La metà del mondo vista da un'automobile/XII

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CAPITOLO XII. — Sulle rive del Baikal

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XI XIII

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CAPITOLO XII.


SULLE RIVE DEL BAIKAL

Lungo la Selenga — Una salita ribelle — Nel fango — La via abbandonata — La Bolshaja Rieka — Missowaja — Un tentativo inutile — Nell’attesa d’una risposta — Un’autorizzazione straordinaria.

Alle quattro del mattino del 27 Giugno eravamo nuovamente sul grande battello della Selenga per ritornare alla sinistra del fiume — lungo la quale serpeggia la strada che conduce al Baikal. Questa volta trovammo che l’imbarcazione era intenta a traghettare verso Verkhne-Udinsk una folla di carri che veniva dalla campagna. Era la scena della sera precedente, rovesciata. Da mezzo al fiume gridammo ai mujtks e ai buriati di tenere ben fermi i loro cavalli. Avevamo già constatato la decisa e irreconciliabile antipatia del cavallo siberiano per l’automobile. L’incontro d’un leone non avrebbe provocato nei mansueti cavalli dei contadini un maggiore orrore ed un maggiore terrore. Le povere bestie attaccate cercavano disperatamente di sfuggire alla telega; arretravano squassando la testa, si sollevavano sulle zampe posteriori nitrendo di paura, si gettavano da un lato con moto violento, si rivolgevano, e finivano quasi invariabilmente a trovarsi, sbuffanti e tremanti, col muso verso la telega, nella condizione meno favorevole alla fuga. Tutto questo senza che i contadini meravigliati muovessero un dito per impedirlo. Essi non avevano [p. 262 modifica] occhi che per noi; ci guardavano a bocca aperta, spesso salutavano, e lasciavano che il cavallo facesse il comodo suo. Perciò li avvertivamo da lontano: Tenete i cavalli! Attenti ai cavalli!

Faceva un freddo quasi invernale. I mujiks e i buriati avevano indossato i loro armiak di pelliccia ed infilato i guantoni. Nell’aria umida l’alito dei cavalli fumava. Ripassammo i ponticelli della vigilia, poi volgemmo a ponente. Non incontravamo più nessuno. Il fango era viscido, e, per quanto procedessimo adagio, ad ogni istante l’automobile scivolava lateralmente con le ruote posteriori, si metteva di fianco, insensibile all’azione dello sterzo, e camminava così, tutta di traverso come un cavallo che caracolli. Quando potevamo spingevamo la macchina sull’erba dei prati, dove le ruote facevano un po’ più di presa, aprendoci il passaggio nelle brughiere. Dopo un’ora fummo sul punto di tornarcene indietro. Ci trovammo di fronte ad una breve salita, che in altro momento avremmo superato senza accorgercene, e che invece si mostrava indomabile.

Contro questo genere di ostacoli diventavamo furiosi. Avremmo preferito un fiume, una montagna, un precipizio, qualunque altra difficoltà rispettabile. Ma no; erano cento passi di strada dall’apparenza la più innocente. La ricopriva però quella fanghiglia scivolosa sulla quale il passo stesso è malfermo e il piede striscia con una irresistibile tendenza ad andare più indietro che avanti. Le ruote facevano come il piede. Giravano a vuoto. L’automobile marcava il passo.

— Prendiamo un po’ di rincorsa! — ci dicevamo.

E tornavamo indietro. Con uno slancio la macchina si gettava all’assalto, ma al principio della salita si fermava, retrocedeva pattinando a freni stretti, si girava, scartava, e alle volte faceva un voltafaccia completo, da bestia paurosa. Provavamo lentamente, il Principe ed io spingendo dietro ed Ettore conducendo. Avevamo trovato dei pezzi di legno che mettevamo come zeppe alle ruote, e cercavamo d’andare avanti centimetro a centimetro; ma ad un certo punto, invariabilmente, l’automobile ridiscendeva trascinando [p. 263 modifica] noi e le zeppe. Cento volte avremo ricominciato, ora a zig-zag, ora in linea retta. Il motore strepitava, mandava in fumo tesori di benzina, si riscaldava, pareva irritato anche lui. Non v’era più un palmo di strada, ai piedi della salita, che non fosse stata solcata dalle ruote; pareva arata.

— E pensare — esclamavamo guardando il cielo in cerca d’un indizio di sereno — pensare che mezz’ora di sole renderebbe questa strada eccellente!

Il sole pareva impermalito da tutto il male che avevamo detto di lui nel deserto. Pioveva sempre. Ci venne un’idea: quella di mettere attraverso la strada delle fronde d’albero. Ed eccoci intenti alla potatura di giovani pini, a trasportare frasche bagnate, a disporle. L’automobile prese la rincorsa, arrivò sui rami, con due turbinosi giri di ruote li gettò dietro come fa della terra il cane che scava, si fermò soddisfatto dopo aver distrutto il nostro lavoro, e tornò indietro a strattoni, brontolando. Avevamo esaurito tutte le nostre risorse. Che fare? Ritornare a Verkhne-Udinsk in attesa del tempo buono? Accamparci sul posto? Andare in cerca di mujiks per farci aiutare? Discutevamo tutti questi progetti, quando Borghese ne propose un altro: studiare se v’era il modo di fare a meno della strada passando da un’altra parte.

Ora, a sinistra del sentiero v’era un boschetto folto, una impenetrabile barriera di piante; a destra, più in alto della strada, v’era uno stretto prato; e al di là del prato un precipizio in fondo al quale scorreva la Selenga. Si poteva entrare nel prato al piede della salita, e uscirne alla cima. Il prato declinava dalla parte del precipizio. Ettore vi condusse la macchina, velocemente. Vicino alla sommità la vedemmo rallentare, poi volgere improvvisamente a destra, verso il vuoto....

— A sinistra! a sinistra! — urlò il Principe concitato.

