Nella nebbia/Due case

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Due Case

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Una istitutrice

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DUE CASE.


Q
uando penso alla campagna dove passavo gli autunni e le primavere della mia fanciullezza, mi pare che tutte le altre abbino qualche cosa di falso, di artefatto, che siano, dirò così, un po’ teatrali.

Quando penso ai tre vecchi presso ai quali vivevo allora, mi pare che i vecchi di adesso siano dei giovani andati a male e che de’ veri vecchi non se ne trovino più.

Già se in quel tempo qualcuno mi avesse interrogato sull’età dei miei tre prozii — io li chiamavo zii, naturalmente — avrei risposto che li credevo nati col mondo, o almeno con la casa, chè la differenza tra il mondo e la casa, in quanto a vecchiezza, sembrava a me di poco momento.

La possessione del marchese Giorgio Cravenna si stendeva sopra una lingua di terra sporgente nell’Adriatico, ultimo lembo di un versante alpino. Non era molto vasta e rendeva poco. Il terreno serbava la sua natura alpestre, poca terra arida frammischiata a una enorme quantità di sassi, sopra un fondo di roccia.

Un proverbio locale dice: Seminate frumento per raccogliere sassi. Oltre a ciò il flagello dei venti marini che bruciavano tutto; la scarsezza della pioggia e la frequenza della grandine. [p. 128 modifica]

Quante notti di temporale passate ai piedi della Madonna dei sette dolori, facendo bruciare l’olivo benedetto, ho nelle mie memorie infantili! E quante imprecazioni contro il cielo implacabile e il mare maledetto ho sentito fin dalla culla!

Ma che piovesse o grandinasse, che i gelidi venti di tramontana, o quelli molli del sud — ai quali la squallida punta era ugualmente esposta — ci dilaniassero; o che il sole splendesse ferocemente nel cielo di un cupo azzurro; il paese era sempre bello, di una bellezza pittoresca che io bambina inconsciamente sentivo e ammiravo: bello per quel suo carattere variabile, ora aspro e selvaggio, ora dolce e esuberante; grandioso sempre, per l’ampia distesa dell'acqua, solcata da navi, barche e battelli; per l’azzurra catena dei monti lontani; per le grandi foreste di roveri intercalate da spazi erbosi e da roccie; e sempre ricco di colore nel bello come nell’orrido.

Per miglia e miglia non s’incontrava un villaggio: appena un gruppo di sei o sette casupole, con una unica bottega, nel punto più centrale della costa. Del resto, niente altro che piccole case coloniche confinate in fondo ai poderi; soltanto di tratto in tratto una casa padronale, abitata nei pochi mesi della villeggiatura. Per tutto questo popolo sparso un’unica chiesetta sorgeva solitaria all’estremità di una frazione della punta, a destra del piccolo porto. A sinistra sulla punta maggiore, dove le secche erano più pericolose per la sicurezza de’ naviganti, si drizzava la grossa torre della lanterna. E che divertimento per noi ragazzi, salire in cima al faro, penetrare nell’immenso fanale e stare a vedere come il vecchio Giacomo — un marinaio più nero [p. 129 modifica]e più ruvido di un tronco d’olivo — accendeva tutti quei lumi ad olio, il cui puzzo di moccolaia mi dà ora, al solo pensarvi, un senso di mal di mare!...

La casa dei miei prozii era una delle migliori, e la meno lontana dalla chiesa, non più di due o tre chilometri.

Era un edifizio solido, senza pretese architettoniche e si stendeva tutta in larghezza, da levante a ponente, con una profondità di appena due stanze medie, per cui, realmente, aveva l’aspetto di un’ala di casa più che di una casa completa. Difatti il progetto antico era stato assai più grandioso; ma i denari erano mancati all’esecuzione. Forse questo contribuiva a darle quell’aria di vecchia casa decaduta; mentre, osservandola bene, si capiva che doveva essere una costruzione del principio del secolo.

Sopra il piano terreno, occupato quasi interamente da un grande vestibolo, sproporzionato, s’innalzavano due soli piani: il primo destinato all’abitazione della famiglia; il secondo fatto per uso di granaio, con l’aggiunta di due o tre camerette per la servitù.

Il piano destinato alla famiglia si componeva di otto o dieci camere, tutte infilate, di una sala, di uno studiolo, di un tinello e di una grande cucina con terrazza.

