Le inquietudini di Zelinda/Atto II

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Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Camera coll’armadio in fondo.

Un tavolino da una parte ben avanti, e una sedia.

Zelinda sola.

(Melanconica va pian piano all’armadio, lo apre, ne tira fuori la sua cestella da lavorare, e lo serra. Poi porta la sua cesta sul tavolino, siede e lavora senza dir niente pensosa, con qualche sospiro, ed asciugandosi qualche volta gli occhi col fazzoletto).

SCENA II.

Fabrizio e la suddetta.

Fabrizio. Eccomi qui, Zelinda. Sono stato dal notaro, ed ho avuto la copia del testamento, cioè di quella parte che vi riguarda. Ecco la vostra copia, tenete. [p. 234 modifica]

Zelinda. (Prende la carta senza parlare, e la mette sul tavolino senza guardarla.)

Fabrizio. Ho veduto or ora il padrone, ed è assai contento per un progetto dell’avvocato, che può render tutti contenti. (Zelinda lavora e non dice niente) Ho sentito con mia consolazione, che in questo progetto voi pure, e vostro marito, siete compresi, e con vostro grand’avvantaggio.

Zelinda. (Sospira e s’asciuga gli occhi.)

Fabrizio. Cosa è, che cos’avete, Zelinda? Siete trista, melanconica, par che piangiate.

Zelinda. Niente. Vi prego di lasciarmi quieta. (lavora)

Fabrizio. Ma che è mai questa novità? questa stravaganza? Vi veggio afflitta, piangente, in tempo ch’avete giusto motivo d’essere consolata, e di chiamarvi felice?

Zelinda. Ah per me non v’è più consolazione, non v’è più al mondo felicità. (sospira e lavora)

Fabrizio. Ma perchè? cos’è stato? cos’è accaduto?

Zelinda. Niente, lasciatemi piangere in libertà.

Fabrizio. Vi prego, vi supplico, confidatemi la cagione di questa vostra tristezza.

Zelinda. No, dispensatemi; è inutile ch’io vi parli.

Fabrizio. Vi prego per la nostra buona amicizia. Ricordatevi ch’io non v’ho mai nascosto niente, che in ogni occasione ho confidato in voi, mi son fidato di voi, non credo di meritar questo torto. Non mi pare ch’abbiate motivo di diffidare di me.

Zelinda. Bene: se voi promettete, se mi date parola d’onore di non dir niente a nessuno, vi confiderò anch’io quel segreto che m’agita, e mi tormenta.

Fabrizio. Son galantuomo. Vi prometto di non dir niente.

Zelinda. No, non mi basta. Ricordatevi che quando m’avete confidato la lettera di don Flaminio, avete da me preteso un giuramento in parola d’onore. Se volete ch’io parli, assicuratemi colla stessa solennità.

Fabrizio. Avete ragione. Vi giuro e vi prometto in parola d’onore di non dir niente a nessuno. [p. 235 modifica]

Zelinda. E sopra tutto a mio marito.

Fabrizio. E sopra tutto a Lindoro.

Zelinda. Parola d’onore.

Fabrizio. Parola d’onore. (Che diamine sarà mai?) (da sè)

Zelinda. Sappiate dunque, mio caro Fabrizio, che il mio dolore, la mia afflizione proviene dal poco amore di mio marito. Ah! il mio marito non mi ama più. Ne son certa, ne son sicura, e senza l’amore di mio marito, non sento il bene, non curo la mia fortuna, e sarò sempre infelice. (con afflizione)

Fabrizio. Qual motivo avete di credere che Lindoro non v’ami più?

Zelinda. Contentatevi ch’io ne sono sicura, ch’io ne ho delle prove evidenti.

Fabrizio. Zelinda, voi v’ingannate sicuramente. Non è possibile che Lindoro v’abbia perduto l’amore, anzi mi pare aumentata la sua tenerezza per voi.

Zelinda. Non è vero. Il suo amore è scemato, e posso dire svanito. Mi guarda ora con indifferenza; ha ancora qualche amicizia per me, ma ben tosto m’aspetto che degeneri l’indifferenza in disprezzo, e l’amicizia sforzata in un vero odio mortale.

Fabrizio. Voi mi dite delle cose che mi fanno tremare, inorridire, maravigliare. Ma vi supplico, vi scongiuro, ditemi qualche cosa di positivo che vaglia a farmi credere quel che dite.

Zelinda. Ve lo dirò. Ma ricordatevi l’impegno d’onore.

Fabrizio. Non temete. Son galantuomo, lo manterrò.

Zelinda. Sentite, e giudicate se penso male.

Fabrizio. Dite, dite. (Ho un’estrema curiosità). (da sè, e s’accosta bene a Zelinda)

SCENA III.

Lindoro e detti.

Lindoro. (Entra, vede li due, e si ferma.)

Zelinda. Sappiate adunque che mio marito... Ma oh cieli! Eccolo qui per l’appunto. (piano a Fabrizio) [p. 236 modifica]

Fabrizio. (Si ritira un poco dalla sedia.)

Zelinda. Andate, andate; un’altra volta finiremo il nostro ragionamento. (forte, acciò Lindoro senta, e s’ingelosisca)

Lindoro. No, no, terminate pure. Non abbiate soggezione di me. (fingendo indifferenza e giovialità)

Fabrizio. Oh! Non v’è niente che prema. Non sospettate che vi sieno delli segreti. (ridendo)

Lindoro. Io sospettare? Di che? non sospetto niente. (V’è qualche cosa che non vogliono che da me si sappia). (da sè, e passa fra il tavolino e Fabrizio)

Fabrizio. Si parlava de’ nostri legati. (con bocca ridente)

Lindoro. Ne son persuaso. (si volta verso Zelinda)

Zelinda. (Aspetta il momento che Lindoro la guardi, e prende la carta ch’è sul tavolino, e se la mette in tasca mostrando di non voler esser veduta, ma lo fa apposta perchè Lindoro la veda.)

Lindoro. Cara Zelinda, mi pare che siate afflitta... (affettando il discorso) Avete messo via una carta, mi pare... Non vorrei che vi fosse qualche novità cattiva per noi. (sforzandosi di nascondere la curiosità)

Zelinda. Non v’è niente di nuovo. (lavorando)

Lindoro. Ma quella carta... Non crediate ch’io sia curioso, ma ho paura che qualche cosa vi dia della pena. (affettando come sopra)

Zelinda. Vi preme di veder questa carta? (la tira fuori e parla con un poco di forza)

Lindoro. No, non la voglio vedere. Mi basta solamente sapere da voi...

Zelinda. E bene, se non la volete veder, tanto meglio. (la rimette in saccoccia)

Fabrizio. (Mi dispiace che lo mette in sospetto). (da sè)

Lindoro. Ma non si potrebbe sapere... (a Zelinda)

Zelinda. No, no, è inutile che lo sappiate. Parliamo d’altro.