Ma l’automobile con un rapido movimento s’era di nuovo gettata a sinistra e scendeva sulla strada. Aveva fatto quella manovra pericolosa per riprendere forza profittando del declinare del prato verso il ciglione. Demmo un gran sospiro di sollievo, [p. 264 modifica] guardammo dall’alto in basso la salita vinta, le mostrammo i pugni con sincera indignazione, e continuammo il viaggio sulla riva della Selenga, ora dominando il fiume — che si fa più veloce verso la sua fine quasi per affrettarsi alla perenne immobilità del lago — ed ora camminando fianco a fianco con le sue acque bianche rumoreggianti. La valle è sempre più ristretta; la Selenga s’incassa fra colline coperte di folti boschi di pini e di betulle. La ferrovia, che passava sulla riva destra, è venuta a raggiungerci attraverso un maestoso ponte di ferro, e da quel momento l’abbiamo avuta vicina.

Serpeggiavamo intorno a lei. Le passavamo sotto, per dei cavalcavia inondati, la traversavamo a livello, la lasciavamo per ritrovarla poco dopo. Credevamo di esserle chi sa quanto lontani, quando fra gli alberi ci riapparivano i suoi dischi, i suoi segnali, i tetti rossi delle cantoniere. Ci teneva compagnia. Vedevamo da lontano le piccole stazioni solitarie dominate dall’alto serbatoio dell’acqua rivestito di legno e traversato dal camino d’un calorifero, che all’inverno difende l’acqua dal freddo e la mantiene liquida. Ogni tanto trovavamo la strada barrata da un cancello; entravamo nel territorio di qualche villaggio, sulla possessione collettiva di un comune o di una stanitza cosacca. Ad ogni cancello v’era un guardiano, un vecchio rannicchiato in una vicina capannuccia di legno, spesso ricoperta di terra per renderla più calda; ma il guardiano non era abituato certo alle rapidità dell’automobile, e spesso usciva fuori dalla sua cuccia quando avevamo aperto e richiuso da noi stessi il rozzo cancello di legno e ci allontanavamo velocemente. E rimaneva sbalordito, immobile, a guardarci.

Qualcuno di loro si faceva sulla fronte il segno della croce. Uno di questi uomini, accorso al suono della tromba e alle nostre chiamate, si fermò interdetto.

— Apri, se ti piace! — gli dicemmo fermando l’automobile.

Egli si stropicciò vivamente gli occhi, ci guardò sbalordito, ricominciò a stropicciarsi gli occhi. Credeva di sognare. In verità, [p. 265 modifica] le nostre grosse pellicce dal pelo in fuori e il fango che ci copriva non ci facevano più rassomigliare troppo a degli uomini, e quell’enorme carro che rombava e correva solo non pareva precisamente fatto per rassicurare un mujik sulla nostra essenza umana.

— Per favore, apri!

Il vecchio, come parlando a se stesso, esclamò:

— Che è? Che è? In Siberia. — Il nostro pubblico.

La risposta che si fece non fu molto favorevole a noi, poiché ad un tratto egli arretrò, e rapido come una lepre inseguita si rifugiò nella sua capanna e non si mostrò più. Questi episodi ci divertivano.

Un altro guardiano rammento, il cui contegno ci fece ridere per un istante; solo per un istante. Era un giovane quello, dalla piccola barba bionda. Egli accorse ad aprire con un gesto frettoloso ma incerto, tentennante. Udendo il frastuono del motore che si avvicinava schiuse la barriera impetuosamente, quasi per il terrore di non fare in tempo, e si gettò lui stesso di fianco, [p. 266 modifica] in un balzo disperato, appoggiandosi, serrandosi con le braccia spalancate al cancello aperto, per lasciare tutto lo spazio libero al mostro ignoto e minaccioso. Quando guardammo in faccia quell’uomo vedemmo che era cieco. I suoi occhi bianchi ed opachi si spalancavano verso di noi per una istintiva angosciosa ricerca; sulla sua faccia emaciata era lo spavento. Egli aveva sentito che qualche cosa di veloce, di potente, di misterioso, passava vicino a lui, lo sfiorava nella grande e atroce notte senz’alba. Provammo un senso di rimorso per quella tragica paura.

I villaggi avevano un’aria di benessere. Le isbe erano quasi tutte nuove e grandi. E non ci mancava mai la consueta avanguardia di mandrie galoppanti che ci lanciavano fango con gli zoccoli nell’impeto della corsa. Ma avevamo preso confidenza col fango. Le ruote ne raccoglievano a pezzi che ci gettavano addosso. Per aria era un tempestare di mota. Noi e l’automobile ne eravamo interamente coperti; avevamo smesso ogni tentativo di pulirci il viso; ci rassegnavamo ad essere mascherati da una incrostazione di terra. Sembravamo delle statue di creta appena sbozzate: le nostre statue. Sotto quella truccatura la nostra aria grave ed annoiata aveva qualche cosa di comico, che però in quel momento eravamo poco disposti ad apprezzare ed a gustare. Ci dicevamo guardandoci: Siamo buffi! — con lo stesso tono serio col quale dicevamo: Fa freddo!

E faceva freddo veramente. Soffiava un vento che ci gelava. Io sedevo nel posto del predellino e raccoglievo tanto fango sulle gambe e sui piedi da averli trasformati in cose enormi e informi che mi pesavano molto quando dovevo scendere per aprire i cancelli. Sotto a quella scorza di terra bagnata mi sentivo rabbrividire. Mi ripetevo, per consolarmi, che eravamo in estate. Fortunatamente nelle prime ore del pomeriggio la pioggia smise di cadere, un vento di levante squarciò le nubi, apparve ad intervalli un po’ di azzurro e un po’ di sole, subito caldo, il fango si rassodò e provammo un senso di benessere come se nel tepore dell’aria bevessimo un cordiale. Ci trovammo lontani da ogni [p. 267 modifica] villaggio, in mezzo a boschi sconfinati, per una pittoresca strada coperta d’erbe.