Tutto ciò avrebbe potuto essere allegro: invece, io avevo l’impressione che quei muri mi schiacciassero, e che da tutti i vani si sprigionasse un senso di noia, di pesantezza: un non so che di torbido che irritava i miei nervi. Allora io non cercavo donde provenisse quella tristezza, nè dove si accumulasse quella insopportabile noia. Ma pure cercando non avrei trovato.

Forse erano nei muri grossi, rozzamente dipinti; forse [p. 130 modifica]nei pavimenti a lastre di macigno tirate a lucido come il marmo; forse nella severa bellezza del mare che penetrava tutta la parte di tramontana e ne’ suoi eterni lamenti. O le portava con sè l’urlo del vento, o le emanavano quei tre vecchi disaffezionati, che da tanti anni inutilmente lottavano contro lo sfasciamento della famiglia e la perdita dell’antica agiatezza.

Io non sapevo.

Ma uno spirito indomito di ribellione mi spingeva fuori, lontano; mi dava il coraggio di affrontare le sgridate e le punizioni che m’aspettavano al ritorno da troppo lunghe escursioni.

La mia passione era di correre alla spiaggia; una spiaggia a picco, alta sei o sette metri, che il mare minava di sotto cagionando frequenti frane.

In alcuni punti, antiche frane avevano formato dei promontori, e quindi delle insenature, nelle quali s’incavavano tortuosi viottoli che menavano sugli scogli denudati, irti, taglienti, contro ai quali quasi ogni anno qualche imprudente battello si fracassava.

Era appunto là che io non avrei dovuto andare secondo l’ordine dei superiori! Ma nè Cesare, nè Fiume, incaricati di custodirmi, nè le mie cuginette un poco più piccole di me, erano capaci di resistere alla mia volontà, quand’io li trascinavo a quelle scorribande.

Queste cose ed alcune altre mi avevano creato in tutto il parentado una fama di figliuola cattiva, perfida.

Zia Teresa, la moglie del marchese Giorgio, e sorella di zia Elena, una vedova questa di due mariti, mi perseguitava sempre perchè non avevo alcuna inclinazione religiosa. Ab[p. 131 modifica]bandonata da Dio ero, secondo lei; indegna di camminare sulla terra perchè svegliandomi il mattino, il mio primo pensiero era di correr fuori; l’ultimo, di ringraziare il Signore che mi aveva protetta durante il sonno.

Disgraziatamente, tali argomenti terribili avevano poca presa sul mio temperamento. Peggio ancora: agivano a rovescio. Crollavo le spalle, forse per cacciare dal mio cuore l’inconscia amarezza, e poichè non potevo reagire altro che scappando, approfittavo largamente di questo unico mezzo.

Fuori di là ero padrona io. E prima che quelle vecchie mi raggiungessero, ce ne voleva!

Quando scappavo mi voltavo a guardare la casa antipatica, la corte noiosamente monotona colla sua forma rettangolare, i muri alti e massicci, il pesante cancello; e quella vista rinforzava nel mio cuore il desiderio di fuggire. La salutavo con un gesto birichino, e, via, a gambe levate. Il mondo si trasformava improvvisamente davanti ai miei occhi. Mi sentivo libera, signora e padrona. I lunghi viali ombreggiati; i filari carichi d’uva o i gelsi carichi di more; i prati di un verde intenso smaltato di fiori; i rossi tappeti del trifoglio; gli stagni dove s’abbeveravano le mandre; i nidi degli uccelli; le bacche rosse dei ginepri; e, sopra ogni cosa cari, i boschi ed il mare: il mare con la sua spiaggia scoscesa, ricca di migliaia e migliaia di conchiglie, tutto era mio, di tutto io potevo godere!...

E quando pioveva e bisognava rincasare prima di notte, mi insinuavo nel cortile per la piccola porta posteriore, e col grembialino carico di spighe di granoturco immaturo entravo nella cucina dei coloni, per farle cuocere sulla brace ardente e mangiarle insieme ai piccoli contadini miei fidi amici. [p. 132 modifica]

Intanto le due vecchie rimaste a casa si bisticciavano rinvangando immancabilmente il passato. Zia Teresa, la sorella maggiore, che aveva sempre una certa autorità sul carattere debole della minore, brontolava sarcasticamente.

— Ecco il bel frutto di quello che avete fatto voi! Se non aveste dato nostra nipote (mia madre) a quello zingaro eretico (mio padre) di quel dalmatino, non avreste questo flagello (io stessa) che ci farà dannar l’anima a tutte e due!...

