La donna forte (Goldoni)/Atto II

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Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Camera della Marchesa.

La Marchesa sola.

Che è mai quest’inquietudine che nel mio core io sento?

Pace, calma, riposo non trovo un sol momento.
Dopo che quel ribaldo mi fe’ quell’imbasciata.
Misera! son rimasta confusa ed agitata.
Penso, che se non fosse dal Conte a me spedito.
Di mentir senza causa non averebbe ardito;
E se lo manda il Conte, vi sarà il suo mistero.
Chi sa mai quale arcano nasconda il suo pensiero?
E s’egli di un colloquio mi prega instantemente.
Cosa temer io posso da un cavalier prudente?
Riceverlo potrei di mia cognata in faccia,
Di femmina imprudente per isfuggir la taccia;

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Ma forse con donn’Angiola tacere io lo vedrei;

Chi sa ch’egli non m’abbia a ragionar di lei?
Dunque o deggio esser sola, o a lui negar l’accesso.
No, no, meglio è che al Conte venir non sia permesso.
Del marito ai comandi sempre sarò qual fui;
Ritornerà il Marchese, potrà parlar con lui.
Forse se qualcun altro bramasse visitarmi,
Potrei senza il marito tal libertà pigliarmi;
Ma il Conte più d’ogn’altro altrui può dar sospetto,
Ed io gelosamente serbo l’onore in petto.
Correre la risposta lasciam che gli ho mandata.
Non tentiam la passione che un giorno ho superata.
La ragion, la prudenza, sostenga il mio decoro,
La domestica pace è il massimo tesoro;
E a costo di un rammarico sagrificar conviene
Un piacer passaggiero per posseder tal bene.

SCENA II.

Regina e detta; poi il Conte.

Regina. Signora, io non ne ho colpa.

Marchesa.   Di che?
Regina.   Non so che dire:
Per forza il signor Conte ha voluto venire.
Marchesa. Per forza?
Regina.   Sì, signora.
Conte.   Vi domando perdono,
Ardito a questo segno, signora mia, non sono.
Prosdocimo mi ha detto, che voi mi aspettavate.
Marchesa. Prosdocimo è un ribaldo. Donde veniste, andate.
Conte. A un cavalier d’onore, perdonate, Marchesa,
Questo vil trattamento è una soverchia offesa.
Per dir la verità, venir non ho cercato;
Ma poichè qua mi trovo, il ciel mi avrà mandato.

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Marchesa. Come! non fu da voi Prosdocimo spedito?

Conte. No certo.
Marchesa.   Ed a qual fine avrà colui mentito?
Conte. Se mi udirete in pace, vi svelerò un arcano,
Per cui forse il destino non mi conduce in vano.
Marchesa. Deh svelatemi adunque, per qual cagion l’indegno
La macchina ha inventata per pormi in un impegno.
Conte. Tutto da me saprete, ma vuol la convenienza,
Ch’io di ciò non vi parli dei servi alla presenza.
Regina. Oh per me vado via, non ho curiosità.
(Prosdocimo è servito. La mancia ei mi darà).
(da sè, e parte)

SCENA 111.

La Marchesa ed il Conte.

Marchesa. (Povera me! per quanto mi sforzi a ripararmi,

Par che il destino istesso congiuri ad insultarmi).
Conte. Ah Marchesa, nel dirvi quel che a dir son forzato,
Son per vostra cagione nell’alma addolorato.
So che vi darà pena l’ardir di un temerario;
Ma pel vostro decoro saperlo è necessario.
Marchesa. Non mi tenete in pena. So che a soffrir son nata;
Ai colpi della sorte quest’alma ho preparata.
Superate ho finora tante sventure, e tante;
Nei novelli perigli non sarò men costante.
Conte. Noto vi è don Fernando.
Marchesa.   Mi è noto il prosontuoso.
Conte. Egli per voi nel seno serba l’amore ascoso:
Ma un amore perverso che tende ad insultarvi,
Che medita le insidie tramar per guadagnarvi.
Di me tenta valersi, che sa quanto vi ho amato;
Sperar nell’amor vostro teste mi ha consigliato;
Ma tanto il tristo fine coprir non può l’astuto,
Che un uom che non è stolido, non se ne sia avveduto.

