La favola di Pyti et quella di Peristera insieme con quella di Anaxarete/La favola di Pyti
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Frá diversi pinsieri hor temo hor spero,
Et hò di tai desir tal soma al cuore.
Che non sostengo alcun giogo men grave,
Per serenar le pioggie et le procelle
(S’esser mai può) del tempestoso affanno,
Ch’a mille à mille (ahi fiero amor che’l fai)
Sento surger nel volto, et ne la mente,
Canta musa leggiadra et amorosa
Erato santa, et la dorata cetra,
Presso quest’arborscel mai sempre verde
Che’l chiaro Mintio le fresch’acque adombra,
Muovi, et col dolce suon almo et celeste
Fà che la voce anchor conforme accordi.
Cosi gia consolasti il grande Achille
Doglioso per la tolta amata Donna,
Cosi fosti ad Orpheo dolce ricorso
Mentre perduta Euridice due volte
Le selve ombrose à se trahendo, e i sassi
Fece al grave dolor seconda uscita,
Gia non intendo di Pelide l’ira
Ne gran gesti cantar con toschi versi.
Ma sol di Pyti l’infelice fine,
Di Pyti, á cui si nocque l’esser bella,
Che dal fiero Aquilon fu spinta à morte,
Onde è ben dritto che sua fama occolta
Et chiara à pochi gia fuor ch’al Peneo
Homai nota si faccia al Tebro e à l’Arno.
Pyti già figlia de l’antica madre,
Bella, quanto altra, à cui piu largo dono
Fè del ben di la sù l’alta natura,
Era da Pan, dio de l’Arcadia, amata
Con si nuovo cocente immenso ardore,
Che simil fuoco le midolle interne
A puochi arse gia mai, si in mezzo il core,
Ei stampate tenea le pellegrine
Fattezze à quelle (oime) simili, i credo
Di ch’Amor la memoria ogni hor me informa,
Et vuol che l’alma ad adorare inchini,
O quante volte udi per lei Liceo
Sospirare il suo dio, quante lo vide,
Seguir di Pyti le vestigia sparse?
Tronco non era in quercia alpestra, o’n faggio,
In cui non fosse il suo bel nome impresso
Et chiaro à nimphe à Fauni, e l’alma Pale.
Ma non molto dapoi che lei seguendo
Il Dio Cornuto si struggea d’intorno,
Era la vaga Nimpha in se raccolta
Con romito pensier sott’un Cipresso,
L’ardor fuggendo con che Sirio acceso
Facea per le campagne espresso oltraggio,
Onde pel viso candido et gentile.
Sparger non altramente il sol vedeasi
Il vermiglio color da i raggi suoi,
che Porpora faria, mentre distesa
Fosse tra bianche mura, ù riflettendo
Convien ch’ombra vi stampi à se conforme,
Ma ben per lei dannoso il sol’allhora
Giunse á tanta beltà troppo alto honore,
Che bella piu che mai subito apparve
O ne Borea in quel punto ivi girato
Havesse gli occhi à rimirala mai,
Borea crudel, che dopo fatto in mare
A mille legni periglioso danno,
Uscito del suo regno horrido et freddo
Tosto che vide il bel sembiante odorno,
Cosi parve che in lui nuova Orithia
L’antiche fiamme rinovasse in tutto,
Più volte fiso rimirolla, et tanto
Che se l’amar non fu pria che’l vedere,
Con la vista l’amor nacque ad un tempo.
Sorse ad un tempo il fuoco, poi che ei vide
Le Bellezze presenti, et gia per fama
Conte ne boschi, ove piu volte udito
Haveva il Nume Semicapro ir lei
Lodando sopra quante il mondo ha belle.
Oime (prese indi à dir) dunque ė pur vero
Ch’arda colui per tal beltade et tanta?
Colui che già di me non è maggiore,
Benche de vil pastor l’idolo sia?
Ah quanto egli à ragion arde et agghiaccia?
Quanto a ragion sospira? et quelle chiome,
A cui stringer il cor non son possenti?