Debolmente zia Elena si difendeva. La ragazza, figlia del loro comune fratello, era stata affidata a lei, perchè non aveva figliuoli propri, e lei non aveva pensato altro che alla felicità di quella sua prediletta. Sapendo per esperienza a quanto male approdassero i matrimoni senza amore, aveva creduto bene di lasciarle sposare l’uomo che amava!...

Ma la marchesa crollava il capo in aria di compassione sprezzante.

— Bell’amore, sì; l’amore di un barbaro, di un miscredente che l’ha fatta morire!...

Quando rientravo in casa, se la bega era stata molto forte, zia Elena, che non aveva potuto sfogarsi con nessuno, si sfogava sopra di me, ed io potevo misurare l’intensità della sua collera concentrata, sull’intensità dei pizzicotti che mi regalava.

Le sole ore in cui la casa non mi dispiacesse erano quelle della siesta, dalle due alle cinque.

Appena finito il desinare (si desinava verso il tocco) i tre vecchi si ritiravano nelle rispettive stanze; le finestre si chiudevano. Le due sorelle dormivano in due camere vicine; il marchese, che da lungo tempo non se la intendeva troppo con la moglie, si era ritirato, fra i granai e la ser[p. 133 modifica]vitù, in uno stanzino, dicendo che lassù l’aria era più pura, la vista più aperta e ricreante.

La cameriera li accompagnava uno ad uno. Alle quattro e mezzo, finita la siesta, i tre campanelli squillavano uno dopo l’altro, e la cameriera accorreva col caffè; e poi andava a vestirli sempre uno dopo l’altro; poichè, la povertà che già li rodeva, li aveva ridotti a tenere una cameriera sola per tutti e tre, ma non peranco addestrati a vestirsi da sè medesimi.

Per tutte quelle ore ero libera; e, specialmente nelle giornate calde mi piaceva restare in casa, nella sala di tramontana o giù nel vestibolo, in una vecchia carrozza lasciata là in un cantone. Vi si entrava dentro tutti. Vale a dire, io in prima linea con le mie due cuginette, due diavoletti ancora immaturi; poi, Cesare, il biondo figliuolo del primo colono, che la marchesa aveva tenuto a battesimo. Lo tiravano su per domestico; ma lui non c’era tagliato; e alcuni anni dopo — mentre io ero in collegio — scomparve e non se ne seppe più nulla.

Ultimo, Fiume, il vecchio cane da caccia in riposo, che si stendeva ai miei piedi. Natura di martire questo cane. Quanto più lo si tormentava, tanto più si ficcava in mezzo a noi.

E poichè non vedendoci ululava malinconicamente, la servitù, che l’aveva in uggia, lo cacciava via a pedate, gridandogli:

— Va a farti martirizzare, va!...

Cesare e Fiume erano forse le due creature che m’ispiravano maggior simpatia in quella casa; certo erano quelli che mi amavano di più. Io li trovavo sempre pronti a eseguire i miei ordini, a darmi aiuto nelle cento difficoltà che avrei potuto incontrare nelle mie spedizioni. [p. 134 modifica]

Nella vecchia carrozza ci si sdraiava con voluttà sui guanciali sdrusciti, sulle molle sfondate, ma ancora abbastanza buone per cullarci sotto a un forte impulso di ondulazione.

Allora io sognavo di viaggiare e la fantasia mi portava lontano, in paesi nuovi, sconosciuti, dove diventavo l’eroina di straordinarie avventure.

Qualche volta io raccontavo questi sogni ad alta voce e il mio uditorio si divertiva.

Ma un altro asilo piacevole per quelle ore era la stanzetta di Dorotea, la guardarobiera.

Un giorno, verso la fine della villeggiatura autunnale che fu l’ultima della mia infanzia, accadde che io avessi estremo bisogno di ricorrere alla sapienza e alla bontà di Dorotea. Avevo passato la mattinata con le raccoglitrici d’olive, trascinandomi in terra, arrampicandomi su gli olivi, scavalcando muri. A tali prove la mia gonnella di lana sottile non aveva resistito: uno strappo enorme l’aveva aperta dall’alto al basso.

Per andare a desinare l’avevo appuntata con gli spilli; ma guai a me se arrivavo a sera senza che il danno fosse riparato!

