L'isola misteriosa/Parte prima/Capitolo XXII

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Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
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CAPITOLO XXII.


Le trappole — Le volpi — I pecari — Cambiamento di vento — Tempesta di neve — I panierai — I più gran freddi dell’inverno — La cristallizzazione dello zuccaro d’acero — Il pozzo misterioso — L’esplorazione progettata — Il grano di piombo.

I freddi intensi durarono fino al 15 agosto, senza però passare quel massimo di gradi Fahrenheit raggiunto fino allora. Quando l’atmosfera era tranquilla, quella bassa temperatura si sopportava facilmente, ma se soffiava il vento riusciva dura a persone assai poco vestite. Pencroff si doleva che l’isola Lincoln non desse asilo a qualche famiglia d’orsi meglio che quelle volpi od a quelle foche, la cui pelliccia lasciava a desiderare.

— Gli orsi, diceva egli, sono generalmente ben vestiti, e non domanderei di meglio che di chiedere in prestito, per l’inverno, il caldo mantello che portano sulle spalle.

— Ma, rispose Nab ridendo, gli orsi forse non vorrebbero darti il loro mantello, Pencroff. Non sono come san Martino, quegli animali. [p. 100 modifica]

— Sapremo ben obbligarli, Nab! replicava Pencroff con accento autorevole.

Disgraziatamente, quei formidabili carnivori non si trovavano nell’isola, o per lo meno fino allora non vi s’erano mostrati. Harbert, Pencroff ed il reporter lavoravano nondimeno a preparare trappole sull’altipiano di Lunga Vista e sul lembo della foresta. Secondo l’opinione del marinajo, qualunque animale roditore o carnivoro sarebbe ben ricevuto al Palazzo di Granito.

Codeste trappole erano semplicissime; fosse scavate nel suolo, con sopra un soffitto di rami ed erbe che ne nascondeva l’orifizio: in fondo un’esca il cui odore potesse attirare gli animali; null’altro. Giova pur dire che non erano state scavate a caso, ma in certi luoghi in cui le impronte più numerose indicavano frequente passeggio di quadrupedi. Tutti i giorni esse venivano visitate e tre volte vi si trovarono campioni di quelle specie di volpi che erano state viste già sulla riva destra della Grazia.

— To’, non vi sono dunque che volpi in questo paese! esclamò Pencroff, la terza volta che trasse uno di codesti animali dalla fossa in cui se ne stava rannicchiato. Animali che non servono a nulla.

— Ma sì, disse Gedeone Spilett, che servono qualche cosa.

— Ed a che cosa?

— A far delle esche per attirarne altri.

Il reporter aveva ragione, e quind’innanzi le trappole furono adescate coi cadaveri delle volpi. Il marinajo aveva pure fabbricato dei lacci con fibre di giunco, e questi lacci diedero più profitto delle trappole. Era raro che passasse giorno senza che un coniglio vi si lasciasse pigliare.

Era sempre coniglio, è vero, ma Nab sapeva variare le salse, e i convitati non pensavano a lamentarsene.

Pure, una o due volte, nella seconda settimana [p. 101 modifica]d’agosto, le trappole diedero ai cacciatori altri animali e ben più utili delle volpi, vale a dire alcuni di quei cinghiali che erano già stati segnalati al nord del lago.

Pencroff non ebbe bisogno di domandare se questi animali fossero commestibili. Si vedeva bene dalla loro rassomiglianza col porco d’America o d’Europa.

— Ma non sono porci, te ne prevengo, Pencroff.

— Fanciullo mio, rispose il marinajo curvandosi sulla trappola e tirando su per la piccola appendice che gli serviva di coda uno di quei rappresentanti della famiglia dei suini; lasciami credere che sono porci.

— E perchè?

— Perchè ciò mi fa piacere.

— Ami dunque molto il porco, Pencroff?

— Sì, lo amo molto sopratutto per i suoi piedi, e se ne avesse otto invece di quattro lo amerei il doppio!

Quanto agli animali in quistione, erano pecari appartenenti ad uno dei quattro generi che conta la famiglia, ed erano anzi della specie dei tajasous, riconoscibili al colore carico ed alla mancanza dei lunghi canini che armano la bocca dei loro congeneri.

Codesti pecari vivono ordinariamente a frotte, ed era probabile che abbondassero nelle parti boschive dell’isola. In ogni caso, essi erano mangiabili dalla testa ai piedi, e Pencroff non domandava di più.

