Notizie sulla vita del conte Pietro Verri/Vita di Pietro Verri

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Ritratto
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VITA


DI


PIETRO VERRI


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NOTIZIE

DEL CONTE

PIETRO VERRI




Nacque il conte Pietro Verri in Milano ai 12 dicembre dell’anno 1728. Il di lui padre Gabriele dovette in gran parte ai personali suoi meriti l’essere stato successivamente promosso a diverse eminenti cariche; e fu per ultimo Reggente del Senato. Egli si è pure distinto nelle lettere; e si hanno di lui un quadro storico delle leggi municipali, dei commenti al principal codice di esse, varie dotte consultazioni politico-legali, e una voluminosa compilazione della storia della Lombardia, che rimase manoscritta.

[p. 6 modifica]Chi bramasse di conoscere tutti i più minuti tratti della fanciullezza e della prima gioventù del nostro autore, potrà riscontrarli nell’Elogio che ne ha pubblicato l’abate Isidoro Bianchi, già per altre opere benemerito de’ buoni studj1. Egli ha seguito un’altra via da quella che io tengo, essendosi proposto di esporre esattamente tutte le notizie delle quali ha trovato traccia; invece fu mio scopo di limitarmi a riferir di Verri quel solo che può servire a far distinguere il suo carattere, o che gli ha meritato di tramandare la sua memoria alla posterità.

Frequenti furono i saggi dati nella sua giovinezza dell’attività e dell’acume della sua mente; ma non gli si era ancora offerta occasione di esercitarla in qualche rilevante lavoro, onde si avesse potuto apprezzarne il vigore e l’estensione. Anzi poco mancò che egli non fosse distratto per sempre dalla carriera delle lettere, mentre per motivi di private circostanze si ascrisse nel 1758 al servizio militare, col rango di Capitano nel reggimento Clerici, e vi rimase fino al dicembre del 1760.

Restituito però appena alla tranquillità della [p. 7 modifica]vita domestica, riassunse con maggior calore gl’interrotti studj; e quelli dell’economia pubblica, applicata specialmente alla situazione della sua patria, l’occuparono a preferenza. Ma per meglio conoscere l’importanza di quanto in seguito operò e scrisse, gioverà di veder riferito da lui medesimo qual era in allora lo stato della Lombardia; giacchè questa, dopo venti anni dall’assunzione di Maria Teresa al trono Austriaco, non ne aveva ancor conseguito altro vantaggio fuori della riforma del censimento, ormai ridotta a fine mediante l’indefesso zelo di quel legislativo uomo di Pompeo Neri. Quella condizione di tempi, non al certo felice, ma che fu scala alla successiva prosperità della Lombardia, è da esso così descritta2:

“All’incominciare del regno di Maria Teresa ognuno sa e si ricorda quanti e quanto possenti ostacoli incontrasse da noi l’industria per esercitarsi in ogni parte. Arbitrario e sproporzionatamente ripartito il tributo sulle terre, ci offriva lo spettacolo di molti campi abbandonati dai proprietarj alle comunità: la tassa personale esuberantemente aggravata rendeva spopolati altri [p. 8 modifica]distretti e priva la terra di coltivatori: inciampi e vincoli interposti all’interna comunicazione pel trasporto delle derrate, sempreppiù allontanavano i reciproci soccorsi: severissime leggi annonarie, minacciando la morte a chi cercava di trasportare agli esteri i frutti della coltura, invece d’invitare alla riproduzione, direttamente la offendevano: i tributi delle dogane, appaltati a diverse compagnie, interponevano un contratto fra i bisogni del popolo e la paterna clemenza del sovrano: le scienze, le nobili arti, quello spirito d’impegnata ricerca della verità, che sa tentar la natura dubitando delle opinioni e separare le cose certe dalle probabili non erano certamente festeggiate: uno studio di parole, una servile venerazione o imitazione, erano lo scopo che si poneva davanti alla docile gioventù; e così gradatamente un ostinato spirito, nemico d’ogni felice slancio verso del bene, teneva in ceppi le arti tutte subalterne e meccaniche; e dimentichi di noi stessi, sembravamo piuttosto destinati a servire noi pure di mezzo e di continuo fra le generazioni passate e le a venire, anzi che una generazione avente diritto e ragione alla gloria di migliorare il deposito delle umane cognizioni„.

Questa serie di antichi disordini, che mantenevano i popoli nell’abbiezione, senza che quasi [p. 9 modifica]in quelli ne ravvisassero le cause, perchè vi si erano abituati fin dalla nascita, fu lo scopo cui Verri diresse la maggior contenzione de’ suoi studj. Non omise fatica onde, colla scorta della storia e spogliando i farraginosi documenti delle diverse amministrazioni, svolgere le vere cause che avevano potuto ridurre a tanto squallore un paese sì fertile, e altre volte sì ricco e potente. Frutto di queste faticose ricerche fu quella selva di squisita erudizione, la quale dopo di averne egli usato in tante sue opere per più di trent’anni successivi, era ancor lungi dall’essere esausta.

Per comunicare l’espansione di questo suo zelo, trovò egli un compagno degno di lui e non men caldo di amor patrio, nella persona del marchese Cesare Beccaria. La costanza e la sincerità della loro amicizia fu ammirabile. Avidi entrambi di gloria senza rivalità, reciprocamente confidenti senza arroganza, appassionati per gli studj utili senza presunzione, percorsero la stessa carriera di studj e di cariche, e si mantennero amici fino alla morte. Nè solo sinceramente si compiacevano de’ loro vicendevoli progressi; ma come il genio profondissimo di Beccaria quasi compresso dallo stato d’indolenza cui era portato dalla sua fisica costituzione, aveva bisogno per esercitarsi di chi al pari di un ostetricante ne sollecitasse lo [p. 10 modifica]sviluppo, Verri fu quello che si prestò a questo ufficio; e già si è altrove notato3 che alla sua benemerita importunità dee il pubblico l’immortale opera dei Delitti e delle Pene e l’autore di essa la giusta celebrità che glien’è risultata4.

Un tanto zelo dovea essere illimitato nella sua espansione. Quindi Pietro Verri e Beccaria divennero il centro di un’unione di illustri giovani egualmente studiosi ed animati da non minor fervore per la prosperità della loro patria. Essi radunavansi nelle stanze di Verri, e si resero in seguito famosi sotto il nome di Società del Caffè, dal titolo di un foglio periodico di letteratura e di scienze che pubblicarono per due anni sul modello dello Spettatore Inglese, cui però [p. 11 modifica]sorpassarono di molto nella varietà e scelta degli argomenti, nell’eleganza e nella profondità5.

A quel tempo aveva già il nostro Verri pubblicati colle stampe diversi saggi de’ suoi talenti e della sua coltura. Oltre alcuni opuscoli di circostanza, che potrebbero citarsi a sua lode quand’altro di meglio non avesse fatto, pubblicò egli nel 1762 colle stampe di Lucca un Dialogo su le monete; nel 1763 un Saggio sulla felicità, e quindi molti articoli nel Caffè, due fra i quali assai interessanti sul commercio e sul lusso. Diedero occasione al detto Dialogo i rumori che si erano mossi da alcuni autorevoli ignoranti contro la breve, ma pregevole opera data in luce in quell’anno da Beccaria sul disordine delle monete; e Verri spiegò in quello con singolare brevità e [p. 12 modifica]chiarezza la teoria sulla monetazione dello Stato di Milano cui si attenne dappoi costantemente, e nella quale insistette e nelle Meditazioni sull’Economia Politica e nella Consulta che sullo stesso argomento scrisse a richiesta della Corte nel 1772. Essa ha dovuto bensì cedere ad una prevalente dottrina nell’esecuzione della riforma, ma non è ancor provato che quella in confronto non potesse esser migliore, e meno poi che fosse falsa. Verri avea in quel Dialogo così esposto il suo principio: “Lasciamo battere moneta alle nazioni che hanno miniere e grande commercio marittimo; noi, abitatori di un piccolo Stato mediterraneo, senza miniere, pensiamo ad accomodare le nostre partite del commercio, a diminuire le importazioni, ad accrescere l’esportazione, ad animare l’industria; pensiamo ad avere moneta buona, a valutarla bene, e non ci prendiamo briga dell’impronto che questa moneta debba avere„.

Se la dimostrata sincera persuasione di un grand’uomo può far ascoltare con minor disprezzo, o esaminare con più seria attenzione le massime che si oppongono alle attuali costumanze, non sarà pure inutile di riferire che tra le carte di Verri esiste un esemplare dello stesso Dialogo coll’annotazione di sua mano, che egli lo rileggeva sempre con piacere, persuaso che non si potesse con [p. 13 modifica]minor noja e maggior chiarezza combattere i pregiudizj del volgo in questa materia.

L’epoca della rinnovazione dell’appalto delle finanze, fu pur quella in cui Verri diede principio alla sua pubblica carriera. Scadeva col 1765 il novennio della Ferma generale6. Perciò l’Imperatrice mentre volle che nel nuovo appalto il regio erario fosse interessato per un terzo, ordinò pure che si radunasse una Giunta di ministri coll’incarico di compilare i capitoli dell’appalto e la tariffa de’ dazj. Col dispaccio 24 gennajo 1764, portante queste disposizioni, venne pur Verri nominato alla carica di Consigliere presso la Giunta stessa con voto deliberativo.

Concorse a determinar questa sua nomina non [p. 14 modifica]tanto l’onorevole estimazione già acquistatasi co’ proprj scritti, quanto l’aver egli trasmesso nell’anno precedente al principe Kaunitz un volume di Considerazioni sul commercio dello Stato di Milano, opera per erudizione e dottrina certamente superiore alla sua età e ai tempi in cui la scrisse. Trattava in essa in tre distinte parti della grandezza e decadenza del commercio di Milano dal 1400 sino al 1750, dell’attuale suo stato e dei mezzi di ristorarlo. Quest’opera rimase inedita; ma la prima parte, ampliata nel 1768 con nuove interessantissime notizie che gli comunicò il benemerito archivista del Senato Ilario Corte7, e da lui disposta per la stampa col titolo di Memorie sull’economia pubblica dello Stato di Milano allorchè fu sorpreso dalla morte, sarà ora per la prima volta pubblicata.

[p. 15 modifica]All’epoca della detta elezione era egli riuscito, mediante un indefesso travaglio a compilare il primo Bilancio del commercio della Lombardia, con quella maggior precisione che era possibile ad uomo privato. Affine di ottenere l’esattezza nelle copie, difficilissima in simili lavori colla manuale scritturazione, ne fece stampare quel numero di esemplari che gli occorreva per distribuire a pochi amici e spedire alla Corte. La notabile passività che risultava da quel bilancio diede luogo alla stampa di una Lettera critica, nella quale all’opposto intendevasi di provare che il commercio dello Stato di Milano fosse attivo di molti milioni. Questa contestazione, e il falso supposto che il bilancio fosse stato divulgato, spiacquero al principe Kaunitz; ma da grande uomo, qual era, lungi dal sagrificare le viste di ben pubblico all’albagia ministeriale, ne trasse argomento per anticipare un' utilissima disposizione. Molto importante, anche per far conoscere il suo carattere, è la lettera che scrisse su tale argomento al ministro plenipotenziario conte di Firmian8; ed è la seguente:

[p. 16 modifica]“Soddisfo alla precedente di V. E. del giorno tre, con cui mi rimise il Bilancio stampato dal conte Pietro Verri del commercio dello Stato di Milano, colle altre tre pezze che lo accompagnavano. Può ben essere persuasa l’E. V. che io non approvo e non sarò mai per approvare alcun passo che deroghi all’autorità e dignità del Governo; e specialmente a questo riguardo mi è rincresciuto che il detto cavaliere, di cui peraltro mi piace l’ingegno e la scelta che ha fatto de’ suoi studj, siasi lasciato inconsideratamente condurre dal fervor giovanile a convertir colla stampa in oggetto di compatimento, ciò che prodotto in iscritto alla sola Giunta ed al Governo gli avrebbe fatto dell’onore, se non altro per l’idea e per il piano di eseguirla.... Ma posto che è rotto il ghiaccio, convien ora andare innanzi, e verificare col maggior accerto che si può il giusto mezzo fra i nove milioni di annua mancanza, che fa comparire il detto bilancio, e gli undici milioni di sopravanzo annuo che risultano dalla Lettera critica al medesimo opposta. Sono persuaso che sia falso il bilancio, perchè l’autore non potè essere autorizzato a riconoscere i fonti originali per fissare dati certi; e credo egualmente che non sussista il calcolo annesso alla Lettera critica, perchè si vede dettata di un puro spirito di [p. 17 modifica]contraddizione e di animosità. Ordini dunque V. E. alla Giunta di subito applicarsi a riconoscere, per quanto sia praticabile, lo stato attivo e passivo di codesto commercio, affinchè, rimosse le esagerazioni, e con quella maggiore probabilità che sia compatibile colla natura del soggetto, possa vedersi da qual parte propenda la bilancia. È troppo necessario questo esperimento, acciocchè i paesi circonvicini, eccitati a dubitare sugli eccessi opposti, non entrino poi in diffidenza per mancanza di una dimostrazione che decida„.