Dopo la costruzione della ferrovia, quelle parti dell’antica strada siberiana che attraversano regioni disabitate, e che non servono al piccolo traffico tra villaggio e villaggio, sono state abbandonate. La natura le riconquista a poco a poco. I boschi tornano ad invadere quello spazio che era stato loro rubato dagli uomini, avanzano dai bordi nuove piante, sporgono il verde giovane degli ultimi germogli, declinano sull’antica strada i rami che furono piegati o schiantati dal peso della neve, gettano su di essa i tronchi morti, spezzano le staccionate marcite, abbattono i vecchi limiti, irrompono da ogni parte. Dovevamo ogni tanto abbassare il capo per evitare i rami. L’erba era stata la prima a riprendere possesso. Quella strada si sta rimarginando come un’immensa ferita fatta alla terra. Guarisce sotto una coltre fiorita. Eravamo in mezzo ai fiori: ciuffi di anemoni, di botton d’oro, di ranuncoli, di primole, di fior di fragola, tutta una festa di colori e di profumi che usciva fuori dall’ombra degli alberi. La primavera siberiana ha una violenza rigogliosa, quasi per compensarsi d’essere stata ritardata dai ghiacci. Noi gustavamo quel trionfo silenzioso delle piante, soggiacevamo al selvaggio incanto di quei luoghi ove non era traccia di lavoro umano che non fosse antica. In qualche punto dei corsi d’acqua creati dal disgelo avevano attraversato la strada, devastandola, scavandola, trascinandovi sassi e rami caduti, fuggendo il vecchio letto preparato dagli uomini, sottraendosi alla tirannia dei fossati e dei ponticelli. E i ponti scalzati, malfermi, tremavano sotto all’automobile, scricchiolavano. Non avevamo ancora imparato a temerli.

Nel mezzo alla foresta riavvicinammo la ferrovia che avevamo lasciato da alcune ore. Fra gli alberi intravvedemmo una vallata, udimmo uno scrosciare di acque, e in cima ad una breve salita ci si presentò un ponte. In quell’istante ci sentimmo chiamare:

— Fermatevi, uomini, fermatevi! [p. 268 modifica]

Un guardiano della ferrovia ci faceva dei segni. Quando ci vide fermi gridò:

— Il ponte non c’è più! Il ponte è crollato!

Scendemmo. Era vero. Dal basso non avevamo potuto scorgere che del ponte solo la testata era rimasta. Un largo fiume impetuoso scorreva nel fondo.

— Come si passa? — chiedemmo al guardiano.

— V’è un guado, a valle. Prendete a destra, seguite il viottolo nella foresta, troverete qualcuno. C’è una stanitza vicino.

— Quanto è profonda l’acqua?

— Non lo so. Stamani sono passati dei carri.

— Che nome ha questo fiume?

— Bolshaja Rieka! — (Il fiume grande).

Seguimmo il viottolo, guadammo facilmente un fiumicello limpido, c’internammo per folti pittoreschi ingombri di piante rovesciate, e sboccammo sul letto sassoso della Bolshaja. Cercammo inutilmente il guado: il fiume era rapidissimo e profondo. Quando le nevi si sciolgono la Bolshaja Rieka deve essere spaventosa. Larghissima, vorticosa, essa strappa alla montagna alberi e macigni, e li trasporta, li rotola, li spezza. Tutto il suo letto era pieno di tronchi giganteschi, di ceppi, di rami, trascinativi dal furore delle acque, un’intera foresta morta e buttata là con un grandioso disordine di sconfitta. Dall’altra parte del fiume vedevamo i tetti di alcune isbe. Un giovane mujik, dal berretto con la banda gialla da cosacco, guidando una telega, emerse dal bosco, dalla nostra parte. Si fermò a guardarci, salutando.

— Dove è il guado? — gli chiedemmo.

— Ora lo passo. Venite con me.

Ci fece risalire la riva per un mezzo chilometro, rientrando per un tratto nel bosco. Poi ritornammo verso la corrente e ci disse:

— È qui. Guardate bene dove passo io. Bisogna scendere nella corrente di traverso, fino a quel punto. Non deviate mai....

Ci dava queste spiegazioni amichevolmente, con quell’aria [p. 269 modifica] buona che hanno i contadini russi, guardandoci con gli occhi azzurri e chiari.

— Il fondo come è? — gli domandò Borghese.

— Di pietre, come qui.

— L’acqua fino dove arriva?

— È alta quanto le ruote della telega.

Pensammo all’Iro.

— Si trovano dei buoi? All'uscita di Irkutsk.

Egli scosse la testa:

— No, non ve ne sono.

— E dei cavalli?

— Si. Tutti hanno il cavallo.

— Puoi procurarci sei cavalli? Paghiamo un rublo per cavallo, e un rublo di più a te.

— Bene. Aspettatemi qui.

Attraversò il fiume, scomparve. Passò un’ora. Cominciavamo ad essere impazienti, allorché vedemmo arrivare al trotto un gruppo d’uomini a cavallo, sull’altra riva. Erano i nostri uomini. [p. 270 modifica] Guadarono, e quando furono vicini ci salutarono gravemente togliendosi i berretti. Erano bei tipi vigorosi dalla faccia mistica; fisionomie da santi biondi su corpi da atleta. Come tutti i mujiks, portavano i capelli lunghi fino al collo; il popolo russo perpetua l’acconciatura degli antichi guerrieri, con i capelli tagliati netti sotto alla nuca come se più lunghi potessero imbarazzare ancora la cervelliera e la lorica.