Lindoro. Fabrizio. (accostandosi a lui)

Fabrizio. Comandate. (con bocca ridente)

Lindoro. Voi saprete che cosa è quella carta? [p. 237 modifica]

Fabrizio. Lo so certo. (come sopra, ridendo un poco più)

Zelinda. Non è necessario che glielo diciate.

Lindoro. Non volete ch’io lo sappia?

Fabrizio. Venite qui. Voglio levarvi io da ogni dubbio.

Zelinda. (In questo tempo tira fuori di tasca due carte.)

Fabrizio. Quella carta è la copia del testamento.

Lindoro. Del testamento? (voltandosi verso Zelinda)

Zelinda. Oh la copia del testamento? signor sì, eccola lì. (la getta in terra) Quelli sono gli affari vostri. (accennando la carta) E questi sono gli affari miei. (mette in tasca l’altra carta)

Lindoro. (Ci scommetto che fa per provarmi. Ma non farà niente). (da se)

Fabrizio. (Raccoglie la copia ch’è per terra) (Non so che dire, vedo delle stravaganze che non capisco. Questa copia la custodirò io). (da sè)

Lindoro. Zelinda carissima, io non sono così indiscreto di voler saper tutto. Se avete delle carte ch’io non ho da vedere, siete una donna prudente, e lo farete per delle buoni ragioni. Quel che mi penetra e m’interessa, è il vedervi turbata, e mi parete meco sdegnosa. Si potrebbe sapere che cos’avete?

Zelinda. (Non risponde e si mette a lavorare.)

Lindoro. È qualche cosa che non possiate a me confidare?

Zelinda. (Lavora e non parla.)

Lindoro. (Questo suo silenzio mi fa tremare). (da sè) Fabrizio, sapete voi qualche cosa?

Fabrizio. No... no, non so niente. (in maniera che fa conoscere che sa qualche cosa)

Lindoro. Eh amico, capisco che voi ne siete informato. (poi guarda Zelinda)

Zelinda. Oh sì, Fabrizio sa tutto, ma non parlerà. (a Lindoro)

Lindoro. Non parlerà? Per qual ragione non parlerà?

Zelinda. Perchè ha dato la sua parola d’onore di non parlare.

Lindoro. Che cos’è quest’imbroglio? (a Fabrizio)

Fabrizio. È vero. Le ho promesso di non parlare.

Lindoro. E ad un marito si fanno di tai misteri? (a Fabrizio) [p. 238 modifica]

Fabrizio. Avete ragione. (E una cosa contro la ragione, e contro la convenienza). (da sè)

Lindoro. Zelinda, io non ho dubbi, non ho sospetti, ma questa cosa m’inquieta. Vi prego, son finalmente vostro marito, posso anche obbligarvi a parlare.

Zelinda. No, è inutile la preghiera, sarebbe inutile anche il comando, non posso parlare, e Fabrizio ne sa il perchè.

Lindoro. Fabrizio, per amor del cielo. (con ansietà)

Zelinda. (Mi pare che principii ad ingelosirsi). (da sè, contenta)

Fabrizio. In verità... se sapeste... ho pena anch’io.

Lindoro. Se siete un galantuomo, siete in obbligo di parlare.

Fabrizio. Sì, è vero, un galantuomo dee dar conto di sè, non dee far sospettar della sua condotta. Sappiate dunque...

Zelinda. Ehi, ehi, ricordatevi la parola d’onore. (a Fabrizio)

Fabrizio. Che parola d’onore? La parola si dee mantenere quando si tratta di cose di conseguenza, ma questa è una bagattella, è una corbelleria, a fronte di cui ha da prevalere la quiete, la tranquillità d’un marito. (a Zelinda con forza) Sappiate dunque che vostra moglie è afflitta, è inquieta, perchè crede che suo marito non l’ami più. (a Lindoro)

Zelinda. (Balza dalla sedia) Bravo, Fabrizio, questo è un ripiego a tempo, come quello della lettera alla figlia dello speziale di campagna. Vi lodo, siete un galantuomo, un vero mantenitor della parola d’onore. So ch’avete detto che colla mia segretezza io faceva onor alle donne, e voi mantenendo così bene il segreto, osservando così ben la parola, fate onore grandissimo al rispettabile sesso virile. (con ironia, e parte)

SCENA IV.

Fabrizio e Lindoro.

Fabrizio. (Si burla di me, ma non preme. In questo caso so d’aver fatto bene). (da sè)

Lindoro. (Povero me! a chi devo credere? Sono più confuso che mai). (da sè) [p. 239 modifica]

Fabrizio. Lindoro mio...

Lindoro. Ah Fabrizio, non mi tradite per carità.

Fabrizio. Non son capace di farlo, e ho superato ogn’altra delicatezza per sincerarvi della pura e semplice verità. Dica Zelinda quel che sa dire, quest’è l’unico soggetto della sua tristezza. Ella teme, anzi ella crede assai fermamente che voi non l’amate più.

Lindoro. Ma come mai può ella credere, o dubitare tal cosa?

Fabrizio. Questo è quello che non ho potuto ancor penetrare; voleva dirmelo quando siete arrivato.

Lindoro. Ah sì, non può essere che questo, e quasi quasi ha ragione. L’ho tormentata colla gelosia, ho promesso di non esser più geloso, mi sforzo di non parerlo, ma è impossibile ch’ella non lo conosca. Non le darò più alcun’ombra di sospetto. Lo prometto, lo giuro, e lo manterrò. Sì, Zelinda sarà contenta, a costo di morire, e lo manterrò.

Fabrizio. Bravissimo, farete bene, Zelinda lo merita, e dovete far il possibile per renderla tranquilla. Volete voi la copia del testamento?

Lindoro. No, custoditela voi.

Fabrizio. La riporrò colla mia. Addio, amico, prego il cielo che vi consoli. (parte)

Lindoro. Ma che cosa è mai questa misera umanità? Ecco qui, in mezzo ai beni, alle fortune, alle contentezze, un’ombra, un sospetto, una cosa da nulla guasta lo spirito, e conturba il cuore. Segno manifesto che in questo mondo non vi può essere felicità.

SCENA V.

Don Flaminio e detto.

Flaminio. Amico, vorrei pregarvi d’una finezza.

Lindoro. Signore, vi prego di non trattarmi con questi termini. La mia fortuna non mi rende orgoglioso. La riconosco da voi, dalla vostra casa, e vi prego di continuare a comandarmi con libertà. [p. 240 modifica]

Flaminio. Siete assai polito e civile, e meritate assai più... Ma lasciamo a parte per ora quegli elogi1 che potrebbero offendere la vostra modestia. Voi sapete il mio amore e il mio impegno per la signora Barbara.

