La lanterna di Diogene/III
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III.
Ebbrezza del latte.
A Modena un tabaccaio si offerse ad incollarmi egli stesso i bolli su le cartoline illustrate; un caffettiere mantenne la promessa di offrirmi un caffè senza cicoria.
Queste garbatezze non sono molto frequenti ed ebbero la virtù di farmi vedere soltanto il bello di Modena.
(V e r u m e n i m v e r o, considerando che le buone maniere non costano niente, eppure mutano in color roseo l’aspetto delle cose; e considerando, inoltre, che noi non ci possiamo sottrarre alle cattive azioni del nostro prossimo, preghiamolo di operare il male con bel modo. Sono consegnati alla Storia quei carnefici che fecero il loro ufficio con gentilezza.)
Io trovai dunque Modena meritevole di quegli epiteti di «ben costruita» e «felice» che Senofonte nell’«Anabasi» regala a tutte le città dell’Asia Minore; le sue contrade sono armoniche anche senza il geometrico, antipatico rettifilo moderno; decorose senza ostentazione di fasto architettonico; silenziose senza tristezza (e questa ultima qualità non può essere apprezzata al suo giusto valore se non da chi esce da una città come Milano, dove è necessario possedere un sistema nervoso fabbricato appositamente).
Un’amabile classicità ha ravvolto gli edificj in una lieta armonia; e se la torre della Ghirlandina è antica, ridono di giovinezza i visi delle donne fuori dello scialletto nero; e il mercato fa testimonianza della bella e fertile terra.
La vasta piazza Ducale non era in quell’ora popolata che dalla statua di Ciro Menotti. Eppure era molto! Questa statua è di marmo bianco, e il giovane martire della indipendenza d’Italia lì giganteggia, nell’atto di avanzare con fronte alta e pura, col vessillo in pugno e la spada. L’atto è risoluto e calmo; ma il volto imberbe e giovane, il suo vestir cittadino, lo stesso candore dei marmi sembrano simboleggiare la purità dell’eroe e insieme la paziente gentilezza latina che si ribella alfine per il diritto alla vita.
Non così, o buon tedesco, o Rudolf Meyer, sono effigiati gli eroi della tua terra! I recenti eroi della tua terra vestono il tetro abito della guerra, e pure essendo composti nell’aspetto, fanno pensare all’antico furore dei tuoi guerrieri feudali.
La spada che impugna Ciro Menotti è arma caduca nel tempo, necessità del momento: della qual cosa non seppi allora, nè so, se congratularmi o dolermi.
*
Un vecchio e arzillo signore di Modena, mio compagno di tavola, fu quegli che mi indusse proprio a lasciar la pianura e prendere la via dei monti. — Come? non conosce la via Giardino? ignora Paullo? La Serra? Lama Mocogno? Barigazza? Pievepelago? L’Abetone? Ma bisogna andarvi! già che è sulla strada. — Così mi disse.
Confesso la mia ignoranza; io non conoscevo molti di questi luoghi nè meno di nome e non trovo modo di confortare questa ignoranza se non pensando che io la condivido con molte persone.
Strana cosa! Questa piccola Italia, se ci mettiamo a studiarla secondo geografia, diventa grande come un continente; e se ci mettiamo a studiarla secondo storia, quest’umile Italia diventa superba come un impero.
La materia è vasta; ed è forse per questo che gli studi della storia e della geografia nazionale sono accuratamente evitati.
Dopo un sommario esame della carta del Touring, osservai al mio interlocutore che La Serra è a 800 metri; Paullo è più in basso, ma Barigazzo sale ancora a 1300; Pievepelago discende sino al fiume; però l’Abetone svaria con la sua selva a 1340, e la Lima si nasconde in fondo alla valle.
— Crede lei che io riuscirò a fare questa specie di montagne russe?
— Caspita, un giovane come lei!
Ciò mi lusingò moltissimo: ma tutto è relativo: per il mio interlocutore, che era vecchio, io apparivo ancora un giovinotto; nel modo stesso che un certo bambino dice sovente: «quando sarò vecchio come il papà», e non crede di offendermi.
*
Ecco: andare da Modena all’Adriatico pigliando le vie di Paullo e dell’Abetone non è la più diretta, e quelli che mi attendevano nella casetta al mare, certo — pensai — ne avranno dispiacere; tuttavia se tralascio questa occasione, chissà quando la potrò riafferrare, e mi vinse la nostalgia di rivedere i grandi monti e le ginestre selvagge.
Partii prima dell’alba del dì seguente.
Da Maranello alla Serra si sale sempre. La diligenza vi impiega, dalle sette alle undici, cioè sono chilometri trenta. Un giovane di venti anni, che non tenga conto che il cuore è un muscolo robustissimo, ma non rinnovabile quando è guasto, la può percorrere tutta in sella questa salita. Per conto mio decisi di farla tutta a piedi. «Quando e dove arrivo, arrivo bene», questo è il mio motto, viaggiando, io col mio io, e non con altri. Se non che un po’ per volta cominciai ad osservare che gli occhi dei contadini mi guardavano con meraviglia. Feci qualche domanda, osservai meglio e mi persuasi che quella buona gente non soltanto era meravigliata, ma piena di compassione a mio riguardo.
