Le confessioni di un ottuagenario/Cap. II
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CAPITOLO SECONDO
Dove si sa finalmente chi io mi sia, s’incomincia a tratteggiare il mio temperamento, l’indole della contessa Pisana, e le abitudini dei signori Castellani di Fratta. Si dimostra di più, come le passioni degli uomini maturi si disegnino alla bella prima nei fanciulli, come io imparassi a compitare dal Piovano di Teglio, e la contessa Clara a sorridere dal signor Lucilio.
Il maggiore effetto, prodotto nei lettori dal Capitolo Primo, sarà stata la curiosità di saper finalmente chi fosse questo Carlino. Fu infatti un gran miracolo il mio od una giunteria solenne, di menarvi a zonzo per un intero capitolo della mia vita, parlandovi sempre di me, senza dir prima chi io mi sia. Ma bisognando pure dirvelo una volta o l’altra, sappiate adunque che io nacqui figliuolo ad una sorella della contessa di Fratta e perciò primo cugino delle contessine Clara e Pisana. Mia madre aveva fatto, com’io direi, un matrimonio di scappata coll’illustrissimo sig. Tedero Altoviti, gentiluomo di Torcello; cioè era fuggita con lui sopra una galera che andava in Levante, e a Corfù s’erano sposati. Ma parve che il gusto dei viaggi le passasse presto, perchè di lì a quattro mesi tornò senza marito, abbronzata dal sole di Smirne, e per di più incinta. Detto fatto, partorito che la ebbe mi mandò senza complimenti a Fratta in un canestro; e così divenni ospite della zia l’ottavo giorno dopo la mia nascita. Quanto gradito, ognuno lo può argomentare dal modo con cui ci capitava. Intanto mia madre, poveretta, espulsa da Venezia per istanza della famiglia, erasi acquartierata a Parma con un capitano svizzero; e di là tornata a Venezia per implorarvi la pietà di sua zia, la era morta allo spedale, senza che un cane andasse a chiedere di lei. Queste cose me le raccontava mattino, e raccontandole mi faceva piangere; ma io non seppi mai donde lo avesse saputo. Quanto a mio padre, dicevano che era morto a Smirne dopo fuggitagli la moglie; alcuni asserivano di crepacuore per questo abbandono; altri di disperazione per debiti; altri d’un’infiammazione buscata col bere troppo vino di Cipro. Peraltro la storia genuina non si era ancor potuta sapere, e correva anche una vaga voce nei levantini che prima di morire egli si fosse fatto turco. Turco o non turco lui, a Fratta avevano battezzato me sul dubbio che non lo avessero fatto a Venezia, e siccome la cura di sortirmi il nome fu lasciata al piovano, così egli m’impose il nome del santo di quel giorno che era appunto S. Carlo. Non aveva predilezione per nessun santo del Paradiso quel dabben prete, e nemmen voglia di rompersi il capo per comporre un nome di conio singolare, ed io gliene son grato perchè l’esperienza mi dimostrò in seguito che S. Carlo non val punto dammeno degli altri. La signora contessa aveva abbandonato solo da qualche mese la sua vita brillante di Venezia, quando le capitò il canestro; laonde figuratevi se ne vide con poca stizza il contenuto! Con tutte quelle noie e fastidi che l’aveva, aggiungersele anche questo di aver un bambino da dar a balia — e per giunta il bambino d’una sorella che avea disonorato sè e la famiglia; e impasticciato quel suo matrimonio con un mezzo galeotto di Torcello, che non ci si aveva ancor potuto veder dentro chiaro! La signora contessa, fin dalle prime occhiate, sentì adunque per me l’odio più sincero, ed io non tardai a provarne le conseguenze. Primo punto si giudicò inutile, per un serpentello uscito non si sapeva di dove, prender in casa od assoldare una balia. Perciò io fui consegnato alle cure della Provvidenza, e mi facevano girare da questa casa a quella, dove vi fossero mammelle da succhiare come il porcello di S. Antonio, o il figlio del Comune. Io sono fratello di latte di tutti gli uomini, di tutti i vitelli, di tutti i capretti che nacquero in quel torno nella giurisdizione del castello di Fratta; ed ebbi oltre a tutte le mamme, le capre e le giovenche, anche tutte le vecchie e i vecchi del circondario. Martino infatti mi raccontava che vedendomi qualche volta innaspato per la fame avea dovuto compormi un certo intingolo di acqua, burro, zucchero e farina, col quale m’ingozzava finchè il cibo giunto alla gola mi impedisse di piangere. E lo stesso mi succedeva in molte case, dove le mammelle tassate per nutrirmi in quella giornata erano già state munte da qualche affamato bamboccio di diciotto mesi. Vissuto così nei primi anni per un vero miracolo, il portinaio del castello, che era anche il registratore dell’orologio della Torre e l’armaiuolo del territorio, avea partecipato con Martino alla gloria di farmi fare i primi passi. Gli era un certo mastro Germano, un vecchio bulo della generazione passata, che aveva forse sull’anima parecchi omicidi, ma che avea certo trovato il modo di rappaciarsi con Domeneddio, perchè cantava e burlava da mattina a sera raccogliendo immondizie lungo le vie in una sua carriuola, per concimare un campetto che teneva in affitto dal padrone. E beveva all’osteria i suoi boccaletti di Ribola con una serenità veramente patriarcale. Pareva, a vederlo, la coscienza più tranquilla della parrocchia. E la memoria di quell’uomo mi condusse poi a conchiudere che la coscienza ognuno di noi se la aggiusta a proprio grado; cosicchè per molti sarebbe un sorbir un uovo quello che pare ad altri gravissimo malefizio. Mastro Germano ne aveva accoppati alquanti in tempo di sua gioventù in servizio del castellano di Venchieredo; ma di questa freddura egli pensava che sarebbe toccato al padrone sbrattarsela con Dio, e per sè, fatta la sua confessione pasquale, si sentiva innocente come l’acqua di fontana. Non erano cavilli coi quali tenesse quieti i rimorsi, ma una massima generale che gli avea armato l’anima di una triplice corazza contro ogni malinconia. Passato ch’egli era agli stipendi dei castellani di Fratta come capo-sgherri, avea preso su il costume di dir Rosari, ch’era il distintivo principale de’ suoi nuovi satelliti; e così avea finito di purgarsi del vecchio lievito. Allora poi che i settant’anni sonati gli aveano procacciato la giubilazione colla custodia del portone, e la sopraintendenza delle ore, credeva fermamente che la via da lui battuta fosse proprio quella che conduce al Papato. Fra Martino e lui si può credere che non erano sempre della stessa opinione. Il primo nato fatto per fare il Cappa Nera d’un patrizio di Rialto; il secondo educato a tutte le birberie ed i soprusi dei Zaffi d’allora; quello cameriere diplomatico d’un giurisdicente incipriato; questi lancia spezzata del più prepotente castellano della Bassa. E quando fra loro sorgeva qualche disputa, se la prendevano con me, e ciascuno voleva togliermi all’avversario vantando maggiori diritti sulla mia persona. Ma più spesso andavano d’accordo con tacita tolleranza, ed allora godevano in comune dei progressi che vedevano fare alle mie gambette, e accosciati un di qua e un di là sul ponte del castello, mi facevano trottolare dalle braccia dell’uno a quelle dell’altro. Quando la contessa, uscendo col Piovano di Teglie a qualche visita di Portogruaro o alla passeggiata del dopopranzo, li sorprendeva in questi esercizi di pedagogia, volgeva loro una per parte due occhiate da scomunica; e se io le dava tra le gambe non mancava mai di favorirmi fin d’allora quella tale squassatina nella coppa. Io poi strillando e tremando di spavento, mi rifugiava tra le braccia di Martino, e la contessa tirava oltre brontolando delle fanciullaggini di quei due vecchi matti, che per tali erano conosciuti i miei due mentori presso la gente di cucina. — Comunque la sia, per opera dei due vecchi matti io divenni saldo sulle gambe, e capace anche di scappar ben lontano fin sotto il tiglio della parrocchia, quando vedeva spuntar sotto l’androne la cuffietta bianca della signora zia. Mi attento di chiamarla zia, ora poveretta che la è morta da un mezzo secolo; poichè per allora, appena fui in grado di pronunciar parola, m’insegnarono per suo comando a chiamarla la signora contessa e così seguitai sempre dopo, rimanendo per tanto accordo dimenticata la nostra parentela. Fu in quel tempo che diventando io grandicello e non garbando alla contessa, vedermi sempre sul ponte, pensarono affidarmi a quel tal Fulgenzio sagrestano, del quale io feci sempre quel conto che voi sapete. Credeva la castellana disavvezzarmi così dalla sua Pisana immischiandomi coi fanciulletti del Santese; ma quell’istinto di contraddizione, che è anche nei fanciulli, contro coloro che comandano a rovescio di ragione, mi faceva anzi star attaccato più che mai alla mia estrosa damina. Gli è vero che andando poi innanzi, e trovandosi in due non abbastanza numerosi pei nostri giochi, tirammo entro a far lega tutta la ragazzaglia all’intorno, con grande scandalo delle cameriere, che per paura della padrona ci portavano via la Pisana non appena se ne accorgevano. Questa però non si lasciava sbigottire; e siccome tanto la Faustina che la Rosa avevano via il capo dietro i loro belli, non le mancava agio di tornar loro a scappare per rimescolarsi con noi. Cresciuta la banda, era cresciuta in lei di pari passo l’ambizioncella di tener cattedra; e siccome l’era una fanciulletta, come dissi, troppo svegliata, e le piaceva far la donnetta, cominciarono gli amoretti, le gelosie, le nozze, i divorzi, i rappaciamenti; cose tutte da raggazzi s’intende, ma che pur dinotavano la qualità della sua indole. Anche non voglio dire che ci fosse poi tutta questa innocenza che si crederebbe; e mi maraviglio come la si lasciasse, la contessina, ruzzolar nel fieno e accavallarsi con questo e con quello; sposandosi per burla e facendo le viste di dormir collo sposo, e mandando via in quelle dilicate circostanze tutti i testimoni importuni. Chi le aveva insegnato cotali pratiche? Io non vel saprei dire di certo; ma per me creda che la fosse nata colla scienza infusa sopra tali materie. Quello poi che dovea spaventare si era, ch’ella non restava mai due giorni coll’egual amante o collo stesso marito, ma li cambiava secondo la luna. E i fanciulli villanelli che vergognosi, e più per rispetto e soggezione che per altro, si prestavano a tali commedie, non se ne curavano punto. Ma io che ci aveva la mia idea fissa ne aveva una bile ed un crepacuore indicibile, quando mi vedevo scartato e mi toccava lasciarla soletta col figliuolino del castaldo o con quello dello speziale di Fossalta. Vedete che la non era neppur tanto sottile sulla scelta. Le bastava di cambiare: ed è poi anche vero che dei più sudici o malcreati la si stancava più presto che d’ogni altro. Ora che ci penso freddamente (son cose d’ottant’anni fa o poco meno) io dovea inorgoglirne; chè a me solo restava qualche volta il vanto di godere per tre giorni filati delle sue grazie, e se agli altri ragazzini il turno scadeva ogni mese, a me invece esso si ripeteva quasi tutte le settimane. Altrettanto girevole che la era e arrogante nel congedare, la si faceva poi negli inviti lusinghiera ed imperiosa. Bisognava ubbidirla ad ogni costo, ed amarla come imponeva lei; e ridere anche per soprammercato, perchè se le accadeva di trovar il broncio allo sposo, era anche sì trista da percoterlo. Io credo che mai corte d’Amore sia stata governata da una sola donna con tanta tirannia. — Se mi arresto a lungo sopra questi incidenti puerili, gli è perchè ci ho le mie ragioni; e prima di tutto perchè non mi sembrano tanto puerili come alla comune dei moralisti. Lasciando andare, che, come accennava in addietro, anche i ragazzi hanno la loro malizia, non mi pare per nessun conto dicevole e profittevole quella libertà fanciullesca, dalla quale sovente i sensi vengono stuzzicati prima dei sentimenti, con sommo pericolo dell’euritmia morale per tutta la vita. Quanti uomini e donne di gran senno ereditarono la vergognosa necessità del libertinaggio dalle abitudini dell’infanzia? — Parliamoci schietto. — La metafora di assomigliar l’uomo ad una pianta, che tenerella si torce e si raddrizza a talento del coltivatore, fu bastantemente adoperata, perchè possa usarla anch’io come una buona maniera di raffronto. Ma più che una tale metafora varrà a spiegar la mia idea l’apologo del cauterio, che aperto una volta non si può più rinchiudere: gli umori concorrono a quella parte, e convien lasciarli colare sotto pena di guastarne altrimenti tutto l’organismo. Data la sveglia ai sensi come si può negli anni dell’ignoranza, sopravverrà si la ragione a vergognarsene a lamentarne la sozza padronanza; ma come sopravviene la forza di debellarli e di rimetterli al loro posto di sudditi? — Lo sviluppo seguita l’avviamento che gli si diede nei principii, in onta all’elegia della ragione e al rossore che se ne prova; e così si formano quegli esseri mezzi, anzi doppi, nei quali la depravazione dei costumi è unita all’altezza dell’intelletto, e fino ad un certo segno anche all’altezza dei sentimenti. Saffo ed Aspasia appartengono alla Storia non alla Mitologia greca; e sono due tipi di quelle anime capaci di grandi passioni, non di grandi affetti, quali se ne formano tante al nostro tempo, per la sensuale licenza che toglie ai fanciulli di essere innocenti, prima ancora che possano diventare colpevoli. Si dirà che l’educazione cristiana distrugge poi i perniciosi effetti di quelle prime abitudini.— Ma lasciando che è tempo sprecato quello nel quale si distrugge, e invece si avrebbe potuto edificare, io credo che una tale educazione religiosa serva meglio a velare che ad estirpare il male. Tutti sanno quali stenti indurassero sant’Agostino e sant’Antonio per domare gli stimoli della carne e vincere le tentazioni; ora pochi pretenderanno esser santi come loro, eppur quanti ne trovate che pratichino le eguali astinenze per ottenerne gli uguali effetti? È segno che tutti si rassegnano a pigliar le cose come stanno; contenti di salvar la decenza colla furberia della gatta che copre di terra tutte le immondizie, come dice e consiglia l’Ariosto. Sì, sì, ve lo dico e ve lo confermo; giovani e vecchi, grandi e piccini, credenti o miscredenti, pochi vivono spesso che attendano e vogliano combattere le proprie passioni; e confinare i sensi nella sentina dell’anima, dove la natura civile ha segnato loro il posto. Nato il male, non è questo il secolo de’ cilicii e delle mortificazioni da sperarne il rimedio. Ma la educazione potrebbe far molto coltivando la ragione, la volontà e la forza, prima che i sensi prendano il predominio. Io non sono bigotto: e non predico pel puro bene delle anime. Predico pel bene di tutti e pel vantaggio della società; alla quale la sanità dei costumi è profittevole e necessaria, come la sanità degli umori al prosperare d’un corpo. La robustezza fisica, la costanza dei sentimenti, la chiarezza delle idee, e la forza dei sacrifizii sono suoi corollarii; e queste doti meravigliose, saldate per lunga consuetudine negli individui, e con essi portate ad operare nella sfera sociale, tutti conoscono come potrebbero ingerminare, proteggere, ed affrettare i migliori destini d’un’intera nazione. Invece i costumi sensuali, molli, scapestrati fanno che l’animo non possa mai affidarsi di non essere svagato da qualche altissimo intento per altre basse ed indegne necessità: il suo entusiasmo fittizio si svampa d’un tratto, o almeno diventa un’altalena di sforzi e di cadute, di fatiche e di vergogne, di lavoro e di noje. L’incancrenirsi di siffatti costumi sotto l’orpello luccicante della nostra civiltà, è la sola causa per cui la volontà è diventata aspirazione, i fatti, parole, le parole, chiacchiere; e la scienza si è fatta utilitaria, la concordia impossibile, la coscienza venale, la vita vegetativa, nojosa, abbominevole. In qual modo volete far durare uno, due, dieci, vent’anni in uno sforzo virtuoso, altissimo, nazionale, milioni d’uomini de’ quali neppur uno è capace di regger a quello sforzo tre mesi continui? Non è la concordia che manca, è la possibilità della concordia, la quale deriva da forza e da perseveranza. La concordia degli inetti sarebbe buona da farne un boccone, come fece di Venezia il caporalino d’Arcole. Ora, quando sarà bisogno che le forze si sieno quadruplicate, troverete in quella vece che la maggior parte si è infiacchita, sviata, capovolta: e invece d’aver fatto un passo innanzi avrà indietreggiato di due. — Vi parrà qui di esser ben lontani col discorso dalle piccole e ridicole lasciviette fanciullesche; ma guardate bene, e vedrete che le si avvicinano ed ingrandiscono, come dietro la lente d’un cannocchiale le macchie del sole.
