La fine di un Regno/Parte II/Capitolo VII

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Capitolo VII

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CAPITOLO VII


Sommario: La cospirazione liberale in Sicilia — Dimostrazione per la vittoria di Solferino — Incidente di Maniscalco al club dell’Unione — Il primo Comitato liberale — La tradizione rivoluzionaria di Palermo — Le squadre — Il tentativo insurrezionale di Giuseppe Campo nell’ottobre del 1859 — Rapporto di Castelcicala e nota del Re — I liberali e Maniscalco — Attentato di Farinella contro la sua vita — Particolari — Riorganizzazione del Comitato — Mazzini e Crispi da una parte, Giuseppe La Farina dall’altra — Enrico Benza a Palermo — Curioso rapporto di Castelcicala — I nobili entrano nella cospirazione — Il padre Ottavio Lanza — Il testamento del principe di Scordia e Butera — Si fa un Comitato unico — Il vecchio barone Pisani — Si provvedono fondi, fucili e bombe — I preparativi di Francesco Riso — L’inchiesta di Pisani juniore — L’opera della polizia — Si delibera d’insorgere il 4 aprile — Il piano dell’insurrezione — ’U zu Piddu Rantieri — Arresti e perquisizioni — Come la polizia scopri il complotto — Un verbale dell’ispettore Catti — La verità storica — Le precauzioni del governo.


Vera cospirazione politica organizzata non vi fu in Sicilia prima della morte di Ferdinando II. I conati di Garzilli e di Bentivegna, repressi nel sangue, non ebbero altro effetto che di accrescere il lievito di odio dei siciliani per il governo di Napoli. Se nel 1848 l’idea, che prevalse, fu l’indipendenza dell’Isola, gli orizzonti erano più larghi nel 1859. Si era formato il Regno dell’Italia del nord; la Toscana e l’Emilia si reggevano a dittatura, e i dittatori erano di fatto luogotenenti di Vittorio Emanuele; e gli uomini più eminenti, esuli del 1848, mandavano dall’esilio moniti e speranze. L’idea nazionale e il sentimento della grande patria riscaldavano il petto dei liberali siciliani, i quali nelle nuove condizioni politiche dell’Italia vedevano la garenzia del successo. La prima manifestazione liberale si [p. 152 modifica]compì, raccogliendo, per iniziativa principalmente di Corrado Valguarnera duca dell’Arenella, figlio giovanissimo del principe di Niscemi, oggi senatore del Regno, soccorsi per i feriti della guerra dell’indipendenza; e la prima dimostrazione fu fatta per la vittoria di Solferino, illuminando, la sera del 26 giugno, i clubs della città. Si tentò anzi dai giovani più animosi di far illuminare tutta la città; ma, oltreché per i clubs, non vi si riuscì che per poche case di piazza Marina e di piazza Bologni. I clubs di Palermo sono, giova ricordarlo, a pianterreno. Al club dell’Unione, in piazza Bologni, detto della Pagliarola o delle sette finestre, uno dei più antichi della città, preseduto dal vecchio marchese Ugo delle Favare, borbonico schiettissimo, i giovani socii Francesco Vassallo e Francesco Brancaccio di Carpino, di loro testa ordinarono al maestro di casa l’illuminazione, e poiché non vi erano candelieri pronti, fu adoperato un lampadario. Il marchese Ugo, temendo qualche molestia dalla polizia, si risolvette di tornare a casa; e restarono nel club pochi soci, tra i quali il Brancaccio, il Vassallo e il barone di Rosabia, un vecchio dalla lunga barba bianca, il quale, seduto fuori, pareva si volesse godere lo strano spettacolo. Venivano difatti rumori confusi giù dalla Marina; ai quali seguì l’avanzarsi di una gran folla, con Maniscalco alla testa. Si seppe che il direttore della polizia, circondato da molta sbirraglia, aveva lui stesso con uno scudiscio mandati in pezzi i lumi dei primi clubs. Giunto che fu innanzi a quello dell’Unione, chiese chi avesse dato l’ordine di illuminarlo, e nessuno rispose. Brancaccio e Vassallo si perdettero nella folla; il barone di Rosabia non si mosse, ma un servo del club rivelò che l’ordine era stato dato appunto dai primi due. Il Maniscalco, allora, mandò in pezzi egli stesso l’innocente lampadario, e ordinò l’arresto di Brancaccio e di Vassallo, che riuscirono a mettersi in salvo. L’atto compiuto personalmente da Maniscalco urtò il sentimento pubblico e riaccese più forti gli odii contro di lui.


Si sentiva il bisogno di costituire un primo e vero Comitato direttore del movimento liberale, perchè direzione non vi era. Ne fecero parte da principio l’ingegnere Tommaso Lo Cascio, Salvatore Cappello, Salvatore Buccheri, Emanuele Faja, i fratelli Di Benedetto, Domenico Cortegiani, Andrea Rammacca, [p. 153 modifica]il vecchio barone Pisani e suo figlio Casimiro, Martino Beltrami-Scalia, Giambattista Marinuzzi, Francesco Vassallo, Enrico Albanese, Andrea d’Urso, Giuseppe Campo e Francesco Brancaccio. La mente e l’autorità maggiore del Comitato erano quelle del vecchio barone Pisani; gli altri appartenevano quasi tutti alla borghesia facoltosa, che rappresentava la maggior resistenza al governo dei Borboni. Martino Beltrami Scalìa, genero del barone Pisani, era insegnante privato, come si è veduto; Buccheri era negoziante di ferramenta; Cortegiani, farmacista e fratello dell’agente del duca di Aumale; Marinuzzi iniziava la sua professione nel fóro; E-ammacca aveva bottega di cambiavalute in via Toledo; i fratelli Di Benedetto discreti benestanti, e l’Onofrio anche medico, e Andrea d’Urso era l’uomo d’affari della contessa di San Marco, la quale fu tanto utile alla causa liberale. Questa signora era ultima di casa Filangieri San Marco e vedova del conte di Sommatine, anch’egli di casa Lanza, morto di colera nel 1837. Francesco Brancaccio viveva nel mondo aristocratico e non aveva requie nè prudenza.