Perchè?
Perchè — cosa strana — gli abitanti di un paese bello come l’Italia, difficilmente si persuadono che uno viaggi a piedi unicamente per il piacere di viaggiare: pigliare poi la montagna a piedi, fa nascere una di queste due considerazioni: o che si tratti di uno stravagante, oppure di un disperato che non possiede altri mezzi di locomozione fuor di quelli usati da San Francesco. Vorrei dire che in questa deplorevole opinione concordano soltanto i contadini, ma direi cosa inesatta.
Inoltre v’è un’altra considerazione melanconica da fare: l’onesta bicicletta passa oramai inavvertita fra le genti. Gli occhi dei contadini non si fanno più tondi se non al passaggio di un automobile. L’automobile può essere massacratore, ma è potente e prepotente. È moderno! Perire vittima di un ordigno moderno è onorevole: credo che sia ammesso tacitamente anche dai nostri umanitari.
Ecco: il terribile carro si presenta in fondo alla via nello sfondo di un nembo di polvere. Il corno solenne, grave, armonizza stranamente col fremito precipitoso degli stantuffi e dà questo avvertimento: «Profani, tutti, sgombrate la via!» E non c’è duro bifolco o carrettiere addormentato che non scenda e non trascini a mano le sue bestie sul ciglio della strada. L’imprecazione non ci pensa nè meno a formarsi, perchè tutti i centri del cervello sono paralizzati dalla meraviglia.
Pare che la strada si sollevi in un moto serpentino e faccia essa scivolare il gran carro, che si snoda agile come una serpe. La visione è olimpica: signori e dame passano con compostezza regale. Un idiota lassù, può sembrare un gravissimo personaggio. Perchè? perchè appare prepotente e ricco.
Cesare è disceso dalla quadriga: ma il capitalista anonimo è salito sull’automobile e percorre da trionfatore la strada della democrazia, con la visiera della maschera calata.
*
Non soltanto io facevo una ben magra figura con la bicicletta a mano; ma una grande stanchezza si impossessò di me dopo qualche chilometro. Mi assalì una specie di nausea, un sudore freddo mi bagnò la fronte, la camicia ventilò gelata su le carni; e invece di seguitare a confortarmi con la bella idea che salire equivale a conquistare una virtù, mi venne il sospetto che potevo conquistare anche una polmonite. Il garretto sopra tutto si stendeva faticosamente.
(Allora, a tanta lontananza dal tempo in cui leggevo Omero, capii bene perchè questo miracoloso poeta dice sempre degli eroi morenti: απολυςντο τε γυαι, «si sciolsero le ginocchia». Sì, i grandi poeti hanno l’istinto della verità, ma di quelle verità che più splendono come più ci allontaniamo col tempo. Essi sono simili ai fari del mare: da presso non hanno luce: rifulgono soltanto da mezzo il mare, e la loro luce serena è di conforto nel periglio e nella morte. Perciò le opere dei grandi poeti sono chiuse sotto sigilli, ed ogni età ne comprende quel tanto che è a lei confacente.)
Io fui turbato a questo senso di sfinitezza profonda e sarei, forse, tornato indietro, se una casetta non mi si fosse presentata alla svolta.
Essa era chiusa e silenziosa. Bussai tuttavia. Venne ad aprire una donna dal volto non interamente arcigno.
— Per piacere, un po’ di latte, — domandai.
— L’abbiamo portato tutto al casàro.
— Il casàro sta lontano?
— Quelle case là in vetta.
Chinai il capo.
— Mi lascia entrare, — indicai l’interno della socchiusa dimora, — per mettermi una maglia?
— Eh! — e liberò pianamente della sua persona l’ingresso perchè io entrassi; e questo «eh» voleva dire: «eh, vorrei dire di no, ma come si può negare un favore di umanità?» Siccome poi io non volevo mettermi davanti a lei nel costume con cui Ulisse si presentò alla bella Nausica, così domandai una stanza. Fatto un primo favore bisognava farne un secondo (molte volte è necessario farne un terzo, ed è perciò, forse, che molti si rifiutano di fare il primo favore).
L’ispida maglia che sostituì su la pelle la tela, sarebbe stata una camicia di Nesso sotto la Galleria di Milano: lì fu un incredibile beneficio, e mi offrì un’occasione di lodare la mia prudenza.
Dunque ricompensiamo la gentilezza dell’onesta massaia! Ella, rifiutò, io insistetti: e fu nell’accettare che ella si ricordò che, se non aveva più il latte, aveva delle uova fresche e che essendo il fornello acceso, poteva farmi anche un caffè! Mi precedette nella cucinetta e mi offerse una sedia.