Io che portai da natura un temperamento meno che tiepido, dovetti forse a questa circostanza di andar esente dal disordine, che deriva nel nostro stato morale dalla precocità dei sensi. Per quanto mi ricorda, le battaglie dell’anima si svegliarono in me prima di quelle della carne; ed appresi per fortuna ad amare prima che a desiderare. Ma il merito non fu mio; come non fu colpa della Pisana se la caparbietà, l’arroganza e l’ignara malizia infantile fomentarono la sua indole impetuosa, varia, irrequieta, e gli istinti precoci, veementi, infedeli. Dalla vita che le si lasciò menare essendo bimba e zittella, sorsero delle eroine; non mai delle donne avvedute e temperanti, non delle buone madri, non delle spose caste, nè delle amiche fide e pazienti: sorgono creature che oggi sacrificherebbero la vita ad una causa, per cui domani non darebbero un nastro. È presso a poco la scuola dove si temprano le momentanee e grandissime virtù, e i grandi e duraturi vizi delle ballerine, delle cantanti, delle attrici e delle avventuriere.
La Pisana mostrava fin da fanciulletta una rara intelligenza; ma questa la si veniva viziando fin d’allora fra le frivolezze e le vanità cui era lasciata in balia. La moglie del capitano Sandracca, la signora Veronica, che le faceva da maestra, durava una bella pazienza a raccogliere per un quarto d’ora il suo cervellino nella riga che le toccava compitare. Sicura d’apprender tutto con somma agevolezza, la ragazzina studiava il primo pezzo della lezione e lasciava il resto; ma così, anzichè fortificarsi la facilità dell’imparare, si generava in lei quella di dimenticare. Le lodi talvolta la spronavano a mostrarsene degna; ma poco stante qualche capriccio le facea porre da un altro canto questa breve ambizioncella. Avvezza a condursi colla sola regola del proprio talento, la voleva cambiare divertimenti ed occupazioni ogni tratto; non sapendo che questo è il vero mezzo per annojarsi di tutto, per non trovar più nè requie nè contento nella vita, e per finire col non sentirsi mai felici, appunto per volerlo esser troppo e in cento modi diversi. La scienza della felicità è l’arte della moderazione; ma la piccina non potea vedere tant’oltre, e sbizzarriva così, poichè gliene davano ampia facoltà. Superba di comandare e d’esser la prima in tutto, e di veder le cose ordinate a modo proprio, non è strano ch’ella cercasse accomodarle colla bugia, quando non le conosceva tali da indurre negli altri l’opinione altissima che la voleva far concepire di sè. Siccome poi tutti la adulavano e fingevano crederle, ella pigliava sul serio cotal dabbenaggine, e neppur si curava di render verisimili la sue fandonie. Sovente accadeva che per dar ragione di una ne dovesse inventar due; e quattro poi per portar avanti queste due, e così via di seguito fino all’infinito. Ma la era d’una fecondità e di una prontezza prodigiosa senza mai scomporsi, o mostrar timore che altri non credesse, o curarsi degl’impicci che le potessero venire dalla sua finzione. Credo la si avvezzasse tanto a far la comica, che a poco a poco non sapea nemmen discernere in se stessa il vero dall’immaginato. Io poi, costretto sovente a tenerle il sacco, lo teneva con tanto mal garbo che si scopriva tosto il marrone; ma mai ch’ella perciò mostrasse dispetto o rincrescimento: sembrava che fosse già disposta a non aspettarsi di meglio da me, e che si credesse tanto superiore da non doversi le sue asserzioni porre in dubbio per la contraria testimonianza d’un terzo. Gli è vero che i castighi toccavano tutti a me; e che almeno per questo lato la sua imperturbabilità non aveva nulla di meritorio. Mi toccavano, pur troppo, frequenti e salati, perchè li miei spassi giornalieri con lei erano una continua infrazione ai precetti della contessa, e senza sindacare di chi fosse il torto, la colpa punita prima era la mia, perchè la più patente e recidiva. D’altra parte nessuno avrebbe osato castigare la contessina all’infuori di sua madre; e costei per solito non se ne dava pensiero più che d’una figliuola altrui. Per la Pisana c’era la donna dei ragazzi, e fino che non l’avesse dieci anni, la vigilanza materna si dovea limitare a pagare due ducati il mese alla Faustina. Dai dieci anni ai venti il convento, e dai venti in su la Provvidenza: ecco la maniera d’educazione che secondo la contessa dovea bastare, per isdebitarla di ogni dovere verso la prole femminile. La Clara era uscita di convento ancor tenerella per far l’infermiera alla nonna; ma la stanza della nonna appunto le tenea vece di monastero, e la differenza non istava altro che nei nomi. Quella cara contessa, abbandonata dalla gioventù e dalle passioni che pur le avevano dato sentore di qualche cosa che non fosse proprio lei, erasi talmente riconcentrata in se stessa e nella cura della propria salute temporale ed eterna, che fuori del rosario e d’una buona digestione, non trovava altre occupazioni che le convenissero. Se agucchiava calze era per abitudine, o perchè nessuno aveva la mano tanto leggera da far maglie abbastanza floscie per la sua pelle delicata. In quanto alla sorveglianza casalinga, la ci batteva sodo, perchè serrando gli occhi indovinava che avrebbe fatto star troppo allegra la famiglia; e l’allegria negli altri non le piaceva, quando ne aveva così poca lei. L’invidia è il peccato o il castigo delle anime grette; e io temo che la mia cuticagna dovesse i suoi quotidiani martirii alla rabbia della contessa di sentirsi vecchia, e di veder me ancora fanciullo. Per questo anche ella odiava monsignor Orlando al pari di me. Quel viso di cuor contento, e quelle mani incrocicchiate sulla pancia come a trattenere un soverchio di beatitudine, le davano la stizza: e non la poteva capire come si potesse diventar vecchi così allegramente. Caspita! La ragion della differenza c’era. Monsignor Orlando avea collocato ogni sua compiacenza nei contentamenti della gola, la quale è una passione che può sfogarsi, e meglio forse, anche nell’età avanzata. Ed ella al contrario.... che cosa volete? Non voglio dire di più, ora che il suo scheletro sarà purificato da cinquant’anni di sepoltura.
Intanto si diventava grandicelli, e i temperamenti si profilavano meglio, e i capricci prendevano già figura di passioni, e la mente si destava a ragionarvi sopra. Già l’orizzonte de’ miei desideri s’era allargato, poichè la cucina, il cortile, la fienaja, il ponte e la piazza non mi tenevano più vece di universo. Io voleva vedere che cosa c’era più in là, e abbandonato a me stesso, ogni passo che arrischiava fuori della solita cerchia mi procurava quelle stesse gioie ch’ebbe a provare Colombo nella scoperta dell’America. La mattina mi alzava per tempissimo, e mentre la Faustina era occupata nei fatti di casa o giù nella camera della padrona, sguisciava via colla Pisana nell’orto in riva alla peschiera. Quelle erano le ore nostre più beate, nelle quali la bricconcella s’infastidiva meno, e ricompensava più amichevolmente la mia servitù. Sovente poi ho notato che il tempo mattutino è più propizio alla serenità dello spirito, e che in esso anche le nature più artifiziose ritrovano qualche sospiro di semplicità e di rettitudine. Col crescer del giorno le abitudini e i rispetti umani ci signoreggiano sempre più; e verso sera e a notte inoltrata si osservano le smorfie più grottesche, i discorsi più bugiardi, e gli assalti più irresistibili delle passioni. Forse sarà anche per questo, che le ore del giorno si vivono più comunemente all’aria aperta, nella quale gli uomini si sentono meno schiavi di se stessi e più obbedienti alle leggi universali di natura, che non sono mai pessime. Non dirò peraltro che la Pisana mutasse, anche standosi da sola con me, le sue maniere di moversi, di parlare. M’accorgevo benissimo che ella apprezzava più assai la mia ammirazione che l’amicizia o la confidenza; e che per quanto ristretto ed abituale, io non cessava di esser per le sue pantomime una specie di pubblico. Tuttavia doveva scrivere che me n’accorsi poi, non che me n’accorgeva allora. Allora io godeva di quei soavi intervalli, stimando anzi che quella Pisana così premurosa di essermi gradita, fosse la vera; e fossero effetto della trista compagnia i cambiamenti che succedevano nelle sue maniere durante la giornata. All’ora di messa (era monsignor Orlando che la celebrava nella cappella del castello) tutta la famiglia, padroni, servi, fattori, impiegati ed ospiti, si raccoglieva nei banchi destinati alla varia autorità delle persone. Il signor conte occupava solo nel coro un genuflessorio rimpetto alla cattedra del celebrante; e là riceveva con molta gravità i saluti di monsignore quando usciva o rientrava; nonchè le tre profumate d’incenso se la messa era cantata. Nelle benedizioni solenni, o negli Oremus il celebrante non si dimenticava mai di benedire e nominare con un profondo inchino l’eccellentissimo e potentissimo signor juspatrono e giurisdicente; e questi allora volgeva in tutta la chiesa un’occhiata a mezz’aria, che sembrava, quasi misurare l’eccelsa altezza che lo divideva dal gregge dei vassalli. Il cancelliere, il fattore, il capitano, il portinajo, e persino la cameriera e la cuoca, assorbivano quel tanto che veniva loro di quella occhiata; ed abbassavano altre simili occhiate sopra la gente che occupava nella cappella un posto inferiore al loro: il capitano in quelle circostanze s’arricciava anche i mustacchi, e poneva romorosamente la mano sull’elsa della spada. Finite le funzioni tutti restavano col capo basso in gran raccoglimento, ma volti verso l’altare del Rosario se la funzione era stata sull’altar maggiore, o viceversa; finchè il signor conte si alzava, si spartiva dinanzi un bel tratto d’aria con un gran segno di croce, e rimessi in tasca il libro d’orazione, il fazzoletto e la scatola, moveva grave e isterito verso la pila dell’acqua santa. Là un nuovo segno di croce; e poi usciva dalla chiesa dopo aver salutato l’altar maggiore d’un lieve cenno col capo. Gli venivano dietro la contessa colle figlie, i parenti e gli ospiti che s’inchinavano un tantino più; indi i servi e gli officiali che piegavano un ginocchio, e poi i contadini e la gente del paese che li piegavano tutti e due. Adesso che il Signore ci sembra molto molto lontano, può anche sembrare ugualmente distante da tutte le classi sociali; come il sole, che non riscalda certamente più la cima che la base di un campanile. Ma allora ch’esso era tenuto abitare più vicino d’assai, le maggiori o minori distanze erano facilmente osservabili; e un feudatario gli si stimava tanto più vicino di tutti gli altri, da potersi anco permettere verso di lui qualche maggior grado di confidenza.
