Osservazioni sull'architettura degli antichi/Capo I/L'arte di fabbricare

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Osservazioni sull'architettura degli antichi
L'arte di fabbricare

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Osservazioni sull'architettura degli antichi
L'arte di fabbricare
Capo I - I materiali Capo I - La forma degli edifizj

[p. 27 modifica] §. 14. Passando all’arte di fabbricare, come articolo secondo della parte essenziale dell’Architettura, dovremo cominciare dalle fondamenta, che erano fatte o di grosse pietre quadrate di tufo, come già si è detto innanzi1, oppure di rottami di questo tufo medesimo, che era la maniera più comune, come lo è ancora al presente. La platea, ove usavansi quei rottami, si facea nel modo seguente, per quanto si vede dalle rovine. Si gettava la calce a sacco nella fossa, e poi si copriva nello stesso modo con pezzi di tufo, così continuandoli gli strati, o piani di calce, e di tufo sin che la fossa era piena. Questo fondamento si convalidava in due giorni, e diventava tanto duro per la pozzolana, che poteva fabbricarvisi sopra immediatamente. Deesi anche notare, per ciò che riguarda le mura sopra terra, che gli antichi considerando la qualità soda della pozzolana, mettevano sempre più calce che pietre; e su tal metodo sono [p. 28 modifica]fatte tutte le antiche volte2. Quando l’armatura della volta era stata formata colle tavole, vi si gettava, come nella costruzione dei fondamenti, della calce con delle scheggie di tufo, o di mattoni; e ciò sino ad una certa altezza, la quale è di nove palmi nelle terme di Diocleziano: dopo di che vi si metteva di nuovo uno strato di calce per rendere unita la superficie della volta. In tal maniera un piccol numero d’uomini poteva finire una gran volta in un sol giorno. Si può osservare questo metodo di fabbricare nelle opere, dalle quali è caduta l’incrostatura, come anche nelle volte rovinate, quali sono per esempio quelle del Colosseo, delle terme di Tito, di Caracalla, e di Diocleziano; e particolarmente nelle rovine considerabili della villa Adriana, ove si vede ancora l’impronta, o letto delle tavole dell’armatura.

§. 15. Questa maniera sollecita di costruire le volte non si pratica più: si fanno al dì d’oggi a mano, servendosi per altro sempre del tufo, e della pozzolana. L’empitura, sin tanto che tutto sia del pari colla platea, si fa nulladimeno ancora a sacco, a un di presso come usavasi dagli antichi. Per mezzo di quella calce si può dare alle volte la forma, che si vuole. Se ne fanno ancora attualmente in Roma delle affatto piane, di modo che appena mostrano essere curve. Si lasciano queste volte per qualche tempo colla loro armatura, acciò possano consolidarsi.

§. 16. Facendo gli antichi le loro volte estremamente forti, cercavano di renderle anche più leggere che fosse possibile; il che facevano in due maniere differenti. La maniera più ordinaria era di empiere le volte con delle scorie del vesuvio, che sono o rossigne, o bigie. Se ne trovano delle nere vicino a Viterbo, in un luogo, ove sono fonti d’acqua bollente, che indurisce le uova in un istante. Questo [p. 29 modifica]luogo si dice Bollicame, nome che gli è stato dato dal bollire. Il fuoco sotterraneo, come pure le scorie, che vi si trovano, fanno argomentare, che vi sia stato anticamente un vulcano. Ma le scorie di Viterbo non sono troppo buone per fare le volte, essendo troppo tenere. Si osserva chiaramente questa specie di scorie in antichi edifizj, e ne furono trovate nel Panteon allorché in quelli ultimi tempi fu restaurato. Ciò non ostante né Vitruvio, né i suoi commentatori hanno parlato di questa maniera di costruire le volte; e non parla delle scorie del vesuvio se non di passaggio. Siccome la natura di questa montagna è stata poco dagli antichi conosciuta; così non hanno molto cercato di scoprirne i fenomeni.