Il sole battea per la cucinetta che era assai linda e ordinata, come raramente si incontra da noi; si rifrangea sui rami tersi del camino e non v’era altro rumore che il ronzìo sonnolento di alcuni mosconi.
Mise la còccuma sul fuoco, fece cadere la fresca perla gialla di due uova entro una tazza pulita, parcamente cosparse lo zucchero, indi si mise a frullare con molta arte.
— Dove avete imparato a far così bene?
— Sono stata venti anni a servizio, signore.
— Poi avete preso marito?
— Sissignore.
— E avete figli?
— Sissignore. Ma sono fuori, perchè qui in montagna non restano che i vecchi: un maschio lavora in Svizzera, una figlia è anche lei a servire a Torino.
— E il marito?
— Il mio uomo è a mietere.
— Sul vostro?
— Sissignore, ma un palmo di terra, che non basterà a seppellirci.
— E la casa è pur vostra?
— Questi quattro sassi? Sissignore, sono nostri.
Fin qui mi aveva risposto come se io fossi stato un agente delle imposte, ma quando tirai la somma delle domande con la domanda:
— Dunque voi siete felice?
— Oh, felice! — disse. — Si vive in pace, ecco!
Come se «vivere in pace» non fosse «felicità»! E sentii che avrei messo una enorme tassa su quella pace.
*
Le miglia di montagna sono caudate come le antiche sonettesse, ma finalmente giunsi alla casa del casàro.
Oh placido laboratorio! Io ignoravo i particolari dell’esistenza di una fra le più antiche industrie di questi monti: quella del cacio parmigiano. Sono edifici che formano una sola stanza tutta di mattoni senza intonaco, disposti a traforo, e questo si fa per l’aereazione del latte: intorno vi sono grandi ciotole di legno, colme di latte: nel mezzo si sprofonda un enorme imbuto di rame ove la crema del latte è cagliata e cotta. Per provare il beneficio di questa bevanda, di cui dal tempo della balia mi ero completamente dimenticato, bisognava proprio che mi fossi recato fin quassù, in questa torrida estate!
Placidi lavoratori del latte nella bella estate, voi certo durate per serie continua sin da prima del tempo che Bruno e Buffalmacco raccontavano al semplice Calandrino la fiaba dei maccheroni che rotolano da Bengodi per i monti di cacio Parmigiano!
Questo insorgere e avvicinarsi spontaneo di un’allegra fantasia boccaccesca mi fece piacere, perchè io avevo intrapreso quel faticoso viaggio pei monti anche allo scopo di esperimentare due cose: primieramente cioè se i muscoli erano elastici, secondariamente se il cervello era ancora elastico, tale cioè da lasciarsi impressionare ben forte non solamente dalla magnificenza delle cose presenti e viventi, ma anche da vedere tutte vive le cose trapassate ed occulte e sentire prossime le cose future.
*
Questa specie di ampio sentire può dare ad un uomo l’aspetto esterno come di un rimminchionito. Certo è la più voluttuosa delle ebbrezze; sebbene non abbia nulla a che fare con quella che si compra nelle botteghe dei liquoristi. Però non mancano certe somiglianze apparenti, giacchè le idee più bislacche cominciano a parere logiche, gli atti più stravaganti, assai naturali; così che un ubbriaco di assenzio mal si distingue da un ubbriaco per latte come io ero.
Per fortuna la gente si faceva rada, le querce frequenti.
Questo stato dell’animo ebro e luminoso si venne in me formando a poco a poco, ed io ne esaminavo il rapido concretarsi con il piacere con cui una massaia — che ha molti ospiti cari — nota il ben formarsi della crema sul fornello. (Conserverò questa crema per i giorni della carestia: questa luce per i giorni bui.)
E primo segno fu il cessare della stanchezza, e quando giunsi ad un punto in cui la via spianò — si stendeva ondulata lungo una serra — e potei montare in bicicletta, e sentii l’aria forte ventilare e vidi la bianca via passare sotto le gomme delle ruote vibranti all’impulso, provai il piacere di don Chisciotte quando esperimentò la straordinaria agilità di Ronzinante.
Che ora era? Una delle ore del mattino. Le case si facevano più rade, più di colore e d’aspetto alpestre, più rari gli uomini, più dolci e mansueti gli occhi dei bimbi. Un secondo casàro, che versava nell’ombra silenziosa il latte, mi parve un sacerdote che adempie un rito antico di libazione; e poi vidi venirmi incontro una trionfale fiorita di ginestre, fuor dalle asperità della roccia, tutto lungo la via.