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Conosco il cuor mendace. Vuole che innanzi io vada,

A’ suoi disegni occulti ad appianar la strada.
Brama che di me siate novellamente accesa,
Onde la virtù vostra più debole sia resa,
Sperando che accecata dalle lusinghe altrui,
Siate costretta un giorno a paventar di lui.
Finsi di non capire i suoi disegni oscuri,
Perchè di un altro mezzo servirsi ei non procuri.
Mostrai la grazia vostra di sospirare io stesso;
Lasciai ch’egli mandasse sotto mio nome il messo.
Venni per avvertirvi; so che donna avvisata,
Più facile si rende soccorsa e preservata.
Deh accettate, signora, della mia stima in segno,
E del mio zelo in prova, quest’onorato impegno.
Marchesa. Siete per me impegnato onestamente, il veggio.
Ma la condotta vostra disapprovare io deggio.
Perdonatemi, Conte, non si dovea quell’empio
Nella macchina occulta tentar col mal esempio.
E voi, se l’amor mio seco sperar mostrate,
L’onor mio calpestando, è un torto che mi fate.
Dissimular volendo il suo disegno espresso,
Doveva un cavaliere difendere se stesso.
Risponder dovevate al perfido consiglio
Colle rampogne in bocca, e col furor nel ciglio.
Era vostro dovere rispondere all’ingrato:
Non tenta un nobil cuore un animo onorato.
La Marchesa conosco, conosco il suo costume,
So che l’onore apprezza, so che la fè è il suo nume.
So che tradir lo sposo la femmina è incapace,
E chi tal non la crede, è un temerario audace.
S’egli scopertamente svelava il suo disegno,
Era di minacciarlo vostro preciso impegno.
Io che femmina sono, al mio dover non manco.
Voi per qual fin portate codesta spada al fianco?
Difendere le dame opra è da cavaliere:

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Un uom merita lode, facendo il suo dovere.

Se in pubblico si avesse scoperto il nero inganno,
Sopra di lui sarebbe l’onta caduta e il danno.
E se il Marchese istesso fosse di ciò avvisato,
Di un animo sincero il zelo avria lodato.
Ora presso del mondo voi pur siete in sospetto;
Vanterà don Fernando da voi quel che fu detto.
E il raccontar non giova, che lo faceste ad arte;
Creder vi vorrà il mondo de’ rei disegni a parte.
Onde per non accrescere all’onor mio un periglio,
Quanto è con lui seguito, tacere io vi consiglio.
Giovami che avvertita resa mi abbiate, è vero;
Dalle insidie sottrarmi più facilmente io spero.
Ma di ciò non parlate. L’onor ve lo contrasta;
Per difender me stessa, tanto ho valor che basta.
Provisi pur l’audace; di svergognarlo aspetto
Colla virtude al fianco, colla costanza in petto.
Conte. Nacqui pur sfortunato! Misero pure io sono!
Se ho potuto spiacervi, domandovi perdono.
Ma raccogliete almeno, ch’è l’intenzion sincera,
E che da voi non merito una rampogna austera.
Marchesa. Compatite, s’io dico quel che nel core io sento.
Il mio stil rammentate.
Conte.   Ah sì, me lo rammento.
So che ognor vostro pregio fu la sincerità.
Il destin mi ha rapita la mia felicità.
Marchesa. Orsù, Conte, partite, voi siete un uom d’onore;
Ma non siamo padroni talor del nostro cuore.
Voi un giorno mi amaste, vi amai non poco anch’io,
La vostra vicinanza fa ombra all’onor mio.
Donn’Angiola fra poco dev’esser vostra sposa.
Pur troppo ella di me suol essere gelosa.
Pur troppo mia cognata col labbro un poco ardito
Destò la gelosia nel cuor di mio marito.
Ve lo ridico, andate.