§. 17. Le volte coperte di simili scorie sono comunissime in Napoli; ma il card. Albani è stato il primo, e fino al presente l’unico, che ne abbia fatto costruire a Roma delle somiglianti. Ecco la maniera, con cui si procede in questa costruzione: dopo essere stata fatta l’armatura, si riempiono i fianchi, come già dicemmo, sino alla platea, o mezzo della volta. Questa platea si copre quindi colle scorie, e colla calce, che si amalgamano, e si consolidano insieme per modo, che, a dir così, è quasi imponibile distruggere un tal lavoro.

§. 18. La seconda maniera di rendere le solte più leggere, era di servirsi d’urne, o di vasi di terra cotta vuoti, che si collocavano colla bocca in alto; dopo di che si gettavano in queste urne, e tutto intorno ad esse, delle piccole pietre, e calce tutto a sacco. Si vede un gran numero di queste urne nelle volte del circo di Caracalla, o come altri pretendono3, di Gallieno, fuor di Roma4. Scrive [p. 30 modifica]Aristotele5 che si adopravano vasi vuoti nella costruzione delle camere, per accrescere la voce6.

§. 19. Consolidate le fondamenta, per cui badavano circa due giornate, si cominciava ad inalzare le mura; operazione, che noi consideriamo sotto due punti di vista differenti, cioè la corruzione del muro stesso, e la sua incrostatura. Le mura di pietre quadrangolari, comunque fossero di tufo, di peperino, di travertino, o di marmo, si facevano posando semplicemente quelle pietre le une sulle altre senza calce, di maniera che si reggevano pel loro proprio peso. Ne’ più antichi tempi Ci mettevano in opera le più grosse pietre, che poteano aversi; donde è nato che fosser chiamate opere de’ Ciclopi7. Per quella ragione stessa la gente del paese dà il nome di Palazzo de’ Giganti alle rovine del tempio di Giove a Girgenti in Sicilia8. Le pietre generalmente sono d’una squadratura sì giusta, e gli spigoli così uniti, che le commesture vi compariscono come un sottil filo; il che da alcuni scrittori è stato chiamato ἁρμονία; e si ammirava particolarmente nel tempio, che Scopa9 [p. 31 modifica]fabbricò a Tegea10: le commessure d’un tempio a Cizico erano coperte con un filo d’oro11.

§. 20. E’ cosa nota, che le pietre grandi in altre fabbriche venivano strette, e collegate insieme per mezzo di spranghe, o ramponi, che erano di metallo per il marmo, in cui il ferro produceva delle macchie rugginose12. L’Alberti dice di aver trovato anche ramponi di legno negli antichi edifizj13; il signor le Roy gli ha osservati nelle rovine d’un tempio nel territorio d’Atene14; e uno de’ miei amici, il signor Roberto Mylne scozzese, che è stato incaricato di costruire un ponte fui tamigi, mi ha assicurato di averne veduti a una grossa pietra del suddetto tempio di Giove a Girgenti15.

§. 21. Le grosse pietre delle mura di città erano parimente commesse insieme senza calce. Un lavoro singolare in questo genere, è senza dubbio una parte delle mura di Fondi nel regno di Napoli. Questo muro è fatto di pietre bianche pulite all’esterno; ma tutte d’una forma differente, essendovene delle pentagone, delle esagone, e delle ettagone, [p. 32 modifica]ossia di cinque, di sei, e di sette angoli; ed in tal modo sono le une colle altre incastrate. Se ne potrà formare un’idea sulla terza Tavola, che il signor marchese Galiani ha aggiunta alla sua traduzione di Vitruvio, e su di un resto d’antico muro in Alba, presso il lago Fucino, che il Fabretti ha fatto incidere in legno16. In quella maniera medesima erano fabbricate le mura di Corinto, e di Eretria nell’Eubea. Simili mura erano anche ad Ostia, luogo dell’Epiro, de’ quali il vecchio Sangallo architetto, al cui tempo se ne vedevano alcuni avanzi, ce ne ha dato il disegno in pergamena, e la descrizione, che ora si ritrovano nella biblioteca Barberini; ed io parlo ad altro proposito di quelle mura nella descrizione del museo di Stosch17. Si vedono eziandio rappresentate sulla colonna Trajana le mura d’una città fabbricate di simili pietre.