Possenti son pur elle à pormi in fuoco
Bench’ad arte neglette hora le avolga,
Che si ad arte ella ornasse, hor non porriano
Gli Scithi in fuoco et gli Ethiopi in ghiaccio
Solamente in mirar l’oro forbito?
Ah che vaghi occhi poi son quegli à cui
Sereno ciel non ha stelle simili,
Et quella man et quei bei schietti diti.
Hor non torriano à Marte et l’elmo et l’alma,
Torriano à Giove anchor l’arbitrio intero,
Come à me tolto veggio or che conosco
Che l’ascose bellezze assai migliori
Mi vieta l’honestà ch’in lei non miri,
Et così detto da l’ardor convinto
Posti quasi in oblio gli usati voli
L’arse penne senti ne l’aria meno
Venir, ne piu sapea dove ne gisse
Da la maga beltà preso et in tuto
Trasformato in stupor, che parve come,
Chi vide Alcide dal tartareo chiostro
Con catene à se trar Cerbero avinto,
Onde il timor per cio non pria lasciollo,
Che repente cagiar sentisse in sasso.
Ma’l cieco Amor che sa di morte in vita
Far rinascer il cor con dolci speme,
Fè che ripreso ardir tosto in se stesso
Borea s’accolse et à l’incendio giunto
Nudrimento maggior dispose il core
A seguirla mai sempre et di scoprirle
Prese consiglio il caldo ardor, mà prima
(Benche sia sconsigliato il suo furore)
Cerca adorno apparir, onde la Barba,
Hispida et poi la chioma in gielo avolta,
Compone, et stringe et l’ali humide et gravi
Piu volte scuote, e in se vagheggia poi
Hor’una, hor l’altra; come lieto suole
Far augelletto al sol bramato, allhora
Che dopo pioggia ruggiadosa scose
Le penne a i raggi, il suo pennuto manto,
Va col becco asciugando, et tutto gode
Con vezzoso cantar nel farsi adorno.
Ma poi che non puo il rigido sembiante
Con maniere velar che la fierezza
Natia non scuopra nel suo volto impressa,
Crede al men con bel dir d’affetti pieno,
Et con caldo pregar vincer che avinta
Tra Speranza et timor l’alma gli havea,
Onde senza indugiar trahendo fuori
Un vento di sospir, deh Nimpha (dice)
Nimpha de boschi honor et gloria degna,
Anzi degna di haver del mondo il freno,
Non ti spiaccia per dio s’ardito i vengo
A salutarti et à ferir le chiome;
Le chiome che stringendo il cor mi vanno.
O bellezza qua giu chiara et suprema;
O fuoco del mio cor dolce, e immortale,
O laccio degno à queste piume intorno
Farmi catena che ’l furor mio vinca.
Prendi à grado per dio l'amor di tale
Che Pyti sopra ogn'altra adora et Pyti
Sola seguir promette et solo à Pyti
Consacra gli anni, e i suoi futuri ardori,
Vedi che se non sai chi sia son io
Borea, Borea sono io del cui valore
Mille pruove son chiare et ne fan fede
I boschi et tutti i mar, dove le rotte
Ancore et sarte et le disperse merci
Son miei proprij trophei alti et sublimi
Di che Eolo adorna la real sua corte.
Borea ò Pyti sono io, che solo scaccio
Le trite nubi, che per Cecia accolte
Fanno à Phebo tener suoi lumi ascosi,
Io le nevi congelo, io quelle nevi
Che la tua bianca mano avanza, et io
Se cruccioso del ciel’occupo il giro
Del cielo, ch’a me solo è campo aperto,
Tutti vinco color che meco a gara
Giostrano uniti, et con discorde sdegno,
Tal che non altri, ch’io fa de le cave
Nubi percosse uscir splendenti fuochi,
Et pur non altri ch’io se per gli interni
Forami de la terra entro et le spalle
Sommetto à si gran peso, il mondo tutto,
Et le montagne immobili muovendo
Fo con danno temer fiera ruina,
Qual hor gonfiando l’humil terra inalzo,
O gli alti colli à le pianure adeguo,
O de citta faccio infernal baratro.
