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Le inquietudini di Zelinda/Atto I

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Atto I

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Personaggi Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Camera in casa di Don Flaminio, con varie sedie.

Lindoro, Fabrizio e Servitori.

Lindoro. (A sedere in aria di melanconia.)

Fabrizio. Via, accomodate bene le sedie, ripulite bene per tutto, che non abbiano occasione di lamentarsi. (ai servitori, i quali mettono sei o sette sedie in semicircolo, e partono) Che avete, Lindoro, che siete sì melanconico?

Lindoro. Non posso lasciar di piangere e di rattristarmi, quando penso alla perdita che abbiamo fatta del povero don Roberto. Sono due mesi ch’è morto, e l’ho sempre presente allo spirito e al cuore, ma oggi principalmente, oggi questa cerimonia lugubre mi rinnova il dolore ch’ho avuto il giorno della sua morte. [p. 210 modifica]

Fabrizio. Avete ragione. Era sì amabile e generoso, che merita d’esser pianto. Oggi finalnniente s’aprirà il testamento, sentiremo le sue ultime disposizioni.

Lindoro. Donna Eleonora sarà contenta, ell’era agitata più dalla curiosità, che dalla morte di suo marito.

Fabrizio. È verissimo. E come il notaro non c’era, ch’era andato a Vienna per affari suoi particolari, ella voleva a tutta forza far aprire il testamento da un altro.

Lindoro. Chi sa come don Roberto l’avrà trattata?

Fabrizio. Se l’ha riconosciuta a misura dell’amore ch’ha avuto per lui, non istarà troppo bene.

Lindoro. Per altro mi pare che, secondo le leggi di questo paese, il marito non possa lasciar alla moglie che una piccolissima summa1.

Fabrizio. È vero, ma può farla star bene se vuole. Può raccomandarla all’erede, può obbligare l’erede... Ma il male si è ch’ella non ha mai coltivato il figliastro, e don Flaminio non ha ragion di lodarsene.

Lindoro. Povera signora, me ne dispiace, poichè mi dicono ch’ella ha avuto pochissima dote.

Fabrizio. La dote che suol dare una giovane, quando sposa un vecchio.

Lindoro. Ma il signor don Roberto le avrà fatto una contradote.

Fabrizio. Non so niente. Oggi saremo al fatto di tutto. Oggi sentiremo le disposizioni; e la mia più grande curiosità si è di sapere, come ha trattato Zelinda e voi.

Lindoro. Oh in quanto a noi, noi non siamo della famiglia, e per poco ch’abbia fatto, avrà fatto più del dovere.

Fabrizio. Vi ha sempre amato come figliuoli suoi, vi ha maritato, vi ha promesso beneficarvi, e son sicuro che un uomo come lui, non si sarà contentato di poco.

Lindoro. Accetterò tutto dalla sua bontà, e dalla provvidenza. [p. 211 modifica]

Fabrizio. Scusatemi, Lindoro. Scusate la confidenza con cui vi parlo. Avete delle grandi obbligazioni alla vostra sposa.

Lindoro. È vero; ho sagrificato qualche cosa per lei, ho abbandonato per lei casa mia, ho disgustato mio padre, ma grazie al cielo, mi ha perdonato, e il bene ch’ho, e che posso avere per cagion di Zelinda, sorpassa di molto quei ch’io poteva sperar dalla mia famiglia.

Fabrizio. E poi una consorte sì buona, sì saggia, sì paziente, sì tollerante....

Lindoro. È verissimo. Ha sofferto tanto per causa mia, che ho rossore nel ricordarmelo.

Fabrizio. Caro amico, l’avete ben fatta piangere e sospirare.

Lindoro. Non mi dite altro, che già ne sono estremamente confuso.

Fabrizio. Dite la verità. Vi siete veramente cangiato? Siete più geloso di lei?

Lindoro. No, non lo sono più, e non lo sarò più. Qualche volta il diavolo vorrebbe ancora tentarmi, faccio qualche volta dei sforzi. Ma non lo deggio essere, e non lo sarò più.

Fabrizio. Farete bene, se farete così. Zelinda non merita d’essere tormentata. E poi la gelosia tormenta quei che la provano. Oh v’assicuro che se io mi marito, non sarò geloso.

Lindoro. Avete voi intenzione di maritarvi?

Fabrizio. Non so: se avessi il modo.... se il padrone nel suo testamento si fosse ricordato di me.... Vi dirò.... vi farò una confidenza. Se posso, mi marito senz’altro; e voi conoscete la giovane ch’ho intenzione di prendere.

Lindoro. La conosco? E chi è?

Fabrizio. Tognina; la cameriera della signora Barbara.

Lindoro. E come avete fatto a innamorarvi di lei?

Fabrizio. Sapete che dopo la morte del signor don Roberto, il signor don Flaminio ha mandato a monte il trattato della vedova, e si è dichiarato pubblicamente di voler sposare la signora Barbara....

Lindoro. È vero, e me ne dispiace infinitamente, poichè il signor don Roberto dopo che ha saputo l’amor del figlio per [p. 212 modifica] la cantatrice, gli ha2 proibito di più trattarla, di più vederla, e di più pensarvi. E so che per questa sola cagione, era risoluto d’obbligarlo a sposar la vedova...

Fabrizio. Certo, che se il padrone fosse vissuto, forse il figlio l’avrebbe fatto, ma ora ch’è padron di se stesso...

Lindoro. Che dirà la signora donna Eleonora? darà in furore se saprà questo fatto.

Fabrizio. Eh, ora la signora donna Eleonora non pensa più alla famiglia. Desidera di sapere le sue condizioni, ed ha già preparato quello che le deve asciugare le lagrime della vedovanza.

Lindoro. L’ha di già ritrovato sì presto?3

Fabrizio. Non è andata molto lontano a cercarlo. Lo conosceva da figlia, se l’ha4 onestamente coltivato da maritata.