§. 22. Per le volte, acquedotti, ponti, ed archi di trionfo si tagliavano le pietre a forma di conio; ciò che Perrault avrebbe potuto sapere senza venire a Roma, se non avesse voluto provare, che gli antichi non sapevano l’arte di tagliar le pietre18; e che per quella ragione non facevano arcate di pietre, ma soltanto di mattoni. Quello scrittore non si è ricordato, che Vitruvio stesso parla19 [p. 33 modifica]d’arcate costrutte di pietre a forma di conio. Egli fa dire anche ai suoi abati, che quella ignoranza degli antichi è stata cagione di aver essi dovuto fare gli architravi, che andassero da una colonna all’altra; e che non trovandosi sempre delle pietre di una determinata grandezza erano costretti di accostare d’avantaggio fra loro le colonne: ma tutto quello discorso non è meno falso del precedente; imperocchè agli avanzi d’uno dei più antichi edifizj di Roma, in Campidoglio, che era il soggiorno dei senatori, si vede ancora la parte di sotto dell’architrave, dalla quale pendono le gocce, con otto capitelli dorici: lo spazio, che passa tra due di quelli capitelli prova, che ve ne manca uno; e per quanto si può capire dall’architrave, dovrebbero esservene stati sedici. Questa faccia è fatta di piccole pietre di due palmi in circa per ciascuna, le quali sono tagliate nella maniera stessa, che in simili casi taglierebbonsi oggidì.

§. 23. Le mura di piccole pietre erano comunemente fatte di pezzi di tufo a modo di conio, l’esterna superficie de’ quali era quadrata; o almeno erano ornate, e coperte di tufi così fatti20. Tale qualità di lavoro si chiamava dagli antichi opus reticulatum, vale a dire, opera fatta a modo di rete, per ragione delle commesture delle pietre, la figura delle quali somigliava ad una rete. Coloro, che rappresentano tal sorte di lavoro come fatta di dadi lunghi, o parallelogrammi21, s’ingannano. Vitruvio assicura che quella [p. 34 modifica]qualità, di muro non sia soda22 ciò non ostante si vedono conservati degli edifizj intieramente costrutti in quel modo; quali sono fra gli altri la così detta villa di Mecenate a Tivoli, le rovine del tempio d’Ercole nello stesso luogo, gli avanzi della villa di Lucullo a Frascati, e gran pezzi di muro di quella di Domiziano a Castel Gandolfo, ove ora è la villa Barberini23. Maggior quantità di tali lavori trovasi fuor d’Italia24.

§. 24. Per ciò che riguarda le mura fatte di mattoni, bisogna considerarle primieramente quanto alle mura in sé stesse, indi quanto alla incrostatura, comprendendovi però anche il pavimento. I muri dei grandi edifizj di Roma non sono intieramente di mattoni: ne sono lavorati soltanto a filare, e si chiamano muri a cortina. L’interno è riempito alla rinfusa di piccole pietre, di testacei, e d’altre cose simili, legate a vicenda con della calcina, di cui ve se ne metteva un terzo di più. Vitruvio chiama quella specie di lavoro emplecton25, perchè è riempita nell’interno26; ma egli non parla se non che di mura di pietre, non già di [p. 35 modifica]quelle di mattoni: ciò che si prova ad evidenza, mentre dopo quella descrizione comincia a trattare particolarmente delle mura di mattoni, senza parlar di tal maniera nè egli, nè i suoi commentatori. Servendoli di quella forte di lavoro i Romani sono arrivati a fare de’ muri immensi, che aveano sino a nove, e tredici palmi di grossezza27. Anche i moderni hanno fatti simili muri, e di mattoni intieri, come è quello, fu cui posa la cupola di S. Pietro in Vaticano, grosso quattordici palmi.