Questo piccolo giallo fiore è un fiore filosofo: sceglie per sua abitazione i luoghi dove la famiglia umana è meno frequente e non si lascia addomesticare nei giardini al servizio delle dame: a coglierlo si ribella, perchè i forti alti aculei verdi su cui cresce, a fatica si spezzano e il fiorellino antepone di cadere e morire all’essere divelto dal suo stelo: la sua anima esala più odorosa quando più caldo è il sole. La «rosa», la «viola», il «gelsomino» sono titoli per poeti soavi: «La Ginestra» è il titolo di un grande canto del penultimo nostro poeta profeta, di Giacomo Leopardi.
Questo umile fiore potè a lui inspirare un testamento di verità, e di fede a beneficio dell’uomo. Ed era in fin di vita, il nobile, il grande profeta, ed era ammalato senza speranza! E i libri dei letterati dicono che Giacomo Leopardi fu misantropo, scettico e pessimista. No, egli fu un santo! Crede il volgo che i santi siano soltanto quelli che portarono la tonaca del fraticello e subirono la tonsura. Che errore!
Anche San Francesco era morente, sparuto, esangue, quando fra gli olivi soleggiati di San Damiano compose il suo Cantico al Sole.
Cantano i cigni più dolcemente quando la morte s’appressa.
Oh, siate laudate anche voi, anime grandi, e laudato sia il popolo d’Italia quando spezzerà i sigilli degli evangeli che i suoi santi a lui lasciarono per testamento!
E dopo le ginestre vennero le querce!
*
Vidi nell’azzurro disegnarsi una famiglia di querce gigantesche: esse erano sole e contorte in maniera strana e ammirevole, come un pittore a fatica potrebbe imaginare senza modello; ed erano così coperte di muschio e di edere che pareano smeraldo nel turchese del cielo: e allora dal folto delle loro frasche si partì, ardito come freccia, un canto animatore di uccello: quindi esso apparve.
Esso, l’uccello, si librò alquanto al di sopra delle fronde con le ali aperte, come sogliono i pittori foggiare lo Spirito Santo, e nell’aprirsi le ali scoprirono un bel colore purpureo. Veniva su dalle frasche della quercia, e tornava a nascondersi. Mi aveva l’aria di venir fuori a salutare il buon papà, il sole, il quale imbiancava, giù nella valle, tutto il corso sassoso del fiume Tiepido.
Non mi ricordo bene quanto tempo stetti a contemplare quell’uccellino e quella quercia, ma qualche minuto sì certo; e nè meno ricordo quali pensieri formai, certo erano assai belli e profumati, e vibravano ogni volta che vibrava il canto dell’uccellino. (Che ampolla preziosa da aspirare nei giorni in cui l’anima si adagia inerte! Oh, che peccato che non si possano conservare dentro una scatola, le bolle del sapone!)
Ricordo però bene che tanto l’uccellino, come la quercia, come la ginestra mi parvero tanti docili figliuoli del buon papà, il sole; ed allora io li pregai perchè mi accogliessero in loro compagnia:
— Frate uccellino! sorella quercia, accoglietemi fra voi!
— Frate uomo, marameo! — mi rispose l’uccellino. — Sbollito l’entusiasmo, tu hai l’abitudine di metterci nello spiedo!...
Mi vide, diè un trillo di paura, scappò.
*
E dopo l’uccellino venne la bella fontana.
Mi rammentai di Tristano. E quando egli trovava alcuna fontana, vi si restava e cominciava a fare meraviglioso pianto!
L’acqua di quella fontana — a cui giunsi — cadeva con un largo getto dalla roccia e si accoglieva in una gran conca di pietra, viscida per il muschio, entro una specie di grotta dove la frescura metteva un voluttuoso ribrezzo.
Un carrettiere, solitario presso alla fontana, abbeverava un suo cavallo bianco.
Il carrettiere mi ammonì:
— È meglio che non beva, così sudato come è.
— No, non bevo, grazie.
Ma la fontana cantava così dolcemente e la pelle era così riarsa che le mani furono attratte ad immergersi nella vasca: ma sollevando quell’acqua che pareva nera e ricadeva tutta, risplendente come un cristallo, provai così grande piacere che le mani chiamarono a quella voluttà i polsi, e i polsi le braccia, e infine non resistetti più alla tentazione e pregai il carrettiere che mi togliesse dal dorso la maglia, che era intrisa di sudore.
— Che cosa vuol fare? — chiese egli stralunando gli occhi.
— Mi voglio buttare lì dentro!
— Ma è sicuro di non crepare?
— Lo spero. Suvvia, datemi una mano.
La cosa dovette sembrare molto pericolosa e nuova al carrettiere, tanto più che è notorio quanta avversione abbia la nostra gente per l’uso esterno dell’acqua. Egli obbiettò: io insistetti. Vidi che in lui lottavano due sentimenti: cioè il buon sentimento di salvare un suo simile da certa morte, e il cattivo sentimento di vedere un pazzo ostinato prepararsi alla morte: vinse questo secondo sentimento di curiosità, tanto più che io lo domandavo con tanta buona grazia. La sua coscienza tentò con un ultimo «Lo vuole proprio?» di liberarsi dal rimorso di essere complice di un suicidio. «Sì, presto!» ordinai io. E allora, «Andiamo!» disse.