Lindoro. È forse il signor don Filiberto?

Fabrizio. Egli per l’appunto.

Lindoro. Io non l’avrei mai creduto.

Fabrizio. Ed io vi ho sempre pensato. Ora, per tornare a proposito di Tognina....

Lindoro. Ecco qui la signora donna Eleonora. (guardando verso la scena)

Fabrizio. Mutiamo discorso.

Lindoro. Sarà meglio ch’io me ne vada. (parte)

SCENA II.

Donna Eleonora vestita a lutto, e Fabrizio.

Eleonora. Fabrizio. (chiamandolo)

Fabrizio. Signora.

Eleonora. A che ora ha detto di venire il notaro?

Fabrizio. Non dovrebbe tardar a venire. Tutti han detto di trovarsi qui a sedici ore.

Eleonora. Il mio procuratore è avvertito? [p. 213 modifica]

Fabrizio. Sì signora. Ha detto che verrà col signor don Filiberto.

Eleonora. (Tanto meglio. Avrò piacere che siano qui tutti due). (da sè, e siede sulla seconda sedia, dalla parte della prima donna)

Fabrizio. (Ho timore che vi vogliano essere delle liti. Vendemmia per i procuratori e gli avvocati). (da sè)

SCENA III.

Don Flaminio vestito a lutto, e detti.

Flaminio. (Entra dalla parte opposta. Fa una riverenza a donna Eleonora senza parlare. Ella s’alza un poco per salutarlo senza dir niente, e torna a sedere, e restano tutti due senza parlare, e senza guardarsi.)

Fabrizio. Queste due persone s’amano teneramente. (da sè, con ironia)

Flaminio. Fabrizio.

Fabrizio. Signore.

Flaminio. Venite qui.

Fabrizio. Mi comandi.

Flaminio. Il mio avvocato è avvertito?

Fabrizio. Sì, signore, per le sedici ore.

Flaminio. Quando viene, fatelo entrare immediatamente.

Fabrizio. Sarà servita. (Una il procuratore, l’altro l’avvocato! Uh se fosse vivo il padrone! Ma oramai non se ne ricordano più. Ora non è che la roba che interessi la vedova ed il figliuolo. A che serve l’accumulare per seminar delle liti, per ingrassar i curiali?) (da sè) (Ah! chi è di là? Ho capito). (guardando alla scena) Signora, è venuto il signor don Filiberto, e il procuratore. (piano a donna Eleonora)

Eleonora. Fateli entrare.

Fabrizio. Favoriscano, signori. Entrino pure. (alla scena) [p. 214 modifica]

SCENA IV.

Don Filiberto, Pandolfo e detti.

Pandolfo. Faccio umilissima riverenza alla signora donna Eleonora.

Eleonora. Serva, signor Pandolfo. Si accomodi. Riverisco il signor don Filiberto.

Filiberto. Il mio rispetto. (a donna Eleonora, inchinandosi) Servitor umilissimo, signor don Flaminio.

Flaminio. Servitor suo. (bruscamente)

Pandolfo. Umilissima riverenza... (a don Flaminio)

Flaminio. La riverisco. (bruscamente)

Eleonora. (Eh, eh). (ridendo un poco di don Flaminio) Sedete, sedete. (a don Filiberto e Pandolfo)

Filiberto. (Io non so che cos’abbia con me). (piano a donna Eleonora, e siede alla sua dritta, sulla prima sedia.)

Eleonora. (Niente, niente, non gli badate), (piano a don Filiberto)

Pandolfo. (Il signor don Flaminio ha paura di me. Mi conosce. Sa quanto vaglio. Lo compatisco). (piano a donna Eleonora, e le siede accanto alla sinistra)

Flaminio. (Viene all’apertura del testamento coll’amante da un canto e col procuratore dall’altro! È una comparsa veramente degna di lei). (da se)

Eleonora. (Badate bene alla lettura del testamento. Mi raccomando a voi). (piano a Pandolfo)

Pandolfo. (Non dubiti, non ci pensi. Si fidi di me, e si lasci servire). (piano a donna Eleonora)

Filiberto. (Spero che non vi saranno difficoltà). (piano a donna Eleonora)

Fabrizio. (La signora donna Eleonora si è provveduta di un buon procuratore. Il primo imbroglione del foro). (da sè, e parte)

Flaminio. Signor don Filiberto, stupisco che vi siate dato l’incomodo di venir da noi in un giorno in cui non si tratta che di affari di famiglia. (ironico)

Eleonora. (È veramente grazioso). (da sè, fremendo) [p. 215 modifica]

Filiberto. Signor, vi chiedo scusa; ma per verità, sono venuto per l’affar della vedova.

Flaminio. Di qual vedova? (con ironia)

Filiberto. Di quella con cui siete in parola di matrimonio, e per la quale ho io l’impegno che voi sapete.

Flaminio. Ah, ah, scusatemi. Credeva che la vedova fosse un’altra. (con ironia)

Eleonora. (L’impertinente). (da sè, fremendo)

Pandolfo. Vi è dell’animosità fra di loro. Vi saranno delle liti sicuramente. (da sè)

Filiberto. E qual è il vostro pensiero circa alla vedova di cui si tratta? (a don Flaminio)

Flaminio. Non vi prendete pena di ciò. Io non ho mai segnato il contratto. Le ho fatto parlare, le ho fatto capire che non ho alcuna inclinazione per lei. Ella mi ha posto in libertà, e quest’affare è finito. (a don Filiberto)

Eleonora. Il signor don Flaminio vorrà sposare la sua cantatrice. (ironica e sdegnosa)

Flaminio. Signora, con sua permissione, sposerò chi mi piacerà e parerà.