La tradizione rivoluzionaria di Palermo era questa: contare sul concorso della campagna, cioè poter disporre nelle campagne vicine di persone coraggiose e sicure, le quali potessero raccogliere intorno a se altri elementi, egualmente coraggiosi e risoluti, raccozzati soprattutto fra quei contadini nomadi onde son ricche le campagne siciliane: contadini e facinorosi, risoluti a formare squadre, a combattere la forza pubblica, a saccheggiare uffici doganali e, penetrati che fossero in Palermo, fare man bassa sulle amministrazioni governative, unendosi alla mafia cittadina. Per loro la rivoluzione voleva dire distruzione di ogni freno politico e legale. Le squadre furono tanta parte dei moti palermitani in ogni tempo, fino ai più recenti, dopo il 1860; ma se ne furono la forza, ne furono anche la debolezza, perchè gli elementi torbidi che entrarono a farne parte, non poteano, per le loro pretensioni, essere facilmente tenuti a segno. Il Comitato s’illudeva da principio di poterne fare a meno, ma non era possibile, e se n’ebbe la prova in un primo tentativo d’insurrezione, fatto nell’ottobre del 1859 da Giuseppe Campo, il quale, dichiarando di poter disporre di molta gente in Bagheria, [p. 154 modifica]aveva persuaso il Comitato che sarebbe stato agevole tentare un moto insurrezionale il giorno 9 ottobre, con questo piano. All’alba di quel giorno, una squadra, dopo aver inalberata in Bagheria la bandiera tricolore, e disarmata la poca forza pubblica, raccogliendo via via altri uomini armati a Misilmeri e a Villabate, sarebbe scesa a Palermo; ed allora, al rumore di alcune fucilate verso la porta Sant’Antonino, i cospiratori della città sarebbero corsi alle armi, e con l’aiuto delle bombe e delle squadre, avrebbero attac- cata la truppa, e la rivoluzione si sarebbe compiuta. Giuseppe Campo, giovane di grande coraggio, ma non di pari esperienza, aveva fatto assegnamento sulle spavalderie di un suo castaido, tal Gandolfo, il quale gli aveva dato ad intendere di poter disporre di tutti gli uomini d’azione di Bagheria e vicinanze, i quali ad un cenno si sarebbero raccolti sotto la sua direzione. Ma invece intorno al Campo, la sera del giorno 8 ottobre, non si trovarono che cinque o sei uomini armati. La mattina del 9, il Comitato di Palermo, non avendo alcuna notizia da Bagheria, inviò colà Giambattista Marinuzzi, il quale, tornato ad ora tarda, riferi che il Campo, per deficenza di uomini, non aveva potuto mantenere la promessa; ma l’avrebbe mantenuta il di seguente. E difatti nella notte tra il 10 e l’11, il Campo, con un pugno di uomini, guidato da un certo D’Alessandro, irruppe prima in Santa Flavia, dove assalì la guardia urbana, poi in Porticello, dove assalì e disarmò la caserma doganale, ed in ultimo in Villabate, dove invase il posto della guardia urbana e la casa del suo capo, certo Salmeri. Ma fu lì che, raggiunti da un manipolo di soldati e di compagni d’arme, gl’insorti furono sgominati dal numero prevalente della forza, ed il Campo trovò rifugio in casa Federigo, ai Ciaculli. Imbarcatosi poi per Genova, scese co’ Mille a Marsala, dove ebbe compagni i fratelli Achille e Francesco, de’ quali il primo avea già fatto parte della spedizione di Calabria nel 1848, e salì poi nell’esercito nazionale al grado di colonnello; e l’altro, che già serviva nello esercito sardo, pervenne nell’italiano all’alto grado di tenente generale. Un terzo fratello, compiuta che fu l’impresa di Garibaldi, si arrolò anch’egli nella cavalleria italiana, ma non vi durò a lungo. Alla generosità dell’animo furon pari nei fratelli Campo la integrità del carattere, il valore e la intrepidezza; e larga quanto meritata la stima in cui eran tenuti dai loro concittadini.

[p. 155 modifica]Del movimento il principe di Castelcicala informò il governo di Napoli con un rapporto diretto il 12 ottobre al ministro di Sicilia a Napoli, il quale gli rispondeva, il 19, che il Re aveva di suo pugno annotato sul rapporto: “Inteso degli ordini dati; inteso con soddisfazione per la pronta repressione; si preferisca però sempre il prevenire molto, per reprimere poco„.

Il movimento fallì, e le conseguenze furono nuove carcerazioni e disarmo; provvedimento quest’ultimo, al quale Maniscalco tenne più che ad ogni altro. Dei componenti del Comitato, alcuni furono arrestati; altri si salvarono emigrando, e fu tra questi Paolo Paternostro, che da poco era tornato dall’esilio.


Andato a vuoto quel tentativo, e procedendo le cose d’Italia con maggior fortuna, si tornò all’opera. Lo scoglio, contro il quale s’infrangeva ogni conato rivoluzionario, era Maniscalco. Tolto lui di mezzo, si credeva impresa facile compiere la rivoluzione. Sul suo capo si erano cumulati grandi odii ed erano odii di liberali e di facinorosi insieme, perchè Maniscalco colpiva con la stessa severità gli nni e gli altri, anzi, in verità, più questi che quelli. Dal giorno che, salito al trono il nuovo Re, Filangieri era divenuto presidente dei ministri, e Cassisi licenziato, il potere di Maniscalco non ebbe limite. Castelcicala lasciava fare; Spaccaforno, deposto dal suo ufficio di direttore dell’interno e passato alla Consulta, era divenuto il peggior diffamatore del suo vecchio collega. I membri meno scrupolosi del Comitato avevano immaginato parecchi mezzi per paralizzare Maniscalco, o addirittura sopprimerlo. Pensarono un momento di sequestrarlo col primo figliuolo, perchè egli aveva l’abitudine di fare delle passeggiate a cavallo fuori la città, accompagnandovi questo suo figliuolo, convalescente da una grave malattia. Per qualche tempo lo appostarono, ma il colpo fallì. Pensarono allora di farlo ammazzare, e non fu difficile trovare nei bassi fondi della mafia chi vi si prestasse. La mafia, che detestava Maniscalco, aveva indispensabili contatti col Comitato, perchè, purtroppo, quando si cospira, non si distingue. Si trovò la persona, e fu tal Vito Farina, soprannominato Farinella, giovinastro fra i più temerarii, vigilato dalla polizia per pessimi precedenti. Costui accettò l’incarico, mercè il compenso di dugento onze, cioè seicento ducati, e per parecchie domeniche stette ad aspettare la sua vittima nei pressi della [p. 156 modifica]cattedrale, dove il direttore andava con la famiglia a sentire la messa. E la domenica 27 ottobre del 1859 l’aggredì alle spalle, lo ferì di pugnale nei reni, e credendo di averlo finito, si perdette nel cortile di San Giovanni, anzi nei labirinti di quel cortile, davvero intricatissimi, onde all’usciere Oliva, che accompagnava il ferito, riusci impossibile dargli la caccia. L’assassino s’era attaccato al viso una barba finta, che ebbe cura di gettar via, appena compiuto il misfatto. Fosse allucinazione ottica del Maniscalco o stordimento, gli parve che il feritore fosse alto di statura, e la polizia arrestò tutti coloro, che, su tale contrassegno, potessero esser sospetti di aver compiuto il misfatto. Il Farinella, che invece era piccolo e sbarbato, venne tratto in arresto per sospetto, ma otto giorni dopo fu rimesso in libertà, nulla essendosi potuto provare sul conto di lui, benchè, come si disse, sottoposto a tortura. Maniscalco guarì peraltro in pochi giorni.