Si andò tutti da Dorotea.

La buona donna non era malcontenta di quelle visite che rompevano con un po’ di chiasso la monotonia della sua esistenza.

Era sui quaranta. Piccolina, tozza, aveva gli occhi neri e scintillanti come due chicchi di jais; i capelli crespi; la pelle bruciata. Apparteneva anche lei alla famiglia; era nata marchesa Cravenna, ma da un ramo completamente deca[p. 135 modifica]duto prima che il suo povero bocciuolo vi germogliasse. Nata per amare, il marchese Giorgio l’aveva condannata alla solitudine mandandole a male tutte le occasioni di pigliar marito, per non metter fuori il salario mai pagato e che in capo a vent’anni di servizio doveva costituire un capitaletto. La povera creatura se ne lagnava qualche volta a bassa voce, miagolando come una gattina maltrattata; ma davanti al vecchio non osava neppur fiatare. In complesso non aveva ancora perduta la speranza di trovare un galantuomo che la sposasse per lei sola, rinunziando a que’ pochi soldi. Gliel’aveva messa in testa il marchese, ripetendole ad ogni nuova occasione: — Vuole i tuoi danari?... Vuol dire che non ti ama! È un birbante!... E intanto nella casa tutti ridevano delle speranze romantiche di Dorotea. I servitori la tormentavano con burle grossolane che divertivano i padroni, e la cameriera — una prepotentaccia, favorita dal vecchio — non le risparmiava le mortificazioni.

Inconsciamente, ma appunto per questo, certo, noi altri ragazzi le volevamo tanto bene.

Quel giorno ella stava cucendo al mio corredo di collegio.

— Dunque, tu vai proprio in collegio? — esclamavano le care cuginette mettendosi a piangere. Cesare sospirava.

E Fiume capiva benissimo che si trattava di una cosa tremenda.

Quand’io gli dicevo: — Non mi vedrai più — alzava la testa inquieto e mi guardava malinconicamente con gli occhi grandi, velati dalla vecchiaia, che sembravano pieni di dolore.

— Dispiace anche a me! — diceva Dorotea — davvero mi dispiace! Ma, santo Dio! è colpa sua; dicono ch’è tanto cattiva!... [p. 136 modifica]

Cesare asciugava le sue lagrime alla manica della giacchetta, e protestava che io non era cattiva.

In verità io era molto indifferente, e ogni cambiamento, compreso il collegio, mi sorrideva. La mia affettività aveva avuto poco campo di svilupparsi; ma avevo gusto che gli altri fossero dispiacenti della mia probabile partenza.

Mi venne un’idea romanzesca.

Erano là in una scatoletta, alcuni anellini di ottone di quelli che servono per le tendine. Ne presi uno e nel medesimo tempo presi la mano di Cesare che mi guardò tutto illuminato.

— Con questo anello — gli dissi mentre lo facevo passare con un po’ di sforzo nel suo anulare, ti farai riconoscere da me quando saremo grandi e io ti vorrò bene. Ma se te lo levi, niente del tutto: vorrò più bene a Fiume!

Fatto rosso di commozione, il biondo fanciullo giurò che quell’anello non l’avrebbe lasciato mai.

Anche quel giorno come tutti i giorni, venne l’ora del rosario.

E come tutti i giorni, io cercai una scappatoia, dicendo che mi doleva la testa. Avevo poca immaginazione! Le due vecchie mi fissarono ironicamente: la marchesa mi dichiarò una volta di più «una creatura precocemente perversa» e si fece il segno della croce; mentre l’altra vecchia, che in fondo soffriva, mi trasse dolcemente per le braccia fino al posto del mio tormento.

Mi lasciai condurre senza far scene; era inutile.

Il tempo del rosario, lo dedicavo solitamente all’esame della compagnia.

Le due sorelle portavano tutte e due la parrucca. La mar[p. 137 modifica]chesa, la portava nera coi bandò molto bassi sulla fronte; e sulla parrucca portava una cuffietta ugualmente nera con nastri pavonazzi o violetti. Quest’acconciatura stava veramente male al suo viso duro e poderoso di vecchia energica; nè meglio s’adattava al corpo da corazziere sostenuto da piedi lunghi e larghi, calzati alla moda dell’Empire.