In adempimento del superiore comando, fu delegato dalla Giunta alla compilazione del nuovo bilancio lo stesso consigliere Verri, unitamente al di lui collega consigliere Maraviglia. Questa vasta operazione venne compita in meno di dieciotto mesi; e la chiarezza del metodo e l’esattezza dell’esecuzione, descritte in seguito nella Relazione che ne innoltrarono al Ministro plenipotenziario il 30 di ottobre del 1765, possono servire di utile soggetto d’imitazione anche a’ tempi presenti. Quel bilancio offriva in risultato un’attività di lir. 15,387,034. 16. 2, e una passività di lir. 16,980,488. 5. 4; e perciò il commercio passivo era maggiore di lir. 1,593,453. 9. 2.

Intanto avvicinandosi il tempo dell’attivazione della nuova Ferma mista, la profonda sagacità e [p. 18 modifica]l’attività indefessa dimostrate da Verri in tutte le operazioni della Giunta, gli ottennero che fosse dalla Corte onorevolmente prescelto a rappresentare il terzo per S. M. nella Ferma stessa, e contemporaneamente promosso al rango di Consigliere nel Supremo Consiglio di Economia9.

L’inerzia de’ precedenti governi li aveva talmente allontanati da ogni cura della pubblica amministrazione, che l’esercizio delle finanze si coperse d’impenetrabile mistero; ed il Sovrano, che pur vedeva i miseri suoi popoli spremuti incessantemente dagli inesorabili fermieri, era nell’impotenza di provvedervi, mancando, di mezzi e di lumi onde far amministrare direttamente le proprie rendite. Fu un tratto della più sublime sapienza l’istituzione della Ferma mista. Per tal modo il rappresentante del principe ha potuto conoscere l’entità delle pubbliche rendite, il sistema de’ fermieri e gl’immensi loro profitti. Verri giustamente animato da una destinazione di tanta confidenza, vi si adoperò con tal zelo, che giunse a superare la stessa aspettazione della Corte, sicchè questa fu in grado di anticipare di cinque anni il compimento dell’ideata riforma, col decretare nel 1770 la cessazione della Ferma delle finanze, sostituendole un’amministrazione economica.

[p. 19 modifica]Malgrado l’immensità di tali occupazioni, lo zelo instancabile di Verri volle estendersi anche alla discussione che allora si era mossa per la riforma del sistema dell’annona. Quindi scrisse nel 1769 le Riflessioni su le leggi vincolanti nel commercio dei grani, lo scopo e l’esito delle quali fu esposto da lui medesimo nell’Avvertimento che premise ad esse, allorchè nel 1796 le ha date alle stampe. “Quest’opera (egli dice) fu scritta nell’occasione in cui si voleva sgombrare l’amministrazione pubblica dalle nebbie e dagli errori consacrati dall’antichità. Si credeva che i soli mezzi per salvare la provincia dalla carestia fossero i vincoli, e quindi una legge obbligava a notificare ogni anno tutti i grani raccolti; altra legge obbligava a introdurne una data porzione nelle città; pene severissime erano imposte a chi ammassasse grano senza una patente; cautele su la macina de’ mugnai, cautele sul trasporto interno, proibizione dell’uscita de’ grani dallo Stato. Tale era la legislazione che pesava sul prodotto delle terre. I magistrati custodi di tai leggi davano le dispense e le tratte, e questa lucrativa facoltà li teneva tenacemente a difendere la pretesa saviezza delle leggi tramandateci da’ maggiori. Vi voleva del coraggio per comparire nell’arena in favore del ben pubblico contro tali interessati oppositori all’utile [p. 20 modifica]verità; pure malgrado le arti nemiche fui fortunato, e nel ceto di chi disponeva dell’economia pubblica la luce della ragione ebbe accesso, e si screditarono gli errori. Quindi leggi libere si promulgarono, e da venti anni a questa parte non vi fu mai inquietudine o pericolo di carestia.„

Durante la sua delegazione a rappresentare il terzo regio nella Ferma mista, gli venne affidata dalla Corte un’altra non men grave incumbenza, preparatoria anch’essa al nuovo sistema. Oltre i principali rami di finanze amministrate da’ fermieri, molti altri ne esistevano, i quali erano stati alienati o dati in cauzione a’ monti e banchi pubblici o a diverse famiglie che nelle calamità degli scorsi secoli aveano sovvenuto col proprio danaro ai bisogni dello Stato. Era già stato deciso che tutte queste regalie dovessero essere avocate al Sovrano. Il progetto per la redenzione delle medesime cominciò ad essere discusso nel 1760. Sei anni dopo fu istituita una Giunta di ministri per eseguirla, e se ne abbozzarono le massime. Ma distratti quelli dalle loro ordinarie occupazioni, bastò l’esperienza di un anno a provare che non si poteva esigere dalla loro opera quella celerità che era necessaria. Perciò con dispaccio 19 ottobre 1767 soppressa la Giunta, se ne trasferì l’incarico al Supremo Consiglio di [p. 21 modifica]Economia, e Verri ne fu fatto relatore. Indi nel 1769 venne egli specialmente delegato col consigliere de Montani ad eseguire la liquidazione e classificazione delle regalie da redimersi, travaglio arduo, complicato, minuziosissimo, cui tuttavia ridusse a termine con distinta lode nel 1770.

Quasi nello stesso tempo emanò il decreto sovrano, col quale si dichiarò cessata la Ferma mista. L’enorme pretesa de’ fermieri per il rimborso degli utili de’ cinque anni che ancor rimanevano alla scadenza dell’appalto, i quali furono a stento ridotti a sette milioni, finì d’illuminare la Corte sull’immensità del danno che da simili appalti era fin allora derivato al regio erario. In un dispaccio del principe Kaunitz al conte di Firmian10, quel zelantissimo ministro così ne scriveva: “Io devo ingenuamente confessare a V. E. che finora non mi è bastato l’animo di far conoscere alle MM. LL. la somma precisa degli annui utili, toccata nel primo triennio al R. erario per la sua interessenza nella scadente Ferma mista, poichè dal quantitativo di questa terza parte avrebbero le medesime facilmente potuto calcolare l’importo delle altre due terze parti a profitto de’ fermieri. Il loro ammontare ad un milione per l’anno 1768 [p. 22 modifica]e 1769, anche dopo ricompensata con congrui appuntamenti l’opera di essi come rappresentanti la Ferma, non potrebbe a meno di parere ai Sovrani esorbitante, e dovrei temere che non rivoltasse l’animo loro la riflessione che in fine de’ conti questo danaro è cavato dalle sostanze de’ loro sudditi, e che S. M. l’Imperatore non avea torto a dire che i Fermieri succhiavano il sangue de Milanesi e Mantovani. Dal confronto poi degli utili degli stessi fermieri colle entrate pubbliche dello Stato ne avrebbero le MM. LL. fatta la conclusione, che dopo diffalcate le spese che incumbono all’erario per l’amministrazione della provincia, il Sovrano ritrae da questa molto meno dei fermieri: comparazione veramente odiosa, e che darebbe da pensar molto su questo articolo„.

La nuova amministrazione delle finanze venne formata sulla traccia di quella che con prospera successo già trovavasi in attività nei Paesi-Bassi Austriaci, e quindi distinta in tre parti: I. Amministrazione generale; II. Controlleria della detta Amministrazione; III. Riforma e legislazione. Fu delegata la prima al Magistrato Camerale, la seconda ad una Camera de’ conti, la terza ad una Giunta governativa. Contro il solito delle riforme, è stata questa eseguita con tanto spirito d’imparzialità, che uno de’ fermieri, il conte Antonio [p. 23 modifica]Greppi, fu assunto al regio servizio nella Camera de’ conti. Il principe Kaunitz, in un suo Rapporto fatto all’Imperatrice nel 1771, qualificò il Greppi qual uomo di mente e di esperienza, e che in paese si era acquistato la riputazione di galantuomo, anche presso coloro che odiavano la Ferma.

Questa è l’epoca più illustre della vita di Verri, siccome fu la più attiva e laboriosa. Si può dire senza tema di esagerare, che quasi l’intiera sistemazione dell’amministrazione economica delle finanze è stata affidata a lui solo. Egli vi diede incominciamento colla stesa di un piano organico; e dal proemio di esso si evince che la forza della di lui mente ne avea compreso l’insieme nella maggior vastità de’ suoi rapporti. Giova di udire l’autor medesimo a render conto de’ proprj pensieri; egli così si esprime11: “Organizzare un corpo di amministrazione del tributo; immaginarvi una forma interna, sicchè non vi penetri l’arbitrio, nè si pregiudichi alla celerità degli affari; preservare l’interesse dell’erario e l’industria nazionale ad un tempo; gettare i semi delle riforme da farsi nel tributo, parte la più [p. 24 modifica]importante e irritabile del corpo politico; suggerire il metodo col quale più rapidamente, ma nel tempo medesimo con passi più fermi e sicuri si possa distribuire il tributo nella forma più innocua e adattata al bene della società; diminuire al possibile le spese della percezione; lasciare tutta la libertà all’industria componibile col tributo destinato a proteggerla; accelerare l’epoca in cui, rese le leggi della finanza chiare, umane e semplici, venga portata la luce sopra cni parte dell’amministrazione: tale è la natura del quesito, sul quale scriverò come le deboli mie forze lo permettono„.

Attese quindi indefessamente a preparare la riforma della tariffa. Basterà a dare un’idea di questa improba fatica la sola nomenclatura de’ lavori da esso presentati su tal proposito al Magistrato Camerale, che era stato sostituito nel 1772 al Supremo Consiglio di Economia. Il 13 agosto 1773 presentò egli la Ricapitolazione generale de’ generi entrati e usciti nell’anno 1769; il 5 ottobre dello stesso anno il Bilancio generale dell’anno predetto; il 14 marzo 1774 lo Spoglio delle merci passate in transito nel 1771; e per ultimo il 30 maggio, pure detto anno, il Progetto della nuova tariffa. A fine di render giustizia a chi gli avea giovato co’ suoi consigli, così si esprime nella lettera colla [p. 25 modifica]quale ha accompagnato il Progetto medesimo: “Avrei giustamente motivo di diffidare se queste idee le avessi sviluppate solo e isolato; conobbi la gravità dell’oggetto, sentii il bisogno dell’ajuto de’ ministri illuminati, lo chiesi e l’ottenni. S. E. il signor conte presidente Carli ebbe la bontà d’interessarsene meco, discutere le massime ed assistermi co’ suoi lumi; oltre i signori consiglieri relatori di finanza, anche i signori consiglieri conte Secchi e marchese Beccaria ebbero la compiacenza più volte di unirsi meco a trattare di queste viste; onde il risultato di questo Progetto è una conseguenza di quanto si è discusso„. Questo passo comprova da una parte la modestia dell’autore, e dall’altra la maturità e la ponderazione con cui procedeva ne’ suoi travagli.