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Conte.   Parto, se il comandate.

L’idea di don Fernando scoprir non trascurate.
Tacerò, se il volete, fino ad un certo segno;
Ma saprò anch’io le tracce seguir di quell’indegno.
E se avanzarsi io vegga il suo pensiere insano,
Non direte che al fianco porti la spada in vano.
(parte)

SCENA IV.

La Marchesa sola.

Potea più dolcemente accogliere l’avviso,

Potea con lui mostrarmi più mansueta in viso.
Ma chi fu amante un giorno, se docile mi sente,
Potria le antiche fiamme destar novellamente.
Ah sì, se il cuor del Conte vo’ misurar col mio,
Creder per me lo deggio qual per lui sono anch io.
Spento nell’alma, è vero, violentemente ho il foco.
Ma a riaccender le fiamme, oh vi vorria pur poco.
Dell’umana prudenza seguito il buon consiglio:
Di cader non ha dubbio chi sfugge il suo periglio.
Di Fernando non temo l’arti, l’insidie e l’onte;
Più di lui, lo confesso, può spaventarmi il Conte.

SCENA V.

Donn’Angiola e la suddetta.

Angiola. È permesso, signora?

Marchesa.   Venite pur, cognata.
Cos’avete, donn’Angiola? Mi parete turbata.
Angiola. Quando vien mio fratello?
Marchesa.   Doveva esser venuto.
La caccia e i buoni amici l’averan trattenuto.

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Tosto ch’egli ritorna, sarete consolata,

E delle vostre nozze fisserem la giornata.
Angiola. Siete l’arbitra voi di questo dì fatale?
Marchesa. Perchè fatal chiamate il giorno nuziale?
So pur che di tal nodo vi chiamate contenta.
Angiola. Eh, la mia contentezza, per quel ch’io vedo, è spenta.
Marchesa. Per qual ragion? Del Conte potete voi lagnarvi?
Angiola. Non so che dir; se parlo, non vorrei disgustarvi.
Marchesa. Parlate pur.
Angiola.   Ch’ei mi ami, sperar non mi conviene;
S’ei viene in questa casa, certo per me non viene.
E se servire io deggio d’inutile pretesto,
Schernita esser non voglio, lo dico e lo protesto.
Marchesa. Voi parlate assai male, signora mia compita;
Compatisco l’amore che vi fa meco ardita.
È ver, venuto è il Conte a ragionar con me:
A voi non è bisogno, che dicasi il perchè.
Lo saprà mio marito. Perciò non mi confondo.
Ma ai rimproveri vostri con più ragion rispondo.
S’egli non vien per voi, se di servir pensate
D’inutile pretesto, dite, di che parlate?
Arrivereste forse, nel fabbricar lunari,
A offender indiscreta l’onor di una mia pari?
A chi servir credete d’inutile pretesto?
A una dama ben nata? a un cavaliere onesto?
Di voi mi maraviglio. Vi ho tollerato assai.
Tutto donarvi io posso, ma l’onor mio non mai.
Angiola. Troppo vi riscaldate. Di voi non ho sospetto.
Ma perchè viene il Conte di furto in questo tetto?
Marchesa. Di furto? Egli è venuto di giorno, apertamente.
Angiola. Viene da voi soltanto, e a me non dice niente?
Marchesa. Noto vi è che il Marchese non vuol che in queste porte
Venga a vedervi il Conte, pria di esservi consorte.
Angiola. Lo so che mio fratello su questo ha i dubbi suoi.
Ma se da me non viene, non dee venir da voi.

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Marchesa. Io son moglie alla fine.