L’altra vecchia portava una parrucca color castano chiaro con due grossi riccioli appuntati sulle tempie; sulla nuca, una grossa treccia, avvoltolata intorno ad un pettine; e niente cuffia. Anche lei era alta, diritta, imponente; anche a lei la natura aveva fatto il dono poco invidiato di due grandi piedi e di due mani larghe. Malgrado ciò e malgrado il naso superbamente greco che l’uso del tabacco aveva allungato, ella sarebbe stata ancora una bella donna, senza quell’abbominevole parrucca e i suoi cavaturaccioli.

Un altro personaggio obbligatorio del rosario era la cameriera; una creatura livida, secca, dai grandi occhi neri pieni di fiamme. Tutte e due le mie vecchie stavano in soggezione davanti a lei; ma zia Elena lasciava vedere questa soggezione, forse la esagerava per quella invincibile timidezza e sottomissione che era nel suo carattere; la marchesa invece non lasciava trasparir nulla; sempre altera, sempre nobile; dal momento che il marchese non la curava aveva l’aria di non ricordarsi neppure ch’egli era stato suo marito e che quella donna ne godeva i favori.

Questa dignità di signora, quest’orgoglio di donna, che ella non era mai riuscita a domare, dovevano essere, per Lucia, i maggiori castighi. Avrebbe avuto bisogno di litigare, di fare scandalo, di trascinare la padrona al livello di lei. Invece doveva sopportarne la schiacciante superiorità e [p. 138 modifica]quella bonaria alterezza che non trascendeva mai, neppure nelle correzioni, e non permetteva mai a lei di trascendere.

La popolana mordeva il freno, consumandosi nella bile. E la servitù che l’odiava, ne parlava davanti a me. Per questo era così magra! Per questo era così gialla! Per questo non aveva che occhi!

Ma io non capivo che a metà, capivo che si odiavano e le avvolgevo nella stessa corrente antipatica.

Il rosario veniva recitato nella camera della marchesa, ai piedi di una madonna che era a capo del letto. Noi ci s’inginocchiava intorno al letto enorme, dove la vecchia dormiva sola da tanti anni, cambiando posto ogni notte per mantenerlo uguale; ella stessa intonava il rosario, recitando i misteri dolorosi, o gaudiosi, o gloriosi, secondo il giorno della settimana; e tutti gli altri rispondevano. E io che divagavo sempre e mi davo all’osservazione per passare il tempo, sentivo lo sdegno contenuto, l’amara rassegnazione della marchesa nel suo modo di dire «Ave Maria, gratia plena»; e la petulanza della cameriera mi si rivelava tutta intera nella voce di falsetto con cui ripigliava: «Santa Maria», la prima di tutti.

Alcune volte questo duo strano era così aspro, le parole sante esprimevano tanto rancore, tanto dispetto, che io rimanevo col cuore sospeso, trattenendo il fiato, nell’attesa di uno scoppio.

Ma lo scoppio non avveniva mai; a poco a poco la voce di zia Teresa s’illanguidiva nella rassegnazione dolorosa, e la cameriera, seccata e stanca dell’inutilità dei suoi attacchi, brontolava le risposte a voce bassa smozzicando le parole. Allora dominava la voce di zia Elena, voce nasale e monotona per l’abuso del tabacco. [p. 139 modifica]

A questo punto, di solito, io mi addormentavo.

Ma quella sera Cesare era venuto a inginocchiarsi vicino a me; ed io lo vedevo pregare con fervore, le mani giunte, la fronte piegata sull’anello che gli avevo dato. Tale devozione mi fece effetto; provai un vago senso di tenerezza, un desiderio nuovo di pregare come lui, di essere devota anch’io. Mi ci misi con tale ardore, che le due vecchie, stupite, pensarono che io facessi per chiasso, e alla fin fine m’ebbi la stessa strapazzata di quando dormivo o facevo la cattiva.

La mattina dopo Cesare non si presentò al servizio alla solita ora.

Capitò invece un poco più tardi il colono.

Al ragazzo gli s’era gonfiato un dito durante la notte e spasimava, causa un anelluccio che lui non voleva assolutamente gli si rompesse.

— C’entrerà quella birbona! — esclamò la marchesa, fissandomi coi suoi occhi duri.

Io scappai.

Quando il colono ritornò da suo figlio, lo trovò rassegnato al taglio del famoso anello. Io ero là, tutta compresa dell’importanza della mia persona, infondendo coraggio e buone speranze al paziente.