Verso il 15 agosto lo stato atmosferico si modificò subitamente per un cambiamento di vento che volse a nord-est. La temperatura risalì di alcuni gradi, ed i vapori accumulati nell’aria non tardarono a risolversi in neve. Tutta l’isola si coperse d’uno strato bianco e si mostro a’ suoi abitanti sotto un nuovo aspetto. Codesta neve cadde abbondante per molti giorni e divenne in breve alta due piedi.

Non andò molto che il vento soffio impetuoso, e [p. 102 modifica]dall’alto del Palazzo di Granito si intendeva il mare brontolar sulle scogliere. A certi angoli si formavano turbini d’aria, e la neve, componendosi in forma d’alte colonne giranti, somigliava a quelle trombe liquide che girano sulla loro base e che i bastimenti combattono a cannonate. Peraltro l’uragano, che veniva dal nord-ovest, pigliava l’isola per isbieco, e l’orientazione del Palazzo di Granito lo preservava da un assalto diretto. Ma in mezzo a quel nevazzo, terribile come fosse avvenuto in regioni polari, nè Cyrus Smith, nè i suoi compagni poterono avventurarsi al di fuori, per quanto ne avessero desiderio, e rimasero chiusi per cinque giorni, dal 20 al 25 agosto. S’udiva la tempesta ruggire nei boschi del Jacamar, che certo dovevano patirne. Molti alberi dovevano essere sradicati; ma Pencroff se ne consolava pensando che ciò risparmierebbe la fatica di atterrarli. [p. 207 modifica]. . . . dall’alto del Palazzo di Granito si intendeva il

mare....

Vol. II, pag. 102.

— Il vento si fa legnajuolo, ripeteva egli; lasciamolo fare.

Del resto, non v’era mezzo di impedirnelo.

Oh, quanto gli inquilini del Palazzo di Granito dovettero allora ringraziare il Cielo per aver loro provveduto quel solido ricovero! Cyrus Smith aveva bene la sua legittima parte nei ringraziamenti, ma in fin dei conti era la natura che aveva scavata l’ampia caverna, ed egli non aveva fatto che scoprirla. Colà tutti erano al sicuro dai colpi dell’uragano. Se avessero costrutto sull’altipiano di Lunga Vista una casa di mattoni o di legno, non avrebbe certamente resistito ai furori dell’uragano. Quanto ai Camini, stando solo al frastuono delle onde che muggivano potentemente, conveniva credere fossero assolutamente inabitabili, poichè il mare, passando sopra l’isolotto, doveva percuoterli con rabbia. Invece nel Palazzo di Granito, entro quel masso enorme, contro il quale l’aria e l’acqua nulla potevano, nulla eravi a temere.

In quei pochi giorni di prigionia i coloni non ri[p. 103 modifica]masero inoperosi. Non mancava nel magazzino la legna tagliata a tavole, ed a poco a poco si completò la mobilia costruendo tavole e sedie solidissime, poichè non si badava al risparmio nel legname.

Questi mobili, un po’ massicci, non giustificavano gran fatto il loro nome che fa della mobilità una condizione essenziale, ma formavano l’orgoglio di Nab e di Pencroff, i quali non li avrebbero barattati coi più preziosi campioni dell’ebanisteria.

Poi i falegnami divennero panierai, e non riuscirono male in questa nuova fabbricazione. Si aveva scoperto, verso la punta che il lago faceva al nord, una feconda vincaja in cui crescevano in gran numero i vimini porporini. Prima della stagione delle piogge, Pencroff ed Harbert avevano raccolto questi utili arbusti, i cui rami, ben preparati, potevano tornare utilissimi. I primi tentativi furono informi, ma grazie all’intelligenza degli operaj, consultandosi, ricordando i modelli che aveano visto, facendo gara fra di loro, non andò molto che il materiale della colonia s’arricchì di panieri e di corbe di varie grandezze.

Il magazzino ne fu fornito, e Nab chiuse in certe ceste speciali le sue raccolte di rizomi, di mandorle di pino-pinocchio e di radici di dragone.

Durante l’ultima settimana di quel mese di agosto il tempo si modificò ancora una volta: scese la temperatura, si quetò la tempesta.