Lindoro. Lo so benissimo.

Flaminio. Ella non è ancora informata del testamento, e se sapesse le cose come si trovano presentemente, avrebbe gran soggetto di temere per lei, o di rattristarsi per me. Gli affari domestici m’hanno impedito d’andar da lei. Le ho scritto un biglietto, ma senza dirle niente di positivo. Mi era impegnato d’andar da lei a quest’ora precisa, ma aspetto l’avvocato, e non mi posso partire. Vi prego dunque d’andarla a ritrovare per parte mia, dirle la ragione perch’io non vado, e circa al testamento dar un cenno con arte della disposizion di mio padre, ma assicurarla ch’io sono disposto a perder tutto, piuttosto che abbandonarla.

Lindoro. Sarete servito... Ma se non vi premesse ch’andassi subito...

Flaminio. Veramente mi premerebbe che vi andaste sollecitamente. La signora Barbara sarà impaziente, e tremo ch’ella sappia la disposizion di mio padre. Avete voi pure qualche cosa d’assai pressante?

Lindoro. Niente altro che dir due parole a mia moglie.

Flaminio. Sì, vedetela. Ditele quel che le avete da dire, e andate.

SCENA Vi.

Fabrizio e detti.

Fabrizio. Signore, l’avvocato è in sala che la domanda. (a don Flaminio)

Flaminio. Vado subito. (in atto di partire) Mi raccomando a voi. So ch’avete dell’amore per me. Procurate o in un modo, o nell’altro, di rasserenarla. Appoggio a voi quest’affare perchè mi preme, e son sicuro ch’avete dello spirito, e ci riuscirete... (in atto di partire, e si volta) Sopra tutto vi raccomando la sollecitudine. (parte) [p. 241 modifica]

SCENA VII.

Fabrizio e Lindoro.

Fabrizio. Che sì, che vi manda dalla signora Barbara?

Lindoro. È vero.

Fabrizio. Me l’ho immaginato. Sentendo la sua gran premura, ho subito detto: non può esser altro che questo.

Lindoro. Avete veduto mia moglie?

Fabrizio. Si è serrata nella sua camera.

Lindoro. Si è serrata in camera! La vorrei veder prima di sortire.

Fabrizio. Per ora non vi consiglio. È meglio ch’andiate a far la commissione del signor don Flaminio. Lasciatela un poco in quiete. Lasciate ch’io la veda prima di voi. Procurerò persuaderla, disingannarla. Questa sera poi ceneremo insieme, entrerò in discorso presente voi. Parlerò io, parlerete voi. Io poi vi lascierò soli, e voi concluderete la vostra riconciliazione.

Lindoro. Farò a modo vostro. Anderò subito a servir don Flaminio.

Fabrizio. Fate un piacere anche a me nello stesso tempo.

Lindoro. Comandatemi.

Fabrizio. Se vedete Tognina, salutatela da parte mia.

Lindoro. Lo farò volentieri.

Fabrizio. Ditele che compatisca, se non vado da lei...

Lindoro. Dirò presso a poco le ragioni che deggio dire alla sua padrona.

Fabrizio. Sì certo, che gli affari me l’impediscono.

Lindoro. Non dubitate, farò di tutto perch’ella sia certa della verità, e non creda che voi manchiate per disattenzione, o per poco amore.

Fabrizio. Oh, ella poi è una buona ragazza, mi vuol bene, sa che le voglio bene, e non è ne sofistica2, nè sospettosa.

Lindoro. È vero; per quel poco che l’ho veduta, mi pare che sia del miglior carattere del mondo. Sempre allegra, sempre ridente. [p. 242 modifica]

Fabrizio. Vi giuro che qualche volta farebbe ridere i sassi.

Lindoro. Ma! anche la mia Zelinda una volta era sempre allegra e gioviale. Ora, per mia disgrazia, non farebbe che piangere e lamentarsi.

Fabrizio. Sono le disgrazie passate che l’hanno resa così. Ma non dubitate, col tempo ritornerà come prima.

Lindoro. Quando pensate voi di concludere il vostro matrimonio?

Fabrizio. Subito che saranno terminate queste faccende; subito che si marita il padrone.

Lindoro. Non vedo l’ora; spero che staremo insieme, che viveremo insieme, e ch’ella inspirerà nella mia Zelinda un poco della sua allegria.

Fabrizio. Ma vostra moglie non inclina di star insieme.

Lindoro. Eh, quando sarete maritato... Quando conoscerà vostra moglie... Son certo, certissimo che vi avrà piacere. Zelinda, voi lo sapete, non è cattiva figliuola.

Fabrizio. Cattiva! ha il miglior cuore del mondo.

Lindoro. Se il cielo vorrà, tutte le cose anderanno bene. Addio, a rivederci. (Tutto anderà bene. Basta ch’io mi corregga della mia maledettissima gelosia). (da sè, parte)

SCENA VIII.

Fabrizio, poi donna Eleonora e don Filiberto.

Fabrizio. Non v’è stato più bello al mondo di quello de’ maritati. Ma ci vuol la pace, e senza la pace tutto il balsamo si converte in veleno.

Eleonora. (Servita di braccio da don Filiberto) Fabrizio.

Fabrizio. Mia signora.

Eleonora. Dite al signor don Flaminio ch’avrei bisogno di parlar con lui. Se vuol degnarsi di venir qui, o se vuole ch’io passi da lui.

Fabrizio. La servo subito; ma so ch’è in conferenza col suo Avvocato. [p. 243 modifica]

Eleonora. Venga coll’avvocato, se vuole, o m’aspettino che sarò da loro.

Fabrizio. Subito la servo. (Mi pare impossibile che si vogliano accomodar colle buone). (da sè, parte)

SCENA IX.

Donna Eleonora e don Filiberto.

Eleonora. Voi m’empite la testa di tante difficoltà, che son forzata a prestar orecchio a un qualche accomodamento.

Filiberto. Signora, io non parlo che per vostro bene. Mi sono informato, ho consigliato l’affare con persone d’abilità in questo genere, e tutti mi dicono che la vostra causa è pericolosa. Poichè se il testamento sussiste, voi dovete stare alla legge del testatore, e se il testamento è nullo, non avete alcun titolo per pretendere, o per domandare.

Eleonora. E l’articolo della donazione?

Filiberto. È una pretensione senz’alcun fondamento.

Eleonora. Voi siete il corvo delle male nuove.

Filiberto. Io sono un uomo sincero, un vostro vero e buon servitore.

Eleonora. E per avere qualche cosa, dovrò stare senza maritarmi?

Filiberto. Non so che dire. Questa è l’intenzione del testatore.