L’importanza del beneficio che Verri con quest’opera ha reso alla sua patria, risulterà maggiore dal riflettere allo stato delle finanze di quel tempo. La daziaria era in allora divisa in altrettante giurisdizioni, quante erano le provincie che componevano il ducato di Milano, e in ciascuna giurisdizione si esigeva un dazio. Perciò la circolazione del commercio era ad ogni tratto vincolata, e perfino 40 erano talvolta i pagamenti cui soggiaceva una sola merce12. Era tanto mal [p. 26 modifica]calcolata la tariffa, che in più di 300 casi i rappresentanti la Ferma generale aveano da quella receduto, e si erano accontentati di percepire un tributo minore di ciò che portava la legge, per non annientare molti rami di commercio e desolare tutti i transiti dallo Stato13. Questo è pure il motivo per cui avendo a combattere un errore autorizzato dalla pratica, si diffuse Verri nel suo Progetto sul danno risultante all'erario dal soverchio aggravio del tributo nella tariffa, dimostrandolo con molti antichi e recenti esempi. La Corte nell’eccitarlo ad esporre le sue idee non si era ancor decisa tra una modificazione della tariffa esistente e una totale riforma. Ma la farragine degli errori e de’ disordini fu da lui sì evidentemente dimostrata, che quella non esitò a preferire l’ultimo rimedio. Così ottenne Verri la gloria di aver applicato al multiforme tributo indiretto quella regolarità di principj e quella semplice uniformità cui era già stato ridotto dal presidente Neri il censo delle terre; e come questa fu l’epoca del risorgimento dell’agricoltura, del pari la nuova tariffa il fu per l’industria e per il commercio.

Chi crederebbe che frammezzo a sì gravi e [p. 27 modifica]moltiplici occupazioni, cui sembra che appena possa bastare un uomo solo, avesse Verri a trovar agio per occuparsi ancora de’ favoriti suoi studj? Eppure fu in quel tempo che egli si produsse di nuovo in pubblico come scrittore di economia e come metafisico, stampando nel 1771 le Meditazioni sull’economia politica, e nel 1773 il Discorso sull’indole del piacere e del dolore.

Le Meditazioni sono state accolte con singolare applauso. In due anni furono ristampate sei volte in Italia, e di nuovo nel 1773 a Losanna tradotte in francese, e a Dresda in tedesco nel 1774. Quest’opera può essere considerata il deposito de’ principi che egli ha seguiti come Magistrato, e il risultato della sua esperienza. Del metodo che tenne nello scriverla c’informa egli stesso nella Prefazione alla nuova edizione che ne fece eseguire nel 1781, unitamente ad altri suoi Discorsi14.

“L’Economia Politica (dic’egli) è la materia più vasta de’ delirj di chiunque, e una specie di medicina empirica che serve di argomento ai discorsi e agli scritti anche più inetti, e potrebbe essere la facoltà di chi volesse insegnare senza possedere facoltà alcuna. In questo campo io pure sono entrato, ma il metodo tenuto da me non è simile a [p. 28 modifica]quello che comunemente è stato di norma a molti autori. Essi dall’ozio tranquillo del loro gabinetto, formandosi idee astratte sopra del commercio, della finanza e di ogni genere d’industria, mancando di ajuti per esaminare gli elementi delle cose, sopra ipotesi anzi che sopra fatti conosciuti hanno innalzate le loro speculazioni. Il mio ingegno è stato più lento. Ho impiegato varj anni a conoscere i fatti: le commissioni, colle quali la clemenza del Sovrano mi ha onorato, me ne hanno somministrato i mezzi. Quasi tutte le idee mie hanno cominciato coll’essere idee semplici e particolari; poi coll’occasione di esaminare oggetti reali accozzate, disputate, contraddette, si sono andate componendo, e le generali idee sono emanate poi dopo una lunga combinazione di elementi conosciuti. Questo metodo non ha il merito certamente di essere il più breve ne il meno penoso, ma a lui solo credo di essere debitore della onorevole accoglienza che è stata fatta a questa serie d’idee, le quali le trovo vere e riducibili ad esecuzione anche oggidì, come le trovai dieci anni fa nel pubblicarle la prima volta. Vorrei essere collocato fra gli autori buoni, ma ambisco ancora di più l’essere conosciuto un buon cittadino. Felice quel popolo dà cui comunemente si ragiona della virtù, e le di cui dispute familiari hanno per oggetto i mezzi che producono la felicità dello Stato!„

[p. 29 modifica]Era impossibile che quest’opera non incontrasse degli oppositori: essa aveva una decisa superiorità di dottrina, e si era osato in essa di dimostrare erronee le venerate massime de’ nostri maggiori.

Perciò gl’invidiosi e gl’idolatri delle proprie abitudini ne doveano muovere schiamazzo; il che infatti avvenne. Tra i secondi si distinse certo M. Bisthowen, che pubblicò in Vercelli col titolo di Esame breve e succinto un volume di sarcasmi, di trivialità e di sofismi, in cui si propose di contraddire da capo a fondo alle Meditazioni, e di fare una illimitata apologia del vigente sistema economico, senza riflettere che con un tal sistema la popolazione deperiva nello Stato, l’agricoltura vi era negletta, l’industria languente, il commercio passivo, e i racconti dell’antica prosperità erano ormai riguardati come una favola. Un altro non meno violento oppositore a quest’opera, benchè più ragionevole, suscitò l’invidia in un uomo il quale era altronde fornito di bastanti meriti perchè non avesse dovuto degradarsi cotanto. Fu questi il conte Gian-Rinaldo Carli, allora presidente del supremo Consiglio di Economia. Ho già indicato nelle Notizie di lui15 qual fu il principio [p. 30 modifica]di rivalità che il mosse a ricorrere a questo poco onorevole artifizio. L’amarezza che lo animava traspira quasi ad ogni pagina. Dice in un luogo16: L’oceano ingoja le navi e le isole, un terremoto distrugge le città, una voragine abissa un paese, un autor fervido confonde e trasforma i principj dell’economia politica, tenta una rivoluzione nello spirito degli uomini, e si delira. Mentre affetta di parlar sempre dell’autore anonimo, fino ad asserire che egli siasi impenetrabilmente tenuto occulto17, si cura poscia di rimarcare che si sono veduti de’ bilanci stampati, i quali se non hanno discreditata la nazione perchè i fatti veri trionfano su le illusioni della mente, hanno onorato poco l’autore che gli ha formati; con che allude apertamente al primo Bilancio di Verri. In difesa delle sue dottrine fece questi alcune aggiunte alle Meditazioni, nella stessa edizione che se ne esegui in Livorno l’anno 1772, in cui non mancò di ribattere talvolta la mordacità del suo censore. Ma una reciproca stima riavvicinò in seguito li due illustri competitori; e si è di sopra veduto che Verri consultò lealmente il suo antagonista sul Progetto della nuova Tariffa, e gli rese una [p. 31 modifica]solenne testimonianza dell’utilità de’ suoi suggerimenti.

Non meno applaudita è stata l’altr’opera che successe alle Meditazioni, cioè il Discorso sull’indole del piacere e del dolore. L’autore vi stabilisce la teoria, che il piacere consiste nella cessazione del dolore, teoria che egli seppe ornare con tutta la magia dello stile e i magnifici colori dell’immaginazione, benchè forse non sia applicabile con eguale esattezza alla generalità delle umane sensazioni. Egli deduce per corollario della sua teoria che “il prodigioso avvenimento de’ quattro illustri secoli di Alessandro, d’Augusto, dei Medici e di Luigi XIV, che fu un mistero, cessa di esserlo tosto che si conosca essere spuntati que’ secoli dai dolori e da così turbolenti governi, che gli uomini ricevettero le massime spinte per agire„18. Qualora questo corollario sia vero, si potrebbe con certezza profetizzare a quasi tutta l’Europa, e specialmente alla nostra Italia, un secolo floridissimo.

Ma se senza limiti era lo zelo di Verri per ben sistemare l’amministrazione economica dello Stato, nel tempo stesso che promoveva co’ propj scritti la propagazione delle utili dottrine, non era meno [p. 32 modifica]sollecito il Sovrano a ricompensare i suoi servigi con successive promozioni. Già si disse che nel 1765 era stato eletto Consigliere nel Supremo Consiglio di Economia. Soppressa questa magistratura nel 1772 coll’erezione del Magistrato Camerale, cui venne pure affidata l’amministrazione delle finanze, egli ne fu nominato Vicepresidente con diploma onorevolissimo19. Nel 1780 fu promosso [p. 33 modifica]alla carica di Presidente, rimasta vacante per la giubilazione accordata al conte Carli. Nel 1783 fu decorato del grado di Consigliere Intimo Attuale di Stato, e nello stesso anno creato Cavaliere di S. Stefano. L’erezione della Società Patriotica di Milano per l’avanzamento dell’agricoltura, delle arti e delle manifatture, seguita con dispaccio a dicembre 1776, sul modello della Società Patriotica di Slesia e di quella d’arti e manifatture di Londra20, procurò a Verri una nuova testimonianza [p. 34 modifica]della confidenza della Corte, coll’essere destinato Conservatore anziano della medesima. In questa qualità intervenne alla sua prima adunanza, pronunziandovi un Discorso, che dato alle stampe e spedito al principe Kaunitz, gli procurò per di lui parte la lusinghiera dichiarazione che “la robusta eloquenza, la giustezza delle vedute, la finezza colla quale l’autore ha saputo toccare gli oggetti più importanti della pubblica amministrazione, e combinarli collo scopo della Società per risvegliare la passione del bene generale, sono altrettanti motivi per i quali egli ha diritto all’applauso da lui ottenuto„21.

Noi abbiamo finora veduto Verri magistrato abilissimo ed instancabile, riformatore della parte più complicata e difficile dell’amministrazione dello Stato, scrittore di metafisica, di economia generale, e quindi separatamente di monete, di finanze [p. 35 modifica]e di annona. Ma tutto ciò che poteva giovare alla di lui patria, diveniva tosto l’oggetto del suo più fervido interessamento. Questo carattere non gli permise di rimanere indifferente nell’universal gara de’ saggi, onde ottenere che fossero proscritte dalla procedura criminale le atrocità che la deturpavano. L’abolizione della tortura formava allora il voto di tutti i filosofi. Fin dal 1764 Verri avea abbozzato alcune idee su quell’orribile abuso22; le riassunse nel 1777, e per rendere più efficace la forza de’ ragionamenti, scelse un famoso esempio di un delitto impossibile confessato per l’eccesso de’ tormenti, cioè il fatto delle unzioni venefiche, cui si attribuì la pestilenza che desolò Milano nel 1630. L’ordine, la chiarezza, la forza de’ raziocinj, e l’insinuantesi fluidità del suo stile trovansi nelle [p. 36 modifica]Osservazioni sulla Tortura in un grado eminente. Non temo d’incontrare la taccia di esagerato, se dico che quest’opera mostra più che ogni altra qual grand’uomo era Verri. Egli ebbe il talento di rendere una lettura interessante dei pezzi di processo scritti col barbaro frasario de’ tribunali, ancor più barbaro a que’ tempi; d’insinuare l’austerità de’ ragionamenti per la via sempre facile e lusinghiera della sensibilità, e di trasfondere ne’ suoi lettori, colla commozione della sua anima, la stessa persuasione. Ma, per mala sorte, suo padre era membro graduato di quel Collegio di supremi giudici che cento quarantasette anni prima avea dato un sì atroce esempio d’ignoranza e di crudeltà nel legale assassinio di tanti innocenti. Si credette che l’estimazione del Senato potesse restar macchiata per la propalazione dell’antica infamia. Questo riflesso prevalse; Verri, per rispetto del padre, rinunciò all’idea di dare alle stampe le sue Osservazioni; e così il pubblico rimase defraudato di un’opera che certamente su tutte le altre di eguale argomento avrebbe riportato la palma23.