Ma quando lo vidi col dito gonfio e l’anello tagliato mi ricordai le parole che gli avevo dette, e mi parve tanto buffo, che me ne andai ridendo seguita da Fiume.

La mia allegria durò poco. Avevo appena rimesso piede in casa, che la cameriera mi venne incontro, e col suo fare dispettoso mi disse:

— Stasera si torna in città, la signorina deve essere alla scuola domani. [p. 140 modifica]

Non meno grave della casa di campagna, nè meno triste, era la casa di città; anzi era più cupa, e molto più brutta per certe pretese architettoniche e certe eleganze ridicole. La parte anteriore posava sopra un sottopassaggio, o portico ad archi tondi, sostenuto da grossi pilastri quadrangolari.

Di sotto al portico era la porta massiccia, sempre chiusa. Si tirava il campanello, si aspettava un poco e si entrava in un vestibolo oscuro, dov’era una lunga fila di pile per l’olio, in macigno giallo, con pesanti coperchi di legno nero a spranghe di ferro. In mezzo allo spazio non grande di quella entrata si drizzava la scala tutta in macigno, ampia e non priva di una certa solennità: quattro pilastri dello stesso macigno giallastro, di forma squadrata e lavorati in rustico, la sostenevano dal terreno all’ultimo piano; e un lucernario la rischiarava dall’alto, con poco effetto, poichè le prime branche rimanevano quasi buie nell’ombra livida dei grossi pilastri. Sui pianerottoli, in cucina, nel tinello, i pavimenti erano dello stesso macigno, quindi freddi, umidi, tristi. Ma nelle camere e nelle sale si notavano certe velleità di lusso e di vita comoda, intesi in un senso più moderno: p. es. pavimento di legno — in alcune sale tirato a lucido — soffitti dipinti con cura a finti stucchi, e abbondanza di dorature; grandi stufe bianche a porcellana (che raramente si accendevano); usci a doppie imposte, fornite di cristalli, ecc., ecc.

Insieme a tutto questo, mobili sciatti e incompleti, eccetto quelli di un salottino — tutto nello stile del primo impero [p. 141 modifica]— assai elegante davvero, dove la marchesa riceveva gli amici e le amiche tutti i sabati e tutti i giovedì.

Il marchese Giorgio non si lasciava quasi mai vedere in quel salottino; preferendo ad ogni altro luogo, il suo brutto scrittoio, con una sola finestra sopra una corticella buia, con pochi mobili tarlati e le pareti annerite dal fumo.

Là egli passava i giorni e le sere, scrivendo e fumando in compagnia di un suo factotum che gli procurava certi lavori avvocateschi, nei quali, la laurea di legge e la firma d’avvocato, prese dal nobile signore in gioventù per semplice lusso, potevano ancora tornare utili procurando al vecchio impoverito qualche piccolo guadagno.

Del resto egli non usciva mai, dacchè la decadenza della sua casa non si poteva più nascondere e certi debiti erano portati in piazza. La città gli era odiosa, e quando arrivava dalla campagna aveva cura di arrivare a notte; quando poi ripartiva, si metteva in viaggio prima dell’alba.

Zia Elena stava anche lei chiusa nella sua camera al secondo piano, dove ella pure riceveva alcuni suoi amici semisecolari.

Così questi tre vecchi, la cui esistenza acquistava in campagna un certo grado di comunanza, qui non si vedevano altro che a pranzo e a cena.

Anche i rosarî erano sospesi; ovvero li recitavano a parte. Zia Elena per conto suo, li recitava alla finestra, in sull’imbrunire, guardando le signore che andavano a spasso e interrompendo le sue Avemmarie, con delle osservazioni di questo genere: «Maria Venieri s’è fatto un mantello nuovo! guarda come sta bene!» — oppure: «ah! il povero conte Furegoni come si trascina con quel bastone! Vec[p. 142 modifica]chio finito anche lui!» — Altre volte erano saluti scambiati vivacemente con quelli che passavano e piccoli dialoghi gettati traverso l’aria. Poi ella si ripigliava tranquillamente: «Nel quinto mistero doloroso si contempla ecc., per interrompersi presto da capo.

Io intanto giuocavo o facevo le mie lezioni, libera di non pregare, come lei era libera di pregare a suo modo, giacchè la sorella maggiore non interveniva con la sua devozione imperiosa.