Quel carrettiere fu assai destro: col suo aiuto in pochi istanti mi liberai della maglia e di ogni altro indumento e così saltai con trepidanza e ardimento nella vasca. Era stata l’acqua ad attirarmi lì dentro, ed io avevo ubbidito alla sua chiamata, e non me ne pentii. L’acqua si impadronì subito di me. Mi sentii scivolare lungo le pareti viscide della pietra, e un senso di voluttà forte e gelida penetrò nell’interno e nel cervello, e si manifestò con un grido e un riso di gioia. Il carrettiere, che mi vide impallidire domandò: «Com vala?»
Gli risposi naturalmente in greco antico: Ἄριστον μὲν ὕδωρ! («ottima è l’acqua!» e dovrebbe essere il motto dell’idroterapia).
Ma vedendo i suoi occhi tondi e la sua tozza persona, ebbi la visione di Sancio che ammira don Chisciotte eseguire una delle sue mirabili follie: il cavallaccio bianco, che era lì presso, diventò un’alfana candida e su di essa sedeva una maga; una maliarda, una delle tante che evocò o l’Ariosto o il Boiardo meraviglioso, di cui io su quei monti sentivo l’anima effusa, una maliarda bianca e tenerina, che mi dicea sorridendo, con la testolina inchinata:
«Caro, metti giù anche la testa! caro, ubbidisci, giù la testa!» e lo dicea con tanta buona grazia che mi venne la voglia di farle piacere a scivolare giù anche con la testa.
«Ma si muore, così!» le risposi infine.
«E dove vuoi sperare di fare una morte più divertente? Va là, caro, non ti lasciar scappare questa bella occasione», pregava la maga tenerina.
«Capisco, ma è che ho degli affari in corso; e, così subito, lì per lì, non mi posso permettere il lusso di morire. Sarà per un’altra volta».
I muscoli del braccio allora si tesero nervosamente, quando capii che il sorriso della maga mi rendeva fievole: Sancio Pancia mi aiutò per le ascelle a venir fuori dalla vasca.
— Un bel rischio, — mi disse.
— Altrochè!
Ma egli alludeva alla idroterapia; io pensavo, invece, all’invito della maga; che per poco non le ubbidiva.
«E chi lo sa, — meditava poscia vestendomi e contemplando l’acqua, ricomposta in pace, profonda e bruna, — che io non mi deva pentire un giorno di aver perso l’occasione di trapassare così dolcemente?»
Del resto non era il caso di tornarci sopra: e avendo rifiutato i vantaggi che l’acqua mi offriva per la morte, accettai quelli che mi offriva per la vita.
Nè questi erano pochi; una gran leggerezza, intanto, per tutte le membra; una gran letizia di riempire i polmoni d’aria, e anche una certa purità di spirito.
O che l’idroterapia abbia anche un’azione morale?
Ma oltre al parroco Kneipp, oltre a Pindaro, c’è stato anche San Francesco a lodar l’acqua. O non la chiamò con meravigliosi, umani nomi «humile et pretiosa et casta» nel suo canto del Sole?
È inutile: non ci sono che i santi ed i poeti che capiscano veramente le cose, un po’ più in là della scorza!
Dopo ciò non rimaneva che pregare il carrettiere che eseguisse sul mio dorso un poco di massaggio. Egli non capì lì per lì che volesse dire questa ostrogota parola; ma quando gli spiegai di fare su me l’istesso esercizio che eseguiva sulla sua bestia quand’era sudata, capì benissimo: — Ah, strigliare! — disse, e afferrò una bella manata di strame.
— Amico mio, tu spingi all’eccesso la simiglianza fra me e la tua bestia; adopera la coperta che hai sul carro.
Egli fu ben volonteroso, e poco dopo gli uscii di mano, rosso come un mattone.
Allora sentii anche un prepotente bisogno di riempire lo stomaco: e Paullo era troppo lontano!
— Ma c’è la Serra che è vicina, — disse il carrettiere. — In quanto? In un quarto d’ora lei ci arriva.
— Allora ci troveremo a bere una bottiglia.
— Vada avanti che la raggiungo subito.
Ed infatti dopo poco, ecco in cima alla salita una fila di casette di montagna che segnavano nella vivida luce della strada il profilo frastagliato delle loro ombre. Una meridiana segnava le ore dieci. Dentro una porta, sopra tre gradini, vidi l’ombra di una stanza con alcuni tavoli apparecchiati, e dalla porta usciva un odore di arrosto. Fu dunque specialmente il naso che mi avvertì che io era giunto ad un’osteria, perchè gli occhi erano ancora abbarbagliati dal sole e non distinguevano bene nè insegna nè frasca.