[p. 37 modifica]La diligente ricerca delle antiche memorie, onde appieno conoscere le successive vicende [p. 38 modifica]economiche della sua patria e la vera causa di esse, gli aperse la via ad un più vasto lavoro, la Storia [p. 39 modifica]di Milano. Fino a lui non si avevano che dei Cronisti più o meno ignoranti, rare volte esatti, e [p. 40 modifica]rozzi sempre; e il conte Giulini, che per qualche gusto di sana critica i distingue tra gli antiquarj, [p. 41 modifica]non avea raccolto che dei materiali. Questa bella parte d’Italia, sì celebre per antica potenza e per [p. 42 modifica]tante vicende, dee riconoscere in Verri il primo suo Storico che sia degno di tal nome. Il primo [p. 43 modifica]volume, che si estende fino alla morte dell’ultimo [p. 44 modifica]dei Visconti, fu pubblicato nel 1783 con qualche [p. 45 modifica]pregio di elganza tipografica24. La nitidezza della edizione, la dignità del racconto, l’indeclinabile proposito dell’utile e la filosofia de’ concetti meritamente gli ottennero il generale applauso [p. 46 modifica]degl’intendenti. Della imparzialità da esso osservata così rende ragione egli stesso in fine della Prefazione: “Ho rappresentato lo stato de’ nostri maggiori senza fiele e senza adulazione. Ho rispettato la patria e i miei lettori, e non presento loro favole illustri. Ho imparzialmente dipinte la grandezza e la depressione, la oscurità e la gloria, il vizio e la virtù, quali mi si sono presentati nella successione de’ tempi. Destiamoci ora noi, per trasmettere ai posteri costumi ed azioni che la storia possa narrare con piacere, senza bisogno di alcun ornamento„.

Chi crederebbe che Verri, dopo di aver conseguito co’ suoi scritti un posto distinto tra gli ammaestratori delle nazioni; dopo di aver servito il suo Sovrano per quasi 25 anni col massimo zelo e con eguale integrità; dopo aver corrisposto con sempre maggiori e più importanti servigi alle ricompense compartitegli, avesse dovuto vedere i propj meriti, se non obbliati, almeno disconosciuti? Ma tale è la vicenda delle Corti. Egli necessariamente doveva avere dei rivali e dei nemici. La celebrità de’ suoi talenti, gli onori ottenuti, l’avocazione de’ diritti regali dalle famiglie che li possedevano, la soppressione della Ferma, e con ciò la preclusione dei mezzi di tanti improvvisi arricchimenti: ecco le cause della [p. 47 modifica]cospirazione ordita contro di lui. Si offerse opportuno alle seduzioni de’ suoi malevoli il carattere del nuovo imperatore Giuseppe II, smanioso bensì di ben fare, ma proclive a credere tutto ciò che gli dava occasione di una riforma. L’alienazione della confidenza del Sovrano rendevasi a Verri sempre più sensibile nelle continue relazioni colla Corte, cui era obbligato per la propria carica. Quindi nel 1786, mentre stava per erigersi nella Lombardia una nuova forma di governo, stimò prudente di spiegare il desiderio di un onorato riposo, che gli fu accordato. I pretesti de’ suoi detrattori sono riferiti dall’ab. Bianchi25, sulla traccia delle di lui Memorie e forse colle stesse sue parole, nella seguente maniera: “L’abolizione della Ferma generale, da Verri promossa ed ottenuta, non fece perder lena alla vendetta ed all’invidia. Si insinuò nel Principe destramente il sospetto che il di lui zelo fosse interessato, e che egli col favor popolare cercasse quasi una indipendenza. Si fece nascere una gelosia di lumi ed ingegno, quasi che egli volesse soverchiare e tutto sconvolgere a suo talento. La diffidenza fece moltiplicare gli ostacoli alla sua carriera, per modo che trovavasi non di rado costretto a disperdere la sua attività in una [p. 48 modifica]continua difesa personale. L’astuzia seppe destramente malignare: e quella rivoluzione delle Ferme, che non si era prima creduto possibile il farla senza danno gravissimo dell’erario, fatta che fu coll’opera di lui non si trovava abbastanza lucrativa. Ecco perchè annojato, alla fine chiese egli stesso di essere liberato dal peso di amministrare, e questo era quello che si bramava che egli facesse„.

Si portò l’animosità al segno contro l’emerito Magistrato, che la Conferenza Governativa nel decidere sulla competenza della sua pensione la limitò al terzo del soldo, sul motivo che mancavano alcuni mesi al compimento de’ 25 anni di regio servizio, benchè si avesse l’esempio del consigliere Schreck, che era ben lungi dall’essere un Verri, cui si era fatto grazia di due anni26. Ma, restituito a sè stesso, mostrò che il fasto delle [p. 49 modifica]cariche era un ornamento superfluo per lui, se pur non era un peso incomodo al proprio genio. Spogliato dì quelle estranee decorazioni, egli rimase più che mai maestoso nella celebrità già acquistatagli da’ provati suoi talenti, da tanti servigi e dalle eminenti sue virtù.

Ridonato per tal modo alla privata indipendenza, la sua famiglia ed i suoi studj divennero le sole sue cure. Talvolta accordava ancora qualche attenzione alle cose pubbliche, e lasciò manoscritte diverse pregevoli Memorie sulle riforme del 1786 e sullo stato politico del Milanese nel 1790, unicamente, come si espresse, per dare sfogo alle sue idee sulla pubblica felicità27.

[p. 50 modifica]La morte del suo intimo amico il matematico Paolo Frisi, seguita nel 1784, lo determinò a scrivere le Memorie della sua vita e de’ suoi studj, che rese pubbliche nel 1787, indirizzandole al celebre ed infelice marchese di Condorcet. Nè qui si è limitato lo sfogo della sua dolente amicizia. Ma due monumenti gli fece erigere; uno nella chiesa della sua villa di Ornago, e l’altro nella chiesa de’ Barnabiti di S. Alessandro di Milano, colla di lui medaglia scolpita in marmo di Carrara dal valente professore Giuseppe Franchi. Mi sia qui lecita una riflessione. Frisi e Parini, il busto del quale scolpito dallo stesso Franchi a spese del celebre astronomo Oriani fu collocato nel ginnasio di Brera, sono i soli tra tanti illustri Italiani morti a’ nostri tempi, che abbiano ottenuto l’onore di un monumento: e questo pure nol debbono che a’ loro amici. Mentre pertanto e Beccaria e Agnesi, e Mascheroni e Spallanzani ed altri molti giacciono tuttora indistinti, quanto non è doloroso e umiliante che anche nel
[p. 51 modifica]poco che si è fatto, la sola forza della privata amicizia abbia dovuto supplire all’indolenza de’ Governi nell’onorare la memoria degli uomini grandi!28

Stette Verri nella sua beata tranquillità fino al 1796, quando proruppe in Italia la forza preponderante delle armate Francesi, e in favor di esse una forza ancor maggiore, il lievito di un’opinione che è sempre stata la più deliziosa per gli uomini, e sempre vana. Allora sotto la licenza di un governo militare tutte le passioni si sfrenarono, e l’irritazione de’ diversi interessi introdusse la discordia tra i cittadini. Preti intolleranti, e portati naturalmente a contraddire ad ogni ordine di cose che loro non giova; nobili, che vedevano con dispiacere sfumarsi una dignità ideale, derivata dai meriti dei loro avi, e cui generalmente sentivano di non poter sostenere con meriti proprj; cittadini fanatici, che si credevan lecito di vilipendere e nobili e preti, quasi facendo loro un delitto della sorte della propria condizione [p. 52 modifica]o della professione adottata: tutti costoro, sempreppiù irritati per reciproche ingiurie, si laceravano a vicenda; e tutti gli orrori de’ dissidj civili, violenze personali, spogli, persecuzioni ne furono il risultato. Nei principj di questi turbamenti, Verri fu eletto a far parte della Municipalità di Milano, e poco dopo Presidente di quel Consiglio di quaranta cittadini che dovea esaminare i conti della pubblica amministrazione, ma che per le cabale di coloro che aveano interesse nel mistero cessò di esistere appena avea cominciato a dar segni di vita. Egli rientrò nella pubblica carriera animato dalla più ardente brama di promuovere il bene della sua patria; ma in parte la sua tenacità al rigor de principj, forse soverchia in quella violenza di circostanze, e in parte un sistema di fanatiche contraddizioni, resero quasi affatto vana la sua lusinga. Tuttavia la felicità della repubblica fu il costante scopo de’ suoi più fervidi voti, ed io stesso il vidi più volte afflitto profondamente nel riflettere su la successione di tanti traviamenti, e inturgidirsi di pianto que’ parlanti occhi, che sì bene esprimevano le commozioni della sua anima29.

[p. 53 modifica]Fu nel 1796 che Verri fece stampare, per ammaestramento de’ nuovi governanti, le sue [p. 54 modifica]Riflessioni sull’Annona scritte ventisette anni prima, di cui già si disse. Nel 1797 intraprese la stampa del secondo volume della Storia di Milano, che venne poi condotto a termine dal di lui amico il canonico teologo Frisi, certamente con pubblica benemerenza se non si fosse permesso due gravissimi arbitrj. È il primo di aver interpolato i proprj supplementi alle lacune lasciate dall’autore senza alcuna indicazione che li distingua, contro la pratica dei Freinsemii, dei Brotier e de’ più [p. 55 modifica]dotti editori di storici antichi e moderni. L’altro, di aver violato la protesta da lui fatta30 di trascrivere fedelmente i frammenti dell’autore, mentre osò di mutilarli31. Queste arbitrarie alterazioni, le quali avrebbero pregiudicato alla fama di Verri se dessa stata non fosse solidamente fondata, rendono maggiore il desiderio di veder presto eseguita un’edizione completa delle di lui opere, affinchè vi si possa ristabilire il testo della Storia nella sua integrità aggiungendovi i [p. 56 modifica]preziosi frammenti che esistono per il proseguimento di essa fino al regno di Maria Teresa32.

[p. 57 modifica]Dal non essersi potuto da Verri ridurre a compimento il secondo volume della Storia di Milano, si sarà già eccitato nell’animo de’ lettori il presentimento di un qualche disastro; ed uno infatti sommo e irreparabile ne era accaduto, ma a lui non già, che placidamente era trapassato alla pace de’ morti, bensì a tutti i suoi concittadini che privi rimasero de’ suoi consigli e del suo esempio. Egli morì quasi improvvisamente, colpito d’apoplessia nella sala della Municipalità, nella notte del 28 giugno 1797, essendo in età di anni 69, mesi 6 e 17 giorni.

Si ammogliò due volte. La prima con Maria Castiglioni, dalla quale ebbe una figlia, indi il 13 luglio del 1782 fece sua sposa Vincenza Melzi che amò sempre teneramente, formando delle sue domestiche virtù, e della numerosa prole che da essa ottenne, la costante delizia degli ultimi anni suoi. Essa gli corrispose colla maggiore affezione, e rimasta a lui superstite nel fiore dell’età, gli fece erigere nella cappella gentilizia della rammentata villa di Ornago un decoroso monumento, accanto al sepolcro che egli stesso vivendo si avea preparato.