Dal dì dell’attentato Maniscalco perse addirittura i lumi; la polizia cominciò a mostrarsi più inesorabile con i supposti nemici del Re, anzi divenne, in alcuni casi, bestiale. Non aveva pace, perchè non riusciva a scoprire l’assassino e i mandanti. Riteneva che i liberali avessero armata la mano del sicario, ma mancavano le prove. Il De Sivo accusa come mandanti del delitto i giovani nobili, nè esita a farne i nomi, affermando di averli rilevati dalle “Memorie„ di Maniscalco. E nomina il principe di Sant’Elia, il principe Antonio Pignatelli, il barone Riso, il principe di San Cataldo, Casimiro Pisani juniore, Corrado Niscemi e il marchesino Rudinì. Ma ciò è falso: nessuno di costoro ebbe parte nell’assassinio, e i superstiti lo assicurano sulla loro parola d’onore, come ritengono che il Farinella abbia agito invece ad istigazione di qualcuno fra i membri più caldi del Comitato, e fanno il nome di taluno, morto da poco senatore del Regno. Quando il Governo borbonico finì in Sicilia, molti si fecero belli del fatto e ottennero da Garibaldi un sussidio pel Farinella. E fu vergogna. Non so quali prove avesse il Maniscalco per ritenere i giovani nobili mandanti dell’assassino; le sue memorie non furono mai pubblicate; i figli non le hanno; nessuno le ha vedute; e persona, che ebbe tutta la fiducia di lui, interrogata, mi rispose: “mi risulta quasi in modo assoluto che Maniscalco non scrisse mai le sue memorie, anzi non ne mostrò mai il più lontano pensiero„.

[p. 157 modifica]È inutile dire che Maniscalco ebbe congratulazioni da ogni parte; il Re gli concesse un’alta onorificenza e un aumento di assegno, e il suo potere crebbe tanto, che in Sicilia nessuno contava più di lui. Il suo carattere divenne più acre e più sarcastico. Mi narra Giambattista Marinuzzi, che salendo un giorno le scale dei ministeri, si trovò in mezzo a una folla di donne, che circondavano Maniscalco, il quale, salendo egli pure, riceveva suppliche che quelle donne gli porgevano, accompagnandole con augurii di lunga vita. Maniscalco, crollando il capo, rispondeva: “Non ci credo che voi preghiate Dio per me, lo pregherete piuttosto perchè mi faccia crepare„.

Anche negli ultimi tempi, quando la procella si addensava da ogni parte, egli serbò vivo il sentimento della gratitudine verso coloro ai quali doveva qualche cosa. Non molestò il dottor La Loggia, che sapeva liberalissimo, perchè gli aveva guarito il figlio; e allo stesso Marinuzzi, che sapeva liberale, rese un favore, che questi forse non si aspettava. Un fratello del Marinuzzi, giovanissimo, aveva tentato di rapire una ragazza in Partinico, nel momento che andava in chiesa per maritarsi. Maniscalco ne aveva ordinato l’arresto, ma presentatoglisi Giambattista Marinuzzi, fratello di Michele, avvocato di lui, lo consigliò di aggiustar tutto con la famiglia della ragazza, promettendogli che la cosa non avrebbe avuto seguito. E così fu. A Maniscalco si faceva risalire la responsabilità di ogni sopruso, e nella polizia di Palermo vi erano arnesi ben tristi, come in tutte le polizie dei governi assoluti e anche non assoluti: polizie, che non distinguono né sull’uso dei mezzi, ne sul valore morale delle persone.


Alla direzione del Comitato si aggiunsero Francesco Perrone-Paladini, Mariano Indelicato, Ignazio Federigo, Salvatore Perricone e Giuseppe Bruno, tutti borghesi. Bisognava riordinare le fila della cospirazione; riprendere le relazioni con quanti erano scampati alle ricerche della polizia; riunire in un sol fascio i liberali dell’Isola, e intendersela soprattutto con quelli di Messina, dov’era Giacomo Agresta, anima della cospirazione messinese, che aveva larghi rapporti con gli equipaggi di legni esteri, e riceveva giornali, stampe clandestine e libri, che mandava a Palermo per mezzo del corriere postale Carmine Agnese.

Sui cospiratori di Sicilia premevano due influenze diverse: [p. 158 modifica]una metteva capo a Malta, a Mazzini, a Crispi e a Rosolino Pilo, e incuorava a rompere gl’indugi e ad insorgere a qualunque costo, pur d’insorgere, in nome dell’unità nazionale. Una lettera di Mazzini, del 2 marzo 1860, diretta agli amici di Palermo e di Messina, suggeriva di non badare a forme di governo, nè ai consigli di moderazione, che venivano da Torino e da Firenze, ma di osare: “Osate, perdio! diceva, sarete seguiti; ma osate in nome dell’Unità Nazionale: è condizione sine qua non„.

Già Francesco Crispi, nell’agosto del 1859, era andato a Palermo, dopo essere stato a Messina e a Catania; e vi era andato sotto il nome di Manuel Pareda, con un passaporto procuratogli da Mazzini. I particolari del viaggio sono narrati da lui stesso, nel suo Diario. A Palermo conferi con pochi amici, ai quali lasciò una forma, in creta, di bombe all’Orsini. Il consiglio di Crispi di fabbricare queste bombe, che si sarebbero dovute gettare tra i soldati nelle caserme e negli uffici pubblici, fu accolto, ma senza costrutto. Crispi avrebbe voluto che s’insorgesse il 4 ottobre, onomastico del Re, gettando quelle bombe fra la truppa, mentre tornava dalla rivista militare. La truppa si sarebbe allora sbandata dalla paura e le squadre sarebbero entrate in città. Egli prometteva, a nome di Mazzini, la venuta di Garibaldi e altri aiuti.