SCENA X.

Pandolfo e detti.

Pandolfo. (Entra con allegria) Servitor umilissimo di lor signori.

Eleonora. Che vuol dire, signor Pandolfo, che siete così allegro, e gioviale?

Pandolfo. Sono allegro per voi, per cagion vostra, perchè le cose nostre anderanno bene. Ho studiato l’articolo del testamento che vi riguarda, ho studiato l’articolo della donazione. Il testamento è nullo, e lo faremo tagliare. La donazione è inferma, ma sarà corroborata dal motivo, dalle carte, e dai [p. 244 modifica] testimoni. Ho trovato delle buone ragioni; lasciate fare a me, lasciate operare a me, moveremo una lite terribile a don Flaminio, a Zelinda, a Lindoro, a tutto il mondo, e son sicuro della vittoria.

Eleonora. Ah, ah, ve lo diceva io, signor don Filiberto? coi vostri dubbi, colle vostre consultazioni. Queste un uomo, quest’è un legale che sa il suo mestiere.

Pandolfo. E puntuale, e onorato.

Filiberto. Io stimo il signor Pandolfo infinitamente. Io non intacco la sua puntualità e l’onor suo, ma circa all’affare che si tratta, dubito assai che s’inganni.

Pandolfo. Mi maraviglio di lei, signore. Son chi sono, e non mi posso ingannare. (a don Filiberto)

Eleonora. Lasciatelo dire, e non gli badate. Dite, signor Pandolfo, ci vorrà molta spesa per far questa lite?

Pandolfo. Se aveste a fare con altri che con me, forse, forse la spesa vi potria spaventare. Ma io, in primo luogo, non domando niente per me.

Eleonora. Sentite? (a don Filiberto)

Pandolfo. Secondariamente, io conosco il foro, e spendo la metà di quel che spendono gli altri; e per ultimo, la mia sollecitudine vale un tesoro.

Eleonora. Bravissimo. Quanto credete voi che si spenderà?

Pandolfo. Non lo posso dire precisamente.

Eleonora. Ma pure, presso a poco?3

Pandolfo. Che so io? cento scudi, cento cinquanta, a duecento spero non ci arriveremo, o li passeremo di poco.

Eleonora. Sentite, signor don Filiberto? Non è gran cosa.

Filiberto. Si principia con cento, e non si finisce con mille.

Pandolfo. Ma ella, signore, mi scusi...

Eleonora. È vero; è nato per far disperare.

Filiberto. Non parlo più.

Eleonora. Fareste meglio a sollecitar quest’affare. (a don Filiberto) [p. 245 modifica]

Filiberto. Io? come?

Eleonora. A trovar del denaro per incominciar la lite.

Filiberto. Ho a trovar io il denaro?

Eleonora. Sì, voi. E chi l’ha da provvedere se non lo provvedete voi? Questa causa, s’io la faccio, la faccio per voi.

Filiberto. Per me?

Eleonora. E per chi dunque? Se cerco di mettermi in istato di maritarmi, non lo faccio per voi?

Filiberto. Vi domando perdono...

Pandolfo. Signori miei, io non sono qui per esser testimonio de’ loro interessi particolari. Faccio il mio mestiere, e se vogliono fare questa lite.... (verso donna Eleonora)

Eleonora. È buona? (a Pandolfo)

Pandolfo. È buonissima.

Eleonora. Si farà. Non è egli vero, don Filiberto? La lite si farà.

Filiberto. Volete voi che si faccia?

Eleonora. Lo voglio io, e lo dovete voler anche voi.

Filiberto. Quand’è così, si farà.

Eleonora. Sentite? si farà. (a Pandolfo)

Pandolfo. Facciasi dunque. (E sarà bene per me). (da sè)

SCENA XI.

Fabrizio, poi don Flaminio, l’Avvocato e detti.

Fabrizio. Signora, ecco qui il signor don Flaminio coll’avvocato. (a donna Eleonora)

Eleonora. Ho piacere. Sentiremo che cosa dicono. (a Pandolfo)

Pandolfo. Signori miei, lasciate parlare a me. Non vi confondete, lasciatemi dire, e lasciate rispondere a me. (entrano don Flaminio, l’avvocato, e tutti si salutano)

Flaminio. Che cos’ha ella da comandarmi? (a donna Eleonora)

Eleonora. Niente, signore, mi pareva strano che non vi lasciaste da me vedere. (Ora non sono più in caso di raccomandarmi). (da sè) [p. 246 modifica]

Flaminio. Ho io qualche cosa da dire a voi. Ecco qui il signor avvocato che colla sua probità e colla sua mente ha trovato un progetto d’accomodamento, che si crede sarà di comune soddisfazione.

Eleonora. Sentite? Propone un accomodamento. (a Pandolfo)

Filiberto. La proposizione merita d’essere ascoltata.

Eleonora. Tacete voi. Lasciate parlare al signor Pandolfo. (a don Filiberto)

Pandolfo. Signore, la signora donna Eleonora ha preso il suo partito. Vuol la sua libertà, vuol che le si accordi la donazione, o si farà lite. (a don Filiberto)

Avvocato. Carissimo signor Pandolfo, voi siete un uomo di garbo, voi conoscete quest’affare quanto lo conosco io, e forse meglio di me. Perchè volete voi immergere questa degna famiglia in una causa inutile, in tempo che si potrebbe accomodare, e risparmiare le spese?

Filiberto. Se si possono risparmiare le spese...

Eleonora. Volete tacere e lasciar parlare il signor Pandolfo? (a don Filiberto)

Pandolfo. È giusta l’idea di risparmiare le spese, quando il risparmio non pregiudica le ragioni di un terzo.

Avvocato. Amico, pregiudica forse le ragioni vostre? (a Pandolfo, scherzando)

Pandolfo. Mi maraviglio di voi, e non sono capace... Signori miei, voi non sapete cosa sono queste proposizioni di accomodamento, ne dove vadano ordinariamente a finire. Ve lo dirò io. Si propone d’accomodarsi per risparmiare le spese, e intanto si spende per trattar l’accomodamento; poi le parti non s’accordano, si fanno nascer delle nuove difficoltà, l’accomodamento va a monte, e si fa la lite. Così si ha perduto il tempo, son gettate le prime spese, e si raddoppiano le seconde.

Eleonora. Sentite? (a don Filiberto)

Filiberto. Mi piacerebbe sentire il signor avvocato.

Eleonora. Che uomo testardo, insoffribile, cavilloso!

Avvocato. S’acquetino di grazia, e si degnino ascoltarmi. Sen[p. 247 modifica]tino4 a cosa tende il mio progetto. A dar a tutti quel che vogliono, e più di quello che vogliono. A far sussistere il testamento senza osservarlo, ad esser tutti amici e contenti, a risparmiare una lite, e ad accomodarsi senza spendere un soldo.