Angiola.   Eh signora cognata,
La donna è sempre donna, ancorchè maritata.
Marchesa. Voi eccedete a un segno, che tollerar non posso.
Angiola. (La gelosia mi mette cento diavoli addosso). (da sè)
Marchesa. Possibile, cognata, ch’io veggami ridotta
A rendere sospetta altrui la mia condotta?
Dopo ch’ebb’io l’onore di essere in questa casa,
Mi ho dimostrato al mondo di debolezze invasa?
Che sfortuna è la mia? Che pensamento è il vostro?
Facciam, cognata mia, facciamo il dover nostro.
Portatemi rispetto, che credo meritarlo;
Non temete del Conte, saprò giustificarlo.
A lui, pensando male, voi commettete un torto.
E se insultarmi ardite, le ingiurie io non sopporto.
Angiola. Meno caldo, Marchesa; ditemi solamente,
Perchè il Conte è venuto da voi segretamente.
Marchesa. Dirvi di più non deggio.
Angiola.   Se a me nol confidate,
De’ miei giusti sospetti dunque non vi lagnate.
Marchesa. Che di voi non mi lagni per un sospetto indegno?
Più che a parlar seguite, più mi movete a sdegno.
Obbligo ho di svelarvi quel che è a me confidato?
Chi siete voi, signora? quale poter vi è dato?
Vi venero e rispetto del sposo mio qual suora;
Ma dipender da voi non ho creduto ancora.
So che mi avvelenate il cuor di mio marito;
Ma non ho già per questo lo spirito avvilito.
Esamino me stessa, mi onora il mio costume,
Seguito ad occhi chiusi della ragione il lume.
E se gloriarmi io posso senza rimorso alcuno,
Non ho, ve lo protesto, paura di nessuno.
Angiola. Serva sua. (licenziandosi)
Marchesa.   Riverisco.
Angiola.   Perdoni.

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Marchesa.   In avvenire,

Quando meco parlate, frenate il vostro ardire.
Son femmina sincera; quello che ho in cuore, io dico.
Angiola. Eh, ne son persuasa. (No, non le credo un fico). (parte)

SCENA VI.

La Marchesa sola.

Che tracotanza è questa? Fino sugli occhi miei,

GÌ’insulti, le rampogne, ho da soffrir da lei?
Dunque, per soddisfarla, dovrei svelare ad essa
Quel che vorrei, potendo, nascondere a me stessa?
No, non saprallo ad onta del suo parlare ardito.
Ah, pur troppo mi duole che il sappia mio marito.
Vorrei da me medesima mortificar l’indegno,
Senza veder lo sposo con esso in un impegno.
Ma se con lui favella la garrula germana,
Se lo mette in sospetto, la mia prudenza è vana.
Deggio per mia salvezza, deggio per l’onor mio,
Palesare un arcano che ho di celar desio.
Rimproveri non temo, se faccio il mio dovere.
Nasca quel che sa nascere, l’onor dee prevalere.

SCENA VII.

Don Fernando e la suddetta, poi Prosdocimo.

Fernando. Perdonate, Marchesa...

Marchesa.   Qual ardire è cotesto?
Fernando. Scusatemi, vi prego; non vi sarò molesto.
Marchesa. Venir senza imbasciata?
Fernando.   A ragion vi dolete.
Non ritrovai nessuno.
Marchesa.   Servitori, ove siete? (chiamando)
Fernando. No, per portar le sedie d’uopo non vi è di loro.
Farò io. (si frappone, perchè non si accosti alla porta)
Marchesa.   Giusti numi, salvate il mio decoro.

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Fernando. Se di seder vi aggrada...

Marchesa.   Vo’ i domestici miei.
Fernando. Se vi occor qualche cosa... Prosdocimo, ove sei?
Prosdocimo. Eccomi qui, signore.
Marchesa.   Come? Avete coraggio
Di ricondurmi in faccia quel seduttor malvaggio?
E tu, perfido, ardisci tornare in casa mia?
Prosdocimo. Cospettone! (facendo il bravo)
Marchesa.   Fabrizio. (chiamando forte)
Prosdocimo.   Signora, io vado via.
(mostrando paura)
Fernando. Cara Marchesa mia, sol compiacervi io bramo.
Vattene, e non ardire tornar, se non ti chiamo.
Prosdocimo. Vi aspetto nella sala. (Ma fatemi un servizio,
Procurate non venga quel diavol di Fabrizio).
(a don Fernando)
Fernando. (Hai paura di lui?)
Prosdocimo.   (Paura? Cospettone!)
(a don Fernando)
(Mi fa un po’ di paura il protettor bastone).
(da sè, e parte)

SCENA VIII.