Eleonora. Ed io mi mariterò con chi vorrò.

Flaminio. Benissimo. Così anderemo d’accordo.

Pandolfo. Eh, non andranno d’accordo in tutto. (da sè)

SCENA V.

Fabrizio, poi l’Avvocato e detti.

Fabrizio. Signore, è qui l’avvocato. (a don Flaminio)

Flaminio. Che entri. (a Fabrizio)

Fabrizio. Almeno il padrone s’è provveduto d’un galantuomo. Il signor Ciccognini è l’avvocato più onesto e più prudente di questo foro. (da sè) Entri, signore, favorisca. (alla scena)

Avvocato. (Saluta tutti. Donna Eleonora s’alza un poco, lo saluta freddamente, e torna a sedere. Don Filiberto fa lo stesso. Don Flaminio l'accoglie, e gli dice di sedere presso di lui. Prima di sedere [p. 216 modifica] (saluta Landolfo. Pandolfo gli rende il saluto con gravità, come segue, stando tutti due in piedi.)

Pandolfo. Ho piacere d’aver l’onore d’essere in compagnia di un avvocato celebre come lei.

Avvocato. Fortuna mia d’aver a trattare con una persona ch’io stimo infinitamente.

Pandolfo. Ammirerò il di lei talento.

Avvocato. Mi riporterò alla di lei cognizione.

Pandolfo. Ella è la stella del nostro foro.

Avvocato. Ella m’onora più ch’io non merito.

Pandolfo. S’accomodi.

Avvocato. La supplico.

Pandolfo. Favorisca.

Avvocato. Come comanda. (vuol sedere)

Pandolfo. Per obbedirla. (siede prima lui, e si mette in gravità) Dodici di questi avvocati non mi fanno paura. (piano a donna Eleonora)

Fabrizio. (Già si sa dove tutte queste cerimonie andranno a finire). (da sè)

Flaminio. (Siete molto amici col signor Pandolfo?) (piano all’avvocato)

Avvocato. (Amici? Credo ch’egli mi detesti quanto io lo disprezzo). (piano a don Flaminio)

Fabrizio. Signori, ecco il notaro. (guardando alla scena)

Eleonora. Manco male. Si finirà una volta. (tutti s’alzano)

SCENA VI.

Il Notaro e detti.

Notaro. M’inchino umilmente a tutti questi signori. (tutti lo salutano) Scusino per amor del cielo se ho tardato a venirli a servire. Li miei affari m’hanno trattenuto a Vienna qualche giorno di più.

Eleonora. Per dire la verità, eravamo un poco impazienti.

Notaro. Vi domando scusa.... [p. 217 modifica]

Flaminio. Niente, niente, signore. Ciascheduno dee accudire a’ propri interessi, e poi non v’era alcuna ragione per muoverci ali impazienza. (verso donna Eleonora)

Eleonora. (Non lascia mai l’occasione di pungere). (piano a don Filiberto e Pandolfo)

Flaminio. (Soffrite, signora mia, soffrite). (piano a donna Eleonora)

Pandolfo. (Eh soffrir fino a certo segno....) (piano a donna Eleonora e a don Filiberto)

Notaro. Eccomi qui ad aprire, a leggere, e pubblicare il testamento del fu signor don Roberto.

Flaminio. Favorisca d’accomodarsi. (tutti siedono. Il Notaro nel mezzo)

SCENA VII.

Zelinda vestita a mezzo lutto, Lindoro e detti.

Fabrizio. (Da una parte in piedi, ed un poco indietro.)

Zelinda. (Venite, venite; non abbiate paura), (a Lindoro, tenendolo per mano e conducendolo avanti) Dimando umilmente perdono, se ci prendiamo la libertà...

Eleonora. E che cosa c’entrate voi! Mi pare che in tali occasioni i domestici non s’abbiano a mischiar coi padroni.

Lindoro. (L’ho detto. Voi volete farmi arrossire). (a Zelinda)

Zelinda. Signore, noi sappiamo il nostro dovere. Eccoci qui in un canto. (si ritira con Lindoro in disparte)

Flaminio. Avanzatevi, la signora donna Eleonora lo permetterà. (a Zelinda e Lindoro)

Eleonora. La signora donna Eleonora non lo permette.

Flaminio. Scusatemi, signora, io vi chiamo col vostro nome; quello di matrigna credo non piaccia a voi, come dispiace a me.

Pandolfo. (Oh liti sicuramente). (da sè)

Notaro. Signore, favorite dirmi chi sono queste persone. (a don Flaminio, accennando Zelinda e Lindoro)

Flaminio. Que’ due sono marito e moglie. Ella è cameriera della signora, ed era egli in figura di segretario. L’altro è il mastro di casa. (li tre, quando sono nominati, fanno la riverenza) [p. 218 modifica]

Notaro. Non è male, signora, che restino all’apertura del testamento. I domestici d’un buon padrone vi possono avere qualche interesse. (ad Eleonora. Tutti tre s’avanzano, ma in piedi)

Eleonora. Non è necessario che siano presenti.

Flaminio. Con sua permissione. (a donna Eleonora) Restate. (alli tre)

Eleonora. (Non viverei con costui per tutto l’oro del mondo). (a Landolfo)

Pandolfo. (Lasciatelo fare. Tanto peggio per lui). (piano a donna Eleonora)

Notaro. Vogliono essere serviti? andiamo. (apre il testamento)

Flaminio. Potete ommettere i preamboli e le formalità. Sono cose che rattristano troppo.

Eleonora. Sì, sì, veniamo alle corte.

Notaro. Come vi piace. Leggerò l’ordinazioni dei legati, e l’instituzion dell’erede. Lascio trecento scudi al Notaro. Queste son cose solite.

Eleonora. Sì, sono formalità che si potean tralasciare.