L’altra influenza metteva capo a Torino e a Genova, ed era rappresentata dagli esuli di maggior conto, e principalmente da Giuseppe La Farina, divenuto l’anima della Società Nazionale e intimo di Cavour. Erano di accordo col La Farina, fra gli altri, Michele ed Emerico Amari, il marchese di Torrearsa, Filippo Cordova, Mariano Stabile, Matteo Raeli, Vincenzo Errante, Vito d'Ondes Reggio. La Società Nazionale voleva evitare nell’Isola qualunque movimento, che non avesse per fine l’unione col Piemonte; schivare qualunque pericolo d’inframmettenze mazziniane, le quali erano a temere, e avrebbero potuto compromettere la riuscita dell’impresa; preparare l’insurrezione, facendovi partecipare tutti gli ordini sociali, e insorgere al momento opportuno, quando cioè fosse data al Piemonte l’occasione di un aiuto efficace, che salvasse le apparenze. Cosi appunto consigliava Cavour. Questi a tal fine mandò, nel febbraio del 1860, a Palermo Enrico Benza, lo stesso che poi fu, per poco tempo, segretario particolare di Vittorio Emanuele e nel 1862 console a [p. 159 modifica]Tunisi. Il Benza giunse a Palermo, raccomandato da La Farina al principe Antonio Pignatelli e si disse inviato da Cavour, anzi parente di lui e intimo del Re. L’accompagnava sua moglie, bellissima donna; viaggiavano con sfarzo signorile e vennero fatti segno alle più simpatiche accoglienze da parte dei giovani del patriziato, dai quali furono dati ricevimenti e conviti in onor loro. Il Benza ebbe questa missione in Sicilia, come ne ebbe una l’anno appresso a Roma, ed un’altra nel 1862 ad Atene, Costantinopoli e Bukarest. Era uno di quegli agenti di fiducia di Vittorio Emanuele, che Cavour adoperava secondo le circostanze. Il Benza consigliava d’insorgere, ma quando però l’insurrezione presentasse sicurezza di riuscita e offrisse al Piemonte l’occasione di poter intervenire, in modo occulto o palese, secondo il caso. Egli non poteva non destare i sospetti della polizia, dalla quale fu tenuto d’occhio, e il luogotenente non mancò riferire a Napoli che era giunto a Palermo questo agente piemontese, festeggiato da parecchi giovani dell’aristocrazia. E quando egli s’imbarcò per Napoli, lo stesso luogotenente inviava al ministro di Sicilia questo curioso rapporto: 1

Oggetto
Sul Piemontese ENRICO BENZA
Palermo, 21 febbraio 1860.
S. M. resta inteso ed ordina che si sorveglino rigorosamente:         Eccellenza,

Il Cav. Enrico Benza, che formò argomento del mio foglio del 14 dello stante, n. 271, il giorno 18 s'imbarcava sul Vesuvio per cotesta Capitale.

Il funzionario di Polizia di questa delegazione marittima ne avvertiva il Commissario di Polizia di quella di Napoli, e gli accennava che forse qualche carta criminosa poteva trovarsi sulla persona o nel bagaglio di questo sospetto viaggiatore.

Egli fu accompagnato a bordo da undici persone, parte giuocatori, parte novatori, i cui nomi stanno a manco scritti.

Corse voce due giorni innanzi la sua dipartita che il Benza dovea essere latore di una lettera al Re Vittorio Emmanuele, per dimandare l'Annessione e che questa petizione sarebbe stata firmata dalle persone più cospicue del paese.

Molto si è parlato di questa supplica, ma nessuno l'ha veduta e firmata.

Negli ultimi di sua dimora in questa città, il Benza si ha dato un'importanza politica ed ha fatto intendere con linguaggio che sconfinava al ciarlatinismo (sic) che una commissione si aveva dal Conte Cavour, che dice essere suo Cugino.

Questo straniero debba essere severamente sorvegliato.

Tolgo a premura far ciò palese a V. E. per la debita sua intelligenza.

Il Luogotenente Generale
Firmato: Castelcicala.


Barone Riso giocatore
Epaminonda Rudinì id.
Duca Cesarò id.
Cav. Sciara id.
Figli del Cav. Palizzolo novatori
Francesco Brancaccio id.
Principe Pignatelli id.
Cav. Carcano id.
Marchesino Rudinì id.
Riservata

[p. 160 modifica]I consigli di moderazione trovavano scarso ascolto tanto nel Comitato borghese, quanto fra i giovani nobili, che avevano avvicinato il Benza: gli uni e gli altri stimavano indecoroso qualunque indugio. Nei primi giorni del nuovo anno era stato distribuito a migliaia di copie in Palermo e per tutta l’Isola il celebre manifesto, che si chiudeva con le parole: Viva l’Italia! Viva Vittorio Emanuele!


Si era impazienti, ma mancavano danari ed armi. Coi pochissimi fucili sottratti nei disarmi, non si poteva fare la rivoluzione. Da Malta si promettevano armi, ma non arrivavano; e le insistenze, che da Palermo e da Messina sul finire del 1859 si mandavano a Garibaldi perchè scendesse in Sicilia, provocarono dal generale risposte rassicuranti, ma solo quando i siciliani fossero pronti alla riscossa. Il Comitato decise di entrare in più intima relazione con quei pochi giovani del patriziato, i quali, pur appartenendo a famiglie legittimiste, ed alcuni avendo anche cariche di Corte, mostravansi non abborrenti dai civili progressi. Coi loro nomi e coi loro mezzi si poteva dare alla cospirazione un contenuto di serietà e di forza. In un paese come la Sicilia, dove l’ordinamento sociale è a base di gerarchia, occorreva anche nella cospirazione una gerarchia. E fu dopo la partenza dell’agente cavurriano, che per mezzo dei Pisani e del Brancaccio, furono presi accordi definitivi coi nobili, e col padre Ottavio Lanza particolarmente, ch’era il più anziano, o meglio, il meno giovane di loro. Gli altri varcavano di poco i venti anni. Erano stati quasi tutti discepoli di Pisani, il quale aveva loro ispirato sentimenti liberali e nazionali. Questi giovani nobili non costituirono mai un vero Comitato: erano amici e si vedevano ogni giorno, tenendosi al corrente di quanto avveniva. I nomi loro sono quasi tutti compresi nell’elenco di quelli che accompagnarono il Benza a bordo, e qualificati per giocatori o novatori.2

Ma l’uomo di maggiore autorità fra loro era veramente il padre Ottavio Lanza, prete dell’Oratorio, uno dei molti figliuoli del vecchio principe di Trabia. Aveva trentasette anni. In lui [p. 161 modifica]la bontà dell’animo era pari alla sincerità e saldezza delle convinzioni politiche, che con temerità, maravigliosa in un ecclesiastico, professava palesemente. Antiborbonico incorreggibile, gareggiava in questi sentimenti con suo fratello primogenito, il principe di Butera e Scordia, morto in esilio a Parigi, come si è detto, nel giugno del 1855, assistito dal figliuolo Francesco, che ve l’aveva accompagnato. Egli, il principe, prima di lasciar Genova, dove dimorava con la sua numerosa famiglia, quasi prevedendo la prossima fine, benché avesse soli 49 anni, aveva scritto il suo testamento politico, ch’è una splendida pagina di fede e di senno.3 Mori due mesi dopo.

Dei nobili cospiratori il padre Lanza, adunque, era veramente il capo. Si riunivano d’ordinario in casa sua, o in casa [p. 162 modifica]Riso; e perchè la polizia, sorprendendoli, non sospettasse di nulla, sedevano attorno ad un tavolo, sul quale stavano disposti bicchieri, carte da giuoco e danari, per dare ad intendere all’occorrenza che erano li a divertirsi. Essi, ripeto, non costituirono mai un Comitato: l’unico Comitato si riuniva in casa di Enrico Albanese, in via Lungarini, e qualche volta, in casa di Antonino Lomonaco all’Albergheria, in un vicolo che si chiamava allora Siggittari, ed ora porta il nome del Lomonaco, che fu un bravo uomo, un bravo patriota e un distinto avvocato.