La Marchesa e don Fernando.

Marchesa. Ditemi, don Fernando, di me cosa pensate?

Atterrirmi credete? Signor, voi v’ingannate.
Fernando. Atterrirvi, Marchesa? Perchè? per qual disegno?
Quel che da voi mi guida, è un intrapreso impegno.
Dite, quant’è che il Conte da voi non fu veduto?
Marchesa. Non è molto, signore; poc’anzi è qui venuto.
Fernando. Da voi fra queste mura viene il Contino accolto;
E quand’io mi presento, veggovi accesa in volto?
Credete ch’io non sappia dei vostri antichi amori
Le riaccese faville, i rinnovati ardori?

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Ma saprò compatirvi; basta che a me lo dite.

Voi l’adorate il Conte.
Marchesa.   No. non è ver. Mentite.
Fernando. Della vostra mentita offendermi non voglio.
In voi tutto mi piace; mi piace anche l’orgoglio.
Compatisco una donna che brama altrui celarsi.
Ma a dispetto del cuore amor suol palesarsi.
A me noto è il mistero. Vi nascondete in vano;
So che vi amate ancora, ed ho le prove in mano.
Marchesa. Con voi garrir non voglio; quel che vi par pensate.
Fernando. Potete voi negarmi?...
Marchesa.   Da queste soglie andate.
Fernando. A bell’agio, Marchesa. Vi è noto il grado mio.
Se può venire il Conte, posso venirvi anch’io.
Marchesa. A qual fine, signore?
Fernando.   A quel medesmo oggetto,
Per cui celar vi piacque l’amante in questo tetto.
Marchesa. Torno a ridirvi in faccia, un mentitor voi siete.
Fernando. Ah ch’io deggio adorarvi, ancor che mi offendete.
Marchesa. Come! a moglie onorata parlasi in guisa tale?
Fernando. Parlo con quel linguaggio che parla il mio rivale.
Marchesa. Lo saprà mio marito.
Fernando.   Sappialo, e gli sian noti
Della moglie infedele e dell’amante i voti.
Io troverò la strada di rendere palese
L’insidia che si tenta al credulo Marchese.
So quel che il mondo dice, so quel che disse il Conte,
So i segreti colloqui, so i tradimenti e l’onte;
E se di usar vi piace meco un trattar villano,
Di continuar la tresca vi lusingate invano.
Marchesa. Perfido! nelle vene sento gelarmi il sangue;
Par che mi punga il cuore una cerasta, un angue.
Avrete core in petto sì barbaro, sì ardito,
Di tradire una sposa, di offendere un marito?
So che la mia innocenza di voi temer non puote;

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So che le trame indegne il ciel renderà note.

Ma quanto ha da costarmi il riacquistar la pace,
Se me l’usurpa ingrato un traditor mendace?
Deh, se credete al nume regolator del cielo,
Se l’onor conoscete e della fama il zelo,
Se umanità nudrite, se l’onestade amate,
Gl’insulti a un’infelice di procacciar cessate.
Fernando. Qual duro cor potrebbe resistere all’incanto
Di una beltà, cui rende ancor più vaga il pianto?
No, non son io sì crudo, che tormentarvi aspiri;
Basta che non si veggano scherniti i miei sospiri.
Vi sarò, lo protesto, amico e difensore,
Bastami che crudele non mi negate amore.
Marchesa. Anima scellerata, d’amor tu mi favelli?
Soffri che reo ti chiami, che traditor ti appelli.
A delirar cogli empi non è il mio core avvezzo.
La pace che m’involi, non compro a questo prezzo.
Usa, se puoi, l’inganno. Mirami a tuo dispetto.
Non paventar gl’insulti coll’innocenza in petto.
Fernando. Veggiam fin dove arriva di femmina l’ardire.
Voi dovrete, marchesa, o cedere, o morire.
Marchesa. Pria morir, che avvilirmi.
Fernando.   Olà.