Pandolfo. (Trecento scudi al notaro? Capperi, il testamento è ricco, l’affare è buono). (da sè)

Notaro. Item lascio a Zelinda, figlia onesta e civile, ed a Lindoro suo marito, ch’hanno servito in casa con fedeltà, e ch’io ho sempre amati come figliuoli, la casa di mia ragione situata nella strada nuova, dirimpetto all’Università. (Zelinda e Lindoro si consolano, e fanno zitto)

Fabrizio. (Non è gran cosa). (da sè)

Eleonora. (Una casa di quella sorte). (fremendo)

Notaro. Item lascio ai medesimi, per tutta la lor vita naturale durante, due botte5 di vino all’anno e dieci sacchi di farina, parimenti per ciascun anno. (Zelinda e Lindoro si consolano, come sopra)

Fabrizio. (Via via, non c’è male). (piano a Zelinda e Lindoro)

Eleonora. (Mi pare si possano contentare). (da sè, ironicamente)

Notaro. Item lascio ai medesimi.... [p. 219 modifica]

Eleonora. Ancora?

Notaro. Io leggo quello ch’è scritto.

Fabrizio. (Sentiamo, sentiamo). (piano a Zelinda e Lindoro, con allegria)

Notaro. Item lascio ai medesimi un capitale di dieci mila scudi a loro libera disposizione. (Zelinda e Lindoro si consolano)

Eleonora. (Questo è troppo. Scommetto che per me non avrebbe fatto altrettanto). (al Procuratore e a don Filiberto, fremendo)

Flaminio. (Son contentissimo. Mio padre ha loro reso giustizia). (piano all’Avvocato)

Fabrizio. (Mi consolo con voi, ma di cuore), (a Zelinda e Lindoro)

Zelinda. (Povero padrone! darei tutto, purch’ei vivesse). (piangendo)

Lindoro. (Avete ragione; l’amor suo valeva un tesoro). (a Zelinda)

Eleonora. Che avete che piangete, Zelinda? Vi pare poco? (ironicamente)

Zelinda. Signora, la mia riconoscenza.

Notaro. Permettetemi di terminare.

Flaminio. Ha ragione.

Eleonora. Sentiamo.

Notaro. Item lascio a Fabrizio, mio mastro di casa, dieci scudi il mese fino ch’ei vive, e trecento subito per una sola volta. (Fabrizio si consola)

Lindoro. Mi consolo. (a Fabrizio)

Zelinda. Me ne rallegro. (a Fabrizio)

Fabrizio. Son contentissimo. (a Zelinda e Lindoro)

Notaro. Item lascio ed ordino all’infrascritto mio erede di pagar in contanti alla Signora Donna Eleonora, mia carissima consorte, la somma che apparisce dalla mia confessione di dote aver da lei ricevuta, e ciò senza contradizione veruna.

Eleonora. E qual contradizione ci potrebb’essere?

Notaro. Scusatemi, signora....

Eleonora. Finite, finite di leggere. (Vediamo se si è sovvenuto della donazione reciproca. Questa è quella che mi sta sul cuore). (da sè)

Notaro. Item lascio all’infrascritto mio erede di continuar a passare alla suddetta mia signora consorte il solito trattamento [p. 220 modifica] di vitto, vestito, servitù ed alloggio per tutto il tempo della sua vita, e venti scudi al mese per le spille. (donna Eleonora, Pandolfo, don Filiberto si consolano)

Notaro. Con condizione però (tutti ascoltano attentamente) ch’ella resti vedova, e resti in casa con don Flaminio mio figliuolo; e s’ella volesse rimaritarsi, o non volesse restar in casa come sopra, non possa altro pretendere che la dote suddetta, consistente in dodici mila scudi.

Eleonora. Vuol obbligarmi a restar vedova?

Pandolfo. Sentiamo il fine. (a donna Eleonora) (Si farà una lite terribile). (da sè)

Notaro. Item lascio, nomino e dichiaro, ed istituisco mio erede universale, coll’obbligo de’ sopradetti legati particolari don Flaminio, mio unico figlio, (don Flaminio e l’Avvocato si consolano) Con condizione però (tutti ascoltano) ch’egli non si mariti con persona di grado inferiore al nostro, e sopratutto con una ch’avesse pubblicamente ballato o cantato sopra il teatro; (don Flaminio si rattrista) e maritandosi contro la mia presente disposizione, non possa egli conseguir altro che li beni fideicomissi, e la dote materna, e la quarta parte de’ miei beni liberi, azioni, ragioni, crediti, e sostituisco nel caso suddetto per miei eredi universali Zelinda e Lindoro sunnominati. Ecco tutto l’essenziale del testamento. (Tutti s’alzano, don Flaminio e donna Eleonora agitali e malcontenti.)

Notaro. Signori, se non mi comandano altro, io anderò per i fatti miei.

Flaminio. S’accomodi. Sarò a riverirla, ed a pagar il mio debito.

Notaro. Mandino, quando vogliono, per la copia del testamento. Servitor umilissimo di lor signori. (s’incammina)

Zelinda. Accompagnamelo6 almeno noi. (a Lindoro e Fabrizio)

Lindoro. Sì, usiamogli questa civiltà.

Fabrizio. È giusto. Andiamo. (partono tutti tre col Nolaro) [p. 221 modifica]

SCENA VIII.

Donna Eleonora, don Flaminio, don Filiberto, l’Avvocato, il Procuratore.

Flaminio. Signora, voi avete inteso le disposizioni di mio padre. Se volete star meco, siete padrona, ma siccome per godere d’un tale benefizio dovreste rinunziare al pensiero di rimaritarvi, così avrete la bontà di farmi sapere a qual partito vi vorrete appigliare.

Eleonora. Il testamento è ingiusto, e non lo accetto nei termini come è scritto. Mi sono maritata assai giovine, e non ho preso un vecchio per sacrificarmi in tal modo.