Trasportarono prima il bagaglio, caricandone le groppe nude dei cavalli; pareva una scena di saccheggio. Intanto Ettore, per non togliere il magnete, vi creava intorno una protezione impermeabile di stracci ricoperti di grasso. I sei cavalli poi furono attaccati all’automobile, con quelle lunghe corde che ci avevano così bene servito in tante occasioni, gli uomini balzarono in groppa alle cavalcature, uno di essi si mise a cavalcioni sul cofano del motore. Ettore prese il volante. La macchina sobbalzando ed oscillando s’immerse nella Bolshaja Rieka, fra gridi, scocchi di nagaika, nitriti, in mezzo ad una corona di spume e di spruzzi, assalita di fianco rabbiosamente dall’acqua con un gorgogliante rimescolio d’onde. All’altra riva rimettemmo rapidamente l’automobile in ordine di marcia. Quel ponte caduto ci aveva fatto perdere tre ore. Volevamo giungere prima di sera a Missowaja, sulla sponda orientale del Baikal, a 160 chilometri da Verkhne-Udinsk. I mujiks c’indicarono la strada. Rientrammo fra i boschi.

Vi è una sola regione in Europa che ricordi quel paesaggio: la Scozia. Le stesse colline silvestri, le stesse piante, un eguale aspetto pittoresco e selvaggio, e nelle lontananze quella bruma nordica che spegne dolcemente i colori in un velo di melanconia. Verso le cinque, dopo tredici ore di viaggio, finalmente, fra le aguzze e nere cime degli abeti vedemmo scintillare l’azzurra distesa del Baikal. Pareva più luminosa del cielo rischiarato.

In quel folgore di serenità potevamo a stento scorgere le montagne della riva opposta, lontane cinquanta chilometri. Al nord e al sud l’orizzonte d’acqua era illuminato. Il lago Baikal i russi lo chiamano “mare„. In verità esso è un lago per la larghezza [p. 271 modifica] ed è un mare per la lunghezza. Il Mare d’Azof è più piccolo di un terzo. Il nome di mare gli venne per tradizione. Per due secoli fu creduto uno strano mare d’acqua dolce, e per due secoli la conquista russa si fermò alla sua sponda. Poi il desiderio dell’altro mare, quello salato, la spinse avanti e la portò al Pacifico.

La strada ondulando costeggiava il lago; ci conduceva a momenti così vicino alla riva da farci udire il fruscio ritmico dell’onda sulla sabbia. Ad un tratto la foresta cessò. Non era stata tagliata: era bruciata. Sulle colline spogliate rimanevano dei tronchi carbonizzati, cadaveri d’alberi eretti in mezzo ad un funereo squallore. Il fuoco è il grande nemico delle foreste siberiane; nasce non si sa come, il vento lo propaga, e il vento lo respinge. Noi pensavamo al meraviglioso e terribile spettacolo di quell’incendio in riva al lago, a quella risplendente devastazione che divorava sei verste di boschi, e che doveva scorgersi alla notte, specchiata dalle acque e riflessa dal cielo, simile ad un’aurora boreale, fin dalle rive dell’Angara. Un’ora dopo entravamo a Missowaja.

Missowaja è poco più di un villaggio: un allineamento di casette di legno su strade larghissime sassose e fangose come letti di torrenti, dei marciapiedi di tavole, una piazza piena d’erba, una chiesa bianca dal tetto verde, una caserma. Ma questo villaggio assonnato e quasi abbandonato ha avuto un periodo di attività e d’importanza. Quando la ferrovia non era stata prolungata intorno alla riva sud del lago, Missowaja era il porto orientale dei grossi vapori che traversavano il Baikal. Io la ricordo sette anni or sono, piena di soldati e d’impiegati, con i suoi uffici doganali in gran movimento ad ogni arrivo di battello o di treno, la stazione ingombra di merci, di vagoni, di viaggiatori, il porto solcato da barche, da rimorchiatori, da giganteschi ferry-boats che contenevano quattro convogli nel loro ventre capace. E alla notte si accendevano i lumi rossi e bianchi dei suoi fari e del semaforo, il piccolo albergo vicino alla stazione si gremiva di gente che aspettava a mensa le partenze della notte. Ora non [p. 272 modifica] si riconosce più. Il molo, che è una delle più grandi dighe di legno che abbia mai veduto, cade in rovina, i fari sono sempre spenti, le navi non approdano più, il lago tutto intorno è deserto, i binari del porto si perdono nell’erba, nessuno più discende dai treni che passano, tutto decade, si arrugginisce, si distrugge, e pochi abitanti sono rimasti non si sa perchè.

A Kiakhta il nostro amico Sinitzin ci aveva dato una presentazione per lo Starosta — sarebbe come dire il sindaco — di Missowaja, suo corrispondente di affari, l’agente che organizzava il transito del thè attraverso il Baikal, transito che si compiva unicamente nell’inverno, con le slitte, sul lago gelato. Cercammo dunque dello Starosta, che ci accolse ospitalmente nella sua casa fatta di travi — un’isba un po’ più grande delle altre. Egli ci aspettava; aveva qualche cosa per noi, qualche cosa estremamente preziosa che era giunta da Irkutsk al nome di Borghese: della benzina, dell’olio e del grasso. Erano i viveri dell’automobile, ridotta quasi alla fame.

Il Pristaf, il capo della polizia, un uomo dalla pancia e dalla barba esuberanti, solenne nella sua uniforme venne a trovarci: osservò i nostri passaporti, ci fece sostenere un minuzioso interrogatorio diretto a conoscere le misteriose ragioni per le quali non viaggiavamo in treno come tutte le persone per bene, si versò un bicchiere del nostro thè, e rimase ad osservarci in silenzio. Venne il luogotenente dei gendarmi; c’interrogò cortesemente, si prese un bicchiere di thè, e ci tenne compagnia. Arrivò dopo di lui il direttore dei telegrafi, e poi dell’altra gente, in uniforme e senza; la camera si riempì; divenimmo il centro d’una piccola assemblea che aveva l’aria di voler sedere in permanenza.