Di solito, mezz’ora innanzi la messa quotidiana, io era cercato per servirla a monsignore, il quale intendeva darmi con ciò un segno della sua speciale deferenza, a scapito dei figliuoli di Fulgenzio. Ma io che non mi sentiva gran fatto riconoscente di questa distinzione, sapeva prender le mie misure in modo, che chi mi dava la caccia tornava il più delle volte colle mani vuote alla sacristia. Di consueto io mi rifugiava presso messer Germano, e non usciva dal suo buco se non quando era suonata l’ultima campanella. In quel frattempo avevano già messa la cotta a Noni o a Menichetto, i quali coi loro zoccoli di legno correvano sempre il pericolo di rompersi il naso sugli scalini nel cambiar di posto il messale; ed io entrava in chiesa sicuro di averla scapolata. Siccome poi queste mie arti furono in breve scoperte, così me ne toccarono molte ramanzine per parte di monsignore dinanzi al focolare di cucina; ma io mi scusava della mia ripugnanza dicendo che non sapevo il confiteor. E infatti per giustificare questa mia scusa, le poche volte che era beccato, aveva sempre l’accorgimento di tornar a capo una volta giunto al mea culpa, e per due, tre e quattro volte ripeteva una tale manovra, finchè monsignore impazientato lo finiva lui. Quei giorni nefasti aveva poi la compiacenza di star chiuso in un camerino sotto la colombaja, col libricciolo della messa, un bicchier d’acqua, ed un pane bigio fino a un’ora innanzi i vespri. Io mi divertiva immolando il libro nell’acqua e sminuzzolando il pane ai piccioni; e poi quando Gregorio, il cameriere di monsignore, veniva a sprigionarmi, correva da Martino presso il quale era certo di trovare il mio pranzo. Peraltro durante quelle ore avevo il dispetto di sentir la voce della Pisana che si trastullava cogli altri ragazzetti senza darsi melanconia pel mio carceramento; e allora mi prendeva una tal bile contro il confiteor, che lo faceva in pallottole e lo gettava giù nel cortile sopra quei birboncelli, assieme a quanti sassuoli e calcinacci potea raccattar nei canti e raspar dalle muraglie colle unghie. Talvolta anche squassava con quanta forza poteva la porta, e le dava addosso coi gomiti, coi piedi e colla testa; e dopo una mezz’ora di tali strepiti il fattore non mancava mai di venire a ricompensarmene con quattro sonate di staffile. E questa dose si replicava la sera, quando scoprivano ch’io aveva tutto fradicio e guasto il mio libricciuolo.
Nei giorni comuni, dopo la messa ognuno andava per le sue incombenze fino all’ora del desinare; io poi aveva il mio bel che fare nel difendermi contro il famiglio del Piovano che veniva a cercarmi per le lezioni. Corri di qua, corri di là, io davanti ed egli dietro, finiva coll’esser mezzo morto di stizza e di fatica; e allora doveva fare con esso lui di gran trotto il miglio che corre tra Fratta e Teglio per guadagnar il tempo perduto. Giunto nella canonica mi perdeva tutti i giorni a passar in rassegna certe vedute di Udine che adornavano la parete dell’andito, e poi a gran fatica mi confinavano in uno studiolo, ove dopo l’esperienza dei primi giorni, tutto soleva essere rigorosamente sotto chiave a cagione delle mie petulanze. Peraltro mi divertiva nel disegnar sopra i muri la faccia del Piovano, con due boschi di sopracciglia ed un certo cappellone in testa, che non lasciavano alcun dubbio sulle intenzioni satiriche del pittore. Spesso, davanti queste mie esercitazioni artistiche, udiva per l’andito il passo prudente della Maria, la massaia del Piovano, che veniva a vedere dei fatti miei alla toppa della chiave. Allora io balzava allo scrittoio e coi gomiti ben distesi e col capo sulla carta arrotondava certi A e certi O che empivano mezza facciata, e che coll’aggiunta di altre quattro o cinque letteraccie più arabe ancora, fornivano ad esuberanza il mio compito giornaliero. Oppure anche mi metteva a gridare bi a ba, bi e be, bi o bo, con una voce così indemoniata, che la povera donna scappava quasi sorda in cucina. Alle dieci e mezzo entrava il Piovano, il quale mi dava alquante zaffate per gli sconci che vedeva sul muro, altre ne aggiungeva a conto della infame scrittura, e me ne amministrava poi una terza dose per la pochissima attenzione prestata al suo indice nel leggere l’Abbecedario. Mi sovviene che mi accadeva sovente di perder gli occhi in certi librini rossi che stavano dietro i cristalli d’uno scaffale, ed allora invece di compitar la linea seguente saltava sempre alla riga del V. — Vi a va, vi e ve, vi o vo.... A questo punto era interrotto dalla terza correzione accennata in addietro, e non ho mai potuto sapere la ragione della preferenza che dimostrava la mia memoria per la lettera V, se non era forse per esser quella lettera una delle ultime. Gli sbadigli, le tirate di pelle o di naso, e i versacci che io faceva durante quelle lezioni, mi son sempre restate in mente come un segno della mia mala creanza, e dell’esemplare pazienza del Piovano. S’io dovessi insegnar a leggere ad un porcellino come allora ero io, son sicuro che nelle due prime lezioni gli caverei le due orecchie. Io invece non ebbi altro incomodo, che quello di riportarle a casa alcun poco allungate. Ma questo incomodo che continuò e s’accrebbe per quattro anni, dai sei ai dieci, mi procurò peraltro il vantaggio di poter leggere tutti i caratteri stampati, e di scrivere anche abbastanza correntemente, purchè non ci entrassero le maiuscole. Lo sparagno che feci poi in tutta la mia vita di punti e di virgole, lo devo tutto all’istruzione andante e liberale dell’ottimo Piovano. Anche ora tirando giù questa mia storia ho dovuto raccomandarmi per la punteggiatura ad un mio amico, scrittore della Pretura, altrimenti ella sarebbe da capo a fondo un solo periodo, e non sarebbe voce di predicatore capace di rilevarlo.
Quando tornava a Fratta e non mi perdeva dietro i fossi in caccia di sposi o di salamandre, giungeva proprio sul punto che la famiglia si metteva a tavola. Il tinello era diviso dalla cucina per un corritojo lungo ed oscuro che saliva un pajo di braccia: tantochè il locale era abbastanza alto per accorgersi dalle finestre che era giorno nelle ore di sole. Era uno stanzone vasto e quadrato, per una buona metà occupato da una tavola coperta d’un tappeto verde e grande come due bigliardi. Tra due cannoniere, verso i fossati del castello, un gran camino; rimpetto, fra due finestre che davano sul cortile, una credenza di noce a ribalta; nei quattro canti ci erano quattro tavolini e sopra le candele preparate pel gioco della sera. Le scranne pesavano certo cinquanta libbre l’una, ed erano tutte uguali, larghe di sedere, a piede e schienale diritto, coperte di marrocchino nero ed imbottite di chiodi: almeno così si avrebbe giudicato dalla morbidezza. La mensa s’imbandiva al solito per dodici coperte: quattro per parte nei due lati più lunghi, tre nel lato vicino al corritojo, pel fattore, il curato, ed il cappellano: ed un lato libero pel signor conte. La sua signora consorte e la contessa Clara stavano alla sua diritta, e Monsignore col cancelliere a sinistra; i posti fra questi e l’altro lato della tavola erano occupati dal capitano colla moglie, e dagli ospiti. Se non v’erano ospiti i loro posti restavano disoccupati, e se crescevano i due, il capitano e la moglie cercavano rifugio negli intervalli fra il perito il fattore e il cappellano. Costui del resto, come dissi, sfuggiva quasi sempre all’onore della mensa padronale: laonde la sua posata il più delle volte tornava netta in cucina. Agostino, il credenziere, recava le portate vicino al signor conte, e questi dal suo seggiolone (egli solo aveva una specie di trono che gli uguagliava quasi le ginocchia al livello della tavola) gli accennava di tagliare. Quando avea finito, il signor conte si pigliava giù il miglior boccone, e poi con un altro cenno passava il piatto alla moglie: ma mentre accennava colla destra, era già inteso a mangiare colla sinistra. Il cocchiere e Gregorio ajutavano il servizio, ma questi ajutava ben poco, perchè troppo lo occupava il versar sempre da bere a Monsignore, o lo slacciargli il tovagliolo, o dargli delle gran tambussate nella schiena quando un boccone minacciava di strangolarlo. La Pisana, s’intende, non pranzava alla tavola, chè l’era onore serbato alle ragazze dopo gli anni del monastero. Ella mangiava in una dispensa fra il tinello e la cucina colle cameriere. Quanto a me rosicchiava gli ossi in cucina coi cani, coi gatti e con Martino. Nessuno si era mai sognato di dirmi dove fosse il mio posto e quale la mia posata; sicchè il posto lo trovava dovunque, e invece di posata adoperavo le dita. Mi ricredo. Per mangiar la minestra la cuoca mi dava una certa mestola, che ebbe il vanto di allargarmi la bocca due buone dita. Ma dicono che il sorriso ne piglia miglior espressione, e perchè io ebbi sempre denti candidi e sani, non voglio lagnarmene. Siccome io e Martino non entravamo in conto nè fra la gente che desinava in tinello, nè fra la servitù a cui la contessa veniva a far la parte dopo tavola, così noi avevamo il privilegio di raspar le pignatte, le padelle ed i pentoli; e di ciò si costituiva il nostro pranzo. In cucina, appeso ad un gancio stava sempre un cesto pieno di polenta, e quando le raspature non mi saziavano, bastava che alzassi un braccio verso la polenta. Martino m’intendeva: me ne faceva abbrustolire una fetta; e addio malanni! — Il cavallante e il sagrestano, che avevano moglie e figliuoli, non mangiavano di consueto presso i padroni; e così pure Mastro Germano il quale faceva cucina di per sè; e si condiva certe pietanze tutte sue, che io non ho mai capito come palato umano le potesse sopportare. Non era anche raro il caso ch’egli acchiappasse uno di quei moltissimi gatti che popolavano la cucina dei conti, e ne faceva galloria in umido e arrosto per una settimana. Perciò, benchè egli m’invitasse sovente a pranzo, io mi guardava bene di accettare. Egli sosteneva che il gatto ha una carne squisita e saporitissima, e che l’è ottimo rimedio contro molte malattie: ma queste cose non le diceva mai in presenza di Martino, onde ho paura ch’egli volesse infinocchiarmi.