Non ha’l Circio di me piu forza, avenga
Che sterpi l’alte quercie, e schianti i rami,
Ne’l Coro occidental puo meco à prova
Giostrar per l’aria, non Vulturno irato
Non Africo, non Euro, non pur quanti,
Spiran d’intorno al mondo, et tiene à freno
Ne la cava spelunca il re de venti.
Vuoi tu Pyti veder s’il vanto è vero
Del mio sommo valor, mira quel’Elce
Et quella Pioppa si ramosa, hor ecco
Ch’al mio primo soffiar, vedrai del fondo
Mostrar la sterpe lor squallida al sole.
Cosi Borea dicendo, in un momento
Caddero à terra le mostrate piante
Con romor disusato onde tremando,
Al subito spirar la bella Pyti
Mirava tutta aversa, et pallidetta
L’acceso Borea,che dapoi seguendo
Il gia preso sermon, deh Pyti, (aggiunse)
Questo è Pyti il menor di quei sospiri,
Che da la bocca mia versar mi face
Il fuoco, che per te mi tiene in ghiaccio.
Sorrise Pyti allhor pel caldo affetto
Del freddo Borrea, et gli occhi à terra chini
Di schernirlo mostrava, havendo scorte
Le tempre sue che di canuto gelo
Tutte fiorite eran segnal aperto
Che mal conviense al bianco pelo amore.
Cosi a fuggir disposta in dolce sdegno,
Come il candido pie per l’herba verde
Borea visto hebbe et ondeggiar disciolte
Sù gli humeri le chiome, à lei rivolto
Soggiunse tutto in fiamma. Hor che mi giova
Che mi giova crudel cotanto ardore,
Se tu crudel et al mio amor ritrosa,
Ad altrui forse hai gia donato il core.
Ma ad altrui certo del tuo core hai fatto
Si caro dono, et chi felice è tanto?
Felice (oime) se pur la fama è vera,
E Pan indegno del tuo amor, indegno
Come à veder deforme, horrido, incolto,
Cornuto et sempre nudo el destro lato
Sempre di capra forma, et d’huomo essempio,
Al sol nemico, poi che ascoso il giorno
Fassi notturno augello, uscendo fuori
Del mal bosco fronzuto, allhor che tutte
Mostra Cinthia nel ciel sue lampe accese,
Et fosse almen gradito il suon di quella
Roca sua canna che pendente al collo
Porta, assordando hor quel bel monte, hor questo,
Fosse almen di valor; come son io
Armato ė invitto. Ma tu forse ò Pyti
Non sai si come un giorno ei con Amore
Postosi, con Amor fanciullo ignudo
Abbracciato à luttar, lasciossi à terra
Dal picciolo fanciul, con molto scorno,
Et con publico riso al vulgo tutto
Gettar, l’herba donando al vincitore,
Al vincitore amor dicendo io cedo,
Io mi sento da te prostrato et vinto,
All’hor che s’ei come io, fosse si forte,
Havrebbe di colui per pruova fatto
Quel che Tirinthio fe del grande Anteo,
Quel che del finto et simulato Tauro.
Ahi de le selve infamia et de pastori
De pastori gran Re, che per Amore
Bel vanto porta, et per Amor die morte
Col temerario ardir sempre molesto
A la bella Siringa, anchor che’n vita
(Malgrado del suo fermo empio desire)
Torni tra l’altre piante à l’anno nuovo.
Et posto che pur Dio sia de pastori,
Che però aggradi il suo divino impero,
E gli tien signoria sol tra coloro
Che piu vili ne i boschi han fermo albergo,
Di munger capre, et di menare al pasco
Gregge, et armento studiosi, e avenga
Di Nimphe vaghe, i lor amor divulghi
La forma favolosa, assai sovente,
Da lascivo desio nativo indotti
Creder si puo, ch’a disfogar si vanno,
Ove sfrenato ardore gli adduce, et tira.