Filiberto. Sentite? (a donna Eleonora)

Eleonora. Se la cosa fosse così... (a Pandolfo)

Pandolfo. Le parole sono bellissime, ma bisogna venire al fatto. (all’Avvocato)

Flaminio. Il signor avvocato parla con fondamento, e tutto quello che ha detto, lo dimostra ad evidenza.

Filiberto. Sentiamo dunque...

Eleonora. Sentiamo come si possa...

Pandolfo. Lasciate parlare a me. (a donna Eleonora e a don Filiberto) Il signor avvocato ha dell’abilità, ha del talento, ma mi pare che questa sua proposizione abbia del metafisico.

Avvocato. Non signore; la cosa è fisica, reale, e dimostrativa.

Filiberto. Mettetela in chiaro per carità.

Pandolfo. Lasciate parlare a me. (a don Filiberto)

Avvocato. Il progetto non è ancor ridotto a maturità. Favoriscano oggi dopo pranzo venir da me, nel mio studio. Vi saranno tutte le parti. Saranno tutti insieme instruiti, e sentiranno se vi possono essere difficoltà.

Pandolfo. Ci verrò io, ci verrò io. Lor signori non se n’intendono. (a donna Eleonora e a don Filiberto) Ci verrò io, signor avvocato, ci verrò io.

Avvocato. Va bene che vi sia il signor procuratore, saggio, dotto ed esperto, ma io desidero che ci sieno ancora le parti, e senza di esse non si concluderà.

Eleonora. Io ci verrò, signore. (all’Avvocato) E ci verrete anche voi. (a don Filiberto)

Pandolfo. Sì, e lascieranno parlare a me. (a donna Eleonora e a don Filiberto)

Eleonora. A che ora volete voi che ci siamo? [p. 248 modifica]

Avvocato. A vent’una ora, se si contentano.

Eleonora. A vent’una ora sarò da voi. (all’Avvocato) Andiamo. (a don Filiberto, incamminandosi per partire)

Filiberto. A vent’una ora non mancheremo. (all’Avvocato, e parte con donna Eleonora)

Pandolfo. E a vent’una ora ci sarò ancor io. (all’Avvocato) (Costui mi leva dalla saccoccia almeno almeno dugento scudi). (da sè, e parte)

SCENA XII.

Don Flaminio, l’Avvocato e Fabrizio.

Fabrizio. (Ci vuol esser anch’egli, vuol parlar, vuol agire; e in ogni modo non la vuol perder marcia sicuro). (da sè)

Avvocato. Amico, fate che da me si trovino all’ora stessa Zelinda e Lindoro: queste sono le persone che premono, e senza d’esse non si può far niente.

Flaminio. Spero che ci verranno senz’alcuna difficoltà. Fabrizio, avvisate Zelinda che venga qui.

Fabrizio. Sì signore. (Tutto sta ch’ella voglia sortire dalla sua camera). (da sè, e parte)

Flaminio. Lindoro non è in casa, ma non può tardar a venire, e so quanto mi posso comprometter di lui. Prego il cielo che il vostro progetto abbia luogo. Credetemi, amico, mi dispiacerebbe assai perdere una gran parte della mia eredità, ma sarei alla disperazione se dovessi abbandonare quella ch’io amo, e che merita l’amor mio.

Avvocato. Ma siete voi sicuro che questa giovane sia della nascita ch’ella vanta di essere, e che sia di costumi onesti ed illibati?

Flaminio. Sono sicurissimo di tutto ciò; anzi ho veduto io stesso una lettera di suo padre.

Avvocato. Non potrebb’essere una lettera finta, immaginata, studiata?

Flaminio. No, non è possibile, non è capace. Vi dirò cos’è [p. 249 modifica] questa lettera. Ella gli ha dato parte della buona occasione ch’ha trovato di maritarsi, e il padre se ne consola, e le promette di venir qui a ritrovarla, e quanto prima sarà egli stesso in Pavia.

Avvocato. Tutto questo andrebbe bene, se fosse vero; ma scusatemi, non sono ancor persuaso. L’amore fa creder tutto, e vi potreste facilmente ingannare.

Flaminio. Per quel ch’io sento, avete molto poca fede alle donne.

Avvocato. Veramente non ho gran motivo di riportarmi alla loro sincerità.

Flaminio. Siete stato qualche volta burlato?

Avvocato. Qualche volta?

Flaminio. Siete stato burlato sempre?

Avvocato. Per mia fortuna, le ho trovate tutte compagne.

Flaminio. Ma la mia, v’assicuro...

Avvocato. Oh la vostra sarà la fenice, l’oracolo, la meraviglia del mondo. Tutti quelli ch’amano come voi, credono come voi.

Flaminio. Ma perchè volete mettermi in diffidenza? che piacere avete di tormentarmi?

Avvocato. Io tormentarvi? Sapete quanto vi sono amico; bramo che siate contento, ma non vorrei che foste ingannato. Ditemi un poco, potrei vederla io questa vostra signora? potrei parlar con lei?

Flaminio. Amico...

Avvocato. Mi fareste il torto di dubitare di me?

Flaminio. Non dico, ma... vi conosco.

Avvocato. In verità, voi m’offendete se pensate così. Confesso che piace anche a me divertirmi. Ma quando si tratta di servir un amico...

Flaminio. E per qual causa vorreste andare da lei?

Avvocato. Niente per altro che per iscoprire terreno. Per rilevare con quella pratica ch’ho del mondo, e spogliato della passione che forse v’accieca, s’ella è sincera, e se vi potete fidar di lei. [p. 250 modifica]

Flaminio. Oh per questo son contentissimo. Andateci che mi farete piacere, anzi vi prego dirle voi stesso la buona speranza ch’abbiamo, che le cose vadino5 di bene in meglio, e vi supplico ancora dirle, ed assicurarla: ch’io l’amo teneramente, e quanto amar si può mai.

Avvocato. Oh, oh, amico. Non confondete le cariche.

Flaminio. Scusatemi, e comprendete da questo...

Avvocato. Sì, comprendo che siete innamorato, cotto, abbrustolito. Tanto più volentieri m’incarico, o di consolarvi, s’ella n’è degna, o di guarirvi, se non lo merita. Addio. So dove sta di casa. A vent’un’ora verrete da me. Vi dirò quello ch’ho rilevato, riportatevi a me, e non temete. (parte)

SCENA XIII.

Don Flaminio, poi Zelinda.

Flaminio. Vada pure; son sicuro che se conosce bene il carattere delle donne, rileverà quanto la signora Barbara sia virtuosa e sincera, e quanto sia degna d’amore.