Pandolfo. E non dev’essere sagrificata, e si farà lite.

Eleonora. Vi dev’essere una donazione reciproca...

Avvocato. Una donazione reciproca? Scusate, signora mia. Se vi fosse, il testatore non l’avrebbe dimenticata.

Eleonora. Me l’ha promessa, e vi sono de’ testimoni.

Pandolfo. Vi sono de’ testimoni? Si farà lite.

Flaminio. Signora, guardatevi da chi vi consiglia per il proprio interesse.

Pandolfo. Parla per me, signore. Son conosciuto. Io non ho bisogno di mendicare clienti. Ne ho da dare a chi non ne ha. Difendo le donne per inclinazione, e le vedove per compassione, (parte)

SCENA IX.

Donna Eleonora, don Flaminio, don Filiberto, l’ Avvocato.

Eleonora. Che legge barbara, che legge inumana è questa? Non basta ai mariti di tiranneggiar finchè vivono le loro mogli, vogliono comandar loro anche dopo morti? [p. 222 modifica]

Filiberto. Signora, se mai vi mettesse in pena l’impegno ch’avete meco contratto, sappiate ch’io vi stimo e v’amo, ma sono un galantuomo, e non intendo di pregiudicare i vostri interessi.

Eleonora. Sì, sì, ho capito. Temete ch’io non sia tanto ricca, quanto avevate supposto. Ecco il motivo della vostra virtuosa rassegnazione. Ma giuro al cielo si farà una lite, e mi daranno quello che m’appartiene, e sarò padrona di me, e voi mi manterrete la parola, o per amore, o per forza. (parte)

Filiberto. (È amabile veramente la sposa che mi son scelto. Ma vi vuol pazienza. Io l’amo, e sono dieci anni ch’io la conosco, e sono dieci anni ch’io soffro). (da sè, parte)

SCENA X.

Don Flaminio e l’Avvocato.

Flaminio. Che dite, amico, in quali imbarazzi7 mi trovo?

Avvocato. Non temete di niente. Questa reciproca donazione mi pare che sia una fantasma senz’alcun fondamento. Il signor don Roberto era un uomo di garbo, sapeva benissimo che non poteva donare in pregiudizio di suo figliuolo. Può essere che in qualche momento di tenerezza l’abbia lusingata, ma la donazione non c’è, e i testimoni non servono.

Flaminio. Per questa parte pare anche a me di poter viver tranquillo, e per dirvi la verità, non ci penso. Quello che mi dà più da pensare, si è la condizione con cui mio padre mi vuole erede.

Avvocato. Lo credo benissimo, dopo quello che mi avete confidato del vostro amore per la signora Barbara. Vi compatisco, e farò il possibile per assistervi. Ma per dirvi la verità, il testamento parla assai chiaro.

Flaminio. La giovine è d’una nascita che non disonora la nostra.

Avvocato. Tutto va bene, ma ella ha cantato in pubblico sul teatro, e il testamento l’esclude, e il padre è padrone di lasciar il suo libero a chi vuole, e colle condizioni che più gli piacciono.. [p. 223 modifica]

Flaminio. Voi dunque mi disperate del tutto.

Avvocato. No, non vi dispero altrimenti. Principio a considerare le difficoltà, ma non le trovo perciò insuperabili. Fidatevi di me, lasciate maneggiare a me la faccenda.

Flaminio. Ma come, ma come mai? Oh cieli! voi mi colmate di consolazione.

Avvocato. Venite meco, e vi svelerò il mio disegno. (parte)

Flaminio. Gran fortuna per me l’aver per difensore un avvocato amico, intelligente ed onorato. (patte)

SCENA XI.

Zelinda, Lindoro e Fabrizio.

Fabrizio. Non posso bastantemente spiegarvi il contento che provo per parte vostra. V’assicuro che il veder voi così ben trattati e così ben provveduti, mi fa più piacere del bene ch’ha lasciato il padrone alla mia persona.

Zelinda. Effetto della vostra bontà.

Lindoro. Ne sono e sarò sempre riconoscente.

Fabrizio. Spero ch’ora voi sarete contenta.

Zelinda. Ho ragione d’esserlo, e sarei al colmo della felicità, se un interno rammarico non m’inquietasse.

Lindoro. Qual rammarico, Zelinda mia? Parlate, vi prego, che cos’avete?

Zelinda. Vi dirò, la perdita del mio caro padrone.... (Non ho coraggio di dire la verità). (da sè)

Fabrizio. Ma bisogna poi darsi pace.

Lindoro. Veramente egli era sì buono, e abbiamo sì grandi obbligazioni verso di lui....

Fabrizio. Ma quel buon uomo non pretende da voi il sagrifizio della vostra pace, della vostra tranquillità. Egli ha avuto intenzione di farvi felici e contenti. Vi vuol sensibili all’amor suo, ma vuol che godiate tranquillamente il bene che vi ha lasciato.

Lindoro. Sì, dite bene, convien darsi pace, e profittar onoratamente di sì buona fortuna. Mio padre s’è meco riconciliato, [p. 224 modifica] ma per cagione della famiglia, non ama ch’io vada a stare con lui. Se Zelinda è contenta, resteremo qui, abiteremo8 la casa che ci ha lasciato il padrone, e passeremo i nostri giorni felicemente.

Zelinda. Oh sì, questo è quel ch’io desidero. Staremo da noi in casa nostra; per me, sortirò pochissimo, non tratterò con nessuno, e spero che il mio caro marito non avrà a dolersi di me, e non avrà più alcun motivo di gelosia.