Gia ben si sa per ogni mandra, come
Crathi pastor le mal ingorde voglie
Con la capra sfogava, et sassi anchora,
Come dal capro poi di quella gregge
Per geloso furor fu spinto in fiume,
Mentre dormendo in china ripa stava,
Ne son gia sogni i miei, che pur è chiaro,
Come la capra poi gravida fatta
Partori quel Silvan, che de le selve
Si noma dio, benche i direi chè il parto
Fosse questo tuo Pan come altri crede
Ahi Pyti, et sdegni poi che Borea t’ami?
Et vuoi che Pan sol t’ami, sol ti segua,
Ne sai ne pensi come puo tal frutto
Seguir da l’amor mio, che giunta meco
Nel giogo marital potrai vederti,
E qual marito ti potria donare
La pronuba Giunon, che piu honorata,
Più felice, piu ricca ti facesse?
Et qui prometto con solenne fede,
Che s’amata mogliera essermi hai caro,
Gia ti apparecchio nel Settentrione
Dal grande impero la real corona,
Lo scettro, il manto, et cio che tengo in quelle
Parti, dove reina essendo andrai
Altera di te stessa, mentre il vulgo,
Qual nuova dea dal cielo ivi discesa,
Adorandoti humil altari et tempi
Ti fara sacri, et maschi incensi, et tori
Uccidendo et ardendo in honorarti,
Te sola ai voti havra propitio nume,
Senza quei doni anchor, senza gli honori,
Che dal mio genitor, et da congiunti
Havrai, che’l tuo desio lieto faranno,
Et ch’io contar non posso ad uno ad uno.
Quanta gloria ti fia tra l’altre poi
Esser matrigna di duo sacri spirti,
Calai et Zeto io dico, alati heroi
Di fama conta, che compagni eletti
Fur dal magno Iason nel’Argo nave
Degnati á tanta impresa dal valor
Con cui vinser l’Harpie, ch’altro potere
Torzer non puote mai dal vezzo usato
Di l’or le mense in preda al buon Phineo,
Et chi sa forse (s’Himeneo sia mai
Tra noi chiamato) che piu chiari figli,
Piu valorosi figli il tuo bel parto
Non mi produca anchor piu bei gemelli,
Che di gloria et d’honor vincano i primi?
Tutto potra voler Giove, volendo
Nel mio regno venir nuova Reina,
Ne temer che’n si longa et strana via
Dal sol si faccia offesa al volto vago,
Al volto ond’hai di te tanta vaghezza.
Il sol nulla potra nel bel sembiante
Col calor offuscar tuoi chiari raggi,
Ne si longo camin potra stancare
I bei pie ch’à fuggirmi hor son si presti,
Io Pyti saro quel, che’n queste braccia
Stretta terrotti, et con quest’ale al volo
Facendo aura soave et dilettosa,
(Piu che non son nel dir presto et veloce)
Al mio regno faro vederte giunta.
Et tu sai ben che non si rato vola,
Com’io, saetta, che per arco è pinta,
Ne gia com’io, spiegar si vede augello,
Le penne al ciel benche timor lo sproni,
Et sia pur quegli, che piu d’altri al sole
Fisa suoi lumi et ne le piaggie d’Ida
Fe del garzon gentil l’alta rapina,
Ah Pyti et pur tu fuggi, gia non sono
Fera io vorace, che si come á Tisbe
A te morte minacci, io non sono angue,
Che morder cerchi le tue vaghe piante,
Amante io son, che per amarti io vengo
Dietro l’orme, che lassi à gli occhi stanchi,
Stanchi dal pianto homai, ma de la vista
Di si ricco thesor non stanchi mai.
