mano dei consumatori.

Verso le cinque pomeridiane, Cyrus Smith ed i compagni ripresero la via della loro dimora, attraversando il marese delle Tadorne, e ripassarono la Grazia sul ponte di ghiaccio.

Alle otto tutti erano rientrati nel Palazzo di Granito.