I coloni uscirono al di fuori. Vi erano, certo, due piedi di neve sul greto, ma alla superficie di quella neve indurita si poteva camminare senza gran fatica. Cyrus Smith ed i suoi compagni salirono sull’altipiano di Lunga Vista.

Qual mutamento! I boschi che essi avevano lasciati verdeggianti, specialmente nella parte vicina in cui dominavano le conifere, sparivano allora sotto una tinta uniforme. [p. 104 modifica]

Ogni cosa era bianca, dalla vetta del monte Franklin fino al litorale, foreste e praterie, lago, fiume, creti. L’acqua della Grazia scorreva sotto una vetta di ghiaccio che ad ogni flusso e riflusso si squagliava e si rompeva rumorosamente.

Gran numero d’uccelli svolazzavano sulla superficie del lago: anitrelli, beccaccini, urie: si conta vano a migliaja. Le rocce, fra le quali si versava la cascata sul lembo dell’altipiano, erano irte di ghiacci. Si avrebbe detto che l’acqua uscisse da una mostruosa gronda lavorata con tutto il capriccio d’un’artista del Rinascimento. Quanto a giudicare dei danni cagionati alla foresta dall’uragano, non si poteva farlo ancora; bisognava aspettare che l’immenso strato bianco si fosse dissipato.

Gedeone Spilett, Pencroff ed Harbert non tralasciarono in quest’occasione d’andar a visitare le loro trappole. Non fu facile rinvenirle sotto la neve che le copriva, e conveniva anche guardarsi per non sprofondare in qualcuna di esse: il che sarebbe stato pericoloso, senza contar l’umiliazione di lasciarsi prender nel proprio tranello. Ma finalmente le trappole vennero ritrovate, ed in perfetto stato. Nessun animale v’era caduto, eppure frequenti erano le pedate nei dintorni, e si vedeano, fra le altre impronte, quelle di certi artigli nettamente disegnate. Harbert non esitò ad affermare che un qualche carnivoro del genere dei felini era passato per di là; il che giustificava l’opinione dell’ingegnere, circa la presenza di belve feroci nell’isola Lincoln. Senza dubbio, quelle belve abitavano le fitte foreste del Far-West, ma spinte dalla fame s’erano avventurate fino all’altipiano di Lunga Vista. Sentivano esse gli ospiti del Palazzo di Granito?

— Insomma, che cosa sono codesti felini? domandò Pencroff.

— Sono tigri, rispose Harbert. [p. 105 modifica]

— Io credeva che codeste belve non si trovassero se non nei paesi caldi.

— Sul nuovo continente, rispose il giovinetto, le si vedono dal Messico fino ai Pampas di Buenos Ayres. Ora, siccome l’isola Lincoln è, all’incirca, sotto la medesima latitudine delle provincie della Plata, non è a stupire che vi si incontri qualche tigre.

— Sta bene, baderemo, rispose Pencroff.

Frattanto la neve finì col dissiparsi sotto l’influenza della temperatura che si rilevò. Cadde la pioggia, e grazie alla sua azione dissolvente il bianco strato si cancellò. Malgrado il cattivo tempo, i coloni rinnovarono le provviste in ogni cosa; mandorle di pino pinocchio, radici di dragono, rizomi, liquore d’acero per la parte vegetale, conigli di conigliera, aguti e kanguri per la parte animale. Ciò rese necessarie al cune escursioni nella foresta, e si potè vedere che una certa quantità d’alberi erano stati atterrati dall’ultimo uragano. Il marinajo e Nab si spinsero anzi fino allo strato di carbon fossile per far provvista di qualche tonnellata di combustibile. Essi videro, nel passare, che il camino del forno di vasellami era stato molto danneggiato dal vento e svettato sei buoni piedi almeno. Insieme col carbone fu pure rinnovata la provvista della legna e si approfittò della corrente della Grazia, che era divenuta libera, per trasportare molti carichi, potendo accadere che tornasse il periodo dei gran freddi.

Si era pure fatta una visita ai Camini, ed i coloni ebbero a rallegrarsi di non avervi abitato durante la tempesta. Il mare avea lasciato colà incontrastabili segni delle sue rovine. Sollevato dai venti del largo e scavalcando l’isolotto avea assalito con impeto i corridoj, che erano stati mezzo coperti dalla sabbia; fitti strati di alghe coprivano le roccie.