Qui Borea piu s’accese et benche certo
Le speranze d’amor vane et fallaci
Piu farsi all’hor che certe huom crede e estima,
Non pero si ritien, ma s’avicina,
(Appresso piu che mai crescendo il fuoco)
A lei quanto si puo, non senza speme
Che piu se aviva à chi piu forte muore,
Ma perche dove è gran bellezza, alberga
Superbo sdegno, et orgogliosa mente,
Fugge Pyti sdegnosa et piu che prima
Altera in vista, à prieghi altrui si mostra
Qual dura selce d’è piu alpestri monti,
Fugge et veloce piu che cerva udendo
Can che la segua, ò come suol colomba
Timida volta in fuga, et era homai
Stanca dal corso faticoso, quando
Ad un sasso non troppo indi lontano
L’infelice s’ ssise, e ’n se sicura
Come ascosa ne stava, udendo quete
Per li boschi le frondi, e in guisa tale
Si mostrava al tacer e à gli atti veri,
Qual si crede veder, quando ancho fugge
Il gran Libico Augel, che ’l cacciatore
Non si tosto iterar le grida sente,
Che per scampo trovar le calde arene
Ratto trascorre, et fatto in giro un volo,
Che di polvere intorno ombra ne lassa,
Timido à terra ponsi, et in oblio
Posta la fuga de le penne, gli occhi
Chiude, et Con riso di che ’l vede, il capo,
Mentre ch’ascoso tien, crede che poscia
Celi a l’altrui veder quel ch’ei non vede.
Ma Borea che in seguir la havea distese
Per l’aria le grand’ali, et dal sospetto
De la rabbia gelosa ha ’l cor commosso,
Ah (furiso comincia) non potrai
Pyti Pyti fuggir, ch’io non raggiunga
La vana fuga ch’e nel far contrasto
Col corso a i venti, ah se tu Pan tanto ami
Quanto credo et conosco, hor che me fuggi,
Pan, Pan non amerai, non amerai
Piu Pan, ne Pan potra piu viva amar te,
Morta potrati amar, morta amarate
Il deforme caprar, de boschi il rozzo
Cittadin, poi ch’è ver che viva t’ama.
Et dicendo cosi, vinto da questo
Furor il fiato che da l’Orse spira,
Mosse là ver la Nimpha, (o man che scrivi
Come scriver mai poi si horribil caso)
Et lei che Pan gridava, et da la madre,
Soccorso con parlar fioco chiedea,
Prese tra l’hirte braccia, et hor stringendo,
Hor ne l’aria levando, à tutte forze
Da la cima d’un monte alto et superbo
A terra scuosse, et à la terra rese
Il suo bel corpo, prenda homai la madre
(Disse) nel grembo, s’egli ver che l’ami
La figlia, et sia di lei urna et sepolcro.
Al cader de l’eccelsa et bella pianta,
Altro dir non s’udi Quell’innocente
Salvo, soccorri ò Madre al caso ingiusto,
Et me, s’ivi son nata, accogli anchora
Ne lei viscera tue, pregando humil
L’alta Giunon che poi che ’l regno tiene
De l’aria, et vede il torto indi à me fatto
Dal nemico spietato, hora proveggia
Por inanzi al mio corpo, e ’l suo favore
Mi presti si che non distempri mai
Le reliquie de l’ossa, ò caldo, ò gielo.
Molti furo i dolor molte l’angoscie,
Che la madre mostro, molti i lamenti
Ch’udir di lei Giunone et Phebo, à quali
Si spiacque il caso rio, che non cessaro
Di consolarla de la morte viva
De la chara figliola, medicando
Col dire l’animo, infermo et l’egra mente
Con quanto si potea per lor soccorso.
O, gelosia d’amanti aspro veneno
Di speranze nemica alme et leggiadre,
D’ombre pallide amica, et di mentite
Larve cella ripiena, ond’escon fuori
Sospetti, et quel Fantasma ch’ad amore
Gli occhi ciechi apre, et nel veder Linceo
Fa che vinca d’assai, vedendo sempre
Quel ch’ei non vede, et quello udendo insieme
Che giamai non udi. Quanti aspri mali
Sorgon da te fontana di dolore?
Quanto sanguigne morti? ah tu crudele
A borea fosti sprone e’l sospingesti
A dar morte à Giacinto all’hor che Phebo
Seco al disco giocando il disco all’hora
In aria tratto, col suo fiato iniquo,
Col suo fiato mortal rivolse al capo
Del donzello gentil, non senza pianto
Di Phebo doloroso, et solo avenne
Dall’inivido dolor c’hor pur l’ha indotto
Con invido furor dar morte à Pyti,
Ma Pyti pur vivra come Giacinto,
Che se fior venne quei, questa fie pianta,
Pianta ch’ognhor levando al Ciel le chiome
Nel sen de la gran madre ha nutrimento,
Et è quella arbor alta et immortale,
Che dal suo proprio nome se deriva.