Dopo pranzo, e prima che la contessa capitasse in cucina, io sgambettava fuori incontro alla ragazzaglia che accorreva a quell’ora sul piazzale del castello: e molti di loro mi seguivano poi nel cortile, dove la Pisana sopraggiungeva poco dopo, a farvi quelle prodezze di civetterie che ho dette poco fa. Mi domanderete perchè io stesso andassi a chiamare i miei rivali che poscia mi davano tanta noja. Ma la contessina era tanto sfacciatella che ella stessa andava a chiamarli se non v’era stato io; e questo m’induceva a fingere di fare a mio grado quello che, con doppio smacco, sarei stato costretto a sopportare. La tranquilla digestione della contessa, e le faccende che occupavano alle donne tutto il dopopranzo, ci lasciavano liberi per lungo tempo ai nostri trastulli, e se dapprincipio la vecchia nonna cercava conto in quelle ore della nipotina, costei si diportava nella sua stanza con tal cattiveria, che la contessa finiva a congedarla come un pericoloso disturbo del suo chilo. Stavamo dunque in piena libertà di correre, di strillare, di accapigliarsi nell’orto, nei cortili, e nei porticati. Soltanto una terrazza, dove guardavano le finestre del conte e di monsignore, ci era vietata dall’incoruttibile custodia di Gregorio. Una volta che alcuni de’ più temerarii si gabbarono del divieto, il cameriere sbucò fuori dalla porticella d’una scala secondaria col manico della scopa, e ne menò tante addosso di quei sussurroni, che tutti ebbero capito non esserci modo da scherzare da quella banda. Il conte diceva in quelle ore di occuparsi degli affari di cancelleria: ma se ciò era, egli godeva d’una vista affatto straordinaria, poichè le sue finestre stavano sempre serrate fino alle sei. In quanto a monsignore egli dormiva e diceva di dormire; ma avesse anche voluto negarlo, russava tanto forte, che tutti gli infiniti angoli del castello non gli avrebbero creduto. Dalle sei alle sei e mezzo, quando il tempo lo consentiva, la contessa usciva pel passeggio; e il conte e monsignore le andavano di consueto incontro una mezz’ora dopo. Non dovevano temere di non incontrarla, perchè ella andava invariabilmente tutte le sere coll’egual passo fino alle prime case di Fossalta, e poi coll’egual passo tornava indietro impiegando in questo passeggio sessantacinque minuti, a meno d’incontri impreveduti. Non fu bisogno ch’io dicessi che insieme al conte usciva anche il cancelliere; questi camminava un passo dietro ai padroni, divertendosi col piede a gettar nel fosso i sassolini del sentiero, quando non era onorato di nessuna domanda. Ma più spesso il conte gli chiedeva delle faccende del mattino; ed egli lo ragguagliava degli esami che aveva fatto, e delle cause sulle quali avea stesa l’informazione per S. Eccellenza. Queste informazioni erano tante sentenze alle quali S. Eccellenza si compiaceva di apporre la firma; adoperando a ciò un doppio pajo di occhiali, e tutti i sudori della sua sapienza calligrafica. Mentre i due magistrati secolari s’intrattenevano delle faccende mondane, monsignor Orlando andava innanzi leccandosi colla lingua i denti e accarezzandosi la guancia. Le due compagnie s’incontravano ad un passatojo ch’era fra i due paesi sulla strada vecchia; il cancelliere si fermava col cappello abbassato fino a terra, monsignore faceva atto colla mano alzata in segno di saluto, ed il conte s’avanzava fino a mezzo il passatojo per porger la mano alla contessa. Dopo questa passava la contessina Clara, quando la c’era, poichè sovente rimaneva presso la nonna; e in coda o il piovano, il cappellano, o il signor Andreini, o la Rosa, o qualunque altro fosse della brigata. Tornavano così di conserva verso il castello, camminando a due a due, o più spesso ad uno ad uno per la nefandità della strada. E quando vi giungevano Agostino correva ad accendere nel tinello una gran lucerna d’argento sulla quale era inalberata, in luogo di manico, l’arma di famiglia; un cignale fra due alberi colla corona di conte a ridosso. Il cignale era più grande degli alberi e la corona più grande di tutto. Benchè il conte annettesse una grande importanza a quel lavoro, si conosceva a prima vista che Benvenuto Cellini non vi si era immischiato. In quel frattempo la cuoca metteva al fuoco una gran cocoma per farvi il caffè; e la comitiva lo attendeva in tinello continuando la conversazione del passeggio. Ma il dopopranzo era distribuito a questo modo solo durante i bei mesi, e quando il tempo era più che asciutto. Del resto tanto il signor conte che monsignore non uscivano dalle loro stanze che per impancarsi al fuoco di cucina: e là si congregava la famiglia a far loro corteggio fino all’ora del gioco. Il caffè in quelle circostanze essi lo prendevano al focolare, e poi movevano insieme verso il tinello dove i tavolini eran già preparati, e li seguiva camminando sulla punta de’ piedi tutta la compagnia. La contessa sola era là ad attenderli, perchè la contessina Clara non scendeva che un’ora più tardi dopo aver coricato la nonna. Qualche volta peraltro la moglie del capitano avea la fortuna di prender il caffè insieme colla contessa, e quello era un segno che le cose della giornata non avrebbero potuto camminar meglio. La signora Veronica si mostrava molto altiera di quell’onore, guardava d’alto in basso suo marito se egli veniva dinanzi a lei come soleva ad arricciarsi i baffi prima di sedere. Quando la conversazione non era che di famiglia, due tavolini di tresette bastavano; ma se vi era visite od ospiti, cosa che non mancava mai di succedere tutte le sere d’autunno, e nel resto dell’anno la Domenica, allora si invadeva la gran tavola col mercante in fiera, col sette e mezzo, o colla tombola. I puritani come monsignore e il cancelliere, che non amavano i giochi di sorte, si ritraevano da un canto col tresette in tavola; e il capitano, che diceva di aver sempre contraria la fortuna, andava in cucina a giocar all’oca col cavallante o con Fulgenzio. In fondo in fondo io credo che la posta di due soldi quale la si costumava in tinello fosse troppo arrischiata per lui; e si trovava meglio col bezzo e col bezzo e mezzo di cucina. Io intanto, dopo aver giocato colla Pisana fino al cader del sole, quando la Faustina la prendeva per metterla a letto, mi incantucciava sotto la cappa a farmi contar fiabe da Martino o da Marchetto. E così si tirava innanzi finchè la testa mi ciondolava sul petto, e allora Martino mi prendeva pel braccio, e passando dal cortile per non attraversar il tinello, mi conduceva su per le scale fino alla porta di Faustina. Lì io entrava tentennando e sfregolandomi gli occhi; e sbottonate le brache, con una squassata era bell’e svestito e pronto a coricarmi, perchè nè scarpe, nè panciotto, nè calze, nè mutande, nè pezzuola da collo mi imbrogliarono mai fino all’età di dieci anni; e una giacchetta e un pajo di brache, di quel mezzolano che tessevano in casa per la servitù componevano insieme ad una corda per legar la coda ogni mio arredo personale. Aveva di più alcune camiicie, le quali colla loro sovrabbondanza pagavano ogn’altro difetto, poichè era monsignore che mi passava le sue quand’erano sdrucite; e nessuno si prendeva la briga di racconciarmele se non accorciando d’un poco la campana e le maniche. Quanto alla testa, un inverno che gelava molto, credo fossi allora sui sett’anni, Mastro Germano me l’avea guernita con un berrettone di pelo portato da lui già fin da quando era bulo a Ramuscello. Quel berrettone mi sarebbe calato fino al mento, se il Piovano non mi avesse già prima d’allora preparato le orecchie a impedirgli di cedere alla forza di gravità. Per di dietro per altro, ove non aveva orecchie, esso mi cascava fino sul collo, e Martino diceva che con quel coso in capo io gli aveva viso d’una gatta arruffata. Ma egli lo diceva forse per far dispetto a Germano, e io son grato a questi e al suo berrettone; mercè del quale andai salvo da molte infreddature. Quanti anni lo portassi io non ve lo potrei dire con precisione. Certo era già fatto giovane che lo aveva ancora, ed anzi lo sparagnava pei giorni di festa, perchè la testa essendomisi ingrossata, pareva a me che mi si addicesse mirabilmente alla fisonomia, e che mi desse un certo estro da far paura. Un giorno che era alla sagra di Ravignano oltre Tagliamento, e che si ballava in piazza sul tavolato, io mi presi lo spasso di farmi beffe di alcune Cernide dei Savorgnani, che venivano a tutelare il buon ordine della fiera collo schioppo in una mano, e con un tovagliolo nell’altra pieno di ova, burro e salame, per fare, come si dice, la frittata rognosa. Quelle Cernide coi loro sandali di legno, colle giubbe di mezzalano spelato, e con certi musi che odoravano di minchioneria lontano un miglio, mi facevano crepare dalle grandi risate; onde tra me e qualche altro bravaccio di Teglio e dei dintorni si cominciò a far loro le corna, e a domandare se erano buoni a rivoltar le frittate, e se intendevano cuocerle colle scarpe. Allora uno di loro ci rispose che andassimo a ballare che s’avrebbe fatto meglio; ed io facendomi innanzi gli soggiunsi che avrei ballato pel primo con lui. Come difatto feci, e presolo per le braccia, così come stava collo schioppo ancora in ispalla, lo menai attorno nella più curiosa furlana che si fosse mai veduta. Ma siccome egli avea posto a terra le sue provvisioni, così avvenne che nel girare andammo addosso alle uova, e ne fu fatta la frittata prima del tempo. E allora quei valorosi soldati, che non si erano mossi al vedere schernito un proprio collega, si commossero d’un subito alla rovina delle ova e mostrarono di volermi venir addosso colla bajonetta. Ma io tratto di tasca le pistole e ributtato verso loro stramazzone il mio ballerino, mi posi a strillare che chi primo si moveva era morto. E in un attimo tutti i miei compagni mi stavano intorno per difendermi, quali col coltello sguainato, e quali con pistole uguali a quelle che aveva io. Vi fu un istante di sospensione, e poi nacque un parapiglia, che non so come, ci trovammo tutti uno addosso dell’altro senza per altro far fuoco nè adoperar delle armi altro che i manichi, perchè in verità la quistione non ne valeva la pena. E batti di qui e pesta di là quelle povere Cernide erano molto malconcie e le loro ova del pari, quando capitò il Capo di Cento col resto della masnada e ci tolse in mezzo costringendoci colle minaccie a cessare da quel tafferuglio: se no diceva avrebbe comandato fuoco senza riguardo nè per amici nè per nemici. Si chiamarono allora testimoni di chi fosse la colpa; i quali come si usava sempre diedero ragione a noi e torto alle Cernide, e così ci lasciarono andare senz’altro disturbo. Ma mentre io mi ritirava facendo il gradasso fra i miei compagni di quel trionfo, quel cotale che avea ballato la furlana mi gridò dietro che guardassi bene ballando di non perdere la mia cresta di pelo, chè egli ne avrebbe fatto un trofeo da metter in capo al suo asino pel secondo giorno della fiera. Io gli risposi con un gesto da piazza che se lo prendesse, e che tra l’asino e lui avrebbero fatto sempre due, ma che mai non avrebbero toccato la cresta. Lì il Capo di Cento ci fece troncar le parole, e noi andammo a ballare colle più belle della sagra, mentre le Cernide accendevano i fuochi per far le frittate, cogli ovi che erano rimasti. Quella sera io mi fermai sulla festa più forse che non avea contato nel venirci, per vedere cos’era buono a fare quel mascalzone che m’avea sfidato; e così pure alcuni de’ miei compagni. E poi ad un’ora di notte che faceva uno scuro d’inferno prendemmo verso la barca di Mendrisio dove sulla sponda opposta mi aspettava la carretta del castaldo. La strada era profonda e tortuosa fra campagne piene di alberi, e in qualche luogo tanto stretta da potervi a stento camminar di fronte quattro persone: siccome poi ognuno di noi per le abbondanti tracannate di ribolla voleva il posto per quattro, così s’era sempre lì lì per traboccare nel fosso qualcuno. Ridevamo insieme cantando anche come si poteva meglio col vino che ci gorgogliava quasi in gola, quando ad un gomito della via io vedo come una figura nera che scavalca il fosso di slancio, e mi capita addosso a modo d’una bomba. Io mi ritraggo d’un passo quando quella figura mi dice «Ah! sei tu!» e mi dà una buona insaccata nelle spalle e mi manda a ruzzolar nel pantano come un sacco di carne porcina. Io poi mi levo puntandomi coi gomiti sul terreno, e veggo quella figura che rifà il suo salto e scompare via nel bujo della campagna. Allora solo m’accorsi che avea perduto il berretto e mi chinava sulla strada per cercarlo; e bisogna dire che, o dalla campagna si vedesse abbastanza chiaro sulla strada, o che i miei occhi fossero che facevano il bujo, perchè quello del salto mi vide curvarmi a cercare e così dalla lunga mi gridò che mi mettessi pure il cuore in pace perchè la mia cresta se l’aveva portata via lui, per farne bello l’asino al giorno dopo. Udendo queste parole mi risovvenne della Cernida, e a’ miei compagni tornò l’anima nel corpo perchè a loro occhi quell’apparimento aveva tutto l’aspetto d’una diavoleria. Conosciuto poi che cos’era, volevano ad ogni costo trarne vendetta, ma il fosso era largo, e nessuno si fidò tanto delle proprie gambe da tentar il salto, segno che avevamo ancora un briciolo di giudizio chiaro. Perciò tirammo innanzi promettendoci di ricattarsi al domani; e così fu infatti che ci fermammo tutti a Mendrisio la notte, e il giorno dopo tornammo in fiera facendo un esame di tutte le Cernide e di tutti gli asini nei quali ci abbattevamo. E quando ci abbattemmo in quello che aveva fra le orecchie incollato sulla fronte colla pece il mio berrettone di pelo, gliene demmo tante e tante al suo padrone che lo si dovette pur caricare sul suo asino per mandarlo a casa; il mio berrettone siccome non era più da portarsi glielo impegolammo ben bene sul muso a lui dicendogli che glielo lasciavamo per memoria. Così perdetti il regalo di Mastro Germano che m’avea fatto sì buon servizio per tanti anni; e da questa faccenda nacque poi una querela criminale che mi diede molto a che fare come dirò a suo luogo. Intanto vi prego a non perdermi la stima, se mi troverete in un tratto della mia vita far baldoria e lega con contadini e bettolanti. Vi prometto che mi vedrete con comodo uomo d’importanza, e frattanto ritorno fanciullo per narrare le cose con ordine.
V’ho detto che io costumava andare a letto mentre ancora si giocava in tinello; ma il gioco non tirava innanzi gran fatto, perchè alle otto e mezza in punto lo si lasciava per intonare il Rosario; alle nove si mettevano a cena; e alle dieci il signor conte dava il segnale della levata ordinando ad Agostino di accendergli il lume. La comitiva allora sfilava dalla porta che metteva allo scalone opposta a quella che conduceva in cucina. Dico scalone per moda di dire, chè l’era una scala come tutte le altre; sul primo pianerottolo della quale il signor conte usava sempre fermarsi e tastare il muro, per trame il pronostico della giornata ventura. Se il muro era umido il signor conte diceva: domani tempo cattivo; e il Cancelliere dietro a lui ripeteva: tempo cattivo; e tutti soggiungevano con faccia contrita: cattivo tempo! — Ma se invece lo trovava asciutto il conte sclamava; Avremo una bella giornata domani, e il Cancelliere ancor lui — una bellissima giornata! e tutti giù giù fino all’ultimo scalino: — una bellissima giornata. — Durante questa cerimonia la processione si fermava lungo la scala, con grandi spasimi della contessa che temeva di prendere una sciatica fra tutte quelle correnti d’aria. Monsignore invece aveva tempo di appiccare il primo sonno, e toccava a Gregorio sostenerlo e scuoterlo, se no tutte le sere egli sarebbe rotolato sulla signora Veronica che gli veniva dietro. Giunta che era tutta la schiera nella sala, succedeva la funzione della felice notte, dopo la quale si sparpagliavano in cerca delle rispettive stanze; e ve n’erano di tanto lontane, da aversi comodamente il tempo di recitare tre Pater tre Ave e tre Gloria prima di arrivarvi. Così almeno diceva Martino, cui dopo la sua giubilazione era assegnato per alloggio un camerino al secondo piano contiguo alla torre e vicino alla stanza destinata pei frati quando ne capitava qualcheduno alla cerca. Il signor conte occupava colla moglie la camera che da tempo immemorabile avevano abitato tutti i capi della nobile famiglia castellana di Fratta. Una camera grande ed altissima, con un terrazzo che d’inverno metteva i brividi solo a specchiarvisi dentro, e col soffitto di travi alla cappuccina, dipinte d’arabeschi gialli e turchini. Terrazzo parete e soffitto eran tutti coperti da cignali, da alberi e da corone; sicchè non si poteva buttar intorno un’occhiata senza incontrare un orecchio di porco, una foglia di albero, o una punta di corona. Il signor conte e la signora contessa nel loro talamo sconfinato erano lateralmente investiti da una fantasmagoria di stemmi e di trofei famigliari; e quel glorioso spettacolo imprimendosi nella fantasia prima di spegnere il lume, non potea essere che non imprimesse un carattere aristocratico anche alle funzioni più segrete e tenebrose del loro matrimonio. Certo, se le pecore di Giacobbe ingravidavano di agnelli pezzati pei vimini di vario colore che vedevano nella fontana, la signora contessa non dovea concepire altro che figliuoli, altamente convinti e beati dell’illustre eccellenza del loro lignaggio. Che se gli avvenimenti posteriori non diedero sempre ragione a questa ipotesi, potrebbe anche essere stato per difetto più del signor conte che della signora contessa.