Intanto che Nab, Harbert e Pencroff andavano a caccia e rinnovavano le provviste di combustibile, [p. 106 modifica]Cyrus Smith e Gedeone Spilett attesero a sgombrare i Camini; e ritrovarono la fucina ed i fornelli pressochè intatti, essendo stati protetti dal cumulo delle sabbie.

Non inutilmente era stata rifatta la provvista di combustibile. I coloni non avevano finito coi freddi rigorosi. Si sa che nell’emisfero boreale il mese di febbrajo è segnato specialmente da grandi abbassamenti di temperatura. Lo stesso doveva accadere nell’emisfero australe, e la fine del mese di agosto, che è il febbrajo dell’America del nord, non si sottrasse a questa legge climaterica.

Verso il 25, dopo una nuova alternativa di neve e di pioggia, il vento volse a sud-est, e subito il freddo divenne vivissimo.

Stando ai calcoli dell’ingegnere, la colonna mercuriale di un termometro Fahrenheit non avrebbe segnato meno di 8 gradi sotto zero (22 gradi centigradi sotto il gelo) e codesta intensità di freddo, resa ancor più dolorosa da un vento gelato, si mantenne per molti giorni. Per ciò i coloni dovettero di nuovo chiudersi nel Palazzo di Granito; e siccome bisogno ostruire ermeticamente tutte le aperture della facciata, non lasciando altro che lo stretto passaggio necessario al rinnovamento dell’aria, grande fu la consumazione delle candele. Per farne economia, i coloni s’accontentarono spesso della sola fiamma del focolare, dove non si risparmiava il combustibile. Molte volte gli uni e gli altri scesero sul greto, in mezzo ai ghiacci che il flusso vi ammucchiava ad ogni marea, ma essi risalivano subito dopo al Palazzo di Granita, tenendosi, non senza dolore, colle mani ai bastoni della scala. In questo freddo intenso gli scalini bruciavano loro le dita. Bisognò ancora occupare gli ozî, e Cyrus Smith, intraprese all’uopo un’operazione che poteva farsi stando chiusi in casa. Si sa che i coloni non avevano a loro disposizione altro [p. 107 modifica]zucchero che la sostanza liquida che ricaricano dall’acero, facendo a quest’albero profonde incisioni. Bastava loro adunque raccogliere il liquore in vasi, ed in tale stato lo adoperavano a diversi usi culinari, e tanto meglio in quanto, invecchiando, il liquore tendeva ad imbiancare ed a prendere una consistenza siropposa. Ma vi era di meglio a farsi, ed un giorno Cyrus Smith annunciò ai propri compagni che dovevano trasformarsi in raffinatori.

— Raffinatori! rispose Pencroff. È un mestiere un po’ caldo, credo.

— Caldissimo, rispose l’ingegnere.

— Allora sarà di stagione! replicò il marinajo.

La parola raffinamento non deve dare l’idea di officine complicate, ricche di operaj e di utensili. No; per cristallizzare quel liquore, bastava depurarlo con un’operazione facilissima. Collocato sul fuoco in gran vasi di terra il sugo di acero fu semplicemente sotto posto ad una certa evaporazione, nè andò molto che alla sua superficie salì una schiuma. Non appena essa incominciò a farsi densa, Nab ebbe cura di agitarla con una spatola di legno; il che doveva accelerare l’evaporazione ed impedire al medesimo tempo di pigliare un gusto empireumatico.

Dopo alcune ore di ebullizione sopra un buon fuoco che faceva del bene agli operatori non meno che alla sostanza operata, questa si era trasformata in un sciroppo denso, che fu versato in forme d’argilla, prima fabbricate nel fornello medesimo della cucina, ed alle quali si eran date varie fogge. Il domani quel sci roppo raffreddato formava pani e tavolette. Era zucchero di colore un po’ rossiccio, ma quasi trasparente ed ottimo al gusto.

Il freddo continuò fino a mezzo settembre, ed i prigionieri del Palazzo di Granito incominciavano a trovare la loro prigionia ben lunga. Quasi tutti i giorni tentavano qualche sortita, che non poteva prolungarsi. [p. 108 modifica]

Si lavorava adunque costantemente a preparare l’abitazione. E intanto si cianciava.