Quando quel barbaglio scomparve, mi accorsi che il naso non mi aveva ingannato ed io mi trovavo in una grande, bella cucina antica, una di quelle cucine patriarcali che sono il centro della casa; dove, nei tempi antichi di Roma, Vesta teneva acceso il focolare, e c’era il Penus e c’erano i Penati. Lì c’era in basso un gran camino, dove un vecchio sapientemente regolava il fuoco sotto una schidionata di uccelletti; in alto su la parete pendeva una Madonna, circondata da molti santi fra rame fiorite; e sotto un lumino faceva il suo fungo.
Oh, divina provvidenza! Essa accanto all’acqua ha collocato il vino; accanto alla ginestra ha messo i funghi; e dopo la maga viene la cuoca, che vi domanda: «Che cosa desidera, signore?» L’uomo ingegnoso alla sua volta brucia la legna, caglia il latte, ne fa il burro ed il formaggio; questo cade sui gnocchi, quello fa soffriggere i funghi; la quercia artistica fa bollire la pentola; lo spiedo fa girare gli uccellini. Tutte queste cose deliziose si trovavano in quell’ora, in quella cucina, come se avessero saputo del mio arrivo; cioè dei gnocchi e della cacciagione di uccelletti, la cui testolina ad ogni giro di spiedo cadeva giù disperatamente.
Certo essi erano fratelli dell’uccellino bel verde che cantava sulla muschiosa quercia.
Avevano avuto anche loro troppa fiducia nella tutela della legge contro la caccia abusiva che fanno gli uomini, ed ora scontavano la pena della loro buona fede.
Ma io non sentii rimorso di accettare l’offerta di quella cacciagione e di trovarla buona. Del resto anche l’uccellino distrugge e divora la vita di altri esseri; e la storiella della reciproca divorazione e distruzione è continua come un cerchio. Ringraziamo la divina provvidenza che ci ha fatti nascere in quell’ordine privilegiato delle bestie, che mangia tutte le altre; ed è tanto intelligente che sa distinguere quando è meglio mangiare vivi e palpitanti i propri simili, come avviene per le ostriche; quando è meglio lasciarli un poco putrefare, come avviene per le pernici e per le quaglie; quando è meglio mescolare insieme molti animali, come avviene per il salame.
Del resto è un errore di giudizio semplice il supporre che i piccoli animaletti non esercitino una loro vendetta. I microbi si uniscono a milioni, edificano le loro città mortifere nei nostri corpi orgogliosi; ed altre miriadi di microbi preparano sotto terra accuratamente la nostra distruzione completa.
Anche essendo asceti e vegetariani, non isfuggiremo a questa sorte dolorosa e fatale. Divoriamoci, quindi, senza rimorso e senza pietà! conclusi contemplando uno di quei bipedi infilzato nella forchetta.
In quella occasione feci conoscenza di un vino locale, vino di montagna che non conoscevo neppure di nome ed è chiamato vino tosco. È un vinello lieve, roseo, acidulo. Il carrettiere, che mi aveva raggiunto, mi assicurò che di quel vino se ne può bere sino a mutare lo stomaco in un otre; e non fa male. Dev’essere così, perchè esso non turbò menomamente il dolcissimo profondo riposo di cui mi gratificai dopo il pasto.
O frescura delle lenzuola di bucato, o voluttà del buio nella stanza, con la coscienza che lentamente si spegne (vedendo però attraverso un tenue spiraglio della finestra l’imagine del gran sole!) o sonno senza sogni, senza visioni, senza sussulti! Quante poche volte mi accadde di dormire così!
Un breve sonno, se profondamente e lievemente dormito, vale una lunga notte di sonno sognato e agitato; e in vero quando mi destai, credetti aver dormito come una notte, e già tramontato credevo il sole. Ma come ebbi spalancati gli scuri, vidi che il sole si distendeva in pieno meriggio per la piazza deserta e faceva barbagliare le verdi piramidi lontane della Serra. Erano appena le tre.
In quelle due ore io mi ero rinnovato nel sonno: ma certo in questo tempo gli operai del corpo, i lavoratori della vita, avevano lavorato alacremente mentre il cervello riposava: avevano restaurata e pulita, la gran macchina umana. Non avevano fatto come i lavoratori della terra, della officina, ecc., i quali — se il padrone non vigila — s’addormentano o scioperano.
L’umile stomaco, la spregiata bile, le pazienti glandole si erano messi all’opera quando io chiusi gli occhi al sonno; e quando li riapersi, bene capii che i gnocchi, gli uccellini, i funghi, il vino tosco erano passati rapidamente per tutti gli stadi della lavorazione.
Questa organizzazione operaia dell’umile corpo è cosa sempre più sorprendente; ma più sorprendente è la letizia che inonda il cuore allorchè questa funzione si compie in modo normale.
E come un grande scultore può trarre un’opera d’arte da un vile pezzo di legno, così agli armonici operai del corpo poco basta per bene lavorare. Chi lo direbbe? Gli umili operai del corpo umano non domandano per condimento alle vivande gli artificj dei superbi cuochi e delle ricche mense, ma domandano il condimento della sanità e della letizia dello spirito.