La contessina Clara dormiva vicino alla nonna nell’appartamento che metteva in sala, rimpetto alla camera de’ suoi genitori. Aveva uno stanzino che somigliava la celletta d’una monaca; e l’unico cignale che vi stava intagliato nello stucco della caminiera essa forse senza pensarvi lo aveva coperto con una pila di libri. Erano avanzi d’una biblioteca, andata a male in una cameraccia terrena per l’incuria dei castellani, e la combinata inimicizia del tarlo, dei sorci e dell’umidità. La Contessina, che nei tre anni vissuti in convento s’era rifugiata nella lettura contro le noje e il pettegolezzo delle monache, appena rimesso piede in casa erasi ricordata di quello stanzone ingombro di volumi sbrindellati e di cartapecora; e si pose a pescarvi entro quel poco di buono che restava. Qualche volume di memorie tradotte dal francese, alcune storie di quelle antiche italiane che narrano le cose alla casalinga e senza rigonfiature, il Tasso, l’Ariosto e il Pastor Fido del Guarini, quasi tutte le Commedie del Goldoni stampate pochi anni prima, ecco a quanto si ridussero i suoi guadagni. Aggiungete a tuttociò un uffizio della Madonna e qualche manuale di divozione, ed avrete il catalogo della libreria dietro cui si nascondeva nella stanza di Clara il cignale gentilizio. Quando a piede sospeso ella si era avvicinata al letto della nonna per assicurarsi che nulla turbava la placidezza dei suoi sonni, tenendo la mano dinanzi la lucerna per diminuirne il riverbero contro le pareti, si riduceva nella sua celletta a squadernare taluno di quei libri. Spesso tutti gli abitanti del castello dormivano della grossa, che il lume della lampada traluceva ancora dalle fessure del suo balcone; e quando poi ella prendeva in mano o la Gerusalemme Liberata o l’Orlando Furioso (gli identici volumi che non avean potuto decidere la vocazione militare di suo zio monsignore) l’olio mancava al lucignolo prima che agli occhi della giovine la volontà di leggere. Si perdeva con Erminia sotto le piante ombrose, e la seguiva nei placidi alberghi dei pastori; s’addentrava con Angelica e con Medoro a scriver versi d’amore sulle muscose pareti delle grotte, e delirava anche talora col pazzo Orlando, e piangeva di compassione per lui. Ma soprattutto le vinceva l’animo di pietà la fine di Brandimarte, quando l’ora fatale gli interrompe sul labbro il nome dell’amante, e sembra quasi che l’anima sua passi a terminarlo e a ripeterlo continuamente nella felice eternità dell’amore. Addormentandosi dopo questa lettura, le pareva talvolta in sogno di essere ella stessa la vedova Fiordiligi. Un velo nero le cadeva dalla fronte sugli occhi e giù fino a terra; come per togliere agli sguardi volgari la santità del suo pianto inconsolabile; un dolore soave, melanconico, eterno le si diffondeva nel cuore come un eco lontano di flebile armonia, e dalla sostanza più pura di quel dolore emanava come uno spirito di speranza, che troppo lieve ed etereo per divagar presso terra spaziava altissimo nel cielo. — Erano fantasie o presentimenti? — Ella non lo sapeva; ma sapeva veramente che gli affetti di quella sognata Fiordiligi rispondevano appuntino ai sentimenti di Clara. Anima chiusa alle impressioni del mondo, erasi ella serbata come l’aveva fatta Iddio in mezzo alle frivolezze, alle scurrilità, alle vanaglorie che l’attorniavano. E le divote credenze e i miti costumi di sua nonna, appurati dalle meditazioni serene della vecchiaja, si rinnovavano in lei con tutta la spontaneità ed il profumo dell’età virginale. Nella prima infanzia ell’era sempre rimasta a Fratta, fida compagna dell’antica inferma. Sembrava fin d’allora il rampollo giovinetto di castagno, che sorge dal vecchio ceppo rigoglioso di vita. Quella dimora solitaria l’aveva preservata dal vizioso consorzio delle cameriere, e dagli insegnamenti che potevano venirle dagli esempi di sua madre. Viveva nel castello semplice, tranquilla e innocente, come la passera che vi celava il suo nido sotto le travature del granajo. La sua bellezza cresceva coll’età, come se l’aria ed il sole in cui si tuffava da mane a sera colla robusta noncuranza d’una campagnuola, vi si mescessero entro a ingrandirla e ad illuminarla. Ma era una grandezza buona, una luce modesta e gradevole al pari di quella della luna; non il barbaglio strano e guizzante del lampo. Regnava e splendeva, come una Madonna fra i ceri dell’altare. Infatti le sue sembianze arieggiavano una pace religiosa e quasi celeste; si comprendeva appena vedendola, che sotto quelle spoglie gentili e armoniose il fervore della divozione si mescolava colla poesia d’un’immaginazione pura, nascosta, operosa, e colla più ingenua squisitezza del sentimento. Era il fuoco del mezzodì, riverberato dalle ghiacciaje candide e adamantine del settentrione.
Le semplici contadine dei dintorni la chiamavano la Santa; e ricordavano con venerazione il giorno della sua prima comunione, quando appena ricevuto il mistico pane la era svenuta di consolazione, di paura, di umiltà; ed elleno dicevano invece che Dio l’aveva chiamata in estasi come degna che la era d’un più stretto sposalizio con lui. Anche la Clara si risovveniva con una gioja mista di tremore di quel giorno tutto celeste; assaporando sempre colla memoria quei sublimi rapimenti dell’anima, invitata a partecipare per la prima volta al più alto e soave mistero di sua religione. Tenetevi ben a mente ch’io narro d’un tempo in cui la fede era ancora di moda; e produceva negli spiriti eletti quei miracoli di carità, di sacrifizio e di distacco dalle cose mondane, che saranno sempre maravigliosi anche all’occhio miscredente del filosofo. Io non catechizzo, nè pianto o difendo sistemi; e so benissimo che la divozione volta in bigottismo dalle anime false e corrotte, può viziar la coscienza peggio che ogni altra abitudine di perversità. Vi ripeto ancora ch’io non sono divoto; e me ne duole, forse perchè durai grandissima fatica a trovare un’altra via per cui salire alla vera e discreta stima della vita. Dovetti percorrere sovente col disinganno al fianco, e la disperazione dinanzi agli occhi, tutta la profondità dell’abisso metafisico; dovetti sforzarmi ad allargare la contemplazione d’un animo diffidente e miope sopra l’infinita vastità e durevolezza delle cose umane; dovetti chiuder gli occhi sui più comuni e strazianti problemi della felicità, della scienza e della virtù contraddicenti fra loro; dovetti io, essere socievole e soggetto alle leggi sociali, rinserrarmi nel baluardo della coscienza per sentire la santità e la vitalità eterna e forse l’attuazione futura di quelle leggi morali che ora sono derise, calpestate, violate per tutti i modi; dovetti infine, uomo superbo della mia ragione e d’un vantato impero sull’universo, inabissarmi, annichilirmi, nella vita immensa ed immensamente armonica dello stesso universo, per trovare una scusa a quella fatica che si chiama esistenza, ed una ragione a quel fantasma che si chiama speranza. Ed anco questa scusa tremola dinanzi alla ragione invecchiata, come una fiamma di candela sbattuta dal vento; e tardi m’accorgo che la fede è migliore della scienza per la felicità. Ma non posso pentirmi del mio stato morale; perchè la necessità non ammette pentimenti: non posso e non debbo arrossirne; perchè una dottrina che nella pratica sociale accoppia la fermezza degli stoici alla carità evangelica, non potrà mai vergognar di se stessa, qualunque siano i suoi fondamenti filosofici. Ma quanti sudori, quanti dolori, quanti anni, quanta costanza per arrivare a ciò! Ebbi la pazienza della formica, che, capovolta dal vento, cento volte perde la sua strada e cento la riprende per compiere a passi invisibili il suo lungo cammino. Pochi mi avrebbero imitato, e pochi m’imitano in fatti. — I più gettano a mezza strada una bussola malfida da cui furono il più delle volte ingannati; e si abbandonano giorno per giorno al vento che spira. Vien poi l’ora di raccoglier le vele nel porto; e il loro arrivo è necessariamente un naufragio. — O s’affidano a guide fallaci, alleate delle loro passioni, e bevono con compunzione lagrime spremute dagli occhi altrui: o cancellano la vita dello spirito, non sapendo che lo spirito si ridesta quandochessia a patire, tutti in una volta, i dolori che dovevamo preparargli la strada alla morte. Meglio la fede anche ignorante, che il nulla vuoto e silenzioso. Vi sono ora leggiadre donzelle e giovanotti di garbo le cui mire son tutte volte ai godimenti materiali: le comodità, le feste, le pompe sono loro solo desiderio; sola cura il danaro che provvede d’un lauto e perenne pascolo quei desiderii: perfino il loro spirito non cerca qualche nutrimento che per farsene bello agli occhi della gente, e non provar gl’incomodi di dover arrossire. Del resto la mente di costoro non conosce diletti che sieno veramente suoi. Domandate ad essi se vorrebbero essere stati o Scipioni, o Dante o Galileo; vi risponderanno che gli Scipioni e Dante e Galileo sono morti. Per loro la vita è tutto. Ma quando dovranno abbandonarla? — Non vogliono pensarci! — Non vogliono, dicono essi; io soggiungo che non possono, che non osano. E se l’osassero avrebbero a scegliere fra la pistola, suicidio del corpo, e il fastidio della vita, suicidio dell’anima. Questo è il destino dei più forti o dei più sventurati. La fede a’ suoi tempi era almeno una idealità, una forza, un conforto; e chi non aveva il coraggio di soffrire cercando e aspettando, avea la fortuna di sopportare credendo. Ora la fede se ne va, e la scienza viva e completa non è venuta ancora. Perchè dunque glorificar tanto questi tempi che i più ottimisti chiamano di transizione? Onorate il passato ed affrettate il futuro; ma vivete nel presente coll’umiltà e coll’attività di chi sente la propria impotenza, e insieme il bisogno di trovare una virtù. Educato senza le credenze del passato e senza la fede nel futuro, io cercai indarno nel mondo un luogo di riposo pei miei pensieri. Dopo molti e molti anni strappai al mio cuore un brano sanguinoso sul quale era scritto giustizia, e conobbi che la vita umana è un ministero di giustizia, e l’uomo un sacerdote di essa, e la storia un’espiatrice che ne registra i sacrifici a vantaggio dell’umanità che sempre cangia e sempre vive. Antico d’anni, piego il mio capo sul guanciale della tomba: e addito questa parola di fede a norma di coloro che non credono più, e pur vogliono ancora pensare in questo secolo di transizione. La fede non si comanda; neppur da noi a noi. A chi compiange la mia cecità, e lagrima nella mia vita uno sforzo virtuoso ma inutile che non avrà ricompensa nei secoli eterni, io rispondo: Io sono padrone in faccia agli altri uomini del mio essere temporale ed eterno. Nei conti fra me e Dio a voi non tocca intromettervi. Invidio la vostra fede, ma non posso impormela. Credete adunque, siate felici, e lasciatemi in pace.