Gli accordi tra il Comitato e i nobili divennero via via più intimi. Si era alla fine di febbraio del 1860. Si sentì la necessità di stringerli maggiormente, e si diè incarico al Brancaccio, ch’era l’anello di congiunzione tra l’uno e gli altri, di suggellarli definitivamente, conducendo Corrado Niscemi al Comitato borghese per intendersi circa le armi, il danaro e la costituzione di un Comitato unico con un sol capo. Ma il giorno 28 febbraio Brancaccio venne arrestato, e il suo arresto mandò all’aria quanto si era stabilito. La sera dello stesso giorno fu arrestato anche il barone Grasso, persona affatto innocua, mentre conduceva la moglie a teatro. Il suo arrivo in prefettura, insieme alla moglie, diè luogo a una scena esilarante. Il Comitato unico non si costituì che nella prima metà di marzo, e ne fu presidente il [p. 163 modifica]vecchio barone Pisani. Era il Pisani uomo tenace, di poche parole e di modi risoluti, ed aveva a favor suo i precedenti del 1848. Viveva modestamente, dando lezioni d’italiano nell’istituto femminile della signora Giulia Scalìa e sembrava un solitario. Il principe di Satriano gli aveva offerto di rioccupare il posto di capo di ripartimento nel ministero dell’interno, che copriva quando scoppiò la rivoluzione nel 1848, ma il Pisani con dignitose parole aveva rifiutato.

Compiuta la rivoluzione del 1860, Pisani fu segretario di Stato per gli esteri con Garibaldi; e poi per la pubblica istruzione, col marchese di Montezemolo, primo luogotenente del Re. Dal collegio di Prizzi fu eletto deputato nel 1861, e mori senatore del Regno nel 1881. Suo figlio ebbe parecchi ufficii pubblici; fu, tra l’altro, presidente della deputazione provinciale di Palermo e mori due anni or sono. Nelle diverse riunioni del Comitato non si discorreva che dei modi più opportuni per insorgere. Generali le impazienze e anche le illusionL Chi aveva fede che, scoppiata la rivoluzione, sarebbe sceso a capitanarla Garibaldi, nel quale si aveva una fede immensa; chi sperava in Vittorio Emanuele e nel Piemonte, ritenendo che ne il Re, nò Cavour avrebbero assistito impassibili ad un movimento unitario in Sicilia; chi s’illudeva che Mazzini avrebbe mandato aiuti alla sua volta. Si era impazienti, ma i denari mancavano. S’immaginò un mezzo, che il più semplice e il più audace non era possibile di escogitare. Si decise di prendere dalla Cassa di sconto del Banco di Sicilia seimila ducati con le firme dei signori più facoltosi. Era tanta la fede nel trionfo della rivoluzione, che si beliberò di portare questo primo debito a conto del futuro governo provvisorio. Il barone Riso fu nominato cassiere del Comitato, e una cambiale, per la somma suddetta, e firmata dal padre Lanza e dal barone Lorenzo Camerata Scovazzo, fu scontata al Banco. Questa cambiale si sarebbe estinta pro rata dai sottoscrittori: i compagni firmarono tante cambiali, corrispondenti alla quota di ciascuno. Si cercò di raccogliere altre somme dagli amici più sicuri, ma il danaro si metteva insieme con difficoltà. Il principe di Sant’Elia dette sessanta ducati, e fu l’offerta maggiore. Assicurata alla meglio la parte finanziaria, si cominciò ad acquistare armi e munizioni. Per i fucili, che dovevano essere almeno trecento, furono stabiliti [p. 164 modifica]tremila ducati. Francesco Camerata, fratello di Lorenzo, reduce da Malta, riferì che laggiù potevano aversi dugento fucili a sei ducati ciascuno, e che Mazzini ne offriva altri dugento. Ma le difficoltà del trasporto essendo quasi insuperabili, venne risoluto di comprarli nell’interno della Sicilia, in quei paesi dove si era riuscito a sottrarli nei frequenti disarmi. La polvere fu data da Andrea Rammacca, che la faceva lavorare clandestinamente in una sua fabbrica, chiusa dopo il disarmo, e da tal Faja; il piombo fu fornito dal Briuccia, negoziante di ferramenta; e le bombe, sul modello lasciato dal Crispi, vennero fabbricate da uno svizzero, di nome Chentrens, il quale aveva una piccola fonderia di ferro a porta di Termini. Ecco tutti gli apparecchi per insorgere.


Il Comitato aveva bisogno di proseliti influenti nel ceto popolare e bisognava, per quanto era possibile, non aver contatti con la mafia. Alla fine di febbraio, avevano aderito al Comitato due giovani animosi: uno, maestro fontaniere, di nome Francesco Riso e l’altro, sensale di animali bovini, chiamato Salvatore La Placa. Entrambi, ben provvisti del loro, avevano nelle rispettive classi larghe aderenze e simpatie. Riso era un bel giovane, vivacissimo, intelligente e non aveva legami compromettenti coi bassi fondi sociali. Di vanità sconfinata, decise di entrare nel movimento, quando ebbe la prova materiale che ne facevano parte i signori, e ne volle conoscere alcuni. Ebbe tremila ducati e facoltà di raccogliere uomini e armi. Egli abitava nelle vicinanze del convento della Gancia, e lì aveva la sua bottega. Per riporre le armi e poi nascondervi gli uomini, che dovevano insorgere, prese in fitto una casetta in via della Zecca e vi mandò ad abitare una sua amante; poi prese anche in fitto un magazzino in via Magione. Questo magazzino era diviso in due parti; nella prima lavorava da falegname una persona di fiducia del Riso, e nella retrobottega fu subito costituito un deposito d’armi e munizioni. Infine, un terzo magazzino fu da lui appigionato addirittura nel convento, dalla parte detta di Terra Santa, dando a credere al guardiano che gli servisse per deposito dei materiali necessari al suo mestiere. Un quarto deposito d’armi esisteva poi, fin dall’anno innanzi, per opera di Rosario ed Agata d’Ondes Reggio, nei giardini fra Monreale e Palermo, e nelle campagne di Misilmeri, Torretta e Carini.