Cosi Borea sfogato il fiero cruccio
Non pero cessa per buon spatio, et come
Hebbe al primo furor i vanni avolti
Di grandine noiosa, così anchora
L’ira micidial regnando in lui
Manda pioggia et procelle, et queste et quelle
Cime percuotte, et hor abbatte un Faggio,
Hora uno Acero sterpa, hora una gregge.
Col custode pastor disperde, et hora
Di Fonti et di ruscei turbida mischia
Fa, che nel tempestar de l’aria desti
Non pur fuor gli animai de i lor ovili,
Ma tutti habitator di boschi al Cielo
Levar la vista,rimirando il fine
Del turbato seren, et Pan tra gli altri
Sventurato destossi, et gia per sogno
Gran parte del suo mal veduto havea,
Veduto havea per tristo augurio svelta
Pianta dal fondo in mille parti rotta,
Ripercossa dal vento et poi bagnata
Di molta acqua cader, qual tronco suole
Che da stello natio ferro recida.
Onde svegliato e ’l Ciel visto confuso,
Quasi dal sogno fatto in ver presago
Del suo danno mortal, da gli occhi il sonno
Sonnachioso con man prese à levarsi,
Et la dove il tumulto ognun trahea,
Corse egli anchor, si come Can che spia
La fiera in odorar le stampe impresse,
O come tigre che de cari pegni
Voto il letto trovato, piu leggiera
Del Zephiro marito la grande ira
Sparsa mostrando in volto et ne la pelle,
L’accorto rubator fugace apprende,
Se da la propria forma non beffatta,
Ch’egli piu volte le appresenta et porge
Nel vetro impressa, non ritarda il corso
O che strano tumulto era à sentire
Pan accecato dal dolor ir fuori
Con la voce col viso, et con l’andare
Et con la sua ritorta horribil tromba
A lontani e à vicin dando spavento,
Dicessi che i terror che’egli sol muove
Sono i maggior di quanti il mondo senta,
Onde quando à lui piaccia, ancho à l’abisso
Reca paura di peggior inferno,
Non è in somma terror, ne fiero suono
Che pari aggiunga quel che da lui viene,
Et gridi pur Gradivo à Gara, et doglia
Da Titide percosso il lato anchora,
Sentassi come prima, Etna sfogare
L’usate fiamme, all’hor che piu la scuote
Encelado sepolto, et sieno irate
Scylla et Cariddi, che ben picciol grido
Faranno, dove Pan la forza horrenda
Del terribil terror mostrar s’approva:
Ma tanto fiera et piu ne mai sentita
Voce intonava allhor, quanto perduto
Il lume di ragion, l’ampie sue forze
Gli accrebbe Amor oltra il poter usato.
Luogo intanto non lascia ove ei non vada,
Et dove ò Pyti non richiami, ò Pyti,
Dove Pyti gia sei? chi mi t’ha tolta,
Chi tolta mi t’asconde? ahi Pan dolente
Ma ecco che fiaccato al fin’arriva
Ove il crudel rival havea gia fatto
De la gelosa doglia essempio, et trova
Mille bifolchi uniti a rimirare
Quivi una pianta mai non vista et vaga
Quant’altra che la terra unqua produsse
Ahi come Pan la vide, et udi poi
Chiamarla Pino così tosto certo
Fù nel cor di veder le spoglie altiere
Di Pyti sua cangiata in altra vita.
Vede la Madre à un tempo, et perche tutta
Di rugiadose erbette era coperta,
Quinci pur segno del suo pianto prende,
Del pianto, che gia sparso, havea le stille
Per testimon del suo dovuto humore.