Io voglio molto bene all’Ariosto; ma oltre che pe’ suoi sogni sereni, molto io l’amo per le sue verità buone: fra cui questa:
In casa mia mi sa meglio una rapa |
*
A Paullo, capitale del Frignano, giunsi all’ora del vespero, che appena quetava la grande calura. Un droghiere e il suo figliuolo mi furono così cortesi di bibite e di caffè che parea m’avessero conosciuto altre volte. Come mi pregavano di rimanere!
— Ma da Paullo alla Lama si va in bicicletta in un’ora, — dicevano, — e adesso sono le quattro a pena. Dalle quattro alle nove lei può arrivare sino a Pievepelago, se vuole!
Ma il galantuomo ignorava la mia velocità, e io vedevo le ombre farsi lunghe e la luce già di colore arancio. Mi fermai tuttavia un altro poco; e mi ricordo che venne a sedere fra noi un vecchietto segaligno e vispo, con un vestitino di cotone e un consunto cappelluccio di paglia che quasi non aveva ala; e raccontava raccontava con una gioia da bambino tutti i vecchi aneddoti di Paganini, il violinista, come fossero stati freschi di ieri, e io lo stavo a sentire per sorprendere se v’era già qualche venatura di toscano nel suo dialetto, quando il vecchierello disse:
— Ah, se Paganini a Parigi avesse avuto il mio violino! Eh!... — e si posò la palma su la bocca, e stirando occhi e faccia, ne staccò un bacio che mandò verso il cielo, come a dire: «Sarebbe caduto anche quello lì!»
— Avete un bel violino, voi? — domandai.
— Uno stradivario!! — e pronunciò questa parola con voce tremante e lenta, quale un anghelos del teatro greco dovea usare per annunciare un portento. Poi rapidamente in dialetto: — «Am deven veint mella french. Ai ho domandè si j èra mat».
— Ma vendetelo subito!
— E con cosa consolerei la mia vecchiezza? — mi domandò il vecchio, mutando il dialetto nel parlare illustre e con un tuono semitragico di voce.
Veramente io, lì per lì, non compresi che rapporto ci poteva essere tra uno stradivario a consolazione di colui, se non la vecchiezza d’entrambi: e rimasi a bocca aperta, mi soccorse il droghiere dicendo:
— Questo signore suona molto bene il violino.
— «An di dal fott», non dite delle fotte, mi diverto col mio violino, — corresse il vecchio. — Ah, se fosse nelle tue mani, Paganini! il monte Cimone che è là, verrebbe a Paullo! — e chinò il capo dolorosamente.
— Veda, — mi ammonì con significazione il droghiere, — il signore non ha bisogno di vendere il suo violino, perchè è uno dei più ricchi del Frignano: guardi mo’ qui.... — e prese bonariamente la grinzosa mano del vecchio che con riluttanza gliela cedette, e — guardi mo’ questo! — e mi mostrò un brillante al dito, grosso come un bel lupino. — Deve poi vedere quelli che ha a casa!
E io che gli avevo dato del voi come ad un povero!
Che bella occasione era quella di accettare l’invito del vecchietto solitario, andare nel suo palazzo, sentire suonare il suo stradivario davanti a quei boschi e a quei monti! Ma, oimè, le ombre si facevano più lunghe, e la luce più rancia.
*
Dopo Paullo il paesaggio diventò incantevole. La luce dell’Appennino (perchè l’alto Appennino ha una sua luce) si stendeva sullo smeraldo dei prati che parevano usciti allora allora dalle mani del barbiere, tanto erano rasi perfettamente; i boschi dei castagni si raggruppavano in macchie scure e superbe con entro sfondi e padiglioni, dove il sole scherzava con mille occhi di porpora e fiamma. E le cose erano grandi e solenni, e non c’era anima viva; e perchè la bella strada pianeggiava in lieve discesa, la fatica dell’andare era nulla e tutta l’anima era nella vista. «Oh, bellissima terra, perchè così deserta? Animiamola! Collochiamovi degli esseri belli e buoni che vivano in pace!»
Questo pensiero viene così spontaneo che deve essere venuto anche al Signore. Egli dopo avere creato il bellissimo mondo, lo trovò un po’ melanconico, un po’ incompleto come sarebbe un palcoscenico senza attori; ed ecco Adamo ed Eva. Ma poco dopo, ecco da così onesti genitori venir fuori Caino ed Abele! Evidentemente il Signore deve aver commesso qualche errore di calcolo, perchè non andò molto che corresse l’errore col Diluvio universale. Ma poi, ragionando meglio, deve aver compreso che un po’ di colpa ce l’aveva anche lui, perchè poteva fare a meno di mettere al mondo Adamo ed Eva; ed allora, creò l’errore iniziale, ovvero sia il peccato o macchia d’origine. Pezo el tacòn del buso! Per scancellare questa macchia prima adoperò l’acqua pura del fiume Giordano, poi adoperò il suo stesso sangue. Tutto inutile! Se dunque sbagliò il Signore, che ci possiamo far noi?