[p. 165 modifica]Il Comitato operava con la più raffinata astuzia. È ben difficile vincere il siciliano in fatto di scaltrezza, poiché la tendenza a procedere per vie tortuose e coperte è piuttosto generale nella razza, anche quando non si tratti di cospirare. Maniscalco era siciliano anche lui, e però si giuocava di scaltrezza da una parte e dall’altra, sì da dare origine a una ricca messe di aneddoti esilaranti. Il fatto vero è questo, che Maniscalco non trovava più spie fuori degli agenti in divisa; nè dopo il 4 aprile ne trovò fuori di quei comici e disprezzati agenti in borghese, detti taschettari dal tasco, che loro aveva messo sul capo. Ne sapevano, insomma, più gli estranei alla polizia, che la polizia stessa. Francesco Riso, il quale aveva avuto pieni poteri, mal pativa gl’indugi, affermando che tutto era pronto per insorgere, tanto che le sue impazienze parvero sospette; e Pisani, juniore, elevando qualche dubbio circa il modo onde il Riso spendeva il danaro del Comitato, propose una specie d’inchiesta, che il Comitato affidò a lui stesso. L’inchiesta constatò infatti che Riso aveva agito con qualche leggerezza, facendo costruire un gran numero di lancie inservibili, e cucir giubbe e berretti di velluto nero con nastri tricolori: berretti e giubbe quasi inutili; mentre nè tutti i fucili erano pronti, nè montato l’unico cannone in legno, di cui Chentrens aveva eseguito i vari pezzi. Di effettivo non vi erano che settanta fucili e cento bombe all’Orsini! Il disegno e le dimensioni del cannone le aveva fornite lo stesso Pisani, ricavandole da una Guida per le guerriglie nella guerra di montagna. Esso era formato da doghe di legno duro, tenute insieme da forti cerchi di ferro. Poteva ben tirare parecchi colpi, prima di scoppiare, e non aveva nulla di comune con quella parodia di cannone, che è un semplice tronco di legno mal bucato e che si conserva nel Museo di Palermo.

L’inchiesta fatta dal Pisani non fu dunque confortante. Riso non parve l’uomo che si era creduto; ebbe qualche ammonimento, e com’è naturale, mal tollerò i dubbi sollevati sulla sua opera, non perdonò al Pisani juniore la parte spiegata contro di lui, e stette ad aspettare che il Comitato stabilisse il giorno per insorgere. Gli eccitamenti si avvicendavano con gli scoramenti. Un giorno Antonio Pignatelli lesse ai suoi amici una lettera del D’Ondes Reggio, il quale, mostrando di scrivere in nome del governo piemontese, dichiarava che questo non [p. 166 modifica]poteva soccorrere nè di un uomo, nè di una cartuccia l’insurrezione, e consigliava di attendere.


La polizia intanto aumentava la sua vigilanza. Castelcicala era andato a Napoli per assicurare il governo che la Sicilia era tranquilla; e Maniscalco, rimasto padrone della situazione, e procedendo interamente d’accordo col generale Salzano, comandante della piazza, moltiplicava la sua attività. Ogni giorno correvano voci di nuovi arresti e nuove perquisizioni. Si temè che la polizia avrebbe perquisita la casa del padre Lanza, ma fu invece perquisita minuziosamente quella del barone Riso, dove gli amici di lui si adunavano. La polizia portò via le armi personali del barone, benché egli ne avesse regolare permesso, ed essendogli stato consigliato di allontanarsi per pochi giorni, al fine di non confermare i sospetti, il Riso si affrettò a consegnare al padre Lanza, che la tenne sino al 4 aprile, la cassa del Comitato, coi tremila ducati che vi erano rimasti, per pagare le squadre nel primo giorno dell’insurrezione.

L’indugio disanimava, e i capisquadra si mostravano sempreppiù impazienti; ma essendo varii i pareri circa il giorno da fissare, i nobili dichiararono che dal canto loro ne rimettevano al vecchio Pisani la scelta. Pisani e Marinuzzi avevano avuto lo stesso incarico dal Comitato. Prima di fissare la giornata del 4 aprile per l’insurrezione, Pisani volle sentire l’avviso del padre Lanza e del Pignatelli, e questi furono di parere che era bene scelto quel giorno, che cadeva di mercoledì santo. Pisani aveva riflettuto che in quella giornata le truppe non sarebbero state chiuse nei quartieri, come nei giorni successivi della settimana santa, e che, trovandosi il luogotenente a Napoli, vi sarebbe stata incertezza da parte delle autorità.

Fissato il 4 aprile, i capi del Comitato si riunirono negli uffici del Baliato, con Francesco Riso per fissare gli ultimi accordi, che furono questi. Gli uomini, i quali dovevano prendere le armi dentro Palermo, avrebbero formati tre gruppi: il primo, al comando del Riso, doveva riunirsi la sera del 3 aprile nel magazzino dentro il convento; il secondo, sotto gli ordini di Salvatore La Placa, raccogliersi nel magazzino di via Magione; e il terzo, guidato da Salvatore Perricone, nella casa in via della Zecca: tutti i quali posti erano stati dal Riso, come si è già detto, [p. 167 modifica]presi in fitto per depositarvi armi e munizioni. La mattina del 4, avuto il segno degli spari dei mortaletti alla Fieravecchia, dovevano uscire contemporaneamente i tre gruppi, e assaltare i corpi di guardia e i commissariati di polizia. Domenico Cortegiani, cui era dato il comando delle squadre di Misilmeri, si sarebbe mosso nella notte; e passando da Villabate e borghi vicini per riunirsi agli altri, si sarebbe accostato a Palermo, forzando porta di Termini. Alla stessa ora sarebbero discese nella parte opposta della città le squadre di Carini, Cinisi, Torretta, Sferracavallo e Colli, condotte dai fratelli Di Benedetto, e che avevano per capi speciali Guerrera, Tondù e Bruno, ed avrebbero attaccate le caserme a San Francesco di Paola e ai Quattroventi. Il Comitato aveva provveduto perchè i capi di queste squadre fossero persone superiori ad ogni sospetto, e tali erano i Di Benedetto, il Cortegiani, il Tondù e il Bruno; ma per altre squadre bisognò affidarsi a capi di ben diversa indole, i quali operavano per secondi fini, ed erano gente buona soltanto a menare le mani. Queste altre squadre erano riunite sotto il comando di certi Lupo e Badalamenti. Quest’ultimo, conosciuto col soprannome ’u zu Piddu Rantieri, era un capraro di straordinario coraggio, facinoroso e mafioso, al quale la polizia poco tempo prima aveva applicata una pena feroce: quella di sospenderlo col capo in giù e applicargli sulle piante dei piedi non so quante vergate, per cui i piedi divennero stranamente gonfii e le piante incallite. Si voleva da lui la confessione non so di qual reato non politico, ma ’u zu Piddu soffrì tutto, rispondendo senza commuoversi: “Nun sacciu niente„. Si può immaginare quale fosse l’animo suo verso la polizia e verso l’autorità. ’U zu Piddu e Lupo avevano raccolti contadini nomadi, giovanissimi quasi tutti, nelle campagne di Pagliarelli, Porrazzi, Mezzomorreale e Rocca; e poichè questi erano diffidenti del Comitato, memori dei fatti dell’ottobre, il Comitato mandò loro in ostaggio Giambattista Marinuzzi, che vi andò il giorno 2. Pisani distribuì ai diversi capisquadra biglietti d’istruzione con segni convenzionali, e assegnò a ciascuno le somme per sussidiare i propri uomini fino al giorno 4: somme che furono loro pagate dal Rammacca. Nel pomeriggio di quel giorno alcuni capisquadra, volendo conoscere di persona i principali componenti del Comitato, e prendere gli ultimi accordi, si diedero con costoro la posta [p. 168 modifica]nella retrobottega di una bettola, tenuta da Mario Villabianca, nella via detta ora Mariano Stabile. Quella riunione fu numerosa e allegra. Non vi era dubbio per nessuno che la rivoluzione avrebbe vinto. La polizia intanto non dormiva. Il giorno 2 aprile, fu arrestato Mariano Indelicato, e dall’ispettore Gandolfo si tentò anche di arrestare Marinuzzi, il quale, con audacia inverosimile, traversando le vie di Palermo in carrozza scoperta, con capsule, due canne da fucile e polvere, si mise in salvo, anticipando la sua gita presso Rantieri di quararantott’ore. La polizia eseguì una visita domiciliare in casa del Perrone Paladini, proprio nel momento, in cui gli era stata portata della polvere. La presenza di spirito del falegname Bivona salvò tutto; poichè questi, vedendo la polizia, cacciò la polvere nel paniere destinato alle compere giornaliere e, porgendolo alla signora Paladini, le disse forte: “Qua, signora, c’è lo zucchero„. In seguito a questi fatti, la sera del 2 si tenne un’altra riunione in casa Lanza. Qualcuno sconsigliò il movimento, giudicandolo intempestivo; qualche altro non si vide più, e il padre Lanza co’ suoi giovani amici non trovava posa. La mattina del 3, giunse al Lanza un biglietto con queste parole: “Fra mezz’ora onze cento. Telegrafate Messina Catania„. Lanza, dopo i pagamenti fatti alle squadre, non aveva più danaro, ma il barone Riso pagò del suo la somma richiesta. La seconda parte dell’avviso, mandato dal vecchio Pisani, confermava, com’è chiaro, gli accordi, ingiungendo di avvisare Messina e Catania, perchè insorgessero.