Vede come ella poi l’abbraccia, et tiene
Entr’l suo seno con materno affetto,
Et questo pur gli addita che l’amore
De la diletta figlia ancho la stringe,
Al fin compreso il fortunoso caso
Che tacer non potea la fama, in mezzo
I selvaggi pastori ivi presenti
Tosto à l’arbor s’appressa, et mentre sente,
Nella novella scorza il vivo tronco,
Quasi sembiante del bel corpo, ir dentro
Con spirto ascoso se movendo, et vede
Le ramose sue braccia indi spuntare,
Et l’alte chiome sempre à venti sparse
Mostrar che con i venti han ferma guerra,
Ratto il misero Pan tre volte et quattro
L’arbor abbraccia, et occoltare il pianto
Cerca col fren de la vergogna, et mira
Fiso la terra, ahi sconsolata madre
Madre infelice (con sospiri ardenti
A pena dice) hor s’hai tu pianto il danno
Ch’è gia comune, et mi convenne in parte.
Ecco ch’io pur lo piango, et ne vedrai
Il dritto da quest’occhi, da quest’occhi,
Che come tanto bon mi furno duci,
Hor compagni mi fieno in tanto male.
Ah madre universal, tu pur havrai
Nel ventre il corpo suo, dond’egli uscio,
Et à lei verde ministrando vita
Potrai nel fiero duol pace trovare.
Ma qual pace trovare poss’io gia mai,
Se tutti gli amor miei vanno ad un fine,
Siringa amai, divenne Canna, amai
Pyti che piango hor lasso in pianta volta,
Ma se nel primo duol mi fu conforto
Far sampogna di lei, che pianga et canti,
Che di te far potro pianta gradita,
Perche come l’amor, viva il ricordo?
Dunque il fido baston di questa vita
Dolce sostegno, per amor caduca,
De tuoi rami farò, perche s’appoggi
Ne le braccia gentil mio corpo lasso,
Dunque de l’alte chiome, che gia bionde,
Hor verdi scorgo, potro farmi spesso
Anzi à le tempie mie ferma ghirlanda,
Et nel’ombra beata haver ristoro,
Ma ristoro ben fia picciolo, et salda
Rimembranza del mal, mentre ne boschi
Pan il Pino amera, che eternamente
Di Natura vorra la certa lege.
Cosi piagne il dolente, e al fermo pianto
Piu lo spingne il veder l’amata Pino
Mandar dal tronco lahrimose stille,
Et gelato liquor, vero segnale
Del sangue che dal corpo si diparte,
Et mentre cio, nuovo dolor gli aggiunge,
A palme il volto suo battendo, e al petto
Squarciando che’l ricopre, al fin la Canna
Getta vilmente per gli herbosi campi,
Et torna à gridi, et dice, ahi Canna, ahi Cetra,
Non sperar di cantar piu liete cose
Se mai piu lieto esser non posso, ahi Pyti
Perche mia vita oime, perche non lice
Deponer teco questa grave salma?
Perche, s’è morta lei, per cui vivea,
Non muor quest’alma sconsolata homai?
Come senza il mio cor viver mai posso?
Come, l’aura vital perduta spiro?
O perche almen de boschi horridi mostri
Orsi, Lupi, Leon, non vi è concesso
Di fare esca il mio corpo à vostri morsi?
Acciò che per innanzi piu non senta
Del presente dolor conformi tempre?
Dunque à me noce l’essere Dio, se questo
Mi tien di morte l’uscio chiuso, aperto
A felici mortai, che morir ponno
(Il Ciel che maggior dono altro sa dare?)
Serrar volendo i sensi à doglia alcuna,
Ahi Pyti à me crudel che nuovo modo
Trovato di morire, con un sol colpo
Duo corpi hai tu percossi, et fai la morte
Immortale ne l’un, ma son’io sciocco
Ad incolparne te, quando io crudele,
Io del tuo mal cagion son stato et io
Per troppo amarti à quel furor ho spinto,
Chi per troppo furor t’ha spinto à tale,
Ah ch’almen lo dovea piegar la bella
Sembianza, atta à piegar un marmo, un Tigre,
Ma pietà non poteo piegar gia mai
Quel fiero Borea, per cui mai non rieda
(Prego) volgendo le stagioni, il verno,
Si che poco il crudel regni, ch’apena
Merta in Scithia regnare, et ne Riphei
Monti, la dove State et Primavera
Han dal gelo indurato eterno essilio,
Ma poi che di tua morte io son l’autore,
Et la mia forza t’ha trafiitto il corpo,
E i miei sospir t’han gettata à terra.