La contessina Clara, oltre all’esser credente, era devota e fervorosa; perchè all’anima sua non bastava la fede e le abbisognava inoltre l’amore. Per altro la sua voce di santità non era soltanto raccomandata al fervore e alla frequenza delle pratiche religiose; ma anche meglio ad atti continui ed operosi delle più sante virtù. Il suo portamento non mostrava l’umiltà della guattera o della massaja; ma quella della contessa, che deriva da Dio le sproporzioni sociali, e si sente dinanzi a lui uguale all’essere più abietto dell’umana famiglia. Aveva quello che si dice, il dono della seconda vista per indovinare le afflizioni altrui, e quello della semplicità, per esserne fatta di comune grado consigliera, e consolatrice. Alla ricchezza dava quel valore che le veniva dal bisogno dei poveri; il vero valore, come dovrebbe stabilirlo la sana economia, per diventar benemerita dell’umanità. La gente diceva ch’ella aveva le mani bucate; ed era vero, ma non se ne accorgeva come di un dovere necessariamente adempito: come non ci accorgiamo noi del sangue che circola, e del polmone che respira. Era affatto incapace di odio, anche contro i cattivi; perchè non disperava del ravvedimento. Tutti gli esseri del creato erano suoi amici, e la natura non ebbe mai figliuola più amorosa e riconoscente. L’andava tant’oltre, che non voleva veder per casa trappole da sorci, e camminando in un prato, si distoglieva per non calpestar un fiore, e una zolla d’erba rinverdita. Eppure, senza esagerazioni poetiche, aveva l’orma così leggera che il fiore non chinava che un momento il capo sotto il suo tallone, e l’erba non si accorgeva neppure d’esserne calpestata. S’ella teneva uccellini in gabbia era per liberarli al venir della primavera; e talvolta s’addomesticava tanto con quei vezzosi gorgheggiatori, che le doleva il cuore nel separarsene. Ma cos’era mai per Clara il proprio rammarico quando ne andava di mezzo il bene d’un altro? — Apriva lo sportello della gabbia con un sorriso fatto più bello da due lagrime; e talvolta gli uccelletti venivano a beccarle le dita prima di volar via; e restavano anche per qualche giorno nelle vicinanze del castello, visitando con sicurezza la finestra ove aveano vissuto la mala stagione prigionieri e felici. Clara li riconosceva; e sapeva loro grado dell’affettuosa ricordanza che le serbavano. Allora pensava che le cose di questo mondo son buone, e che gli uomini non potevano esser cattivi, se tanto grati ed amorosi le si mostravano i cardellini o le cincallegre. La nonna sorrideva dalla sua poltrona, vedendo le tenere e commoventi fanciullaggini della nipote. E si guardava bene dal deriderla, perchè sapeva per esperienza la buona vecchia, che l’abitudine di quei delicati sentimenti fanciulleschi prepara per le altre età un’inesausta sorgente di gioje modeste, ma purissime e non caduche nè invidiate. Nei tre anni che dimorò nel convento delle Salesiane di San Vito la fanciulla fu beffeggiata abbastanza per queste sue moine; ma ella ebbe il buon cuore di non vergognarsene, e la costanza di non rinnegarle. Laonde quando uscì a riprendere presso il letto della nonna il suo uffizio d’infermiera, la trovarono ancora la stessa Clara semplice, modesta, servizievole, facile al riso ed alle lagrime per qualunque gioja e per qualunque cruccio che non fosse suo proprio. La contessa trapiantandosi da Venezia a Fratta, trovatala un po’ salvatica, avea inteso dirizzarla coi soliti dieci anni di monastero; ma dopo un triennio cominciò a dire che la Clara essendo d’indole svegliata doveva averne avuto abbastanza. Il vero si era, che la cura della suocera le pesava troppo, e per non sacrificare a ciò tutto l’anno una donna di servizio, le parve un doppio sparagno quello di riprender in casa la figlia. D’altra parte i suoi sfoggi di Venezia aveano sbilanciato alquanto la famiglia, ed essendosi allora in pensiero di provvedere all’educazione del figliuol maschio, si volle stringer un po’ la mano nella spesa per la femmina. Le erano già due, perchè la contessa portava in grembo la Pisana, quando deliberò di levar dalle monache la Clara, e non dubitava nemmeno di esser per partorire una bambina, alla quale aveva già scelto fin d’allora il nome, in ossequio della madre sua ch’era stata una Pisani.
Così erano ite le cose mentr’io poppava e trangugiava pappa in tutte le case di Fratta; ma quando fui sui nove anni, e la Pisana ne aveva sette e il contino Rinaldo forniva la Rettorica presso i Reverendi padri Somaschi, la contessina Clara era già cresciuta a perfetta avvenenza di giovane. Credo la toccasse allora i diciannove anni, benchè non li mostrava per quella sua delicatezza di tinte che le serbò sempre le apparenze della gioventù. La sua mente si era arricchita di buone cognizioni pei libri ch’era venuta leggendo, e d’ottimi pensieri pel tranquillo svilupparsi d’un’indole pietosa e meditativa; la sensibilità le si esercitava più utilmente nei soccorsi che distribuiva alle povere donne del paese, senza aver nulla perduto della sua grazia infantile. Amava ancora gli augelletti ed i fiori, ma vi pensava meno, allora che il tempo le era tolto da cure più rilevanti; e del resto la sua serenità durava ancora la stessa, fatta semprepiù incantevole dalla coscienza che la irraggiava d’una sicurezza celeste. Quando dopo aver ajutato la nonna a spogliarsi ella entrava nel tinello, e sedeva vicino al tavolino ove giocava sua madre, col suo ricamo bianco in una mano e l’ago nell’altra, la sua presenza attirava tutti gli sguardi, e bastava a raggentilire per un quarto d’ora la voce ed i discorsi dei giocatori. La contessa, che aveva sufficiente avvedutezza, notava questo effetto ottenuto dalla figlia e n’era anche discretamente gelosa. Colla sua cuffia di merlo e con tutta la boria di casa Navagero scolpita sulla fisonomia, ella non avea mai ottenuto altrettanto. Perciò se dapprima la si sforzava di moderare la loquacità soventi volte sussurrona e villanesca della compagnia, in quel momento di tregua la s’indispettiva di non udirla continuare, ed era ella la prima a stuzzicare il capitano o l’Andreini perchè ne dicessero delle loro. Il signor conte gongolava, vedendo la moglie prender piacere alla conversazione del castello; e monsignore sbirciava la cognata di traverso, non comprendendo da che cosa derivassero que’ suoi accessi affatto insoliti, e un po’ anche stizzosi di affabilità. Io era piccino allora, eppur dal buco della serratura donde rimaneva qualche tratto spettatore del gioco, comprendeva benissimo la stizza o il buono umore della contessa; lo comprendeva anche la Clara; perchè mi ricordo ancora, che se il capitano o l’Andreini rispondevano di malgarbo agli inviti dell’illustrissima padrona, un lieve rossore le colorava le tempie. Mi par ancora di vederla, quell’angelo di donzella, raddoppiar allora di attenzione sul suo ricamo, e per la fretta imbrogliarsi le dita nel filo. Son poi sicuro che quel rossore proveniva più che altro dal timore, che non fosse di gretta superbia il pensiero che in quei momenti le attraversava la mente. Ma monsignore come avrebbe potuto capire o sospettar tuttociò? — Lo ripeto. Io aveva nove anni ed egli sessanta sonati; egli canonico in sarrocchino e in calze rosse, io quasi trovatello scamiciato e senza scarpe; e con tutto questo ad onta che egli si chiamasse Orlando ed io Carlino, io di mondo e di morale me n’intendeva più di lui. Gli era il teologo più semplice del clero cattolico; ne metto la mano sul fuoco.
Intorno a quel tempo le visite al castello di Fratta, massime de’ giovani di Portogruaro e del territorio, si facevano più frequenti. Non era più questo un privilegio delle domeniche o delle sere delle vendemmie, ma tutto l’anno, anche nel verno più crudo e nevoso, capitava a piedi a cavallo, coll’archibugio in ispalla e il Canaletto appeso in punta, qualche coraggioso visitatore. Non so se la contessa si attribuisse l’onore di attirar quelle visite; certo si dava molto attorno per far la vispa e la graziosa. Ma in onta alle attrattive della sua età rispettabile e più che matura, gli occhi di quei signorini erano molto svagati finchè non capitasse a concentrarli in sè il visetto geniale della Clara. Il Vianello di Fossalta come il più vicino era anche il più assiduo; ma anche il Partistagno non gli cedeva di molto, benchè il suo castello di Lugugnana fosse sulla marina ai confini della pineta, un sette miglia buone lontano da Fratta. Questa lontananza forse gli dava il diritto di anticipar le sue visite; e molte volte si combinava ch’egli capitasse proprio nel punto che la Clara usciva per incontrare la mamma nella passeggiata. Allora voleva la convenienza ch’egli le fosse compagno, e Clara vi accondiscendeva cortesemente, benchè i modi aspri e risoluti del giovine cavaliere non s’attagliassero molto a’ suoi gusti. Quando finiva il gioco, la contessa non mancava mai d’invitare il Partistagno a fermarsi a Fratta la notte, lamentando sempre la perfidia, l’oscurità e la lunghezza della strada; ma egli si scansava con un grazie, e buttata a Clara un’occhiatina che era rade volte e solo per caso corrisposta, andava nella scuderia a farsi insellare il suo saldo corridore furlano. S’imbacuccava ben bene nel ferrajuolo, imbracciava la coreggia del moschetto coll’indispensabile fanale sulla cima, e balzato in arcione usciva di gran trotto dal ponte levatojo, assicurandosi colla mano se nelle fonde laterali v’erano ancora le pistole. Così passava via come un fantasma per quella stradaccia tenebrosa e infossata, ma le più volte si fermava a dormire a S. Mauro due miglia discosto, dove sopra un suo podere s’era accomodate per maggior comodo quattro stanze d’una casa colonica. La gente del territorio aveva un profondissimo rispetto pel Partistagno, pel suo moschetto e per le sue pistole, ed anco pei suoi pugni, quando non aveva armi; ma quei pugni pesavano tanto, che dopo buscatine un pajo nello stomaco, non si avea duopo nè di palla nè di pallini per andare al Creatore.
Il Vianello invece veniva e partiva tutte le sere a piedi, col suo fanaletto appeso al bastone e proteso davanti, come la borsa del santese durante i riposi della predica. Pareva non avesse armi; benchè cercandogli forse nelle tasche si avrebbe trovata un’ottima pistola a due canne, arma a quei tempi non molto comune. Del resto, essendo egli figliuolo del medico di Fossalta, partecipava un poco dell’inviolabilità paterna, e nessuno avrebbe osato molestarlo. I medici d’allora contavano, secondo l’opinione volgare, nel novero degli stregoni; e nessuno si sentiva tanto ardito da provocarne la vendetta. Ne fanno tante, senza saperlo ora (delle vendette); al secolo passato ne facevano tre doppi più; figuratevi poi se vi si fossero accinti con premeditazione! — Per poco non si credevano capaci d’appestare una provincia, e conosco io una famiglia patriarcale di quei paesi, dove anche adesso prima di chiamar il medico si recitano alquante orazioni alla Madonna, per pregarla che ne accompagni la visita colla buona fortuna. Il dottor Sperandio (bel nome per un dottore e che dava di per sè un buon consiglio ai malati) non aveva nulla nella sua figura che si opponesse alla fama stregonesca di cui egli e i suoi colleghi erano onorati. Portava un parruccone di lana o di crine di cavallo, nero come l’inchiostro, che gli difendeva bene contro il vento la fronte, le orecchie e la nuca; e per di più un cappellaccio a tre punte, nero anch’esso e vasto come un temporale. A vederlo venir da lontano sul suo cavalluccio magro, sfinito, color della cenere come un asinello, somigliava più un beccamorto che un medico. Ma quando smontava e davanti al letto del malato inforcava gli occhiali per osservargli la lingua, allora pareva proprio un notajo che si preparasse a formulare un testamento. Per solito egli parlava mezzo latino, e mezzo friulano; ma il dopopranzo ci metteva del latino per tre quarti; e verso notte, dopo aver bevuto il boccale dell’Avemaria, la dava dentro in Cicerone a tutto pasto. Così se la mattina ordinava un lenitivo, la sera non adoperava che i drastici; e le sanguette del dopopranzo si mutavano all’ora di notte in salassi. Il coraggio gli cresceva colle ore; e dopo cena avrebbe asportato la testa d’un matto, colla speranza che l’operazione lo avrebbe guarito. Nessun dottor fisico nè chirurgo o flebotomo ha mai avuto lancette più lunghe e rugginose delle sue. Credo le fossero proprio vere lancie di Unni o di Visigoti disotterrate negli scavi di Concordia; ma egli le adoperava con una perizia singolare; tantochè nella sua lunga carriera non ebbe a stroppiare che il braccio ad un paralitico e l’unico sconcio che gli intervenisse di frequente era la difficoltà di stagnare il sangue, tanto erano larghe le ferite Se il sangue non si fermava colla polvere di drago, egli ricorreva al ripiego di lasciarlo colare, citando in latino un certo assioma tutto suo, che nessun contadino muore svenato. Seneca infatti non era contadino, ma filosofo. — Il dottor Sperandio teneva in grandissimo cento l’arte di Ippocrate e di Galeno. Era dovere di riconoscenza: perchè, oltre all’essere campato di essa, se n’era avanzato di che comperare una casa ed un poderetto contiguo in Fossalta. Aveva percorsi gli studi a Padova, ma nominava con maggior venerazione la scuola di Salerno e l’Università di Montpellieri; nelle ricette poi si teneva molto ai semplici, massime a quelli che si trovano indigeni nei paludi e lungo le siepi, metodo anticristiano che lo metteva in frequenti discrepanze collo speziale del paese. Ma il dottore era uomo di coscienza, e siccome sapeva che lo speziale estraeva dalla Flora indigena anche i medicamenti forestieri, così sventava la frode colla abbominevole semplicità de’ suoi rimedii. In quanto a teorie sociali gli era un tantino egiziano. Mi spiego. Egli parteggiava per la stabilità delle professioni nelle famiglie, e voleva ad ogni costo che suo figlio ereditasse da lui i clienti e le lancette. Il signor Lucilio non divideva quest’opinione, rispondendo: che il diluvio c’era stato per nulla, se non avea sommerso neppur queste rancide dottrine di tirannia ereditaria. Però si era piegato all’obbedienza, e aveva studiato i suoi cinque anni nell’antichissima e sapientissima Università di Padova. Era uno scolare molto notevole per la sua negligenza; che non solea mai sfigurare nelle rare comparse; che litigava sempre coi nobiluomini e coi birri, e che ad ogni nevata accorreva sempre il primo al Parlatorio delle monache di Santa Croce per annunciare la novità. È noto più o meno che chi riusciva in questa priorità, aveva dalle Reverende il regalo d’una bella cesta di sfogliate. Lucilio Vianello ne avea vuotate molte di queste ceste, prima di ottenere la laurea. Ma ora siamo al punto dell’eterna quistione fra lui e il suo signor padre. Non ci aveva modo che questi potesse indurlo a conseguire quella benedetta laurea. Gli metteva in tasca i denari del viaggio per l’andata ed il ritorno, più l’occorrente per la dimora d’un mese, più la tassa del primo esame; lo imbarcava a Portogruaro sulla barca postale di Venezia. Ma Lucilio partiva, stava e tornava senza denari, e senza aver fatto l’esame. Sette volte in due anni egli fu assente in questo modo ora un mese ed ora due; e i professori della Facoltà medica non avevano ancora assaggiato la sua prima propina. Che faceva egli mai durante quelle assenze? Ecco quello che il dottore Sperandio s’incaponiva di voler discoprire, senza venirne a capo di nulla. Sulla settima scoperse finalmente che il suo signor figlio non si prendeva neppur la briga di arrivare fino a Padova; e che giunto a Venezia vi si trovava tanto bene, da non ritener opportuno di andar oltre a spendere i danari del papà. Questo poi egli lo seppe da un suo patrono Senatore, da un certo nobiluomo Frumier cognato del conte di Fratta, che villeggiava nella bella stagione a Portogruaro, e che insieme lo ammoniva della condotta alquanto sospetta tenuta da Lucilio a Venezia a cagion della quale i Signori Inquisitori lo tenevano paternamente d’occhio. — Giuggiole! non ci voleva altro! Il dottor Sperandio abbruciò la lettera, ne scompose le ceneri colla paletta, guardò in cagnesco Lucilio che si asciugava rimpetto a lui le ghette di bufalo; ma per lunga pezza non gli parlò più della laurea. Peraltro lo menava in pratica con lui per esperimentare il grado della sua erudizione nella scienza d’Esculapio; e siccome s’era trovato contento della prova, s’era messo a mandarlo qua e là per rivedere le lingue o le orine d’alquanti villani visitati da lui la mattina. Lucilio apriva sul taccuino le partite di Giacomo, di Tom e di Matteo colla triplice rubrica di polso, lingua ed orina: poi di mano in mano che faceva le visite empiva la tabella colle indicazioni richieste; e la riportava in buon ordine al suo signor padre che talora ne strabiliava per certi cambiamenti e strabalzi repentini, non soliti ad avvenire nelle malattie della gente di badile.