È facile immaginare le ansie e i varii episodii di quel giorno, vigilia della rivolta. Verso sera il Pisani, juniore, si recò nella villa del duca d’Aumale, ai Porrazzi, per informare il Marinuzzi di alcuni dubbi sorti circa l’opportunità d’insorgere, e facilmente superati. Lo trovò armato, in mezzo ad altri armati, pronti a marciare all’alba del di seguente. A casa l’aspettava il dottor Giuseppe Lodi, il quale, da parte di Giovanni Raffaele, lo scongiurò d’impedire la rivoluzione, perchè sarebbe stata un grande errore, non essendo nulla veramente preparato; ma il Pisani gli rispose d’ignorare assolutamente quanto avveniva, e che ad ogni modo il dottor Raffaele gli dava soverchia autorità, credendolo capace di arrestare la rivoluzione. E poichè concluse il discorso con le parole: “il dado è tratto„, Lodi se ne andò, replicando: “Su di voi dunque ricadrà la responsabilità del sangue, che domani sarà inutilmente versato„.

[p. 169 modifica]Fino alle ore pomeridiane del giorno 3 aprile, nonostante l’immenso suo lavorio, la polizia nulla aveva scoperto. Fu solamente nella sera, che venne a saperne qualcosa, ma tanto bastò perchè la rivoluzione fallisse. I particolari di un avvenimento di tanta importanza storica risultano da un verbale, redatto dall’ispettore di polizia Andrea Catti, il 7 aprile, verbale, che si pubblica la prima volta. È scritto in una forma, che non deve maravigliare, tenuto conto dell’assenza di qualsiasi cultura letteraria in quegli agenti, ma rivela in qual modo riusci alla polizia di scoprire il complotto. Ecco il caratteristico verbale:


Innanti noi, Andrea Catti Ispettore di Polizia su questo, si è presentato il Guardia di Polizia Francesco Basile, tenendo seco gli arrestati nominati Gioachino Muratore del fu Antonino e di nessuna professione, ed Alessandro Urbano del fu Carlo, di condizione impiegato alla R. Tesoreria, e ci ha fatto manifesto che veniva di arrestare i sudetti individui per disposizione del di lui Commissario Cav. D. Gioacchino Carreca, dapoichè veniva quest’ultimo reso sciente dal sudetto Basile, che i soprannominati il giorno 3 del corrente mese, alle oro 19 d’Italia, gli avevano confidato che per la dimani, alle ore 10 d’Italia, si dovevano eglino trovare dentro il Convento della Gancia, per indi insieme a tanti altri, dare l’assalto alla città; anzi, a di più, che bramavano i sudetti individui, che il Basile si fosse data la premura di fare un numero di persone per tutti quanti riuscir all’impegno.

Ricevutasi da noi la sopradetta dichiarazione, dietro di aver fatta consegna degli arrestati, siamo passati ad interpellare la guardia su quanto appresso:

D. — È mestieri che ci avessimo a rapportare quale si fu la vostra risposta all’invito ricevuto, e se mai gli individui di cui è parola, conoscevano che voi facevate parte della Polizia.

R. — Signore, il mio contradire si fu che non poteva farne che il numero di 15, su dei quali vi riposava, essendo gli altri infami; e ciò lo dissi perchè mi convinsi momentaneamente che i soprannominati non avevano conoscenza di fare io parte della Polizia. In fatti appena da loro mi divisi, mi portai frettolosamente dal mio Sig. Commissario, e narrandogli il tutto mi ricevei l’ordine di arrestarli, il che nel momento mi è riuscito.

Interpellati gli arrestati su quanto loro veniva addebitato, il Muratore rispose, che fu vero che il giorno 3 del corrente alle ore 19 essendo in compagnia del suo f ratei cognato Alessandro Urbano facendo via per la strada del Carmine avvicinando il Basile, gli disse che per la dimani doveva nascere una insurrezione popolare, e che l’adunanza era su Convento della Gancia, ma che ciò lo rapportava come una nuova raccolta da voce popolare. Negò di averlo invitato a prestarsi a fare uomini, ma che vi rimase a dargli semplice conoscenza dello avvenire e non altro, e tutto perchè il Basile era di lui conoscente ed ignorava appartenere alla Polizia. Disse finalmente che il suo cognato non prese parola, e che la sera dello stesso giorno ritornando a transitare dalla casa del Basile parlato avendo [p. 170 modifica]con le di lui donne, le fece manifesto che cercava la sua serva per farsi provvista di pane ed altro, poichè la dimani si voleva per certo una insurrezione, e quindi non voleva rimanere digiuno.

Richiesto essendo noi l’arrestato Urbano sullo assunto rispose, che egli fu presente a quanto viene di rapportare il suo cognato, ma non prese ninna parola e non intese la parte della Gancia.