Di tre fratelli ch’egli ebbe, e tuttora viventi33, [p. 58 modifica]Carlo ed Alessandro si distinsero pur essi nella carriera delle lettere. Il primo, illuminato agronomo, pubblicò non ha molto due utili Saggi su la coltura dei gelsi e delle viti; il secondo, oltre molti Discorsi inseriti nel foglio periodico del Caffè, scrisse le Avventure della poetessa Saffo, la nota tragedia della congiura di Milano contro Galeazzo Sforza34 e le Notti Romane al sepolcro de’ Scipioni, che gli ottennero una meritata celebrità per tutta l’Europa.

Fu ascritto a varie Accademie, e specialmente [p. 59 modifica]a quella di Mantova, di Padova, di Stockolm e all’Istituto di Bologna. Oltre una continua corrispondenza con suo fratello Alessandro, fu pure in relazione di lettere con Voltaire, Condorcet, Keralio, Morellet, d'Avenstein, il conte di Saluces, de Felice, Filangeri, Spallanzani ed altri molti.

La rimembranza delle sue qualità personali accresce il dolore della sua perdita. Non solo egli fu incorrotto ed instancabile magistrato; ma fu pure buon marito, buon padre, leale amico, di maniere cortesi, benefico, sincero, dotato della più viva sensibilità, costante nella gratitudine. Fu religioso, ma nemico della superstizione; zelante per la verità, e impaziente di esporla; appassionato per il bene de’ suoi simili, e non meno bramoso di ottenere la pubblica stima. Questa passione era sì fervida in lui, che soleva chiamarla un bisogno incessante, insaziabile e che continuamente lo tormentava. Scrisse molto e più operò; nè si sa qual preponderi in esso, se il profondo filosofo, o l’attivo ed utile cittadino. Nulla trattò che non avesse direttamente per oggetto il vantaggio pubblico. Anche il più sterile argomento si abbelliva sotto la sua penna; e il suo stile, benchè talvolta scorrevole in qualche lascivia di vezzo straniero, è sempre immaginoso, animato, [p. 60 modifica]persuadente. Mi lusingo che non dispiacerà ai lettori di vederne riferito qualche saggio, che servirà pure a dimostrare la purezza e la forza della filantropia che divampava nella sua anima.

Nelle Riflessioni sull’Annona35, dopo di aver dimostrato il mal uso delle largizioni elemosiniere che si fanno nelle città al questuante di professione, mentre il misero agricoltore è lasciato nell’abbandono, soggiunge: “Io non pretendo di ammortizzare quel benefico sentimento di compassione, che è la parte più sacra e nobile dell’uomo. Non pretendo che alcuno rendasi duro ai gemiti dei miseri cittadini. Pretendo soltanto di rendere illuminata la commiserazione, e avvisare che non si benefichi un cittadino col sagrificio crudele di otto contadini. Perda la mia mano il moto, e cessi io da scrivere prima che offenda la causa dell’umanità con alcuna opinione; la causa dei poveri e dei deboli è sempre stata, e lo sarà finchè io avrò vita, la causa per cui scriverò. Me felice, che sono nato e vivo sotto un governo in cui questa causa liberamente si difende ed è favorevolmente ascoltata!„

Altrove36 dichiara i suoi principj politici ne’ [p. 61 modifica]seguenti termini: “Uomo benefico, uomo illuminato che hai esaminati e conosciuti i sacri diritti dell’uomo, non ti sdegnar meco se ne prescindo, e se unicamente lo considero come parte della società contribuente alla di lei forza e ricchezza. No, non degrado l’uomo alla servil condizione di un mero fondo fruttifero: così potesse la mia voce annunziare con frutto gli augusti primitivi diritti di un essere intelligente e sensibile, che associandosi non può averlo fatto che per il miglior genere di vita; dritti altamente pubblicati da sublimi uomini che la potenza ha in odio, il volgo non conosce, e alcuni pochi deboli, sparsi e avvezzi alla meditazione onorano! Sappi che a stento raffreno, scrivendo, gl’impeti del cuore; ma la fredda ragione mi suggerisce di promovere il bene degli uomini non col linguaggio del sentimento, ma coll’analisi tranquilla delle cose, e illuminando chi può far il bene, mostrare la coincidenza degl’interessi comuni. Rispettiamo la elevazione del genio, e la calda virtù di chi posto in privata condizione si erge a tuonare sull’abuso della forza, e vorrebbe far arrossire gli uomini in carica de’ loro vizj e de’ loro errori. Se perciò l’umanità venisse sollevata dai mali, la virtù ci additerebbe quel sentiero; ma la misera condizione degli uomini è tale, che più si ottiene [p. 62 modifica]generalmente solleticando l’interesse personale, che non si fa interessando la gloria, a cui rare sono le anime che s’innalzino“.

Riferirò per ultimo alcune sue riflessioni sull’influenza della filosofia negli Stati37. “Gli uomini di lettere (dic’egli) hanno maggiore influenza nel destino delle generazioni venture, di quanto ne abbiano gli stessi monarchi sugli uomini viventi. Spargono i primi semi de’ lor pensamenti: semi tardi bensì a produrre, ma che nella gioventù s’innestano; e l’uomo di lettere determina le opinioni del secolo che vien dopo di lui. I libri de’ filosofi son quelli che hanno finalmente costretto i tribunali, malgrado la tenacità delle antiche pratiche, a non più incrudelire contro le streghe ed i maghi; a non inferocire colle torture; a non infliggere pene atroci per opinioni; a limitare i supplizj ai soli casi estremi. I libri hanno resa accessibile al merito la strada degli onori, battuta in addietro da chi scaltramente simulando adulava gli errori volgari. Alle opere de’ filosofi siamo debitori se alle nostre infermità ora assistono medici illuminati e cauti, invece de’ ciurmatori ignoranti; se nel ceto degli avvocati la probità e il buon senso vennero sostituiti alla [p. 63 modifica]maligna ed infida gravità; se conoscendosi meglio la morale e i doveri dell’uomo e del cittadino, l’uomo soffre almeno il rossore nel violar tai doveri, e non si copre la perfidia impunita coll’ipocrito velo di una simulata religione. In somma i filosofi, trascurati, contraddetti, perseguitati durante la loro vita, determinano alla perfine l’opinione; la verità si dilata, da alcuni pochi si comunica ai molti, da questi ai più; s’illuminano i sovrani, e trovano la massa de’ sudditi più ragionevole e disposta ad accogliere tranquillamente quelle novità, che senza pericolo non si sarebbero presentate fra le tenebre dell’ignoranza. L’opinione dirige la fortuna, e i buoni libri dirigono l’opinione, sovrana immortale del mondo“38.

Ma qui sia fine al parlar di lui, chè un monumento si eresse più durevole dei marmi e dei bronzi e maggior d’ogni elogio ne’ proprj scritti, e nella indelebile memoria delle sue virtù e dei benefizj da esso recati alla sua patria. Nell’adempire a quest’ufficio mi si ravviva nell’animo il [p. 64 modifica]dispiacere per l’improvvisa sua perdita, che allora mi riuscì tanto più grave, poichè non molto prima una prospera occasione mi avea concesso, nel fervore della mia gioventù, di poter studiare davvicino i di lui esempi e approfittare de’ suoi consigli.



FINE


Note

  1. Cremona, nella stamperia Manini; un vol. in 8.° di pagine 330.
  2. Discorso recitato nell’apertura della Società Patriotica di Milano nel dicembre del 1778. — Vedi Atti della Società, tomo I, pag. 30.
  3. Veggansi nella Raccolta degli Economisti Italiani le Notizie di Cesare Beccaria. Parte Moderna, tomo XI, pag. 3 e 4.
  4. Le indicazioni qui riferite si conformavano alle informazioni che io era riuscito a procurarmi allorchè scrissi da prima queste Notizie. Però più circostanziati dettagli e moltiplici documenti, da me avuti in seguito, se per una parte mi accertarono della primitiva intimità tra Beccaria e Pietro Verri fin dopo la pubblicazione del libro de’ Delitti e delle Pene, mi convinsero altresì che il calore di quell’amicizia si tramutò più che in indifferenza dopo l’affrettato ritorno di Beccaria dal viaggio di Parigi, da lui intrapreso in società col cav. Alessandro Verri nell’autunno dell’anno 1766.
  5. I nomi de’ benemeriti cooperatori al detto Giornale, coll’indicazione delle lettere iniziali con cui segnarono i loro articoli, sono i seguenti:
    A. Alessandro Verri. L. Alfonso Longhi.
    B. Baillou. NN. Luigi Lambertenghi.
    C. Cesare Beccaria. P. Pietro Verri.
    F. Sebastiano Franci. S. Pietro Secchi.
    G. Giuseppe Visconti. X. Paolo Frisi.
    G.C. Giuseppe Colpani.

    Questo Catalogo è stato stampato la prima volta da La-Lande, nella Relazione del Viaggio ch’egli fece in Italia due anni dopo la cessazione di quel Giornale. Veggasi Voyage d’un Français en Italie, prima ediz. di Parigi, 1769 tomo I, pag. 374.