Come presente almen non son’io stato,
Presente al tuo destin? certo t’hevrei
Dato al’uopo maggior picciola aita,
O le piaghe adolcite, ò ver’un segno,
Mostrato del mio amor, mentre eri viva,
Men doglia portarei, mentre sei morta,
Ah che pur forse col voler di Giove
Ne la medesma scorza avrei potuto
Chiudermi teco, et ricoperto in questa
Scorza gentil, mi trovarei congiunto
Teco in quel nodo, onde disgiunto vivo.
Ah che ne questo vuol voler il cielo,
Che se il ciel lo volesse, ancho non fora
Intempestivo il rimanermi teco
In si dolce union, dolce mia Pyti.
O Niobe felice, che felice
Dir se poteo, benche si fiera stragge
Vidi di tanti figli, se la doglia
Per non farla doler, mutolla in sasso.
Aventurose pur con lei le figlie
Di Climene chiamar si denno, s’elle
Pianto il morto fratel quanto lor piacque,
Per rifugio mutorno in mezzo il pianto
In bianche pioppe la corporea veste.
Io dunque, io sol, sol l’infelice sono
Che chiedendo esser pietra, in darno il chieggio,
Et bramando esser legno, in vanno il bramo.
Sol perche in questa vita, in c’hor mi struggo,
Non si cangi il destin per cangiar vita,
Sol perche piu di Pan non tenga il nome,
Se rotta è al mezzo mio speranza, et resta
Gia l’avanzo di me tronco è imperfetto.
Qui tacque pe ’l dolor che gli vietava
Le parole compir, mentre i singulti
Vedea troncar la voce à parte parte,
Ma muggendo nel cor, indi le strida
Si possenti trahea, che parea accolto
Quivi il furor di Marte et di Bellona,
Mentre nuovi pastor correano al grido,
Mentre Satiri et Nimphe in Schiere unite,
Per la pietà del sfortunato caso
Con lui piangendo, à consolarlo in vano
Ponean lor forze, et cio parer voleva
Per le concave valli, ov’ha ricetto,
Seco dolendo Echo pietosa fare,
Iterando le voci egre et funeste,
Ma Pan che lasso homai, gia non lassava
D’abbracciar il suo Pin, in questo avezzo
D’abbracciar lo imparo, si come irato
Borea non cessa, ove piu forte fiede,
Per vendetta di lei, che lo scherniva,
Di percuotere il Pin, non pur ne i boschi,
Ove le chiome innalza, et mostra il vento
Spreggiar anchor, ma sempre ch’ei lo scorge
Di Amphitrite solcar l’alto reame.
Questo fine hebbe ò lagrimosi Amanti
L’Amor di Borea, et quel di Pan, e à tale
L’un mosse Gelosia, l’altro la doglia,
Che quel geloso pur, questo dolente
In eterno vivra, peroche eterna
E la piaga, ond’Amore fere una volta,
Et morte sola è medicina al fine:
Ma quanto viva Pan misero ogni hora,
Quei troppo il sanno, che come ei, da morte,
Orbi rimangon del thesor Amato,
Questo non vuol’insin ad hor ch’io provi,
Il mio lieto destin, ne voglia prego,
Finche gli occhi mi chiuda il sonno estremo,
Ma veggia viva ogni hor la vita mia,
Et la beltá che al mondo non ha pare,
Scorto da Santi raggi adori e inchini,
Benche dal lume suo mill’aspre doglie,
Mille vani pensieri escano à darmi
Noiosi assalti, à quai dolce ristoro
Almen si reca, se’l bel fonte ond’esce
L’Aloe molto e’l poco Melle appaga,
Col finto saggio lampeggiante riso,
Tutte le amare pene insieme accolte.
Il Fine de la Favola di Pyti.
Comincia quella di Peristera.