Zelinda. Signore, che cos’avete da comandarmi? (melanconica)

Flaminio. Che vuol dire, Zelinda, che siete sì abbattuta e sì trista?

Zelinda. Niente, signore. Mi duole un poco la testa.

Flaminio. Me ne dispiace infinitamente.

Zelinda. A caso, sapreste voi dove sia mio marito?

Flaminio. Sì, lo so benissimo. L’ho pregato d’andar per me dalla signora Barbara.

Zelinda. (È andato via senza dirmelo! Una volta non faceva così). (da sè)

Flaminio. Vorrei, Zelinda carissima...

Zelinda. Scusate. Quant’è che l’avete mandato dalla signora Barbara?

Flaminio. Sarà una mezz’ora incirca. [p. 251 modifica]

Zelinda. (Non è lontano, e non è ancora tornato. Si vede chiaro che non si cura di me, che non si cura più di venir a casa). (da sè)

Flaminio. Ma che avete mai che v’inquieta?

Zelinda. Niente, signore.

Flaminio. Avrei bisogno di parlarvi, e vorrei che mi ascoltaste tranquillamente.

Zelinda. Parlate pure, signore, son qui, v’ascolto. (distratta)

Flaminio. Il mio avvocato ha formato un progetto...

Zelinda. (Una volta non sarebbe uscito di casa senz’abbracciarmi). (da sè)

Flaminio. Ma di grazia, ascoltatemi, che mi preme infinitamente.

Zelinda. V’ascolto, vi dico: in verità, v’ascolto. (distratta)

Flaminio. Sono estremamente agitato fra l’amore ch’io porto alla signora Barbara, e la legge che m’ha imposto mio padre... (si ferma osservando Zelinda)

Zelinda. ((Oh cieli! in casa della signora Barbara v’è una giovane cameriera, che si dice amata da Fabrizio... Questa grand’amicizia di Fabrizio e di mio marito... (da sè, e voltandosi vede don Flaminio incantato) Ma via, signore, seguitate, parlate.

Flaminio. Avete inteso quello ch’ho detto?

Zelinda. Oh, ho inteso tutto.

Flaminio. Mi parete distratta.

Zelinda. Ascolto con attenzione.

Flaminio. Voi sola potreste contribuire alla mia pace, alla mia vera felicità.

Zelinda. (Possibile che Lindoro?...) (da sè)

Flaminio. Oggi dopo pranzo l’avvocato ci aspetta a ventun’ora da lui.

Zelinda. (Non crederei mai che mio marito fosse capace...)

Flaminio. Ascoltate, o non ascoltate?

Zelinda. Ma non sono qui? non v’ascolto?

Flaminio. Sentirete il progetto ch’ei vi farà...

Zelinda. (E pure potrebbe darsi...) (da sè)

Flaminio. Spero che voi sarete per accordarlo, e che vorrete contribuire alla mia vera felicità... [p. 252 modifica]

Zelinda. No, non può essere, no; il cuore mi dice di no. (forte per distrazione)

Flaminio. No? avete coraggio di dirmi in faccia di no? Capisco ora l’origine della vostra freddezza; la speranza ch’avete d’ereditare di più, s’io sposo una donna contro la volontà di mio padre, vi sollecita, e vi lusinga. Non vi credeva capace di tanta ingratitudine, e di tanta viltà. In ricompensa dei benefizii ch’avete ricevuti nella mia casa, amate di vedermi precipitato? Sì, sarete contenta. Sposerò chi mi pare, e voi sazierete la vostra avidità.

Zelinda. A chi tutto questo, signore?

Flaminio. A voi ch’avete cuor di negarmi quello che per favor vi domando.

Zelinda. Io?

Flaminio. Sì, voi. Voi m’avete detto di no.

Zelinda. Ah signore, vi domando perdono. Scusate, per carità, la mia distrazione, e non mi crediate capace ne di viltà, nè d’ingratitudine. Ho tante obbligazioni con voi, sono così interessata pel bene vostro, e pel bene di questa casa, che sono pronta a rinunziare non solo a qualunque speranza, ma al bene lasciatomi dal mio amoroso padrone. Disponete di me, signore, vi scongiuro, non risparmiate ne la mia volontà, nè i miei beni, nè il mio sangue medesimo, se vi potesse giovare.

SCENA XIV.

Lindoro e detti.

Lindoro. (Entra, ma resta indietro per non mostrare curiosità.)

Flaminio. Quello che vi domando, Zelinda mia...

Zelinda. (Ecco mio marito). (lo vede, e finge di non vederlo, e s’accosta di più a don Flaminio) Non dite altro, signore; vi replico, disponete di me. Farò tutto per voi. Sapete quanto interesse ho per voi, quanto mi preme la vostra quiete, la vostra soddisfazione, quanto vi potete compromettere della mia più tenera, della mia più grata riconoscenza. (con affettazione per dar gelosia a Lindoro) [p. 253 modifica]

Flaminio. Ah sì, vi ringrazio di cuore... (Lindoro s’avanza un poco)

Zelinda. (Mostra d’esser sconcertata alla vista di Lindoro) Ah siete qui? siete ritornato?

Lindoro. Posso venire avanti?

Flaminio. Avanzatevi pure. Non v’è stato segreto fra noi, e non ci può essere. Quello di cui si tratta, l’avete a sapere anche voi.

Lindoro. Signore, io non son curioso di sapere, e non domando che mi si dica. Conosco mia moglie, so il carattere vostro onesto e civile, e tanto mi basta. So perchè m’avete parlato in tal modo, perchè un tempo io era geloso, perchè una volta, se avessi veduto mia moglie in colloquio con qualcheduno, sarei stato sì bestia, ch’avrei subito sospettato; ma, grazie al cielo, sono guarito, non ho più di tai pregiudizi, e lascio mia moglie in pienissima libertà.

Flaminio. Fate bene, vi lodo, e me ne consolo con voi.

Zelinda. (Tutto questo vuol dire che non m’ama più, che non mi stima, che non si cura di me). (da sè)

Lindoro. (Oh sei sapesse la maledetta curiosità che mi rode!) (da sè)

Flaminio. Però è necessario che voi sappiate l’affare di cui parlava a Zelinda.

Lindoro. Se è necessario, l’ascolterò, se non è necessario, ne farò di meno.

Zelinda. (Maledettissima indifferenza!) (da sè)

Flaminio. Bisogna che voi e vostra moglie vi prendiate l’incomodo d’andar oggi a ventun’ora alla casa del mio avvocato, per ascoltare un progetto che può formare la quiete comune, e la mia particolare felicità.

Lindoro. Signore, in materia dipendente dal testamento del signor don Roberto, come tutto fu fatto a contemplazione di Zelinda, io mi rimetto in lei; quello ch’ella fa, è ben fatto, ed ella vi può andare senza di me.