Cyrus Smith istruiva i compagni in ogni cosa e veniva spiegando loro, più che altro, le applicazioni pratiche della scienza. I coloni non avevano biblioteca a loro disposizione, ma l’ingegnere era un libro sempre aperto alla pagina di cui ciascuno aveva bisogno, un libro che risolveva ogni quesito e che essi sfogliavano di frequente. Passava così il tempo, e le brave persone non parevano punto timorose dell’avvenire. Nondimeno era tempo che finisse quella clausura. Erano tutti impazienti di rivedere, se non la bella stagione, almeno la cessazione di quel freddo insopportabile. Se almeno fossero stati vestiti in maniera da poterlo sfidare, quante escursioni avrebbero essi tentato alle dune ed al marese delle Tadorne! Facile doveva essere farsi presso alla selvaggina, e senza dubbio la caccia sarebbe stata fruttuosa. Ma stava a cuore di Cyrus Smith che nessuno ponesse a rischio la propria salute, avendo egli bisogno di tutte le braccia.

I suoi consigli furono eseguiti. Il più impaziente della prigionia, dopo Pencroff s’intende, era Top. Il fedele cane si trovava molto allo stretto nel Palazzo di Granito. Egli andava e veniva da una camera all’altra e testimoniava a modo suo la noja di essere rinchiuso.

Cyrus Smith notò sovente che quando si accostava a quel pozzo tenebroso che era in comunicazione col mare, ed il cui orifizio s’apriva in fondo al magazzino, Top faceva intendere singolari grugniti, girava intorno al buco che era stato coperto d’una tavola e talvolta perfino cercava di cacciare le zampe sotto quella tavola come se avesse voluto sollevarla. Latrava allora in un modo particolare che indicava insieme collera ed inquietudine. L’ingegnere osservò molte volte questo armeggio. Chi vi era dunque in quell’abisso che potesse impressionare a tal punto l’intelligente [p. 109 modifica]animale? Il pozzo metteva nel mare, questo era certo; si ramificava esso dunque in stretti canali attraverso l’apertura dell’isola? Era esso in comunicazione con qualche altra cavità interna? E qualche mostro marino veniva forse ogni tanto a respirare in fondo al pozzo? L’ingegnere non sapeva che pensare e non poteva trattenersi dall’immaginare bizzarre complicazioni. Avvezzo a spingersi lontano nel dominio delle scientifiche realtà, egli non si perdonava di lasciarsi trascinare così nel dominio dello strano e quasi del soprannaturale; ma come spiegarsi che Top, uno di quei cani sensati che non hanno perduto mai il loro tempo ad abbaiare alla luna, s’ostinasse a scandagliare coll’olfato e coll’udito l’abisso, se non vi accadeva nulla che potesse svegliare la sua inquietudine? La condotta di Top poneva Cyrus Smith in imbarazzo più che non gli paresse ragionevole di confessarlo a sè medesimo. Del resto, l’ingegnere non comunicò le proprie impressioni ad altri che a Gedeone Spilett, trovando inutile spingere i compagni alle riflessioni in volontarie che in lui faceva nascere ciò che forse non era altro che un capriccio di Top.

Finalmente cessò il freddo. Ci furono pioggie, raffiche miste di neve, brine, colpi di vento, ma codeste intemperie non duravano. Il ghiaccio si era disciolto, squagliata la neve, il greto, l’altipiano, i margini della Grazia, la foresta erano ridiventati praticabili.

Quel ritorno della primavera incantò gli ospiti del Palazzo di Granito, i quali non vi passarono più che le ore del sonno e delle refezioni. Si andò molto a caccia nella seconda metà di settembre: il che indusse Pencroff a reclamare con nuova insistenza armi da fuoco che egli affermava essere state promesse da Cyrus Smith. Costui, sapendo bene che senza strumenti speciali gli sarebbe impossibile fabbricare un fucile che potesse rendere qualche servizio, differiva sempre l’operazione a più tardi, facendo d’altra [p. 110 modifica]parte osservare che Harbert e Gedeone Spilett erano divenuti abili arcieri e che ogni maniera d’animali eccellenti, aguti, kanguri, colombi, ottarde, anitre selvatiche, beccaccini, cadevano sotto le loro freccie. Ma l’ostinato marinajo non voleva sentir ragione, disposto a non lasciar requie all’ingegnere fino a tanto che non avesse soddisfatto al proprio desiderio. Del resto Pencroff appoggiava Gedeone Spilett.

— Se l’isola, come non si può dubitare, diceva egli, contiene animali feroci, bisogna pensare a combatterli ed a sterminarli. Può venire un momento in cui questo sia il nostro primo dovere.