§. 2?. Pare che di un somigliante lavoro fossero costrutte le mura di Babilonia; perciocchè la parola αἱμασιὴ usata da Erodoto28, in vece di cui altri29 leggono αἴρπεζον, significa quella specie di fabbricato, e non già come pretende Bouherio30, muri fatti di pietre gettate alla rinfusa; ma saranno state, come presso i Romani, con dei corsi di mattoni posti con ordine. Che i mattoni arruotati siano stati in uso non può assicurarsi31. Oggidì però gl’intieri muri esterni di qualche edifizio si veggono fatti con quella sorte di mattoni; e tali sono fra gli altri quelli della chiesa della Madonna de’ monti a Roma, e quelli del palazzo del duca d’Urbino32. I mattoni, che vogliono adoprarsi per li muri, e non per li pavimenti, si fanno più larghi alle due estremità, che nel mezzo, affine di poterli collocare sodamente gli uni sopra gli altri quali senza calce; perocchè si mette la calce soltanto internamente dalla parte, ove i mattoni non si toccano33. Per tal ragione le commessure dei muri fatti con [p. 36 modifica]mattoni arruotati sono per così dire impercettibili.

§. 26. Allorché si alzava una fabbrica in un luogo in pendio, o presso un terreno più alto, si procurava garantirli dall’umido per mezzo di mura doppie, fra le quali si lasciava un buon palmo d’intervallo; come vedesi ben distintamente alle Cento Camere conservatesi nella villa Adriana a Tivoli: le loro volte sono ancora tanto asciutte ai giorni nostri, che il fieno può conservarvisi molti anni.

§. 27. L’interno di quelli muri è fatto con tanta pulizia, e la loro superficie è tanto liscia, che facilmente si conosce, essersi avuto in mira di far sì che non vi si attaccasse l’umido. Questo lavoro serve a farci intendere ciò che ne dice Vitruvio34. Perrault35 si è figurato in quelli doppj muri, Dio sa qual lavoro, con molti canali, o scolatoj36.

§. 28. Un’altra ragione di usar questi doppj muri era per preservarsi dal vento, al quale i Greci davano il nome di λίψ, i Romani quello di africus, e chiamato oggidì scirocco37. Questo vento, come è noto, viene dall’Africa, e regna sulle colle dell’Italia egualmente, che fu quelle della Grecia. Egli è nocevole del pari agli animali, ai vegetabili, e agli edifizj, strascinando con sé de’ vapori grossi, pesanti, e caldi, che offuscano l’aria, e cagionano uno fpossamento universale. A Metana38 nella Grecia due uomini squarciavano in due parti un gallo vivo, e correvano, tenendone ciascuno la metà, intorno alle loro vigne; e ritornati al luogo, ond’erano partiti, ivi lo seppellivano, colla superstiziosa [p. 37 modifica]credenza, che fosse questo un mezzo efficace di tener lontani da esse i perniciosi effetti dello scirocco39. Questo vento discioglie il ferro, e gli altri metalli, di modo che i lavori di ferro alle case vicine al mare devono essere rinnovati di tempo in tempo; al che molto contribuisce anche il sale marino, che circola per l’atmosfera. Il piombo della cupola di s. Pietro deve essere in parte rinnovato, e in parte risarcito ogni dieci anni, trovandoli corroso da questo vento40. Era dunque per prevenire questi cattivi effetti, che gli antichi facevano doppio il muro alle loro case dalla parte del mezzodì; ma lo spazio allora si lasciava più grande fra di essi, che quando volevano salvarli dall’umidità. Questo intervallo si faceva di qualche piede di larghezza; e così ha fatto lavorare il signor card. Alessandro Albani ad uno de’ suoi magnifici casini a Castel Gandolfo.

§. 29. Per alzare gran pesi alle fabbriche si usava una ruota, in cui andavano uomini; come si può osservare in un basso-rilievo incastrato in un muro nella piazza del mercato di Capua dato in rame dal Mazochi41.