SCENA IX.

Prosdocimo e detti.

Prosdocimo.   Mi ha domandato?

Marchesa. Che vuoi, ministro indegno di un seduttor malnato?
Prosdocimo. A me?
Fernando.   Qui non vi è scampo; amor mi ha reso cieco.
Questo stile importuno pensate a cangiar meco.
Solo un sguardo amoroso tutto il mio sdegno ammorza,
E se l’amor non giova, dee prevaler la forza.
Marchesa. (Soccorretemi, o numi). (da sè)

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Prosdocimo.   Ma che vergogna è questa?

Non vi ha già domandato un occhio della testa.
Per un tenero sguardo si fa tanto rumore?
Se aveste a far con me, vorrei cavarvi il cuore.
Marchesa. Non siete sazi entrambi di tormentarmi ancora?
Fernando. No, abbandonar non voglio quel bel che m’innamora.
Se dell’onor vi cale, sia l’onor vostro illeso;
Non è il cuor d’un amante ad oltraggiarvi inteso.
Morte disciolga il nodo che vi ha al Marchese unito,
Libera ritornate, di voi sarò marito;
O se del vostro sposo vi vuole amor pietosa.
Non siate a me nemica, non siate a me ritrosa.
L’uno o l’altro partito eleggere potete;
Se i ricusate entrambi, dell’ira mia temete.
Sarò per cagion vostra pronto a qualunque eccesso.
Risolvete, Marchesa, in sul momento istesso.
Marchesa. Perfido, ho già risolto. Sono al mio sposo unita,
Serberò la mia fede a lui fin che avrò vita;
E tu, se ti cimenti, vedrai se ho cuore in petto...
Prosdocimo. Fuor delle nostre mani non fuggirà, al cospetto.
Se fosser cento donne, vorrei disfarle in brani,
Innanzi che potessero fuggir dalle mie mani.
O se fossero tigri, se fossero leonesse,
Cedere alla mia forza dovrebbero ancor esse.
Date a me la licenza di metterla a dovere,
E non son quel ch’io sono, se non la fo tacere.

SCENA X.

Fabrizio e detti.

Fabrizio. Quai rumori son questi?

Marchesa.   Ah Fabrizio carissimo.
Prosdocimo. (Mostra timore.)
Fernando. Ti perdi di coraggio? (a Prosdocimo)
Prosdocimo.   Servitore umilissimo. (parte)

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Fabrizio. Che è accaduto, signora? (alla Marchesa)

Marchesa.   Ah! mancami il respiro...
Favellare non posso... Andiam nel mio ritiro.
Le anime, amor scorretto, a quai perigli esponi?
Perfido don Fernando, il ciel ve lo perdoni, (parte)
Fabrizio. (Vuol seguir la Marchesa.)
Fernando. Fabrizio.
Fabrizio.   Mio signore.
Fernando.   Prendi, e tacer t’impegna.
(gli offre una borsa)
Fabrizio. Non accetto una borsa per un’azione indegna. (parte)
Fernando. Se testimon sei stato della mia trama ardita,
Se di tacer ricusi, perder dovrai la vita.
E tu, femmina ingrata, che l’amor mio deridi,
Vedrai quanto t’inganni, se in tuo valor confidi.
Già ho principiato il corso del mio cammin funesto.
Dalla tentata impresa per tema io non mi arresto.
Vedrem chi più di noi sarà costante e forte.
Se l’amor mio non cura, giuro vendetta, o morte.
(parte)

Fine dell’Atto Secondo.