La verità era che a Missowaja il nostro modo di locomozione era sembrato piuttosto rivoluzionario alle autorità. Al momento dell’arrivo, avanti alla casa dello Starosta, s’era adunata un po’ di folla intorno a noi, dei gendarmi erano accorsi, e li udimmo comandare a due o tre persone, dopo averle chiamate per nome: “Voi, andate immediatamente a casa!„ — Le persone [p. - modifica]Caratteristico incontro dell'automobile con una carovana di carri a bue sui confini della Mongolia. [p. 273 modifica] così interpellate si erano allontanate a capo chino. Si trattava evidentemente di esiliati politici con i quali i gendarmi temevano noi potessimo avere dei rapporti. Ma possedevamo un documento magico: la lettera del Direttore generale della Polizia dell’Impero. Essa produsse un effetto enorme. Tutti i sospetti si dissiparono per incanto, e conquistammo di colpo la più grande e immeritata considerazione delle autorità. Noi ne profittammo per domandare informazioni sulla strada che gira intorno al Baikal diretta a Irkutsk.

Ci sorrideva il progetto di raggiungere Irkutsk per quella via.

Nel programma della Pechino-Parigi si prevedeva la traversata del Baikal in battello. Era giusto: si passano così i fiumi, e il Baikal ha più l’aspetto d’un enorme corso d’acqua barrante la strada, che di un lago. Ma poiché esisteva una via sulla riva, noi volevamo tentarla. Le informazioni però erano pessime. Già a Verkhne-Udinsk ci avevano detto che i ponti sui fiumi principali erano crollati e gli altri stavano per crollare. A Missowaja ci ripeterono la stessa cosa. Ma tutti parlavano per “sentito dire„; nessuno aveva visto quella strada da dieci anni. Non volevamo abbandonare l’impresa senza averla tentata. Bisogna confessare che le traversate dell’Iro e della Bolshaja-Rieka ci avevano conferito una fiducia ed una confidenza eccessive in fatto di fiumi. Non credevamo che i piccoli corsi d’acqua al sud del Baikal fossero così importanti da non essere guadabili in qualche punto accessibile del loro corso. Decidemmo dunque di partire l’indomani per questa esplorazione idrografica. La macchina era in eccellenti condizioni — dalla partenza da Pechino non avevamo avuto bisogno che di cambiare una sola pneumatica alla ruota posteriore sinistra —, avevamo combustibile e lubrificante per mille chilometri, viveri per tre giorni; potevamo arrischiarci dunque anche in regioni completamente disabitate.

Dormimmo in terra, perchè lo Starosta se aveva una camera non aveva dei letti (il letto è un lusso in Siberia, dove nell’inverno si dorme sulla stufa calda e nell’estate sul pavimento) [p. 274 modifica] ed alla mattina dopo, 28 Giugno, dato un cordiale addio all’ospite partimmo.

Dovevamo ritornare anche troppo presto.


La mattinata era limpida e fredda: una bella mattinata del nostro febbraio. Il lago calmo, senza un’onda, senza un’increspatura, aveva una diafanità d’aria; ci pareva di respirarlo. Soltanto il Baikal ha nei giorni puri certe apparenze di eterea leggerezza, certe serenità pallide da cielo rovesciato, che alla vastità immensa aggiungono l’impressione d’una profondità infinita e luminosa. La riva coperta di boschi spingeva sull’acqua penisolette folte di vegetazione, scapigliate e verdi, e l’acqua le rifletteva, le faceva sembrare doppie e sospese. Stormi di grandi uccelli bianchi, simili ai gabbiani marini, roteavano sul lago, e ne rivelavano la superficie sfiorandola. La nostra ammirazione fu breve. La strada volle tutta la nostra attenzione, e dimenticammo presto l’incanto del paesaggio.

La strada non era soltanto abbandonata: era anche devastata. Valicavamo ripide colline che la furia delle acque durante il disgelo aveva tormentato, corroso, bucato. Salivamo e scendevamo dei veri gradini. Superavamo certi passi scoscesi facendo prendere alla macchina una veloce rincorsa. La macchina sbuffava, fremeva, balzava nelle asperità del suolo, si sollevava al primo urto delle ruote sulla salita come impennandosi. E talvolta, giunta quasi alla cima si fermava impotente, e doveva dare indietro per prendere un nuovo slancio più lungo e di maggior lena.

Altrove la strada era coperta d’erbe, assalita da boscaglie selvagge, ingombra d’alberi caduti, di rami secchi trascinati lì da qualche inondazione. In alcuni punti, dove si bordeggia la riva, le tempeste del Baikal hanno abbattuto le palizzate, hanno morso la terra, facendo franare parte della strada. Procedevamo cautamente sullo stretto ciglione, vedendo sotto di noi la calma trasparenza del lago.

Le antiche stazioni di posta erano disabitate, mezzo [p. 275 modifica] demolite, con i tetti caduti o cadenti, le imposte sfondate, le camere invase dall’erba. Parevano dimenticate dopo una guerra ed un saccheggio. Una devastazione indicibile ha percorso la vecchia strada maestra siberiana. Essa sta scomparendo dopo aver portato fino all’Oceano Pacifico la potenza russa. È già morta, ed ora si dissolve. Noi non vedevamo più che una apparenza di questa gran via della conquista. Comminavamo nel letto disseccato d’un fiume d’umanità e d’un fiume di ricchezza. Quella strada ha visto passare l’armata di Murawieff-Amursky che diede alla Russia nell’Oriente la più bella rivincita di Crimea, ha visto passare la deportazione e l’emigrazione, tutto il dolore e tutta l’audacia che hanno creato in cinquant’anni un popolo fra il lago e il mare, ha visto passare milioni d’oro dalle miniere di Blagowieshchensk e milioni d’argento dalle miniere di Nertshinsk sui convogli scortati dai cosacchi a cavallo. Su questa arteria che ha dato la vita ad un mondo, noi dovevamo prepararci ogni tanto il passaggio con gli attrezzi.