  6. “La Ferma generale ha avuto principio nel 1750 per opera del generale Pallavicini ministro plenipotenziario, il quale abolì i separati appalti delle Regalie del sale, tabacco, polvere, ec., e riunendole in un sol corpo le affidò ad una compagnia di Bergamaschi che avevano poco o nulla al mondo, ma che affrontarono arditamente la fortuna. Essi pagavano alla Camera cinque milioni all’anno, e ne ritraevano di netto prodotto sei milioni e mezzo, onde cento mila annui zecchini ne avevano di profitto dal solo negozio. Dico dal solo negozio, perchè indirettamente poi essi avevano poste tali angarie alla filanda delle sete, che buona parte della raccolta de’ bozzoli del paese cadeva nelle loro filande che erano sparse nello Stato, e comparivano col nome di supposti proprietarj. Oltre di che essi ne ritraevano molti altri proventi incalcolabili; e così si fecero grandi e doviziosi.„ — Verri, in una Memoria inedita.
  7. Uomo dotto, instancabile, e di una squisita sagacità nello studio de’ documenti storici affidati alla sua custodia. Il suo merito era sì eminente e così conosciuto, che il barone Sperges referente in Vienna per le cose d’Italia, e lo stesso primo ministro principe Kaunitz non isdegnavano di scrivergli direttamente. Egli ebbe e conservò sempre la più intima confidenza del conte Verri; e ne’ due anni (1766 e 1767) che dimorò in Vienna per porre in ordine l’archivio del Dipartimento d’Italia, Dipartimento che vi esistette fino ai turbamenti politici del 1796 con molta opportunità e non minore decoro delle suddite Provincie Italiane, fu visitato dall’illustre amico con un frequente carteggio interessantissimo, il quale si conserva in originale e inedito presso di me.
  8. Data da Vienna il 19 aprile 1764. — Sì questa, che le altre lettere e documenti ufficiali, di cui si è fatto uso nelle presenti Notizie, esistono nell’Archivio di deposito degli Atti governativi in Milano.
  9. Diploma del 17 dicembre 1765.
  10. De’ 29 novembre 1770.
  11. Piano per la R. Amministrazione delle Finanze da cominciarsi l’anno 1771.
  12. Veggasi il Progetto della Tariffa sopra accennato.
  13. Verri nel citato Piano per la R. Amministrazione delle Finanze.
  14. Milano, presso Giuseppe Marelli, della Prefaz. pag. ult.
  15. Economisti classici italiani, Parte Moderna, Tom. XIII, pag. 8.
  16. Nota al § XVI.
  17. Nota al § XL ed ult.
  18. Prefazione ai Discorsi, dell’edizione di Milano, presso Marelli, 1781, pag. 8.
  19. Non dispiacerà di veder qui riferiti alcuni frammenti di questo diploma, anche per un saggio dello stile che allora si usava dalla Cancelleria imperiale. Ivi si legge: Ex quo te propius cognoscere Nobis licuit, non potuimus non propensa, quantum optimo cuique, favere tibi voluntate. Quae enim duo hominem ad publica negotia tractanda maxime idoneum constituunt, ferax et acre ingenium ac fervens ad agendum animus, non solum in te natura conjunxit, sed ea tu quoque copioso scientiarum ac eruditionis apparatu, atque indefessa exercitatione ad actionem reddidisti expeditissimam.... Propterea, ut primum tu in patria tua ad rerum publicarum procurationem Nobis jubentibus accessisti, luculenter illico apparuit ministrum te fore amplissimum, cujus opera in restauranda quod tum admodum agitabamus, et novis institutis ordinanda provinciae aeconomia uteremur.... Neque tu in his expectationi nostrae minus fecisti satis vigilantia, consilio, integritate; imo, quod praecipuum est, exploratis industriae privatae arcanis, quibus vectigalium conductores uti solent, et comparata tibi necessaria ad illorum exactiones dirigendas experientia, viam quodammodo stravisti, quo facilius tua intercedente opera effectui dari posset, quod propositum habeamus consilium, universam videlicet Mediolanensis provinciae reddituum administrationem ad nostros, cum primum fieri posset, Magistratus revocandi. Id quod citius, ac sperare pronum erat.... perfectum est.
  20. Lettera del principe Kaunilz al Ministro plenipotenziario conte di Firmian dei 22 luglio 1776. — La Società Patriotica era stata istituita sulle basi le più liberali. La gran mente dell’immortale ministro di Stato di Maria Teresa era persuasa che un troppo immediato intervento dell’autorità sovrana assidera sovente il vigore de’ corpi accademici per una soverchia soggezione. Perciò ebbe cura che nel piano d’istituzione vi fosse per modo mascherata l’influenza del governo, che vi riuscisse impercettibile. La sua scrupolosa attenzione su quest’oggetto apparirà maggiormente dal seguente paragrafo di una sua lettera degli 11 settembre 1777: “Osservo (dic’egli) che il Griselini nella sua Relazione sul libro del Cattaneo si qualifica come segretario della regia Società Patriotica. Avendo S. M. voluto fare un dono alla nazione di ciò che riguarda la dote per questo stabilimento, ha anche con eguale generosità abdicata da sè qualunque superiorità o vestigio di essa; onde converrà avvertire i Conservatori, che in ogni occasione anche dai subalterni facciano solo annunziare la Società senza qualificarla come regia„. Grandi furono i servigi prestati dalla Società Patriotica ne’ dieciotto anni di sua esistenza. Ma tra le infinite e per sempre deplorabili sciagure, cui soggiacque l’Italia dopo il 1796, non è ultima la cessazione di tutte le Società economiche che in essa fiorivano. Questo danno sarebbe pur facilmente riparabile; e già da circa tre anni la Società de’ Georgofili di Firenze e quella d’Agricoltura di Torino hanno riprese le loro funzioni: e quando vi penseremo noi? (*)E dopo più di trent’anni non vi si ha ancora pensato. — Eppure, nell’intervallo, ai due esempj disopra citati se ne aggiunse un terzo, quello dell’Accademia di Agricoltura ed Arti di Verona, sola superstite delle tante Accademie venete la quale fu da più anni ripristinata, ed è operosissima.
  21. Nel Postscriptum alla Lettera dei 30 marzo 1778 al Ministro plenipotenziario.
  22. Ne esiste pure un cenno in uno di que’ celebri almanacchi (Il mal di milza) che per una filosofica celia avea in quell’anno appunto pubblicali. Egli, sotto la forma di un indovinello, vi fa così parlare la tortura: “Io sono una regina, ed abito fra gli sgherri; purgo chi è macchiato, e macchio chi non è macchiato; son creduta necessaria per conoscere la verità, e non si crede a quello che si dice per opera mia. I robusti trovano in me salute, e i deboli trovano in me la rovina. Le nazioni colte non si sono servite di me; il mio impero è nato ne’ tempi delle tenebre; il mio dominio non è fondato sulle leggi, ma sulle opinioni di alcuni privati„. Si poteva forse esprimersi con maggior precisione in così brevi termini?
  23. Io ebbi la soddisfazione di far parte al pubblico delle inedite Osservazioni sulla Tortura, come un’Appendice alle Memorie sull’economia dello Stato di Milano, parimente inedite, stampate tra le Opere economiche dell’Autore.
    Pochi anni dopo, cioè nel 1782 si produsse il conte Verri come associato coll’intimo amico suo, il matematico Paolo Frisi, nella contestazione cogli Astronomi della Specola di Milano gli ex-gesuiti Reggio e de Cesaris, ai quali era stato da non molto tempo aggiunto il giovine abate Oriani, ch’è poscia salito a sì chiara fama. Io intralasciai di parlarne dapprima in queste Notizie, benchè l’abate Isidoro Bianchi mi avesse precorso col ragguaglio non molto esatto che ne diede nell’Elogio dell’Autore(pag. 200 a 203), mentre mi era quello sembrato un tenue incidente nella carriera laboriosissima e luminosa del conte Verri, e in ciò mi parve di assecondare quasi il giudizio di lui, che nel farne cenno nelle Memorie di Frisi (pag. 44-45) se ne sbrigò col diffinire quella disputa una meschina e affatto popolare ostilità. Ma il dottore Alberto Gabba, professore di matematica nel Liceo di Brescia, nell’Elogio che dell’astronomo Oriani pubblicò in Milano nel 1834; stimò opportuno di ridestarne la ricordanza; e imitando il costume de’ sacri panegiristi di esaltare il santo da essi lodato sopra tutti gli altri santi, asserì (pag. 44-6) che “l’abate Frisi non si attentando di combattere a viso aperto, nè volendo ritrarsi dalla pugna da lui troppo incautamente provocata, cercò ricovero sotto il vessillo dell’amicizia, chiamando in soccorso un uomo rinomatissimo nelle scienze politiche ed economiche. Ma a sostenere quella causa nulla valevano queste scienze, chè di un esteso corredo di cognizioni astronomiche e di convenienti ragioni si avea d’uopo.... Alle nuove accuse tre nuove Lettere opposero gli Astronomi.... e risposero non con pari contumelie, ma con sode e nette ragioni. Con un Opuscolo pure anonimo replicò egli, ma non fece che sempre più avviluppare sè e l’amico; imperocchè altri scritti senza nome d’autore videro la luce per opera de’ fautori de’ tre Astronomi, pei quali grandemente ebbe a soffrirne la riputazione del Frisi e quella del suo difensore. Per lo contrario il trionfo degli avversarj non fu più dubbio, e la loro fama sorse più bella e si consolidò.... L’Oriani si mostrò in questa lotta valorosissimo, e per la copia della dottrina, e per un’ammirabile dirittura di raziocinj, e per certa franchezza non iscompagnata da riverenza„. — Questo è il romanzo del sig professore Gabba; ecco, in breve, la verità.
    In prossimità ai tempi della loro generale soppressione avevano li Gesuiti eretta una Specola astronomica nel Collegio di Brera in Milano, col notabile dispendio di sei mila zecchini (Ricca, Elogio dell'ab. Boscovich, pag. 58), e chiamarono a dirigerla il padre Lagrange, torinese, che presiedeva a quella di Marsiglia. Accaduta la soppressione, e passato il Lagrange in Francia, gli ex-gesuiti Reggio e de Cesaris, ch’erano di lui aggiunti, furono promossi al grado di regj Astronomi, e terzo astronomo fu nominato l’abate Oriani, il quale da due anni assisteva alla Specola come alunno. Ciò avveniva nel 1778, essendo l’Oriani nella fresca età d’anni ventisei. Ma già prima del 1774, ne’ bei tempi in cui la Corte imperiale era operosissima nel promovere la prosperità economica, civile e scientifica della Lombardia, il Real Governo erasi occupato con vivo impegno dell’ampliazione e sistemazione dell’Osservatorio astronomico milanese, e il matematico Paolo Frisi per speciale eccitamento del Plenipotenziario conte di Firmian avea presentato una tecnica ed ampia sua Relazione del 22 agosto 1773 sui modi più atti a conseguirne l’intento; e in questa, ch’è tuttora inedita, nei §§ X e XII insistè fortemente sulla opportunità della compilazione annua delle Effemeridi, ossia Almanacco astronomico, con viste assai più estese di quelle seguite nell’esecuzione, mentre avrebbe voluto che avessero avuto titolo e forma di Atti Italici, con molta analogia all’istituzione della Società Italiana fondata molti anni dopo per tutte le scienze fisiche dal benemerito cavalier Lorgua, veronese. Queste premure di Frisi per l’incremento della Specola di Milano il resero benemerito degli astronomi a quella addetti, che gliene professarono la loro gratitudine, sentimenti di benevolenza che presto si estinsero, e si mutarono in rancore ed astio, per essersi il Frisi posto tra i molti che con poca generosità mal dicevano di quel troppo famoso Istituto allora soccombente; e trascese poi fino a render pubblico il concetto spregevole in cui lo teneva nell’Elogio del Cavalieri, la prima edizione del quale è del 1778. È noto che gli antichi Gesuiti furono tra loro stretti da vincoli così intimi e tenaci, di essersi con verità meritata la denominazione di Franchi-Muratori della milizia ecclesiastica, ed è noto del pari ch’essi aveano preso quasi per abito di non soffrire alcuna mortificazione nel loro amor proprio. Era quindi naturale che i due Astronomi ex-gesuiti, e il loro accolito terzo Astronomo, che aveasi fatto proposito, come dice il professor Gabba (Elogio, pag. 43), di rendersi accetto a’ suoi superiori, attivissimo e zelante nell’appagarli in tutto, onde guadagnarsi la loro benevolenza, si siano stretti in più forte lega e abbiano fatto causa comune (pag. 45). Ma questa lega e gli effetti di essa datano da più lontana