Il Basile, che per l’imbecillità o la malvagità di quei due, aveva saputo che sarebbe scoppiata l’insurrezione la dimane nei pressi della Gancia, non era un finto liberale, nè aveva bottega di chiavettiere in via del Comune, come fu asserito: era invece uno di quegli agenti adoperati a tener d’occhio i bassi fondi della mafia; tanto è ciò vero, ch’egli, come risulta dal suddetto verbale, aveva facoltà di arrestare, e arrestò difatti l’Urbani e il Muratori. Che questi poi ignorassero con chi avevano da fare, è verosimile. A me non è riuscito avere alcuna notizia di costoro, ma è certo che furono essi i delatori, forse ignorando che il Basile era un agente di polizia. Rimane poi escluso che abbiano parlato del convento della Gancia, come del centro della rivolta, perchè se la sera del giorno 3, la polizia avesse conosciuta questa particolarità, non avrebbe esitato un momento ad invadere e perquisire il convento, e avrebbe scoperto tutto. Si noti che il verbale porta la data del 7 aprile, e che l’ispettore Catti potè aggiungervi di sua testa la circostanza della riunione nel convento della Gancia, già passata nel dominio della storia, e attribuirla al Basile, per dare maggior peso alla deposizione di costui. Questa era pure l’opinione del Pisani, il quale escludeva che la sera del 3 vi fosse stata alcuna perquisizione in quel convento, come hanno affermato alcuni, ma senza prove, per concludere, con la consueta leggerezza, che la polizia fu ingannata, dai religiosi conniventi coi cospiratori; mentre altri affermarono invece che i religiosi avessero denunziato il complotto. Ma tutte queste non sono che fandonie, perchè i religiosi, come risultò luminosamente dal processo, non sapevano nulla, ed in ciò consentono anche le persone più intelligenti di Palermo. Al capitano Chinnici, il Maniscalco, che aveva de’ sospetti sui frati, diè ordine di bloccare nella notte le uscite del convento, ma, religiosissimo com’era, quell’ufficiale non si credette, in base di semplici sospetti, autorizzato a penetrare con la forza in un convento di francescani. La polizia, posta sull’avviso dall’agitazione [p. 171 modifica]che si manifestò nella città fin dal giorno 2, prevedendo imminente una sommossa, non aveva mancato di prendere le necessarie misure: fece infatti collocare due pezzi di artiglieria in piazza Marina, nel punto che guarda l’ingresso della chiesa della Gancia; rafforzò i Commissariati e i posti di guardia; fece accampare una compagnia di cacciatori nelle altre piazze e mandò in giro tutta la notte grosse pattuglie di soldati e compagni d’arme per la città. E poichè i fuochi, che si vedevano nella notte sulle montagne confermavano il sospetto che le squadre sarebbero venute in città, rafforzò le porte e mandò il maggior Polizzy con due compagnie di linea e uno squadrone di cacciatori a cavallo nel vicino villaggio di San Lorenzo, dove sapeva che si sarebbe riunito il maggior numero d’insorti, mentre altre pattuglie, miste di soldati e compagni d’arme, furono mandate fuori delle altre porte. E Maniscalco stette ad aspettare il dì seguente.







Note

  1. Archivio Brancaccio
  2. È da aggiungere Corrado Niscemi, che poi ebbe tanta parte nelle cose pubbliche. Emmanuele Notarbartolo di San Giovanni vi è indicato col titolo di cavalier Sciava. In quei giorni, non reputandosi sicuro a Palermo, partì per Firenze.
  3. Eccolo integralmente:
          “L’anno 1865 il giorno 24 aprile in Genova, io sottoscritto Pietro Lanza e Branciforti ho scritto di proprio pugno a’ termini delle leggi vigenti in Sicilia e firmato il presente mio testamento olografo, che ho consegnato al mio caro fratello Padre Lanza dell’Oratorio di San Filippo Neri di Palermo perchè lo dasse in deposito presso il Padre Preposito dell’Olivella affine di pubblicarsi ed avere il suo pieno vigore seguita che sarà la mia morte.
          “Riflettendo maturamente sulla brevità ed inanità della vita umana e sui pericoli, cui va essa esposta, e potendo da un istante all’altro essere chiamato da questa all’altra vita, credo convenevole e doveroso esprimere in questo foglio l’ultima mia volontà, e disporre del mio patrimonio, raccomandandone a’ miei eredi e successori ed esecutori testamentarii lo esatto adempimento in tutte le singole parti; quindi raccolti i pensieri e sentimenti miei tutti ed invocato l’aiuto del divino spirito così la riepilogo e manifesto.
          “1° Chieggo perdono a Dio onnipotente di tutte le mie colpe e de’ peccati commessi da quando ebbi l’uso della ragione e per tutto il periodo della mia vita, imploro la infinita misericordia per i meriti del Redentore Signor nostro Gesù Cristo e per intercessione della Beata Vergine, e nel punto di morte raccomando specialmente a Dio l’anima mia, perchè spoglia e monda da’ vincoli materiali e dagli affetti terreni possa essere accolta nell’eterna beatitudine e godere la gioia e la pace de’ giusti e degli eletti.
          “2° Io non rammento avere giammai fatto di proposito male a chicchesia, ho anzi avuto ognora il sentimento ed il desiderio del bene e l’ho praticato per quanto era in me, allorché l’occasione mi si è offerta. Ho sempre procurato di aiutare e di soccorrere il prossimo. Però se qualcuno avessi offeso senza volerlo ne chiedo solenne ammenda.
          “3“Perdono a’ miei nemici, se ne ho, ed a chi mi abbia offeso; particolarmente poi nel punto di morte non serbo odio, né rancore contro chi mi ha fatto passare nell’esilio i più begli anni della mia vita, allontanandomi dal seno della famiglia e dandomi così la maggior pena che il mio cuore abbia provata, quale fu quella di essere separato e lontano dal mio venerato genitore, allorché Dio lo chiamava agli eterni riposi.
          “4° Raccomando caldamente a tutti i miei figli di tener sempre cara la fede e la patria. Per fede intendo la credenza in Dio trino ed uno, la rucamazione e redenzione di Gesù. Cristo figlio suo e Signor nostro e di tutte le verità rivelate insegnate con tradizionale e non interrotta continuazione nel simbolo degli Apostoli della Chiesa Cattolica, che siede in Roma, e le di cui dottrine e precetti mantenuti coli’ unità racchiudono la verità e compresi rettamente e puramente praticati, essi soltanto son capaci a render paga e soddisfatta la coscienza umana nel pelago tempestoso della vita.
          “Sfuggano ed evitino le opinioni estreme, si guardino sempre ed in ogni cosa dagli eccessi, oppugnino e detestino la tirannide, come la licenza, e confidino non nel plauso della corrotta società che porta gli errori in trionfo, ma nella misericordia Divina e nella pace e serenità della propria coscienza„.