I parapetti dei ponti erano caduti; nessuno li aveva divelti, poiché stavano lì, rovesciati dal peso della neve o dalla violenza del vento. I ponti stessi si sarebbe detto che resistessero soltanto per abitudine. Noi avevamo troppa fiducia in quell’abitudine. Fummo guardinghi attraversando i primi, poi non vi pensammo più. Ci eravamo persuasi che fossero molto più forti di quanto non dimostrasse la loro apparenza. Qualcuno tremava e scricchiolava, ma senza conseguenze. Cercavamo di evitare le tavole rotte, e le altre si abbassavano, oscillavano, ma ci portavano. Una volta sola, sopra un piccolo ponte, sentimmo uno schianto; l’automobile ebbe un istante d’incertezza, un rallentamento repentino, ma balzò avanti sul terreno solido, mentre alcune tavole cadevano a rifascio, e sul piano del ponte appena attraversato si apriva una gran buca.

Dopo tre ore giungemmo al primo dei famosi ponti crollati, sul fiume Mishika. Il fiume era largo e veloce. Le alture, intorno, avevano ancora la sommità striata dal bianco delle nevi. [p. 276 modifica] Trovammo lungo la riva un viottolo che scendeva verso la foce. Lo seguimmo, ed arrivammo ad un piccolo gruppo d’isbe. Incontrammo un tagliaboschi seduto sull’erba, tutto intento ad infilarsi un enorme paio di stivali.

— Salute! — ci disse, senza sembrare affatto impressionato dell’arrivo di un’automobile.

— Salute. Dov’è il guado?

— Non c’è guado, piccolo padre. La Mishika è più alta di me.

— Come fai dunque a traversarla?

— Con quella barca.

Guardammo dalla parte che l’uomo c’indicava, e vedemmo, legata ad un cespuglio della riva, una specie di piroga che aveva il fondo pieno d’acqua.

— Non vi sono altre barche?

— Si, ce n’è un’altra, come quella.

— E il bestiame come passa?

— A nuoto. Guardate laggiù, adesso.

In direzione del lago, dove la corrente si calmava, un gruppo di cavalli nuotava verso la riva sinistra, lentamente, deviando un poco.

— Come si potrebbe fare a portare questo carro dall’altra parte del fiume? — chiedemmo al boscaiolo.

Egli rifletté qualche tempo, finendo di calzare i suoi stivali, si alzò e rispose:

— Si può riparare il ponte. Le travi di sostegno sono rimaste o sono ancora buone.

— Vi sono operai qui?

— Tutti siamo capaci a fare ponti. Vi sono uomini e legname in abbondanza.

— Quanto tempo ci vorrebbe?

— Otto giorni almeno, e sei uomini.

Ci ponemmo a discutere il progetto. Rifare un ponte, era seducente. Aspettare otto giorni, era sopportabile. Ma noi avremmo [p. 277 modifica] trovato un altro ponte crollato sul Pereemna, e un altro sull’Aososa, e un altro sul Vidrina, senza contare i minori. Non potevamo certo metterci a rifare tutti i ponti crollati dell’Impero russo. Il lavoro avrebbe esorbitato dal programma d’una corsa in automobile. Dovevamo dunque abbandonare l’idea di proseguire il viaggio intorno a Baikal? Ma no; non ancora. Un nuovo progetto si faceva strada. Su quei fiumi v’erano pur sempre dei ponti, e formidabili: quelli della ferrovia. Non si sarebbe potuto L’automobile per una via di Nischne-Udinsk. entrare nella ferrovia, correre lungo i binari, traversare i ponti, e poi ridiscendere sulla vecchia strada maestra al di là dei fiumi impassabili? Avevamo visto giusto una stazione vicina.... Perchè non provare?

Ripartimmo pieni di novella speranza. Arrivammo alla stazione, che avevamo intravvista fra gli alberi. Pareva deserta. Entrammo nella piccola sala d’aspetto tappezzata da grandi tabelle illustrate, che insegnavano il modo di prestare le prime cure ai feriti, rimaste lì dall’epoca della guerra quando tutte le stazioni [p. 278 modifica] erano piene di truppe. Nella sala non c’era nessuno, le porte erano chiuse. Dopo esserci sufficientemente istruiti sulle cure d’urgenza ai feriti, in attesa che comparisse qualcuno, cominciammo a chiamare. E apparve un gendarme.

Il gendarme ci richiese i passaporti, documenti perfettamente inutili quando si possiede una lettera del Direttore generale della Polizia dell’Impero. Fu la lettera che sottoponemmo al funzionario. Era un eccellente ragazzo, quel gorodovoi; impiegò molto tempo a leggere sillabando, ma finalmente capì. Capì e divenne nostro amico. Non immaginavamo allora che egli dovesse essere per noi di una utilità impagabile, pochi giorni dopo.

L’ottimo gendarme, conosciuto il nostro desiderio dei ponti, ci disse:

— Va bene. È affar mio. Ora telegrafo subito ai miei superiori, li informo delle vostre qualità e la cosa è fatta.

— Ma — obbiettò il Principe — le autorità ferroviarie....

— Cosa c’entrano le autorità ferroviarie col permesso di passare sulla ferrovia? La polizia ha la sorveglianza della linea, ai ponti vi sono le sentinelle, perchè i malintenzionati non li facciano saltare, e nessuno può andare sulla linea senza il nostro permesso.

Il capostazione, che sopravvenne e s’informò della questione, trovò la cosa molto più difficile.

— Per conto mio — ci disse — vi permetterei tutto, vi direi: Andate subito! — ma io non posso niente; la polizia non è competente; e l’autorità ferroviaria non può disporre di nulla contro ai regolamenti. Il Governo solo è il padrone. Dovete domandare il permesso al Governatore Generale della Siberia a Irkutsk.