Lindoro. No, cara Zelinda, non mi ricordate più la mia debolezza passata. So che v’ho fatto delle ingiustizie, e non ve ne farò mai più. Voglio anzi che vi divertiate, che andiate a spasso, che trattiate con chi vi pare. Vi lascierò in pienissima libertà, e non vi sarà più pericolo che vi rimproveri, che vi tormenti, ne ch’abbia la debolezza di sospettare di voi.

Fabrizio. Bravo, così mi piace, così va bene, così Zelinda sarà contenta.

Zelinda. (Ah no, questa sua indifferenza mi agita, mi tormenta, e mi fa dubitare che più non mi ami). (da sè)

Lindoro. Fabrizio carissimo, mi viene in mente un pensiere. Noi abbiamo pane, e vino, e casa, e dieci mila scudi di capitale, ma ciò non basta per vivere comodamente. Ho qualche cosa di casa mia, ma non basta ancora per tutt’i bisogni d’una famiglia. Bisognerebbe9, per istar bene, bisognerebbe metter a profitto il danaro, e far qualche buon negozietto. Voi avete pratica degli affari, voi siete galantuomo, ci siete amico, potreste unirvi con noi, viver con noi, e col nostro danaro, e colla vostra direzione...

Fabrizio. Sì, e aggiungete che anch’io, oltre il legato de’ trecento scudi, ho qualche danaro ammassato, e spero che le cose nostre anderanno felicemente.

Lindoro. Ah, che ne dite Zelinda? Vi pare ch’io abbia pensato bene?

Zelinda. Scusatemi, ci ho qualche difficoltà. Non intendo di far [p. 225 modifica] alcun torto a Fabrizio ch’io stimo e rispetto, ma per un picciolo commerzio, per maneggiare un piccolo capitale di dieci mila scudi, credo che voi ed io abbiamo talento che basti.

Fabrizio. Signora, voi ricusate la mia compagnia...

Zelinda. Non è, vi dico, per farvi un torto, ma se volete che parli chiaro, lo farò. Mi ricordo quanto ho sofferto per causa vostra. Mi ricordo che mio marito è stato geloso ancora di voi, e non vorrei che vivendo insieme...

Lindoro. Ma vi dico, e vi protesto, e vi giuro, che non sarò più geloso.

Zelinda. Mai più geloso?

Lindoro. Mai più.

Zelinda. Non posso crederlo, e non lo credo.

Lindoro. Lo vedrete, e lo toccherete con mano. Sono così persuaso, talmente disingannato, che vi lascierei, come si suol dire, in mezzo un’armata.

Zelinda. (Se dicesse la verità, sarei alla disperazione). (da sè)

Fabrizio. Orsù, abbiamo tempo a pensare, e a risolvere. Disponete di me come più vi piace, io son galantuomo, son vostro amico, e questo vi basti. Faccio conto d’andar subito dal notaro a prender la copia dell’articolo che mi riguarda.

Lindoro. Sì, e con quest’occasione, fatemi il piacere di farvi dar la copia de’ nostri legati.

Fabrizio. Ben volentieri.

Lindoro. Se v’è qualche spesa...

Fabrizio. Oh, per la spesa supplirà il signor don Flaminio. È il notaro di casa. A rivederci. (Zelinda, da una parte, ha ragione. Pare impossibile che un geloso di tal natura si sia cangiato del tutto). (da sè, e parte)

SCENA XII.

Zelinda e Lindoro.

Zelinda. Dite, Lindoro; scusatemi s’io vi faccio una simile interrogazione. Come mai avete potuto cambiar sì presto di tempera[p. 226 modifica]mento? Un mese fa, voi eravate geloso, estremamente geloso, ed ora non lo siete più?

Lindoro. Ditemi voi, Zelinda, avreste piacere ch’io lo fossi ancora, e seguitassi a tormentarvi come feci per lo passato?

Zelinda. A tormentarmi?... No, non avrei piacere d’essere tormentata. (nascondendo la sua passione)

Lindoro. Avete ragione, sono stato un pazzo, vi ho trattato male, ne son pentito, vi domando nuovamente perdono, e nuovamente vi protesto e v’accerto che non sarò più geloso.

Zelinda. Mai più geloso? (con qualche passione)

Lindoro. Mai più vi dico, mai più. Lo sono stato senza ragione d’esserlo. Ma voi sapete bene, mia cara, che la mia gelosia non derivava che dall’eccesso d’amore.

Zelinda. Voi eravate geloso per eccesso d’amore?

Lindoro. Così è.

Zelinda. Ed ora non siete più geloso?

Lindoro. Vi dico costantemente di no.

Zelinda. (Dunque non m’ama più). (da sè)

Lindoro. (Mi sforzo, e mi sforzerò per non esserlo. Ci patisco, ma non dispero di superarmi). (da sè)

SCENA XIII.

L’Avvocato e detti.

Avvocato. (Oh eccoli qui tutti due). (da sè)

Lindoro. Faccio umilissima riverenza al signor avvocato.

Avvocato. Riverisco il signor Lindoro. Servo, signora Zelinda. (entra nel mezzo)

Zelinda. Serva sua divotissima.

Avvocato. Mi consolo con voi della vostra buona fortuna, ben dovuta al merito d’ambidue.

Lindoro. Vossignoria ha della bontà per noi.