Questo ragionamento mi parve così logico e semplice che dimenticai di pensare ai casi miei.
Era molto tempo che io andavo, andavo senza fatica. Dunque la via scendeva, dunque io mi trovavo ben sotto il livello di Paullo. Ora, se Lama Mocogno è 400 metri sopra il livello di Paullo, segno è che vi debbono essere molti chilometri di salita! Anche questo ragionamento era semplice e logico; ma smorzò la mia felicità di discendere: la salita poco dopo infatti ricominciò.
Dopo aver girato uno sprone di poggi — sull’ultimo dei quali s’eleva un gran castello, turrito, e bianco sul verde, un castello che poteva servire di modello al Doré per illustrare l’«Orlando»: glorioso ne è il nome: il castello di Montecuccolo — la via sale sempre lungo un contrafforte di monti, i quali formano la valle dello Scoltenna, in fondo alla quale valle sfumava la doppia gobba del monte Cimone.
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Trovarsi fra i monti, sentir calare la sera, non vedere indizio di abitato, fa un certo effetto, specialmente per chi è nuovo del luogo. È vero che l’ottima guida del Touring mi dava Lama Mocogno a poca distanza; è vero che la strada — ce n’era una sola! — mi assicurava dell’esatta direzione, eppure.... Eppure io non sarò mai un esploratore, nè un navigatore, nè un conduttore di eroi. Teseo, Ulisse, Vasco di Gama, Colombo, Marco Polo, Nansen, Livingstone, ecc., gli uomini che più ammiro, che più mi parvero degni di essere fatti a simiglianza degli Dei, erano di altro metallo dell’umile sottoscritto.
Va bene: io sento le voci della Natura. Questo è un grande onore; ma ne ho anche una grande.... paura.
Via, diciamo la parola esatta! Paura! Quei giganti di monti mi facevano sentire che la mia anima era straordinariamente piccola: le selve dei castagni e delle querce parevano avere una loro anima tragica. Lama Mocogno mi parve il nome lugubre di un castello per l’Orco.
Invece (vi giunsi alfine!) era un’allegra fila di casette. Respirai più liberamente. Il calzolaio, il sarto lavoravano ancora presso il limitare, ed io, sciagurato, già mi vedevo cinto da tenebre per ogni parte!
Mi sedetti sotto la veranda di un alberghetto; ed ero giunto a tempo per osservare che la fronte del monte Cimone era lambita ancora dalla carezza del sole.
— E se vuol venire a cena, è pronto! — suonò la voce dell’ostessa dopo alcun tempo.
La cucina dell’alberghetto era piena di operosità e di luce e la fiamma del focolare non era spiacevole.
Ma io cercai inutilmente un posto per me, e l’ostessa allora mi disse: — Abbiamo apparecchiato di là, nella saletta, — e mi vi condusse; e aperta una porta mi trovai in una elegante e luminosa stanza da pranzo, dove alcuni signori, ad un’unica tavola, erano già pervenuti alle frutte, rappresentate da un cestello di meravigliose ciliegie bianche e rosee.
Quei signori avevano tutto l’aspetto di essere i legittimi possessori del luogo ed io mi credetti in dovere di chiedere permesso prima di sedermi al posto per me preparato.
Quei signori mi accordarono il permesso gentilmente, ma non senza una certa gravità e lunghi sguardi di indagine sulla mia persona.
«Chi potevano essere? — Pensavo. — Viaggiatori di commercio? No: questa gente è più allegra e chiassosa. Villeggianti? Nè meno: sono più signorili. Gente del luogo, nè pure, perchè tali non li dichiarava l’accento.»
Tutti pigliavano l’intonazione e lo spunto da un biondo, adiposetto, giovine signore, non privo d’un certo contegno e gravità nel gesto e nella parola. Sedeva in capo tavola.
— Lei va all’Abetone? — mi chiese costui.
— Per servirla, sissignore!
— Beato lei che si può muovere da questi luoghi! — disse dopo alcuna pausa.
— Eppure sono bellissimi luoghi e vi starei così volentieri! — risposi.
— Provare, caro signore! — indi, rivolto ai compagni sul cui volto già si leggeva l’assenso, concluse in quel suo spiccato accento napoletano:
— Quattro mesi si respira, e otto mesi si sospira!
*
Era l’illustrissimo signor Pretore di Lama Mocogno e gli altri erano il cancelliere, l’agente delle imposte ed altre autorità locali.
«Ma che bisogno c’è di questa gente fra la pace di questi monti deserti?» domandai a me stesso. Ma la risposta fu pronta più che la domanda: «Per moderare in quanto è umanamente possibile l’eccessiva energia di Caino, e correggere la troppa dabbenaggine di Abele.»
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