Zelinda. E con chi volete ch’io vada? (a Lindoro con sdegno)

Lindoro. Con chi? sola, se volete. (dissimulando)

Zelinda. Sola? (come sopra) [p. 254 modifica]

Lindoro. Oppure il signor don Flaminio favorirà di condurvi.

Zelinda. Una volta non avreste detto così. (ironica)

Lindoro. Una volta ero pazzo, ed ora non lo sono più.

Zelinda. (Una volta m’amava, ed ora non m’ama più), (da sè)

Lindoro. (Temo ch’ella conosca, ch’io lo dica per forza). (da sè)

Flaminio. Orsù, cessate di rammentare le cose passate, e consolatevi dello stato vostro presente. Dite, Lindoro, siete stato dalla signora Barbara?

Lindoro. Sì signore, ci sono stato. Ho fatto la commissione di cui m’avete onorato, ed in poche parole l’ho messa al fatto di tutto.

Zelinda. In poche parole? (a Lindoro, affettando indifferenza)

Lindoro. Sì, perchè non mi sono esteso...

Zelinda. E che cosa avete fatto in un’ora che di qui mancate?

Lindoro. Non è un’ora...

Zelinda. Via, in mezz’ora, ho fallato.

Lindoro. Vi dirò. Fabrizio m’ha incaricato di vedere la cameriera. Sapete ch’è la sua innamorata. M’ha pregato di dirle qualche cosa per parte sua.

Zelinda. Ah, siete ora il segretario del signor Fabrizio.

Lindoro. Siamo amici... Vi dà pena questo? Se vi dà pena, non lo farò più.

Zelinda. Pena? Oh figuratevi! Perchè volete che ciò mi dia della pena? Mi credete forse gelosa? Voi non lo siete più, e vorreste che lo fossi io?

Lindoro. Dico bene: mi dispiacerebbe d’avervi attaccata la mia malattia.

Zelinda. La malattia d’una volta.

Lindoro. Ci s’intende. Ora sono guarito.

Zelinda. (Ah questa sua guarigione vuol essere la mia morte). (da sè)

Lindoro. (Ho il cuore attaccato, infermo, incatenato più che mai). (da sè)

Flaminio. Lindoro carissimo, con licenza di vostra moglie, avrei gran bisogno che ritornaste subito dalla signora Barbara. [p. 255 modifica]

Zelinda. E perchè con licenza mia? Non è padrone d’andar dove vuole? (a don Flaminio)

Lindoro. È vero, ma se vi dispiacesse...

Zelinda. Oh dispiacermi! perchè mai dispiacermi? andate, andate, servite il signor don Flaminio. (dissimulando)

Lindoro. Io vi servirò volentieri, ma la signora Barbara ha gran desiderio di parlar con voi. (a don Flaminio)

Flaminio. Ed io con lei; ma ora non ci posso andare, e non ci deggio andar per una ragione... L’avvocato dev’esser da lei, e s’io ci andassi, parerebbe che non mi fidassi di lui. Vi prego dunque d’andarvi per me, e prevenirla di questa visita, acciò lo riceva tranquillamente, e non si metta in alcun sospetto.

Lindoro. Ho inteso, vado a servirvi immediatamente.

Zelinda. Vedrete probabilmente la cameriera.

Lindoro. Sarà facile ch’io la veda.

Zelinda. Salutatela da mia parte.

Lindoro. Sì, lo farò volentieri. Anzi com’ella deve sposar Fabrizio, avrò gran piacere che siate amiche.

Zelinda. Che siamo amiche?

Lindoro. S’intende, con quella differenza che passa tra voi e lei. Oh è una buona figliuola, e non v’è dubbio che s’abusi della confidenza che le darete. Il signor don Flaminio la conosce. Non è egli vero ch’è una figliuola di garbo? (a don Flaminio)

Flaminio. Sì, per dire la verità, è una ragazza di merito.

Zelinda. (Ah chi sa che costei non abbia guarito Lindoro dalla gelosia!) (da sè) Eh! ditemi. È bella questa cameriera? (a Lindoro)

Flaminio. Sì, è piuttosto bella; è ben fatta, ed è estremamente graziosa.

Zelinda. (Vorrebbe ch’io le fossi amica!) (da sè) È giovane? (a Lindoro)

Lindoro. Mi par di sì.

Zelinda. Averà dello spirito. (a Lindoro) [p. 256 modifica]

Lindoro. Oh circa allo spirito poi, v’assicuro... Ecco qui il signor don Flaminio che lo può attestare; è d’una vivacità e d’una prontezza ammirabile.

Zelinda. (Ecco la ragione per cui non si cura di me). (da sè)

Lindoro. Avrete piacer grandissimo a conoscerla, a praticarla.

Zelinda. (Io praticarla? il sangue mi si rimescola tutto), (da sè)

Lindoro. E poi la più brava economa che dar si possa. Ha un’abilità infinita in tutte le cose.

Zelinda. Non posso più. (comincia a fremere e sentirsi male)

Lindoro. Vi terrà compagnia, vi divertirà...

Zelinda. (Forzandosi di tener la collera, principia a tremare, a traballare, e le vengono le convulsioni.)

Lindoro. Oimè! cos’avete? (sostenendola)

Flaminio. Animo, animo. Cos’è questo? (la sostiene)

Lindoro. Zelinda, Zelinda. (scuotendola, ed ella continua)

Flaminio. Che vuol dire quest’improvviso tremore?

Lindoro. Non saprei; è qualche tempo che sta poco bene.

Flaminio. Che fosse gelosa della cameriera?

Lindoro. Oh è impossibile. Come mai può esser gelosa una donna che detesta la gelosia?

Flaminio. Bisognerebbe darle qualche soccorso. Ehi, chi è di là? C’è nessuno? (sempre scuotendola)

Lindoro. Povero me! Se avessi qualche cosa per farla rinvenire. (sempre riscuotendola)

Flaminio. Lo spirito di melissa è nella mia camera.

Lindoro. Anderò a prenderlo.

Flaminio. Ci anderò io.

Lindoro. No, no, sostenetela, che farò più presto io. (parte correndo)

SCENA XV.

Don Flaminio e Zelinda.

Flaminio. Sono nel maggior imbarazzo del mondo... Pesa terribilmente... Se potessi porla sopra una sedia... (tenta d’accostarla [p. 257 modifica](ad una sedia; e facendo qualche sforzo, Zelinda si move) Animo, animo; par che si mova. (la scuote)

Zelinda. Oimè. (rinviene)

Flaminio. Datevi coraggio, non sarà nulla.

Zelinda. Dov’è mio marito?

Flaminio. È andato a prendere della melissa per voi.