Zelinda. (Per me non gli voglio10 dare gran confidenza. Lo conosco, gli piace troppo scherzare). (da sè) [p. 227 modifica]

Avvocato. Certo, il signor don Roberto ha reso giustizia alle qualità amabili di questa buona figliuola. (s’accosta)

Zelinda. La ringrazio delle sue cortesi espressioni. (si ritira un poco)

Lindoro. È compito il signor avvocato. (dissimulando la pena)

Avvocato. Povera figlia! So la vostra nascita, so le vostre disgrazie, e sono contentissimo di vedervi ora star bene. (s’accosta ancora più)

Zelinda. Obbligatissima alle sue finezze. (si ritira, ed osserva Lindoro)

Lindoro. (Ho promesso di non esser più geloso). (da sè, e si ritira)

Zelinda. (Mi pare che Lindoro ci patisca). (da sè, consolandosi)

Avvocato. Figliuola mia, torno a dirvi, mi consolo del bene che v’ha lasciato il signor don Roberto, ma appunto per l’interesse ch’io prendo a vostro vantaggio, deggio avvertirvi che il testamento ha qualche difetto, che v’è qualche cosa a temere, e sono venuto espressamente per parlare con voi. (a Zelinda)

Lindoro. (Perchè piuttosto con lei, che con me?) (da sè)

Zelinda. Signore, io non ho cognizione di questi affari. Parlate con mio marito.

Avvocato. Parlerò a tutti due, ma siccome voi siete quella a di cui contemplazione il signor don Roberto ha lasciato questi legati... credo che il signor Lindoro non s’avrà per male ch’io abbia introdotto il discorso con voi. (a Zelinda, guardando anche Lindoro)

Lindoro. Oh non signore. Mia moglie ha talento bastante, e la prego anzi di continuare il ragionamento con lei. (Guai a me s’io dicessi diversamente! Zelinda forse se ne offenderebbe). (da sè)

Avvocato. Sappiate dunque Zelinda... (accostandosi a lei)

Zelinda. Signore, scusatemi, io non voglio ascoltar niente senza la presenza di mio marito.

Lindoro. (Ecco, mi crede ancora geloso). (da sè)

Avvocato. Accostatevi dunque, ed ascoltate voi pure. (a Lindoro)

Lindoro. No, certo. Parli con lei: non ci voglio entrare. (si ritira indietro, e passeggia)

Zelinda. (Mi fa una rabbia che non lo posso soffrire). (da sè) [p. 228 modifica]

Avvocato. Sappiate dunque, che il testamento corre pericolo d’esser tagliato.

Zelinda. E che vuol dire tagliato?

Avvocato. Vuol dire d’esser dichiarato nullo, di niun valore. (Lindoro ascolta, e mostra di non voler ascoltare)

Zelinda. Ma venite qui. Sentite cosa egli dice. Cosa serve che stiate lì? Di chi vi volete prendere soggezione? (a Lindoro)

Lindoro. (È furba, capisce tutto). (da sè) No, no, ho qualche cosa da fare; non posso più trattenermi. Sentite voi, e poi mi riferirete. (in atto di partire)

Zelinda. No, vi dico, restate, venite qui. (lo trattiene)

Lindoro. Ma se ho che fare, se non posso restare.

Zelinda. E qual premura avete d’andarvene?

Lindoro. Voglio scrivere a mio padre, istruirlo della mia buona fortuna, e dargli ragguaglio di quel che passa.

Zelinda. Lo farete poi, non vi è questa premura.

Lindoro. La posta parte da qui a mezz’ora. Scusatemi: voglio adempire a questo dovere; vado a scrivere, e poi tornerò. (Ci patisco, ma mi avvezzerò). (da sè, parte)

SCENA XIV.

L’Avvocato e Zelinda.

Zelinda. (Non so che dire. Una volta non m’avrebbe certo lasciato a testa a testa con un legale). (da sè)

Avvocato. E bene, questa disputa è ancor finita?

Zelinda. Scusate, signore. Mio marito ha che fare, ed io senza di lui è inutile che v’ascolti. (stando lontana)

Avvocato. Ma, figliuola mia, non v’è tempo da perdere. V’avverto per vostro bene. Se il testamento è nullo, voi correte rischio di perder tutto.

Zelinda. Si corre rischio di perder tutto? (s’accosta con ansietà)

Avvocato. Così è, vi dico: il testamento potrebb’esser tagliato, e in questo caso tutt’i legati se n’andrebbero in fumo. [p. 229 modifica]

Zelinda. Poveri noi! Signore, per amor del cielo, ditemi, spiegatemi questa faccenda.

Avvocato. Non temete di niente. Io sono l’avvocato del signor don Flaminio, ma come egli v’ama e vi protegge, opererò per voi e per lui. Ho formato nella mia mente un progetto; basta che voi lo secondiate, che vi fidiate di me, e vi prometto non solo la sicurezza de’ vostri legati, ma qualche cosa ancora di più.

Zelinda. Signore, so che siete un galantuomo, un uomo onesto, ci raccomandiamo a voi, e ci fideremo di voi.

Avvocato. Bene dunque, state quieta e tranquilla, ed io opererò sulla vostra parola.

Zelinda. Ma si potrebbe sapere quel ch’avete intenzione di far per noi? (s’accosta un poco)

Avvocato. Voi avete un poco di curiosità. (s’accosta)

Zelinda. Vedete bene, si tratta di tutto; si tratta dell’esser nostro.

Avvocato. Certo che sarebbe per voi una perdita irreparabile.

Zelinda. Siete così valoroso nell’arte vostra, e avete tanta bontà per noi. (gli si accosta, ma si ritira temendo Lindoro)

Avvocato. Vi ritirate? di che avete paura? Io credo d’essere bastantemente conosciuto per galantuomo, per uomo onesto e civile. Mi piace ridere, mi piace scherzare, ma non son capace di dar dispiacere a nessuno.

Zelinda. Avete ragione, ma una povera donna ch’ha un marito difficile, ha sempre paura di pregiudicarsi.

Avvocato. Basta così, ho capito. Vostro marito è un pazzo, e voi siete assai delicata; non crediate ch’io v’offerisca l’opera mia per un vile interesse. Amo le buone grazie, ma non le pretendo. Ho promesso d’assistervi, e v’assisterò di buon core. (parte)

SCENA XV.

Zelinda sola.