epoca, che non è indicata dal lodatore, come consta dalle premesse e da ciò che segue. Cominciarono quelli dallo stabilire di non nominare il matematico Frisi nelle loro Effemeridi, benchè facessero menzione d’altri matematici anche di minor conto, e morti e viventi; e così fecero costantemente per più anni. Poscia, presa occasione di parlare del famoso problema della precessione degli Equinozj, intorno al quale era celebre la spiegazione data dal D’Alembert, sentenziò l’Oriani nelle Effemeridi stampate nel 1780 per l’anno seguente, che questi nihil in hoc negotio posteris faciendum reliquit; benchè il problema stesso avesse posteriormente esercitato, non senza lode, gl’ingegni di Eulero, di Lagrange e di Frisi, il qual ultimo avea riportato perciò il premio della medaglia d’oro dalla Reale Accademia di Berlino. Il Frisi, che avea mostrato di quasi non accorgersi della sistematica preterizione del proprio nome, fece giungere all’Oriani le sue doglianze per la troppo assoluta sentenza; e Barnaba Oriani, dice il professor Gabba (pag. 44), non tardò (cioè dopo due anni) a pubblicare nelle Effemeridi per il 1783 una nota io cui dichiarava che quel suo giudizio dovea circoscriversi ita ut nulla dematur laus, nullum meritum auctoribus aliis qui post D. D’Alembert sua quisque methodo eiusdem problematis solutionem tradiderunt; restando per tal maniera ostinato a non nominare il Frisi, e tacendo in conseguenza anche i nomi chiarissimi di Lagrange e d’Eulero, che in questa circostanza non avrebbero potuto dissociarsi. Il Frisi incollerì per questa pertinacia, e sembra con ragione; onde prese il partito di scrivere in margine alle Effemeridi pubblicate nel 1782 alcune note critiche, e queste mandò col volume all’Oriani, ch’egli avea avuto scuolare nello studio delle matematiche applicate; questo pregevole esemplare esiste presso il professore emerito Angelo Lotteri, cui l’illustre Astronomo lasciò per testamento i proprj libri e manoscritti.
    Sarebbe troppo magnifico il paragonare quelle Effemeridi postillate dal Frisi all’Elena de’ Greci, cagione di sì aspra e famosa guerra, come sarebbe troppo abbietto il porle a confronto colla Secchia rapita da que’ di Modena ai Bolognesi; ma, nel fatto, fu scintilla fomentatrice di vasto incendio letterario. Gli scritti principali pubblicati in quella controversia furono, per il partito degli Astronomi, tre loro Lettere al matematico Frisi, fatte dapprima girar manoscritte, indi stampate a Modena; tre successive loro Lettere all’Anonimo (ma a tutti noto essere il conte Pietro Verri) difensore del Frisi; ed una Lettera ad un Amico, pure anonima, uscita parimente dall’officina modenese, nella quale ho molti dati per credere che abbia assai fidato il professore panegirista dell’Oriani. E dal lato opposto apparvero una lunga Lettera ad un Amico, le Osservazioni dell’Autore della lunga Lettera sulle tre Lettere astronomiche, ed una Lettera del celebre P, Jacquier al sig. abate Frisi, in data di Roma 27 luglio 1782, che il Frisi fece stampare con una sua breve risposta, e il di cui originale è ora in mio possesso, e posso certificare essere del tutto conforme alla stampa.
    Prese al Frisi la fantasia di non rispondere direttamente alle prime Lettere astronomiche, sia che non avesse molta stima de’ due Astronomi principali, i quali in fatti in una vita lunga e operosissima non riuscirono dappoi ad emergere da quella mediocrità che i detrattori de’ Gesuiti asserirono essere caratteristica dell’Istituto Iojolitico; sia che sdegnasse di prodursi in tenzone contro un suo scuolare quasi ancora novizio nelle esercitazioni astronomiche, e il di cui non precoce ingegno era allora lungi dal promettere quel volo sublime al quale per la sua pertinace contenzione negli studj è riuscito a spingersi in seguito. Mosse pertanto il conte Pietro Verri ad uscire in campo come suo campione; e questi tra le gravi cure della presidenza al Magistrato Camerale, e gli studj storici cui allora attendeva indefessamente, trovò tempo per cimentarsi in difesa dell’amico, e trattando in proprio la parte letteraria e didascalica, nella discussione astronomica poi, appunto perchè gli studj politici ed economici nulla valevano a riguardo di essa, siccome saviamente avverte il professor Gabba, egli si circoscrisse a fare l’ufficio di relatore, riportando estesamente sì nell’uno che nell’altro de’ suoi opuscoli apologetici le note e le spiegazioni che gli venivano fornite dal Frisi; onde è provato, non esser vera l’asserzione del dotto encomiatore, ch’egli non si attentasse di combattere a viso aperto, ma bensì che quella maniera di prodursi nella discussione non fu che un capriccio da schermidore, e una forma drammatica introdotta all’intento di rendere più variata e meno nojosa la discussione medesima. E leggendo a mente pacata que’ diversi scritti, come sembra facile di poter fare dopo il trascorso di oltre cinquant’anni, si troverà che gli opuscoli del Verri si distinguono per chiarezza, decoro ed atticismo; che l’aringo in cui questi si è avventurato, come era tanto disuguale per la possa degli antagonisti, quale è detto dall’autore dell’Elogio, mentre la contesa astronomica è sostenuta dallo stesso Frisi, che per lo meno potea loro star del pari; e che nel difendere l’amico, il Verri produsse non l’autorità di lui, ma le sue ragioni. All’opposto, è fuori di contestazione che ad una critica confidenziale fecero gli Astronomi una risposta pubblica; che non è fondato nel vero di non aver essi in questa oltrepassati i confini dell’urbanità della moderazione, benchè siano scusabili di averlo detto i contendenti e il loro encomiatore; che nauseosa è la scusa allegata dall’Oriani, e da lui certamente appresa alla scuola gesuitica, con cui intende di esimersi dalla riverenza doluta dallo scuolare verso il maestro, dicendo ch’egli dal Frisi non ha imparato l’astronomia; e che, in qualunque supposizione, lo stesso Oriani ha fatto prova che non si era ancora spogliato da quella rozza petulanza che contraggono generalmente i giovani chierici dall’educazione de’ Seminarj, scrivendo all’autore della lunga Lettera nel modo più famigliare, come scorgesi dal principio della sua risposta: Lodo assaissimo il vostro buon cuore, e terminando colle parole: sempre pronto ad abbracciarvi di cuore. — Nel qual modo, osserva scherzosamente il conte Verri, ognuno ammirerà la cordialità del sig. Abate verso un incognito (Osservazioni, ec, pag. 66).
    Del merito della questione astronomica mi sbrigherò in pochi cenni; e per non meritarmi a miglior ragione le derisioni del professore panegirista, mi sarà scorta la Lettera del chiaro matematico, il P. Jacquier, la quale se fosse stata da lui conosciuta, ne avrebbe egli preso norma per pronunziare un giudizio più retto ed imparziale.
    “Si ha torto senza fallo, o signore (dice questo giudice competente), a farvi un delitto dell’aver notato alcuni errori geografici nelle Effemeridi. Questi errori mi sembrano ben provati nelle ultime Osservazioni sulle tre Lettere astronomiche, osservazioni con solidità scritte e con uguale amicizia. Ma gli autori delle tre Lettere... non dovrebbero esser sensibili a siffatte correzioni, che presso a poco non riguardano che un puro meccanismo; tanto più che i loro sbagli sono appoggiati ad altri sbagli precedenti, ed all’autorità di alcuni grand’uomini stranieri che li hanno commessi. Gli autori delle Lettere convengono di questo fatto, e non si può accusarli che d’aver creduto leggermente a lontane, benchè illustri testimonianze. Una testimonianza domestica, fondata sopra osservazioni esatte, avrebbe dovuto preferirsi ad esse... Questa prima parte d’una contestazione astronomica, la quale non concerne che misure topografiche, meritava le vostre riflessioni dirette unicamente a rendere più esatta un’opera periodica, la quale per sua natura debb’esser tra le mani di tutte le persone istruite. Ma una simil lite non ha da occupar seriamente l’autore della Cosmografia, il quale per mezzo delle sue opere tanto lustro ha recato alla sua patria. Gli elogi e le ricompense, delle quali è stato egli fregiato dalle più dotte Accademie d’Europa, formano di lui la più gloriosa apologia, e gli dan quasi il diritto di far poco o niun conto delle dispute comuni e volgari (pag. 1 e 2)....
    “Per quanto sia grande la venerazione mia verso il celebre signor D’Alembert nelle materie matematiche,... io non posso accordare (e non l’accorderebbe egli medesimo) l’eccessivo elogio che fanno gli autori delle Effemeridi dell’eccellente libro di questo gran matematico sulla precessione dei Equinozj. Se io non fossi così persuaso, come sono, del merito singolare dei tre Astronomi, ardirei dubitare se eglino avessero ben compresa tutta la difficoltà del problema, quando dissero: D. D’Alembert nihil in hoc negotio faciendum reliquit. Le più celebri Accademie non hanno pensato così. Esse hanno proposto di nuovo un tal problema, e molti grandi matematici si sono utilmente sforzati d’aggiugnere nuove scoperte a quelle del sig. D’Alembert.... In quanto al genere di novità che riguarda il metodo, non si può negare che le produzioni sublimi, che sono uscite dalla penna di sì grand’uomini, non sieno ripiene di calcoli, la novità de’ quali e per la destrezza e per l’eleganza loro è molto interessante. Il sig. D’Alembert non si è contentato di un metodo solo alla soluzion del problema di cui si tratta, e i suoi differenti metodi sono ugualmente degni di lui. Io però non conosco, o signore, un metodo più semplice ed elementare di quello che voi ne avete dato nella vostra Cosmografia. Desso forma un pezzo prezioso di calcolo e di sintesi infinitesimale.... Bisogna non aver letto con attenzione ciò che avete voi pubblicato in questa materia, per negarvi i singolari elogi che voi meritate. Essi vi sono stati giustamente accordati dai più celebri autori stranieri; ma la gloria patriotica, oltre la giustizia, era un motivo di più da indurre gli autori dell’opera periodica che si pubblica nella vostra patria, a fare una special menzione della vostra persona; tanto più che nell’opera medesima si leggono registrati con onore gl’illustri nomi di molti matematici morti e viventi. Il silenzio che si è affettato per riguardo a voi, potrebbe fare maggior torto ai vostri compatrioti, che a voi medesimo (pag. 3-5)...
    ″Io non posso persuadermi che i tre Astronomi non vi abbiano compreso nel numero di que’ grand’uomini (summi viri) che hanno dottamente trattato dell’obliquità dell’Eclittica. Se eglino si fossero limitati a questa sola parte, sarebbero scusabili d’avervi confuso nel numero de’ celebri scrittori che hanno trattato una siffatta materia. Ma giacchè essi hanno parlato ancora de’ limiti dell’accrescimento e del decrescimento dell’Eclittica, che voi avete fissato a 1° 7’, questa scoperta, che è tutta vostra, doveva esservi nominatamente attribuita. Una tal gloria v’è tanto più dovuta, che la determinazione de’ limiti suddetti è interessantissima, e può decidere molte questioni erudite e filosofiche sulla perpendicolarità primitiva dell’Eclittica all’Equatore, sul decrescimento successivo della stessa obliquità, che farebbe nel decorso de’ secoli coincidere finalmente l’Eclittica coll’Equatore, e che avrebbe alterato o altererebbe tuttavia la natura delle stagioni. Una tal sorte di ricerche occupa alcuna volta uomini poco istruiti, ma gli uomini veramente dotti faranno sempre gran caso di ciò che avete voi dimostrato in questa occasione sul movimento delle orbite planetarie; e dopo avervi contato tra quelli che hanno profondamente trattalo dell’obliquità dell’Eclittica, essi aggiungeranno che voi siete stato il primo a determinarne i limiti„ (pag. 5 suddetta).
    E nel dar fine a questa forse troppo lunga apologia, il convincimento in cui sono che il professore Alberto Gabba ha ridestato mal a proposito e inesattamente, dopo il trascorso di un messo secolo, l’obbliata quistione astronomica del 1782, mi fa quasi trovar vera l’acerba sentenza del D’Alembert in una sua lettera al Frisi, che è tra quelle aggiunte dal conte Verri alle Memorie di esso (pag. 87), in proposito degl’individui dell’antica Società Gesuitica, que jamais on n’a vu des hommes plus aisés à tuer, et plus difficiles à mourir.