Eravamo scoraggiati. Ma convenimmo di tentare. Avremmo dunque telegrafato al Governatore. Se una sua risposta favorevole non fosse giunta entro due giorni, ci saremmo rassegnati a traversare il lago. Presa questa decisione, ripartimmo per Missowaja. Fu un ritorno accasciante, e nessuno ne potrà dubitare. Vi è [p. 279 modifica] qualche cosa al mondo più greve d’una grande fatica: ripeterla. Superare delle difficoltà per tornare indietro è umiliante; senza contare che una strada cattiva e nota è doppiamente noiosa: le manca il valore della novità — a meno che non si consideri nuovo il fatto di trovare in discesa quel che era in salita e in salita quel che era in discesa. Il cielo era divenuto bianco ed eguale; si era annuvolato insensibilmente; si sarebbe detto che preparasse piano piano una buona nevicata. Spirava un vento freddo, e il lago era tornato a muovere le sue ondate, bianche come il cielo.

Il ponte sfondato ci procurò molto lavoro per riaccomodarlo alla meglio, ed una certa apprensione per attraversarlo: ma in fondo si lasciò superare abbastanza docilmente anche lui. E nelle prime ore del pomeriggio eravamo di nuovo a Missowaja, ospiti ancora dell’ottimo Starosta che ci ricevè cordialmente come la prima volta. Spedimmo subito il dispaccio al Governatore generale della Siberia chiedendo il permesso di percorrere la strada ferrata. E non ci rimase che aspettare la risposta.

Aspettare a Missowaja significa gustare le amarezze della deportazione. Avevamo, confessiamolo, poca fiducia nella rapidità di quella risposta. Il Governatore avrebbe dovuto consultare dei funzionari, a tempo e luogo, seguire una procedura, rimettere forse la questione a Pietroburgo; lassù il Ministero dell’Interno avrebbe passato la “pratica„ a quello delle Comunicazioni, nel quale un Consiglio superiore avrebbe incaricato un commissario di studiare la cosa e di fare un rapporto.... Ci pareva di esserci messi di fronte alla più grave delle difficoltà, ad un ostacolo immenso contro il quale erano inutili tutti i quaranta cavalli di forza dell’automobile e tutte le energie delle quali potevamo disporre, ad una specie di montagna immensa, grigia, molle, avanti alla quale non si può fare altro che aspettare, domandare soccorso al tempo e alla pazienza. Così ci appariva la Burocrazia. Avevamo torto. La Burocrazia russa ha compiuto per noi dei miracoli di celerità e d’indipendenza, durante tutto il nostro viaggio, da una dogana all’altra dell’Impero. [p. 280 modifica]

Aspettando, esploravamo Missowaja; passeggiavamo sulla sponda del lago raccogliendo fra la ghiaia variopinta le piccole onici e le agate, classificavamo i pesci morti gettati alla riva dalle onde, ci arrampicavamo sul molo abbandonato, ci fermavamo a guardare gli oggetti eterogenei esposti nelle piccole vetrine polverose di qualche bottega. Questa ultima occupazione ci condusse alla conoscenza del farmacista di Missowaja, un luogotenente farmacista oriundo delle provincie tedesche, il quale ci attirò fra i suoi barattoli e ci fece la più simpatica accoglienza. La farmacia divenne un nostro ritrovo favorito; vi passavamo lunghe ore sorbendo oscuri liquori d’invenzione e di fabbricazione locale, ed ascoltando le storie di caccia dello speziale, che aveva fucili, cartuccere e pelli d’orso, presso le damigiane dell’olio di ricino. Ci mostrò una folta pelliccia d’orsacchiotto ancora fresca, tesa ad asciugare sopra una tavola. Glie l’avevano portata allora. Un cacciatore aveva ucciso la bestia con una coltellata. V’erano degli orsi a tre verste dal paese, sulla collina. Perchè non organizzare una battuta? Ma si. E lì, in mezzo all’odore dei decotti, progettavamo la caccia.

Dalla farmacia passavamo all’ufficio telegrafico, a domandare notizie dei nostri compagni. Erano arrivati a Kiakhta quel giorno stesso in buone condizioni. Avevano percorso parte della strada seguendo le nostre traccie, ed all’Iro quei buoni mongoli, fedeli alla consegna, vedendoli arrivare erano andati loro stessi ad offrire i buoi, spiegando a furia di gesticolazioni il modo col quale noi eravamo passati all’altra riva. Nel pomeriggio di quel giorno stesso, 28 Giugno, le De Dion-Bouton e la Spyker erano ripartite per Verkhne-Udinsk. Il giorno dopo sapemmo che alle nove del mattino erano giunte alla Selenga presso Novi-Selenginsk — dove noi avevamo incontrato il primo battello a vapore — e, traversato il fiume, erano ripartite alle undici. Calcolammo che sarebbero giunte a Verkhne-Udinsk l’indomani a mattina, 29 Giugno, ed a Missowaja il primo od il due di Luglio.

A casa passavamo il tempo intorno al samovar, facendo una [p. 281 modifica] radicale cura di thè, intramezzata dalle prelibatezze della zakuska che è l’antipasto russo nel quale si mangia di tutto. Tornò il pristaf, tornarono i maggiorenti del paese a tenerci silenziosa compagnia, mentre sulla porta si fermava la rispettosa curiosità della folla. Anche l’automobile, che riposava nel cortile, buona vicina delle vecchie slitte che conoscevano i ghiacci del Baikal, riceveva le sue visite; era sempre circondata da mujik capelluti, stivalati di feltro, da cosacchi, da ragazzi; chiunque passava per In una radura della Taiga. la via entrava a contemplarla. Fuori del recinto v’erano sempre cavalli e carretti che aspettavano. Noi dovevamo reprimere l’impazienza della lunga attesa osservando, attraverso la piccola finestra ornata di piante fiorite, il cielo rasserenato. Spingevamo fra i rami lo sguardo fino alle isbe lungo la via sassosa e deserta che si asciugava al sole, guardavamo dietro ad esse lo sconfinato orizzonte scintillante del Baikal, e tornavamo a sederci brontolando:

— Perdiamo delle gran belle giornate, e quando ci rimetteremo in viaggio pioverà! [p. 282 modifica]

Alla sera del 28 un mercante ebreo si fece presentare a noi. Portava la lunga palandrana nera degli ebrei russi; salutò con ossequio e ci disse:

— Voi volete andare a Irkutsk?