Ma a quel tempo non fu già il quesito delle armi da fuoco che tenne inquieto Cyrus Smith, sibbene quello delle vestimenta, poichè i panni che i coloni portavano avevano passato un inverno, ma non potevano giungere al successivo. Pelli di carnivori o lana di ruminanti, ecco che cosa bisognava procurarsi ad ogni costo. E giacchè i mufloni non mancavano, conveniva pensare ai mezzi di formarne un greggie che si potesse allevare pei bisogni della colonia. Un recinto per gli animali domestici, un cortile preparato per i volatili, in una parola una specie di fattoria da fondare in qualche punto dell’isola: ecco i due disegni importanti da eseguire durante la bella stagione. In conseguenza ed in vista di questi stabilimenti futuri diveniva urgente fare una ricognizione in tutta la parte ignorata dell’isola Lincoln, vale a dire sotto quelle alte foreste che si stendevano sulla riva destra della Grazia, dalla sua foce fino all’estremità dell’isola Serpentina, al pari che su tutta la costa occidentale; ma bisognava un tempo fermo, e doveva trascorrere un mese ancora prima che tale esplorazione potesse intraprendersi con profitto. Si aspettava adunque con una certa impazienza, quando accadde un accidente per cui crebbe ancora il desiderio che avevano i coloni di visitare tutto intero il loro dominio. [p. 111 modifica]

Si era al 24 ottobre. In quel giorno Pencroff era andato a visitare le trappole, che teneva sempre convenientemente adescate. Vi rinvenne tre animali che dovevano essere i benvenuti alla dispensa: una femmina di pecari e due suoi piccini. Pencroff tornò al Palazzo di Granito, felice di tale cattura e, come sempre, mostrò pomposamente la sua caccia.

— Faremo un buon pasto, signor Cyrus! esclamava egli, e voi pure, signor Spilett, ne mangerete.

— Sicuro che voglio mangiarne! rispose il reporter; ma che cosa?

— Porcellini da latte.

— Davvero? proprio porcellini da latte! Io credeva che aveste portato una pernice tartufata.

— Come! esclamò Pencroff, fareste lo schizzinoso con un porcellino da latte?

— No, rispose Gedeone Spilett senza mostrare alcun entusiasmo — e purchè non se ne abusi....

— Sta bene, sta bene, signor giornalista, rispose il marinajo, a cui non garbava intendere sprezzare la propria caccia. Voi fate il difficile, e sette mesi sono, quando siamo sbarcati nell’isola, sareste stato felice d’incontrare codesta selvaggina.

— Proprio vero; l’uomo non è mai perfetto nè contento.

— Dopo tutto, soggiunse Pencroff, spero che Nab si farà onore. Osservate, questi due piccoli pecari non hanno neppure tre mesi, devono essere teneri come quaglie.... Via, Nab, andiamo, sorveglierò io stesso la cottura.

Ed il marinajo, seguito da Nab, andò in cucina e si concentrò tutto ne’ suoi lavori culinari. Lo si lasciò fare a suo capriccio. Nab ed egli prepararono adunque un magnifico desinare composto di due piccoli pecari, d’un brodo di kanguri, d’un prosciutto affumicato, di mandorle di pinocchio, di liquore di dragone e di thè di Aswego, in fine di tutto quanto v’era di [p. 112 modifica]meglio; ma fra tutti i piatti dovevano far la prima figura i pecari saporiti, cotti in istufato. Alle cinque il desinare fu servito nella sala del Palazzo di Granito. Il brodo di kanguro fumava sulla mensa, e fu trovato eccellente.

Al brodo succedettero i pecari, che Pencroff volle trinciare egli stesso e di cui servì mostruose porzioni a ciascuno dei commensali.

Quei porcellini da latte erano davvero squisiti.

Pencroff divorava la propria parte con una foga infernale, quando d’un tratto gli sfuggì un grido ed una bestemmia.

— Che c’è? domandò Cyrus Smith.

— C’è... c’è che mi sono rotto un dente! rispose il marinajo.

— To’! Vi sono adunque dei ciottoli ne’ vostri pecari? disse Gedeone Spilett.

— Così bisogna credere, rispose Pencroff togliendosi dalle labbra l’oggetto che gli costava un molare.

Non era un ciottolo... era un grano di piombo!




FINE DEL VOLUME SECONDO.