  24. Il principe Kaunitz, che non si lasciava sfuggire alcuna occasione per insinuare delle idee utili, nell’annunziare al Ministro plenipotenziario la ricevuta di alcuni esemplari di quest’opera, si esprime come segue: “Io non dubito che l’opera avrà tutto quel merito che si può sperare dall’erudizione dell’autore, guidato da uno spirito filosofico e superiore alla maniera di pensare comune a’ compilatori di simili storie, per lo più privi di sana critica. L’edizione è assai elegante, e mi fa sperare che l’arte tipografica possa successivamente ritornare in Milano a quel grado di credito in cui era nella prima metà di questo secolo, e da cui è decaduta„. — P.S. alla Lettera 4 settembre 1783.
  25. Elogio di Verri già citato, pag. 216 e 217.
  26. Così anche col proprio esempio confermò il giudizio ch’egli avea dato dell’ingratitudine che animava gli uomini potenti tra’ suoi concittadini, così esprimendosi in una Memoria inedita: “Comparve Paolo Frisi, e si dovette rifugiare nella Toscana; comparve Maria Gaetana Agnesi, e si dovette occultare in un ospedale; comparve Cesare Beccaria e se non avesse avuta la precauzione di far stampare a Livorno l’opera sua Dei delitti e delle pene e tenerla da principio da Milano lontana, sicuramente sarebbe stato vittima della ragione„. — Bianchi, Elogio, ec. p. 280.
  27. I Pensieri sullo stato politico del Milanese nel 1790, di cui qui si fa cenno, nell’archivio della famiglia sono uniti in un volume a varj altri opuscoli, descritti dall’ab. Bianchi al num. lxxviii del Catalogo de’ manoscritti del conte Verri, sul quale inscrisse l’autore la dichiarazione: Pensieri politici da non pubblicarsi. In occasione di scrivere queste Notizie, io ebbi libera comunicazione di quel volume dalla cortesia della Contessa vedova, stante la fanciullezza del figlio erede; e benchè fosse allora illimitata la libertà della stampa in Milano, rispettando l’espressa volontà dell’autore, nessuno di quelli opuscoli ho inserito tra le sue Opere politico-economiche. Ma una copia dello stesso volume fu tratta per uso di rispettabile persona, che ben poteva averne la facoltà; e quella copia fu veduta da varj uomini studiosi, finchè apparve per la maggior parte pubblicata colle stampe di Lugano nel 1825 sotto il titolo di Scritti inediti del conte Pietro Verri. La pubblicazione di quelli Scritti, ch’erano destinati a rimanere inediti, non fu certamente suggerita dalla saviezza, nè poteva esser fatta in tempo più inopportuno per l’estimazione stessa dell’illustre autore presso il volgo de’ lettori; e se mai v’ebbe parte la venerazione per la di lui persona, il pensiero, anche per sè lodevole, non poteva essere più inconsiderato.
  28. Un cenno di queste stesse riflessioni si è già da me fatto nelle Notizie di Cesare Beccaria. Se in questo oggetto s’imitasse il generoso esempio del signor Wilberforce, che si è assunto di rinnovare ogni anno instancabilmente nel Parlamento d’Inghilterra la sua proposizione per la libertà dei Negri, chi sa che una volta o per persuasione o per tedio non si riuscisse nell’intento!
  29. Esistono originali presso l’illustre famiglia, e in copia presso di me, le prove delle forti istanze fatte dal Verri per essere dispensato da quell’onore o peso che voglia chiamarsi. Riuscite frustranee le più vive sollecitazioni, le prodotte attestazioni mediche e l’interposizione de’ colleghi, egli si rassegnò a compiere i proprj doveri, il più utilmente che per lui si poteva; e indefesso al solito, nel tempo medesimo che attendeva con fervido impegno ad allestire il proseguimento della sua Storia di Milano, scendeva ad ammaestrare i suoi concittadini con frequenti opuscoli, tendenti a mantenerli o a ricondurli nelle vie della saviezza e della moderazione. Pubblicò allora successivamente una Lettera di un filosofo ad un monarca, i Pensieri di un buon vecchio che non è letterato, del Metodo di cangiare le opinioni degli uomini, il Modo di terminare le dispute, e una Risposta ai detrattori dell’Arcivescovo. La libertà di queste pubblicazioni, e il buon accoglimento con cui circolavano in tutte le classi della Società, provano che in que’ tempi tumultuosi, tempi di tanti delirj e di deluse speranze, non era impedito ai buoni di parlare, nè questi tacevano. — Recitò pure il Verri un Discorso alla Municipalità di Milano, che nel giornale il Termometro Politico leggesi stampato (N. XLVIII del 1796, p. 175-178), sul dovere di erigere monumenti di riconoscenza pubblica a sette illustri concittadini, Beccaria, Paolo Frisi, Cavalieri, Lodovico e Manfredo Settala, Giorgio Giulini e Maria Gaetana Agnesi. Questo dovere è de’ Municipj, più che de’ Governi, e loro sarebbe sempre assai facile l’adempirlo, applicandovi una tenue parta de’ forti tributi che riscuotono dai possidenti civici a titolo delle spese edilizie; ed io non fui che l’eco di giuste querele, allorchè poco sopra feci alcun cenno di un tale, non meno sterile, che ormai nojoso argomento. Io non so a chi si debba il merito, o la vergogna, di avere eretto in Milano il monumento al podestà Corrado di Trezzeno arrostitore degli Eretici (Catharos, ut debuit, uxit), ma so che nessuna memoria vi esiste ad onore de’ suoi grand’uomini, che sia stata eretta a spese pubbliche; e la statua poc’anzi innalzata al santo vescovo Ambrogio, titolare della Chiesa milanese, è dovuta alla generosità di un privato. Nè migliore è la condizione delle altre città d’Italia. E per circoscrivermi a pochi esempj, vedonsi in Roma varj magnifici monumenti di Papi defunti, posti a spese degli eredi ch’essi arricchirono; ma i busti che vennero collocati nel Panteon ad onorare varj uomini illustri nelle lettere e nelle arti, furono tutti eseguiti a spese private. Verona, che altre volte si mostrò splendida ad erigere le statue onorarie del Fracastoro e del Maffei, una ne decretò ad Ippolito Pindemonte, da pochi anni defunto, ma ne differì l’esecuzione a tempo indeterminato. Como finalmente decise di erigere un ricco monumento ad Alessandro Volta in una delle piazze della città, e cominciò dal farne eseguire il modello; ma il calore patriotico presto si temperò, e la generosa risoluzione declinò in una questua. E la generosità e l’amor patrio sono generalmente in Italia così caldi in parole, ed esili ne’ fatti, che non s’ebbe onta di dare l’abbietta forma di questua alla collocazione de’ monumenti onorarj eseguiti o progettati in Milano in questi ultimi tempi; con buona sorte ancora, quando tra i zelanti che presiedevano alla direzione dell’opera non insorsero altercazioni e querele, rese più vergognose per la loro pubblicità.
  30. Veggasi la Nota dell’Editore in fine del Cap. XXIII.
  31. Così io scriveva nel 1804. — Sopravvisse il canonico Anton Francesco Frisi circa tredici anni, nè mai fece motto di risposta. Ma nel 1829 il figlio del conte Pietro Verri, dotto e cortese cavaliere, scoperse nell’esemplare de’ miei Economisti Italiani da lui posseduto, che il canonico, famigliare nella sua casa ed avvezzo ad impiastricciare de’ suoi commenti anche i manoscritti del padre, avea scritto nel margine di quel passo un laconico non è vero. Senza nulla sapere di questa segreta protesta, coll’occasione che fu ristampata nel 1825 la Storia di Milano, nella Prefazione al tomo IV di Continuazione ch’io vi aggiunsi, recai più esempj di quelle mutilazioni e infedeltà (§ III, pag. xxix a xxxviii), e varj altri mi sarebbe facile di aggiungerne; dell’abuso poi, ossia del non uso fatto de’ frammenti che il Verri avea scritto in fogli sciolti, nessuna prova mi rimane a produrre, perchè furono distrutti. — Or va e credi, quando un sacerdote e canonico, come la Pitonessa dal tripode, intende sdebitarsi da una grave imputazione col lasciare scritto tra foglio e foglio de’ volumi di una Biblioteca un arido e provato falso, non è vero.
  32. Come fu accennato nella nota precedente, questa Continuazione fu da me eseguita, protraendola sino alla morte dell’imperatore Leopoldo II, benchè con esito malaugurato, del quale non occorre di parlare. Dirò soltanto che all’epoca della ristampa di quella Storia nel 1825, era da poco tempo calato dalle rupi di Sebenico in Lombardia un giovane lussureggiante d’ingegno, e non meno ridondante di presunzione e d’audacia, il signor Nicolò Tommaséo, che poscia moderato ed ammaestralo dall’età e dall’esperienza si distinse con opere commendevoli per senno e sapere; ma in quelle prime sfrenatezze giovanili, delle quali in breve fe’ trista prova, tra i nomi illustri che fece scopo a’ suoi latrati, s’abbattè quello di Pietro Verri; e in un frettoloso articolo critico su la ristampa della di lui Storia, pubblicato nel Giornale letterario milanese il Nuovo Ricoglitore (Num. XVI, aprile 1826, pag. 276 a 292) oltre una continua manifesta infedeltà od esagerazione nell’esposizione delle cose, egli non si vergognò di parlare dell’Autore (nulla dico di me) con uno spregio impudente nella propria patria, che l’avea venerato uomo dottissimo e distintissimo tra suoi patrizj, uno de’ suoi primarj Magistrati, e Consigliere intimo del suo Sovrano, sino a vilipendere la sua maniera di scrivere co’ vituperevoli appellativi di barbarie, di melensaggine, e di verresco stile (pag. 284). — L’occasione mi parve opportuna per questo cenno; perchè allora non gli feci alcuna risposta, avendo riputato miglior consiglio di lasciare abbajar solo un uomo che nuovo producevasi nell’arena letteraria colla petulanza di Tersite, e che a dritto e a rovescio scagliavasi alla cieca e con invettive da trivio contro ben altri nomi che il mio; e me ne stetti contento della grave e severa lezione datagli, a quel tempo, da uno de’ bravi veterani della nostra letteratura, il sig. Vincenzo Lancetti, sotto il nome pseudonimo di Franco Splitz (Rivista generale de’ libri usciti in luce nel Regno Lombardo nel 1826, pag. 42, 44 e 223; e il Nuovo Ricoglitore, Num. XXVI, febbrajo 1827, pag. 132-135).
  33. Lo erano quando io scriveva; ma tutti cedettero, da più anni, al comune destino. — Il cav. Giovanni, ultimo di essi, per il sistema di vita che gli piacque di seguire, trapassò sconosciuto nella repubblica letteraria, e morì in Como nel 1818. Da due anni egli era stato preceduto dal cav. Alessandro, che nell’ultimo stadio del viver suo accrebbe la bella fama che già si avea acquistato, e la di cui intimità col maggiore fratello si mantenne sempre inalterabile. Il conte Carlo, che oltre di essere buon agronomo, era intelligente nelle belle arti, dopo di essere stato Prefetto dipartimentale, Consigliere di Stato e Senatore, morì nel 1823 Presidente emerito della Reggenza provvisoria di Governo, eretta in Milano tra gli eccessi impuniti che precorsero la cessazione del Regno d’Italia.
  34. Essa è detta da Pietro Verri, “tragedia di sentimenti grandi, arditi, liberi; piena di lezioni utili ai principi, utili ai sudditi; che ci rappresenta la tirannia co’ suoi tratti odiosi, il fanatismo pericoloso, quand’anche nasca da nobili principi; che interessa e sviluppa un’azione che è la sola della nostra storia posta sul teatro, e la presenta col costume de’ tempi, tragedia che sgomenta le anime gracili e scuote deliziosamente le energiche„. Storia di Milano tomo II, pag. 64 della prima edizione milanese.
  35. Parte II, pag. 148, ediz. prima di Milano, 1796.
  36. Meditazioni sull’economia politica, § XXIV in fine. — Si noti che la prima edizione di quest’opera è del 1771.
  37. Memorie della vita e degli studj di Paolo Frisi, pag. 17.
  38. Varj altri saggi della generosa filosofia del conte Pietro Verri possono leggersi nella Vita ch’io scrissi di lui nel 1817, e che fa parte delle Vite e Ritratti di sessanta illustri Italiani, pubblicate dal Bettoni; essendomi proposto in essa di ripetere il meno possibile le cose già dette in queste Notizie, e credo di averlo fatto con esito non del tutto infelice, per quanto le circostanze l’hanno consentito.