Malgrado ciò, io ero molto più infelice in città che in campagna. Non potevo scappare: il portone era sempre chiuso, e quand’anche non fosse stato chiuso, io non avrei osato uscire sola, senza cappello, vestita da casa. Ero già schiava delle abitudini e della vanità borghese.

Le ore del pranzo e della cena erano le più tristi.

Quei pasti consumati nel freddo tinello, erano troppo spesso turbati dalle parole dure del vecchio e dalle lagrime mal represse della marchesa.

Strana cosa: quella vecchia così severa e che io avevo considerata tante volte come la mia persecutrice, era non soltanto una sventuratissima moglie, una madre orbata dell’unico figlio, ma ben anche un’anima estremamente sensibile, di una tenerezza quasi morbosa.

Quel tinello freddo, umido, scuro, dalle pareti mangiate dal salmastro, le dava sui nervi. Forse le rammentava più fortemente la perdita irreparabile del suo diletto figliuolo.

Le parole dure del vecchio erano sempre provocate dalla tristezza di lei. Vero tiranno egli avrebbe voluto che la sua vittima sorridesse e dimenticasse: quella tenacità di rimpianti lo irritava come un continuo rimprovero. [p. 143 modifica]

Difatti era un rimprovero. Poichè in quel tinello appunto si era compiuta la domestica tragedia. Dopo una lotta di opinioni, un giorno, mangiando la minestra, il marchese aveva annunziato alla moglie ed al figlio, che questi doveva prepararsi a partire per l’America fra pochi giorni. A Rio Janeiro lo aspettava una magnifica esistenza, quale principale impiegato in una grandiosa casa di commercio: una vera fortuna!

Tutto era stabilito; l’impegno preso; i denari del viaggio anticipati; non rimaneva che partire, obbedire e ringraziare il buon padre.

E il giovine era partito. Ma per ritornare in capo a sei o sette mesi, rovinato di salute, morente, appena in tempo per esalare l’ultimo sospiro sul travagliato cuore della madre.

Vent’anni erano trascorsi, e la piaga sanguinava ancora; la madre non poteva dimenticare, e l’abisso scavato tra marito e moglie non poteva essere colmato neppure dalla religione.

Quando appresi questa storia guardai la marchesa con altri occhi e le perdonai molte cose, nella mia infantile giustizia.

Ma la pietà dei mali altrui non poteva ancora impedire che io mi ribellassi alla noia, all’oppressione di quella vita.

Invocavo il collegio e mi rammaricavo di non esservi rinchiusa. Non avevo amici: Fiume, Cesare, Dorotea, le cuginette, lontani tutti! Erano in campagna loro, i felici! E io dovevo andare dalla maestra di cucito e ricevere le lezioni noiose, insopportabili, di un vecchio prete!

La sera, due o tre volte la settimana, arrivava l’uomo del battello recante dalla campagna grandi ceste piene di legumi, di verdure, di polli, di cacciagione, di frutte. [p. 144 modifica]

Io spiavo quell’arrivo. Ad ogni grande scampanellata correvo io a tirare la molla, poi, spenzolandomi sulla rampa della scala, domandavo, come era l’uso:

— Chi è?

E che gioia quando alla mia domanda, fatta con voce argentina, una voce grossa e rozza rispondeva arditamente:

— Il battello!

Allora correvo giù saltando, cercavo di scoprire quello che contenevano le ceste, ne aspiravo i profumi. Qualche volta, sull’orlo di una cesta di cavoli, di broccoli, o di fagiuoli, sotto al panno che la copriva era stato posato un mazzolino di violette, di gerani, o di garofani, riccamente guernito di erbe odorose. Era mio, e io me ne impossessavo con trasporto. Quei fiori erano le lettere de’ miei amici; vi sentivo dentro le loro ingenue risate, i giocosi latrati del mio cane, il dolce rezzo de’ miei boschi e l’arcana gioia della libertà.

Era così viva quella impressione, le mie sensazioni erano così acute che, oggi ancora, se chiudo gli occhi e mi concentro un momento, risento il profumo di quei fiori, e nel mio cuore si ridesta come un’eco lontana di quello spasimo delizioso.

Nelle ore di minor sorveglianza, quando tutti erano occupati e mi dimenticavano, o mi credevano nella mia camera a far i compiti, io mi rifugiavo volentieri in una vasta soffitta.