— Come! lingua netta ed umida a Matteo, che è a letto da jeri con una febbre mescolata di mal putrido! Putridum autem septimo aut quatuordecimo tantumque die in sudorem aut fluxum ventris per purgationes resolvitur. La lingua netta ed umida! Ma se stamattina l’aveva arida come l’esca, e con due dita di patina sopra..... — Oh veh veh! polso convulso la Gaetana! Ma se oggi le ho contato cinquantadue battute al minuto, e le ordinai anzi in pozione vinum tantummodo pepatum et infusione canellæ oblungatum! Cosa vorrà dire?... Vedremo domani! Nemo humanæ naturæ pars qua nervis præstet in fænomali mutatione ac subitaneitate.
Andava poi la dimane, e trovava Matteo colla sua lingua sporca, e la Gaetana col polso arrembato in onta al pepe, alla cannella ed al vino. La ragione di questi miracoli era che per quella volta Lucilio non sentendosi voglia di far le visite, aveva architettato ed empiuto a capriccio la sua tabella all’ombra d’un gelso. La rimetteva poi al signor padre per far disperare le sue teorie. De qualitate et sintomatica morborum. Vi erano per altro certe occasioni nelle quali al giovine non dispiaceva di essere licenziato in medicina dalla Università Patavina, quando per esempio, appena capitato, la Rosa lo pregava di salire dalla contessa vecchia che andava soggetta a mali di nervi e si faceva ordinar da lui qualche pozione di laudano e d’acqua coobata per calmarli. Lucilio pareva nudrisse per la quasi centenaria signora una riverenza mista d’amore e di venerazione; laonde non vedeva cure ed accorgimenti che bastassero per mantener una vita così degna e preziosa. Stava ad udirla sovente con quella attenzione che somiglia stupore, dà indizio d’un gratissimo piacere e quasi d’un melodioso solletico prodotto nell’animo dalle parole altrui. Benchè egli poi fosse d’un temperamento chiuso e riserbato, nel ragionare con lei s’incaloriva per non volontaria ingenuità, e non si schivava dal parlare di sè e delle proprie cose, come ad una madre. Nessuno, a credergli, soffriva al pari di lui d’esser orfano, giacchè la moglie del dottor Sperandio gli era morta nel puerperio di quell’unico figliuolo; onde sembrava cercar conforto al dolore d’una tale mancanza, nell’affetto quasi materno che gli inspirava la nonna di Clara. A poco a poco la vecchia s’avvezzò alla cordiale dimestichezza di quel giovine; lo facea chiamare anche se non aveva bisogno del medico; ascoltava da lui volentieri le novelle della giornata, e compiacevasi di trovarlo differente d’assai dai giovinastri che frequentavano il castello. Veramente Lucilio meritava una tal distinzione; aveva letto molto, s’era preso di grande amore per la storia, e siccome sapeva che ogni giorno è una pagina negli annali dei popoli, teneva dietro con premura a que’ primi segni di sconvolgimenti che apparivano sull’orizzonte europeo. Gli Inglesi non erano allora troppo ben veduti dal patriziato veneziano; forse per la stessa ragione che il fallito non può guardar di buon occhio i nuovi padroni dei suoi averi. Perciò egli magnificava sempre le imprese degli Americani e la civile, grandezza di Washington, che aveva sciolto dalla soggezione dei Lordi tutto un nuovo mondo. L’inferma lo udiva volentieri narrar casi e battaglie che volgevano sempre alla peggio degli Inglesi, e s’univa con lui in un caldo entusiasmo per quel patto federale, che avea loro tolto per sempre il possesso delle colonie Americane. Quando poi egli parlava a labbra strette delle vicende di Francia, e dei ministeri che vi si sbalzavano l’un l’altro, e del Re che non sapeva più a qual partito appigliarsi, e delle mene della Regina germanizzante, allora entrava ella a raccontare le cose de’ suoi tempi, e le splendidezze della corte, e gli intrighi e la servilità dei cortigiani, e la superba e quasi lugubre solitudine del gran Re, sopravvissuto a tutta la gloria di cui l’avevano ricinto i suoi contemporanei, per assistere alla frivolezza e alla turpitudine dei nipoti. Ella discorreva con raccapriccio dei costumi sfacciatamente osceni che si auguravano fin d’allora dalla nuova generazione, e ringraziava il cielo che proteggeva la Repubblica di S. Marco contro l’invasione di quella pestilenza. Passata dalla Corte di Francia al castello di Fratta, ella ricordava Venezia com’era stata nei primordii del settecento, non indegna ancora del suffragio serbatole nel gran Consiglio degli Stati europei; non poteva conoscere quanto in quel frattempo, e con qual lusinghiera orpellatura di eleganza, le sconcezze di Versailles e di Trianon venissero copiate vogliosamente a Rialto e nei palazzi del Canal Grande. Quando la nipote le leggeva talune delle commedie di Goldoni, ella se ne scandolezzava e le faceva saltar via qualche pagina; qualche volume anche avea creduto bene di toglierselo lei e serrarlo sotto chiave; nè avrebbe mai immaginato che quanto a lei sembrava sfrenatezza di lingua e licenza di pensieri, nei teatri di S. Benedetto di S. Angelo facesse anzi l’effetto di sferzare costumi ancor più rotti e sfrontati. Talvolta anche si veniva sul discorso delle riforme già incominciate da Giuseppe II massime nelle faccende ecclesiastiche; e la vecchia divota non sapeva bene se dovesse increscerle di quel vitupero fatto alla religione, o consolarsene di vederlo fatto da tal nemico ed antagonista della Repubblica, che ne sarebbe poi sicuramente punito dalla mano di Dio. I Veneziani sentivano da gran tempo, massime nel Friuli, la pressura dell’Impero; e se aveano resistito colla forza al tempo della lor grandezza militare, e cogli accorgimenti politici al tempo della perdurante sapienza civile, allora poi che questa e quella eransi perdute nell’ignavia universale, i meglio pensanti si accontentavano di fidare nella Provvidenza. Ciò era compatibile in una vecchia, non in un Senato di governanti. Ognuno sa che la Provvidenza coi nostri pensieri, coi nostri sentimenti, colle nostre opere matura i proprii disegni; e a volersi aspettar da lei la pappa fatta, era o un sogno da disperati o una lusinga proprio da donnicciuole. Perciò quando la Badoer cadeva in questa bambolaggine di speranza, Lucilio non potea far a meno di scuotere il capo; ma lo scoteva mordendosi le labbra e frenando un sogghignetto che gli scappava fuori dagli angoli, rimpiattandosi sotto due baffetti sottili e nerissimi. Scommetto che le riforme dell’Imperatore e la malora di S. Marco non gli spiacevano tanto come voleva mostrarlo.
La conversazione non si aggirava sempre sopra questi altissimi argomenti; anzi li toccava molto di rado e in difetto di argomenti più vicini. Allora i vapori, i telegrafi e le strade ferrate non avevano attuato ancora il gran dogma morale dell’unità umana; e ogni piccola società relegata in se stessa dalle comunicazioni difficilissime, e da una indipendenza giurisdizionale quasi completa, si occupava anzi tutto e massimamente di sè, non curandosi del resto del mondo che come d’un pascolo alla curiosità. Le molecole andavano sciolte nel caos, e la forza centripeta non le aveva condensate ancora in altrettanti sistemi, ingranati gli uni negli altri da vicendevoli influenze attive o passive. Così gli abitanti di Fratta vivevano, a somiglianza degli Dei di Epicuro, in un grandissimo concetto della propria importanza; e quando la tregua de’ loro negozii o dei piaceri lo consentiva, gettavano qualche occhiata d’indifferenza o di curiosità a destra o a sinistra, come l’estro portava. Questo spiega il perchè nel secolo passato fosse tanta penuria di notizie statistiche, e la geografia si perdesse a registrare piuttosto le stranezze dei costumi, e le favole dei viaggiatori, che non le vere condizioni delle provincie. Più che da imperfezione di mezzi o da ignoranza di scrittori, dipendeva ciò dal talento dei lettori. Il mondo per essi non era mercato ma teatro. Più sovente adunque i nostri interlocutori parlavano dei pettegolezzi del vicinato; del tal Comune che aveva usurpato i diritti del tal feudatario; della lite che se ne agitava dinanzi all’Eccellentissimo Luogotenente, o della sentenza emanata, e dei soldati a piedi ed a cavallo mandati per castigo, o come si diceva allora, in tansa presso quel Comune a mangiargli le entrate. — Si pronosticavano i matrimoni futuri, e si mormorava anche un tantino di quelli già stabiliti o compiuti; e per solito i litigii, le angherie, le discordie dei signori castellani tenevano un buon posto nel discorso. La vecchiona parlava di tutto con soavità e con posatezza, come se guardasse le cose dall’alto della sua età e della sua condizione; ma questo modo di ragionare non era in lei studiato punto, e vi si frammischiava a raddolcirlo una buona dose di semplicità e di modestia cristiana. Lucilio serbava il contegno d’un giovine che gode d’imparare da chi ne sa più di lui, e una cotal discrezione, in un saputello incrinato di lettere, gli accaparrava sempre più la stima e l’affetto della nonna. A vederlo poi adoperarle intorno per renderle ogni piccolo servigio che bisognasse, s’avrebbe proprio detto ch’egli era un suo vero figliuolo, o almeno un uomo stretto a lei dal legame di qualche gran benefizio ricevuto. Nulla invece di tutto ciò: era tutto effetto di buon cuore, di bella creanza.... e di furberia. Non ve lo immaginate?... Ve lo chiarirò ora in poche parole.
Quando Lucilio si accommiatava dalla vecchia per scendere nel tinello o tornare a Fossalta, costei restava sola colla Clara, e non rifiniva mai dal lodarsi bonariamente delle compite maniere, e dell’animo gentile ed educato, e del savio ragionare di quel giovine. Perfino le fattezze di lui le davano materia di encomiarlo, come specchio che le sembravano della sua eccellenza interiore. Le vecchie semplici e dabbene, quando prendono ad amare taluno, sogliono unire sopra quel solo capo le tenerezze, le cure e perfin le illusioni di tutti gli amori che hanno lasciata viva una fibra del loro cuore. Perciò non vi so dire se un’amante, una sorella, una sposa, una madre, una nonna si sarebbe stretta ad un uomo con maggior affetto che la vecchia contessa a Lucilio. Giorno per giorno egli avea saputo ridestare una fiamma di quell’anima senile, assopita ma non morta nella propria bontà; e da ultimo si era fatto voler tanto bene, che non passava giorno senza ch’egli fosse desiderato o chiamato a tenerle compagnia. La Clara, per cui erano leggi i desiderii della nonna, aveva preso a desiderarlo come lei; e l’arrivo del giovine era per le due donne un momento di festa. Del resto la contessa non sospettava nemmeno che il giovine potesse pensar ad altro che a far una buona azione, od a ricrearsi fors’anco nei loro colloqui dall’inutile chiasso del tinello: Lucilio era il figliuolo del dottor Sperandio, e Clara la primogenita del suo primogenito. Se qualche sospetto le avesse attraversato la mente in tale proposito, ne avrebbe vergognato come d’un giudizio temerario e d’un pensiero disonesto e colpevole, apposto senza ragione a quella perla di giovane. Diciamolo pure: la era troppo buona ed aristocratica per prendersi ombra di simili paure. Il suo affetto per Lucilio prendeva tutti i modi d’una vera debolezza, e in riguardo di lui la tornava a diventar quella che era stata pel piccolo Orlando, allorchè si trattava di difendere la libertà della sua vocazione. Che ella poi non si accorgesse della piega, presa mano a mano nel cuore de’ due giovani dalla abitudine di vedersi e parlarsi sempre, non c’era da stupirsene. La Clara non se n’accorgeva essa medesima, e Lucilio usava ogni artifizio per nasconderla. M’avete capito? Egli avea cercato l’alleanza cieca della vecchia per vincer la giovane.