— Si.... secondo!

— Avrei da proporvi un ottimo affare. Ho nel porto un vapore. Se volete vi sbarco in sette ore a Listwinitshnoje a metà prezzo della ferrovia.

— Quando parte il vostro vapore?

— Questa sera, se vi piace. Non ha carico da fare, e può ripartire subito. Vi aspetterei, al caso, anche fino a domani sera.

— Non possiamo decidere. Siamo in attesa di una risposta che può tardare....

— Basta, pensateci — e quando fu sulla soglia andandosene, si rivolse ripetendo: — Fino a domani sera. Salute!

Tutto il giorno era trascorso senza che arrivasse alcuna notizia da Irkutsk. Nella notte fummo svegliati da grandi colpi battuti dall’esterno sull’isba. In quelle case non è necessario bussare alla porta per farsi aprire; si prende un sasso e si batte sulle pareti di legno, tutto intorno, finché qualcuno sente. Era uno strepito d’inferno. Lo Starosta, insonnolito, andò alla porta, e tornò insieme ad un fattorino del telegrafo, il quale era munito d’una lanterna, e armato di fucile, di baionetta, di rivoltella. Porgeva un dispaccio.

— Perchè tutte queste armi? — gli chiese Borghese mentre firmava la ricevuta al lume della lanterna.

— Non si può uscire di notte senz’armi — rispose —. La regione è infestata da malviventi che assaltano, ammazzano, derubano da tutte le parti. Sono quelli di Sakhalin.

— Quelli di Sakhalin?

— Sì, i deportati di Sakhalin, che difesero l’isola contro i giapponesi. Furono ritirati, dopo la guerra, sul continente, e nella confusione evasero. Molti vennero liberati per premiarli d’avere combattuto. Si sono dispersi nell’Amur e nella Transbaikalia, hanno [p. 283 modifica] aperto delle prigioni e lasciato fuggire i criminali, entrano nelle banche, svaligiano, scompaiono. Non si vive più in pace.

Comprendevamo bene la ragione per la quale la Polizia ci aveva autorizzati a portare non una ma due rivoltelle; e diveniva logica la strana domanda che ci sentivamo rivolgere arrivando in qualche posto: “Siete stati mai assaliti?„ A Verkhne-Udinsk degli ufficiali della polizia, venuti all’albergo, ci avevano detto: “Al primo movimento sospetto di qualcuno vicino a voi, specialmente di sera, sparate, sparate subito, ma state attenti sopratutto ad una cosa....„ — Quale? — avevamo chiesto —. “A tirare giusto, a non sbagliare il colpo„ — e non pareva avessero menomamente il tono di scherzare.

Il telegramma veniva da Irkutsk, e diceva: “Il Governatore generale si trova a Krassnojarsk ove gli venne trasmessa la vostra domanda di attraversare i ponti ferroviari„. Ci riaddormentammo sul nostro pavimento borbottando qualche parola poco ortodossa contro la lentezza delle tramitazioni ufficiali in Siberia.

L’indomani, 29 Giugno, eravamo a colazione dal luogotenente farmacista, nella sua retrobottega, e parlavamo della famosa caccia all’orso, quando il campanello della porta sulla strada squillò. Il nostro ospite, che era andato ad aprire, riapparve poco dopo con fare misterioso, guardò in giro i suoi barattoli, come temesse di essere spiato, e a bassa voce ci disse:

— Ci sono i gendarmi! Due gendarmi che chiedono di voi.

— Di noi?

— Sì, di voi. Sanno che siete qui, e dicono che hanno assoluto bisogno di parlarvi. Mi dispiace....

Andammo a sentire cosa voleva la gendarmeria da noi. Nella farmacia due gorodovoi ci aspettavano. Fuori della vetrina qualche curioso cercava di guardar dentro, timidamente, senza averne l’aria. L’arrivo dei gendarmi non è sempre un segno di buon augurio in Siberia. Forse Missowaja già si aspettava l’arresto dei misteriosi viaggiatori che correvano il mondo sopra una locomotiva scappata. Borghese stava per metter mano alle carte e [p. 284 modifica] mostrare la famosa lettera; ma questa volta furono i gendarmi che ci porsero una carta, salutando con tutto il rispetto. Era il permesso, l’atteso, il sospirato permesso del Governatore generale della Siberia. Chi osava dir male della burocrazia? Noi ne eravamo entusiasti. Le prodigavamo le espressioni della più grande simpatia. In verità l’autorità russa si mostrava con noi di una cortesia, d’una premura, d’una ospitalità indimenticabili. Il permesso che ricevevamo era straordinario, unico.

Dunque, eravamo autorizzati a camminare con l’automobile sulla linea ferroviaria, ad attraversarne tutti i ponti, e ad arrivare così ad Irkutsk, se fosse stato necessario.

— Cosa dobbiamo fare? Quando possiamo partire? — abbiamo chiesto ai gendarmi.

— Potete partire quando volete. Il personale sulla linea è avvertito. Alle stazioni vi diranno quando la linea è libera.

Abbandonammo, naturalmente, gli orsi alla pace delle loro foreste, e trascorremmo il resto della giornata a prepararci a quella singolare traversata fra binari, scambi, segnali, da stazione a stazione.

Andavamo incontro alla più drammatica avventura di tutto il viaggio.