Conosco il signor avvocato, passa d’essere un poco troppo libero colle donne; mio marito dic’egli di non esser più geloso, ma [p. 230 modifica] non lo credo, e non lo voglio credere ancora per non disperarmi del tutto. Non mi scorderò mai ch’egli m’ha detto e ridetto, ch’è stato di me geloso per eccesso d’amore, e non lascierò mai di concludere, s’ei non è più geloso, ch’egli non m’ama più. Ma eccolo che ritorna, non vuo’ più vivere in questo dubbio, voglio sincerarmi assolutamente.... Ma s’io gli do a conoscere la mia inquietudine, potrebbe fingere d’esser geloso, ancor quando più non lo fosse; no, no, bisogna nascondere questo dubbio, e cercar di scoprire la verità.

SCENA XVI.

Zelinda e Lindoro.

Lindoro. Eccomi qui, ho scritto la lettera, e l’ho spedita.

Zelinda. Bene, or sarete contento.

Lindoro. Quest’è un debito che mi correva. L’avvocato è partito?

Zelinda. Sì, è partito.

Lindoro. Siete restata di lui contenta?

Zelinda. Contenta? poco, per dir la verità.

Lindoro. E che? Avrebb’egli intenzione di farci perdere i nostri legati?

Zelinda. No, anzi m’ha detto che v’è qualche pericolo, ma che si esibisce d’assisterci, ed assicurarci il bene che ci è stato lasciato.

Lindoro. Qual ragione avete dunque d’essere malcontenta di lui?

Zelinda. Vi dirò. Sapete ch’è un uomo proprio e civile, ma che si prende qualche volta certe picciole libertà....

Lindoro. Si ha prese con voi delle libertà? (con calore)

Zelinda. Non ha veramente ecceduto, ma siccome io conosco la vostra delicatezza... (Principia a risentirsi). (da sè, contenta)

Lindoro. (La conosco, vuol provarmi, non farà niente). x(da sè) E bene, quali sono queste libertà di cui vi dolete?

Zelinda. Per esempio, volermi sempre dappresso, e s’io mi ritirava, accostarsi, lamentarsi e rimproverarmi. [p. 231 modifica]

Lindoro. Cose da niente. L’avrà fatto semplicemente.... L’avrà fatto per non esser sentito.... V’ha confidato quello ch’è, quello che corre, quel che vuol fare per noi?

Zelinda. Voleva confidarmelo, ma non ho avuto più sofferenza.

Lindoro. Perchè? (con ansietà)

Zelinda. Perchè ha frammischiato il discorso con certi termini, con certe espressioni.... ch’io ho del merito, ch’ho delle grazie, ch’ho del talento.

Lindoro. Ha detto? (con ansietà, sforzandosi a non mostrar pena)

Zelinda. Così m’ha detto.

Lindoro. E bene. Se ha detto ch’avete del merito, vi ha reso giustizia. Se ha detto ch’avete delle grazie, del talento, ha detto la verità.

Zelinda. E non vi formalizzate di questo?

Lindoro. Oibò. Per qual ragione avrei da formalizzarmi?

Zelinda. Se vi dicessi il resto?

Lindoro. Il resto? (con un poco di calore)

Zelinda. Sapete voi la conclusion del discorso?

Lindoro. La conclusione?

Zelinda. Mi voleva prender la mano. (con calore)

Lindoro. Non c’è altro?

Zelinda. E vi par poco.

Lindoro. Un atto di civiltà, d’amicizia.

Zelinda. (Povera me!) (da sè) E voi avreste permesso ch’io gli avessi accordata questa finezza?

Lindoro. Gliel’avete data la mano?

Zelinda. No, non ho voluto.

Lindoro. E qual ragione avete addotta per non farlo? L’avete disgustato? gli avete parlato con villania?

Zelinda. Non son capace di questo. L’ho persuaso con civiltà; gli ho detto che la cosa per se stessa è innocente, ma che non parrebbe tale agli occhi di mio marito.

Lindoro. Ecco qui: voi mi volete render ridicolo; voi mi volete far passar per geloso. (con un poco di caldo)

Zelinda. Ma se so che lo siete. (dolcemente) [p. 232 modifica]

Lindoro. Ma se vi dico che non lo sono più, che v’ingannate, che m’offendete, e che non voglio che mi parliate, nè che ci pensiate mai più. State, andate, parlate, trattate con chi volete, non mi rendete conto di niente, non siate in pena per me: vi conosco, non ci penso, mi fido. Non son geloso, e non lo sarò mai più finch’io viva. (Crepo, schiatto, ma mi avvezzerò), (da sè, parte)

SCENA XVII.

Zelinda sola.

Ah povera me! Son disperata. Mio marito non m’ama più. Mi ha tormentato colla gelosia, ma i miei tormenti erano dall’amor raddolciti. Ah sì, piuttosto che vedermi trattar con indifferenza, soffrirei volentieri d’essere maltrattata, mortificata, e battuta ancora da mio marito. Ah il mio caro marito! Ah ch’ho perduto l’amore del mio caro marito! Non m’importa de’ miei legati, non m’importa del bene ch’ho. Mio marito non è di me più geloso. Mio marito non mi vuol più bene. Sono avvilita, son perduta, son disperata. (parte)

Fine dell’Atto Primo.


Note

  1. Così l’ed. Zatta. Altre edizioni, per es. quella di Bologna, stampano: picciolissima somma.
  2. Ed. Zatta: gl’ha.
  3. Così l’ed. Zatta. Altre posteriori stampano: L’ha di già ritrovato? sì presto?
  4. L’ed. di Bologna e altre: e se l’ha.
  5. Così il testo.
  6. Così il testo.
  7. Ed. Zatta: qual’imbarazzi
  8. Ed. Zatta: restaremo qui, abitaremo ecc.
  9. Ed. Zatta: bisognarebbe.
  10. Ed. Zatta: non voglio.