Io sarei ora molto impacciato a guidarvi con sicurezza nel laberinto, che mi parve esser sempre l’animo di questo giovine, e denotarvene partitamente l’indole, i pregi ed i difetti. L’era una di quelle nature rigogliose e bollenti che hanno in sè i germi di tutte le qualità buone e cattive; col fomite perpetuo d’un’immaginativa sbrigliata per fecondarle, e il ritegno invincibile d’una volontà ferrea e calcolatrice per guidarle e correggerle. Servo insieme e padrone delle proprie passioni più che nessun altro uomo; temerario e paziente, come chi stima altamente la propria forza, ma non vuole lasciarne sperperar indarno neppur un fiato; egoista, generoso o crudele secondo l’uopo, perchè dispregiava negli altri uomini l’obbedienza a quelle passioni di cui egli si sentiva signore, e credeva che i minori debbano per necessità naturale cedere ai maggiori, i deboli assoggettarsi ai forti, i vigliacchi ai magnanimi, i semplici agli accorti. La maggioranza poi, la forza, la magnanimità, l’accortezza egli le riponeva nel saper volere pertinacemente, e valersi di tutto e osar tutto pel contentamento della propria volontà. Di tal tempra sono gli uomini che fanno le grandi cose, o buone o cattive. Ma come gli si era venuta formando nel suo stato umile e circoscritto un’indole così tenace e robusta, se non in tutto alta e perfetta? — Io non ve lo dirò certamente. Forse la lettura dei vecchi storici, e dei nuovi filosofi; e l’osservazione della società nelle varie comunanze ov’era vissuto gliela avevano mutata in persuasione profonda ed altera. Credeva che piccoli o grandi si dovesse pensare a quel modo, per aver diritto di chiamarsi uomini. Grande un cotal temperamento lo portava al comando; piccolo al dispregio; due diverse superbie delle quali non so qual sia quella che meglio si converrebbe all’ambizione di Lucifero. Ognuno converrà peraltro, che se l’animo suo era difettivo di quella parte sensibile e quasi femminile dove allignano la vera gentilezza e la pietà, un potente intelletto si richiedeva a sostenerlo così com’era, superiore affatto per larghezza di vedute e per potenza d’intenzione all’umile sorte che gli parea preparata dal caso della nascita e dalle condizioni meno che modeste. La sua fronte, vasto nascondiglio di grandi pensieri, saliva ancora oltre i capelli finissimi che ne ombreggiavano la sommità; gli occhi infossati e abbaglianti cercavano più che il volto l’animo e il cuore della gente; il naso diritto e sottile, la bocca chiusa e mobilissima dinotavano il forte proposito e il segreto e perpetuo lavorìo interiore. La sua statura volgeva al piccolo come del maggior numero dei veri grandi; e la muscolatura asciutta ma elastica porgeva gli strumenti del corpo quali si convenivano ad uno spirito turbolento ed operoso. In tutto poteva dirsi bel giovine; ma la folla ne avrebbe trovato mille più belli di lui, o non lo avrebbe almeno distinto fra i primi. Gli è vero che una tal quale eleganza, e quasi un presentimento di quella semplicità inglese che doveva prender il posto delle guarnizioni e della cipria, regolava la maniera del suo vestito; e ciò avrebbe supplito alle comuni fattezze per renderlo a tutti notevole. Non usava nè perrucca, nè polvere, nè mai merli o scarpe fosse pur giorno di gala; portava il cappello tondo alla quacquera, calzoni ingambati negli stivali prussiani, giubba senza ornamenti nè bottoni di smalto, e panciotto d’un sol colore verdone o cenerognolo non lungo quattro dita oltre al fianco. Cotali mode le aveva portate da Padova; diceva che gli piacevano per esser comodissime in campagna, ed aveva ragione. Noi perchè s’era avvezzi a quegli sfoggi alla pantalone d’allora, ridevamo assai di quella succinta vestizione, senza risalto d’oro, di frangie, di bei colori. La Pisana chiamava Lucilio il signor Merlo; e quand’ei compariva, la ragazzaglia di Fratta gli sbatacchiava intorno quel soprannome come per fargli dispetto. Egli non sorrideva come chi prende piacere delle malizie fanciullesche, nè se ne indispettiva come lo sciocco che ne tien conto: passava oltre occupandosi di altro. Era questa la nostra bile. Credo che quel piglio di indifferenza ce lo rendesse tanto antipatico, quanto dal vestito ci compariva ridicolo. E quando poi, trovando per casa o la Pisana od anche me, ci faceva bel viso, e ci accarezzava, noi eravamo beati di mostrargli che le sue moine ci annojavano, e gli fuggivamo via non trascurando di buttarci nelle braccia di qualunque altro che fosse lì intorno, o di metterci a giocherellare col cane da caccia del capitano. Rappresaglie da fanciulli! — Pure, mentre noi ci vendicavamo a quella guisa, egli seguitava a guardarci; ed io ricordo ancora il tenore e perfin la tinta di quegli sguardi. Mi pare che volessero dire: bambini miei, se credessi prezzo dell’opera l’invaghirvi di me, vorrei farvi miei figliuoli prima d’un’ora! — Infatti quando poi gli tornò conto, ci riescì ogniqualvolta lo volle. — Quando io ripenso alla lunghissima via da lui costantemente seguita per farsi ricevere nel cuore di Clara a mezzo dell’amore e degli encomii della nonna, io non posso far a meno di strabiliare. Ma già egli fu sempre così; e non ricordo negozio di piccolo o grave momento nel quale s’imbarcasse, senza navigarci entro coll’eguale costanza, in onta alle bonaccie o ai venti contrarii. La robusta tempra di quell’uomo che non m’invitava dapprincipio a nessuna simpatia, finì coll’impormi quell’ammirazione che meritano le forti cose in questi tempi di fiaccona universale. Oltracciò il suo amore per Clara, nato e covato da lunghi anni di silenzio, protetto coi mille accorgimenti della prudenza, e con tutto il fuoco interiore d’una passione invincibile, ebbe una tal impronta di sincerità, da ricomperare qualche altro men bello sentimento dell’animo suo. Adoperò sempre da astuto nei mezzi, ma da forte nella perseveranza: e se fu egoismo, era l’egoismo d’un titano.
La nonna intanto, che non vedeva di lui altro che quanto egli credeva utile di mostrarle, se ne innamorava ogni di più. Le poche altre visite, che la riceveva durante il giorno, non erano tali da diminuirle la graditezza di quell’una. Il signor conte, che veniva a domandarle come avea passato la notte, in sulle undici del mattino prima di recarsi nella Cancelleria a firmare tutto che il Cancelliere gli porgesse da firmare; monsignore Orlando che dalle undici a mezzogiorno le faceva il quarto, colla cognata e la nipote, sbadigliando di tutta lena per la voglia del pranzo; la nuora che le stava dinanzi le lunghe ore, muta ed impalata infilando maglie, e non aprendo mai bocca che per sospirare i begli anni passati, Martino, l’antico maggiordomo del fu suo marito, che le faceva compagnia alla sua maniera parlando poco e non rispondendo mai a tono, mentre la Clara usciva alla breve passeggiata del dopopranzo; la Pisana che a volte con grandi strilli e graffiate le era condotta innanzi fra le braccia della Faustina, ecco le persone che le passavano dinanzi tutti i giorni, monotone ed annojate come le figurine d’una lanterna magica. Non era dunque strano che ella aspettasse con impazienza il dopopranzo, quando Lucilio veniva a farla ridere colle sue barzellette, e a rischiarar un pochino d’un barlume di allegria la serena ma grave sembianza della nipote. La gioventù è il paradiso della vita; ed i vecchi amano l’allegria che è la gioventù eterna dell’animo. Quando Lucilio s’accorse che il buon umore da lui infiltrato nella vecchia passava nella fanciulla, e che ad un suo sorriso questa s’era accostumata a rispondere con un altro, la sua pazienza cominciò a sperar vicina la ricompensa. Due persone che avvicinandosi prendono contentezza l’una dall’altra, sono molto proclivi ad amarsi; perfino la simpatia di due esseri melanconici passa per la manifestazione del sorriso prima di infervorarsi in amore, e questa gioja della mestizia ha la sua ragione nella somiglianza, che si discopre sempre gradevolmente fra i nostri sentimenti e gli altrui. La passione in gran parte è formata di compassione. Lucilio sapeva tuttociò e più assai. Mese per mese, giorno per giorno, ora per ora, sorriso per sorriso egli seguiva, con occhio premuroso e innamorato ma tranquillo, paziente e sicuro, gli accrescimenti di quell’affetto ch’egli veniva istillando nell’anima di Clara. Egli amava, ma vedeva; miracolo nuovo d’amore. Vedeva la compiacenza pel piacere goduto dalla nonna nella sua compagnia, mutarsi in gratitudine per lui, indi in simpatia, per le lodi che si figurava dovevano ronzarle sempre nelle orecchie delle sue doti belle e brillanti. — La simpatia generò la confidenza, e questa il desiderio, il piacere di vederlo e di parlargli sempre.
Sicchè Clara cominciò a sorridere per proprio conto, allorchè il giovine entrava domandando alla vecchia come la stesse de’ suoi nervi, e cavandosi il guanto per tastarle il polso. — Questo, come dicemmo, fu in lui il vero cominciamento delle speranze; e vide allora che le sementi avevano fruttato e che il rampollo germogliava. Anche nelle prime sue visite Clara gli sorrideva; ma era cosa diversa. Lucilio aveva l’occhio medico per le anime più che pel corpo. Per lui il vocabolario delle occhiate, dei gesti, dell’accento, dei sorrisi aveva tante parole come quello di ogni altra lingua; e rade volte sbagliava nell’interpretarlo. La fanciulla non s’accorgeva di provar dalla sua presenza maggior diletto che non ne provasse le prime volte, ed egli potea già senza tema di sbagliare mandarle uno sguardo che le avrebbe detto: «Tu mi ami!» — Non lo avventurò tuttavia quello sguardo così alla sprovveduta. La volontà era padrona in lui e aveva a lato la ragione; la passione, potente e tiranna nel primo comando, aveva il buon senso di confessarsi cieca nel resto, e di fidarsi pei mezzi a quelle oculate operatrici. Clara era divota; non bisognava spaventarla. Essa era figlia di conte e di contessa; non conveniva frugare nell’animo suo prima di averlo sbrattato d’ogni superbia gentilizia. Per questo Lucilio ristette su quel primo trionfo, come Fabio temporeggiatore; fors’anco veggente come era fino al fondo delle cose umane, godette soffermarsi in quella prima ed incantevole posa dell’amore che si scopre corrisposto. Ciò nonostante quando venendo egli talvolta da Fossalta colla comitiva di Fratta che retrocedeva dal solito passeggio, incontravano la Clara a mezza la via, egli impallidiva lievemente nelle guancie. Non di rado anche avveniva che il Partistagno fosse con lei, superbo di quell’onore; e nell’abboccarsi colla brigata egli non mancava di volgere sul dottorino di Fossalta uno sguardo quasi di altero disprezzo. Lucilio sosteneva quello sguardo, come sosteneva le burle dei ragazzi, con una indifferenza più superba e sprezzante a tre doppi. Ma l’indifferenza campeggiava sul volto; l’inno della vittoria gli cantava nel cuore. La fronte di Clara, annoiata dalle sincere ma rozze galanterie del giovine castellano, s’irradiava d’uno splendore di contentezza quando vedeva da lunge la grave ed ideale figura del figliuolo adottivo della nonna. Partistagno le volgeva di sbieco una lunga occhiata d’ammirazione: Lucilio la adocchiava appena di volo, e ambidue si inebbriavano l’uno d’una vana speranza, l’altro di una ragionata certezza d’amore.
Quanto al signor conte, alla signora contessa, e al buon monsignore, essi erano troppo in alto coi pensieri, ovverosia troppo occupati della propria grandezza, per badare a simili minuzzoli. Il resto della comitiva non ardiva levar gli occhi tant’alto, e così queste vicende d’affetto succedevano fra i tre giovani, senza che si ingerisse sguardo profano od importuno. Martino qualche volta mi chiedeva. — Hai veduto capitare il dottor Lucilio oggi? — (Lo chiamavano dottore benchè non avesse diploma, perchè aveva guardate molte lingue e tastato molti polsi nel territorio). — Io gli rispondeva gridando a piena gola. — No, non l’ho veduto! — Questo dialogo avveniva sempre quando la Clara, o soletta o accompagnata dal Partistagno, usciva nel dopopranzo, meno serena ed ilare del solito. Martino forse ci vedeva più che ogni altro, ma non ne diede mai altro indizio che questo. Quanto alla Pisana, la mi diceva sovente: «Se io fossi mia sorella, vorrei sposare quel bel giovane che ha tanti bei nastri sulla giubba e un così bel cavallo, con una gualdrappa tutta indorata; e il signor Merlo lo farei mettere in una gabbietta per regalarlo alla nonna il giorno della sua sagra.»
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