Là trovavo molti oggetti curiosi che mi divertivano: mobili rotti di ogni genere; ritratti a olio rosicchiati dai topi; uno specialmente notevole per la ricchezza del costume — il ritratto della madre del marchese Giorgio, a cui egli non [p. 145 modifica]perdonava di avere compromesso il patrimonio di casa Cravenna durante la vedovanza, mentr’egli era tenuto lontano a studiare. Vi erano, in certe casse, brani di costumi ricamati in oro; trine ingiallite; grandi fisciù di tulle alla Maria Antonietta; spadini ruggini e, sopratutto, libri condannati all’oblìo — forse alle fiamme — dallo spirito religioso di zia Teresa: libri d’ogni genere, ma per lo più romanzi, drammi, poemi, che destarono in me il primo amore della lettura: Siroe, Attilio Regolo, Ivanhoe, La Fattucchiera delle acque, La bella pellegrina, Ossian, Leopardi.... tutto alla rinfusa. Quante ore ho passate là, e come dolci!

In un angolo della soffitta era un cassone nero, assai grande, che mi respingeva.

M’inspirava un vago terrore. Ma a poco a poco, come accade tante volte nella vita, quel terrore, quella ripugnanza, fermarono il mio pensiero e divennero un incentivo di curiosità. Infine un giorno mi sentii attirata verso quell’angolo misterioso da tutta la forza del mio terrore e della mia repugnanza.

Esaminando da vicino il cassone nero, m’accorsi che non era tarlato e in disordine come gli altri. Non aveva serratura. M’accinsi ad alzare il coperchio che mi parve pesantissimo. Finalmente riescii, e mentre lo tenevo sospeso con le mie braccette sottili, ficcai dentro la testa.

Uno strano odore mi salì al cervello. Odore di chiesa vuota, quando gli scaccini spengono le candele dopo una grande funzione. Rimasi sbalordita e chiusi gli occhi.

Quando li riaprii vidi, traverso a un velo nero che avvolgeva tutto, una corona di rose bianche con largo nastro di raso bianco ingiallito. [p. 146 modifica]

Il mio primo movimento fu di ammirazione e di contentezza. Che bella scoperta avevo fatta!

Staccai la mano destra dal coperchio, forzandomi a sostenerlo con la sola sinistra, e mi spenzolai per raccogliere la bella ghirlanda che era sul fondo del cassone. Alzai il velo.... una zaffata dell’acre odore mi punse più vivamente; un brivido di freddo mi passò nelle spalle. Restai immobile, attonita, trattenendo il fiato; gli occhi fissi sul drappo di velluto nero attraversato da una grande croce bianca, su cui posavano le rose. Più in là, mezzo nascosti tra le pieghe del drappo intravidi alcuni ceri, un Cristo d’argento e altri oggetti confusi.

Lasciai ricadere la corona che avevo già afferrata. Tremavo e un’acuta angoscia mi stringeva la gola. Che avevo visto io mai?

La morte! La terribile immagine mi si era appalesata improvvisamente. Ignoravo ancora le cupe tristezze della natura. Tante volte ero corsa alla finestra per vedere «il bel funerale»; tante volte mi avevano detto che il mio babbo e la mia mamma erano in paradiso. Ma queste cose non avevano che sfiorato il mio spirito, senza rattristarlo.

Dal fondo di quel cassone usciva per me la sfinge fatale, mi atterriva, mi conquideva.

Lentamente mi raddrizzai, ritirai la testa, e, adagio adagio, sostenendolo con tutta la mia forza perchè non facesse colpo — sentivo che quel colpo mi avrebbe strappato un grido — feci ridiscendere il grave coperchio.

Mi parve la lapide di una tomba.

Tremavo sempre un poco, ma non avevo alcuna paura. Sentivo e pensavo come non avevo ancora sentito, nè pen[p. 147 modifica]sato. Il mio cuore si apriva al dolore. Era finita l’infanzia, distrutta la benedetta ignoranza!

In un istante ebbi l’intuizione confusa, ma profonda, della vita e delle sue più terribili fatalità.

Uscii dalla soffitta e chiusi l’uscio. Mi pareva di essere forte e tranquilla. Ma tutto a un tratto la mia sicurezza si franse; mi sentii vacillare e m’abbandonai sull’alto della scala nel sole che veniva dal lucernario.

Piansi lungamente pensando al mio babbo e alla mia mamma come se fossero morti allora; e pensando a me stessa come a una creatura cara e perduta da gran tempo, che ritrovavo e riconoscevo nella più profonda miseria.