Zelinda. (E mi lascia in braccio di don Flaminio!) (da sè)

Flaminio. Volete porvi a sedere?

Zelinda. Sono all’ultima disperazione. (fa qualche smania, e tira fuori il fazzoletto per asciugarsi le lagrime)

Flaminio. Ehi, ehi, non torniamo da capo.

Zelinda. Scusatemi. Non so quel che mi faccio. (in atto di partire)

Flaminio. Fermatevi. Aspettate Lindoro colla melissa.

Zelinda. Non signore. Non ho bisogno di niente. (fremendo) La cosa è decisa. Lindoro non m’ama più. Ne ho saputo la causa. Son tradita. Sono abbandonata. Non v’è più mondo per me. (parte)

SCENA XVI.

Don Flaminio, poi Lindoro.

Flaminio. Povere donne! Sono soggette a de’ gran mali, a delle gran stravaganze!

Lindoro. (Colla boccetta dello spirito di melissa, correndo) Dov’è Zelinda?

Flaminio. È rinvenuta, è partita.

Lindoro. Come sta?

Flaminio. Benissimo.

Lindoro. Oimè! respiro.

Flaminio. Andrete dalla signora Barbara.

Lindoro. Quando avrò veduto Zelinda.

Flaminio. Vedetela, e poi andate. (S’amano veramente di cuore). (da sè, parte) [p. 258 modifica]

SCENA XVII.

Lindoro, poi Zelinda.

Lindoro. Da che mai può essere provenuto quest’accidente? Io non credo d’averne colpa. Fo quel che posso per contentarla. Fremo in me stesso, e non lo dimostro, inghiotto il veleno, mi mordo le labbra, ed ancora non faccio niente. In verità sono disperato.

Zelinda. ( Viene senza dir niente, e senza veder Lindoro, va all’armadio, lo apre, cambia il fazzoletto bagnato in uno asciutto e netto; e chiude l’armadio.)

Lindoro. (Scoprendola) Eccola qui. Zelinda. (dolcemente la chiama)

Zelinda. (Non risponde, si copre gli occhi col fazzoletto, e vuol partire.)

Lindoro. Zelinda, fermatevi per amor del cielo.

Zelinda. Cosa volete da me? (sdegnosa)

Lindoro. Come state? Come vi sentite?

Zelinda. Sto bene, mi sento bene; bene benissimo che non posso star meglio. (ironicamente, e rabbiosetta)

Lindoro. Bevete un poco di questo spirito di melissa. (teneramente)

Zelinda. No, non ne voglio. (afflitta)

Lindoro. Bevetene due goccioline. (come sopra)

Zelinda. No, non ne ho bisogno. (afflitta)

Lindoro. Via, cara, fatelo per l’amor che portate al vostro caro marito, al vostro caro Lindoro, che v’ama tanto, che vi vuol tanto bene, che siete l’idolo suo, il suo bene, la sua vita.

Zelinda. (Dà in un dirotto di pianto senza dir niente.)

Lindoro. Oimè! Cos’è questo? Povero me! Zelinda mia, per carità, ditemi, cos’avete?

Zelinda. No, ingrato, che non m’amate. (piangendo)

Lindoro. Oh cieli! è possibile che possiate dirlo? che possiate pensarlo? V’amo, v’adoro, siete l’anima mia.

Zelinda. No, non lo posso credere, e non lo credo. (piangendo)

Lindoro. Ah che colpo è questo per me? Son disperato, Zelinda mia non mi crede; il mio cuor, le mie viscere, il mio tesoro. Anima mia, per carità, per pietà. (si mette in ginocchio) [p. 259 modifica]

Zelinda. (Non so in che mondo mi sia). (agitata, e s’allontana un poco)

Lindoro. Ammazzami, se non mi credi, (le va dietro in ginocchio)

Zelinda. Oimè! mi vien male.

Lindoro. (Balza in piedi) Vita mia, presto, un poco di spirito di melissa. (l’accosta alla bocca di Zelinda)

Zelinda. (Beve lo spirito di melissa.)

Lindoro. Anch’io, anch’io ne ho forse più bisogno di te. (beve anch’egli la melissa) Un altro pochmo. (ne dà ancora a Zelinda, ed essa beve) Un altro pochino a me. (ne beve anch’egli) Ti fa bene?

Zelinda. Mi par di sì. (respirano tutti due)

Lindoro. Ma, gioia mia, ditemi per carità cos’avete, perchè quelle smanie, quei tremori, quelle convulsioni?

Zelinda. Scusatemi6, caro marito, tu sai più d’ogn’altro la forza dell’amore, ed il tormento della gelosia...

Lindoro. Ah sì, capisco benissimo il fondo delle tue smanie, delle tue lagrime, de’ tuoi deliri. Sai ch’io sono stato geloso: temi ch’io lo sia ancora. Ti pare che ne sia restato qualche vestigio, ma non è vero, t’inganni, non lo sono, e non lo sarò più: e per provarti che non lo sono, va dove vuoi, va con chi vuoi, va pure dall’avvocato, sola, accompagnata, come ti piace, con chi ti pare. Io vado a far la commissione di don Flaminio. Addio, cara, a rivederci. Pensa a volermi bene, e vivi quieta sulla mia parola. Parto un poco contento, mi par di vederti rasserenata. Mai più gridori, mai più gelosie. Pace, pace, amore, e contenti. (L’abituazione di soffrire, m’ha reso oramai forte e costante con gli assalti della gelosia), (da sè, parte)

SCENA XVIII.

Zelinda sola.

(A Tutto quest’ultimo discorso di Lindoro, è sempre stata come stupida, guardandolo senza dir niente, e dopo ch’è partito, si scuote) Ho ca[p. 260 modifica]pito, sono a segno, ho capito ogni cosa. Scherza, giubila,7 ride, mette in ridicolo la mia passione. Mi carica di finezze affettate, di tenerezze studiate, e conclude che va dove vuole, e ch’io vada dove mi pare. Era questo il tempo di lasciarmi qui nell’afflizione in cui sono? Fingere di vedermi rasserenata, e di partire contento? Ho capito tutto. Va a rivedere la cameriera... A me, a me. Tempo, testa, e condotta. Se me n’accorgo, se vengo in chiaro della verità... Il mio partito è preso, e la mia risoluzione è fissata. (parte)

Fine dell’Atto Secondo.

Note

  1. Ed. Zatta: quegl’elogj.
  2. Nel testo: soffistica.
  3. Nell’ed. Zatta e in altre c’è il punto fermo.
  4. Così il testo.
  5. Così nel testo.
  6. Così l’ed. Zatta, e forse così il manoscritto. Ma in tutte le edizioni posteriori si credette dì dover correggere, stampando Scusami.
  7. Ed. Zatta: giubbila.