§. 30. Intorno alla incrostatura dei muri è da notarsi, che quella dei pubblici edifizj si faceva con egual cura, e pulitezza tanto allora che si volevano intonacare, come quando non s’intonacavano. Quindi è che sebbene sia caduta questa incrostatura, il muro reità così pulito, come se fosse stato fatto per restar nudo. L’intonaco si faceva con molto [p. 38 modifica]più di diligenza, che non si pratica oggidì; perchè vi si mettevano sino a sette mani di calce, come insegna Vitruvio42: ciascun piano era ben battuto, e assodato; e poi in fine vi si stendeva sopra un piano di polvere di marmo passata allo staccio. Contuttociò una simile incrostatura non oltrepassava la grossezza d’un dito43. Le mura intonacate in quella maniera acquistavano un pulimento, che le rendeva lucide come uno specchio; e con pezzi di esse coprivansi dei tavolini. Non è possibile di abbattere l’incrostatura dei muri, e dei pilastri delle così dette Sette Sale nelle terme di Tito, e della Piscina Mirabile vicino a Baja; essendo forte come il ferro, e lustra come uno specchio44. Nelle [p. 39 modifica]fabbriche ordinarie, e nei sepolcri, l’interno de’ quali non era fatto colla medesima pulizia, l’incrostatura ha due dita di grossezza. E’ singolarissima la notizia, che Sante Bartoli45 ha data di certe camere, le cui mura erano incamiciate con lastre di rame sottilissime. Esse furono scoperte al tempo dello stesso scrittore, cioè verso il fine dello scorso secolo, a poca distanza da Marino, in un luogo detto le Frattocchie46, ove altra volta era stata trovata la famosa Apoteosi d’Omero, che vedesi in casa Colonna, e ove credesi che abbia avuta l’imperator Claudio la sua villa47.

§. 31. Il pavimento de’ bagni, e di altre fabbriche era talvolta fatto di piccoli mattoni messi di costa, in maniera che facevano angolo insieme, come si pratica anche a’ dì nostri; e ne sono lastricate le strade di Siena, e di tutti i paesi dello stato d’Urbino. Questa specie di lavoro si chiama spina pesce, per la somiglianza, che hanno le filare dei mattoni colle spine dei pesci48. Gli antichi lo chiamavano opus spicatum, perchè i mattoni sono anche disposti come i granelli nella spiga; lavoro, che Perrault non ha faputo intendere, secondo che altri ha già osservato49. Si copriva il pavimento così fatto con calce mescolata di testacei pesti, e sovente al di sopra vi si poneva il musaico. Si vede un [p. 40 modifica]somigliante lavoro nella villa Adriana a Tivoli. Aveano gli antichi fra i loro servi di quelli, che si chiamavano pavimentarj50, i quali far sapevano ogni sorte di lavori in genere di lastrico.

Note

  1. Pietre quadrate si dicono anche da Vitruvio lib. 1. cap. 5., e altrove, da Livio lib. 6. cap. 3. n. 4.., Seneca Epist. 16., dal giureconsulto Ulpiano l. Et si forte 6. §. Modus 5. ff. Si ferv. vind., e da tanti altri scrittori latini generalmente. È però da notarsi con Galiani al luogo citato di Vitruvio n. 2. pag. 32., che, quadrate non si dicono in uno stretto significato di quadro, o di cubo; ma solo per significare grosse pietre con facce piane, ancorché non uguali, e che oggidì sogliamo chiamare col termine generale di lavorate, o quadrangolari. La forma di pietre quadrate, o quasi quadrate può vedersi nella Tavola data nel Tom. iI. pag. 375.; e per le altre si veda la Tavola XII. in fine di questo Tomo.
  2. Vedi la citata Tavola XII.
  3. Fabrett. De aq. & aquæd. Dissert. 3. pag. 166. [e De col. Traj. cap. 6. pag. 147.
  4. Vogliono gli antiquarj, che possa dirsi ora con miglior fondamento di Caracalla, stanti le scoperte, che vi sono state fatte dopo il Fabretti; come le medaglie di quell’imperatore, che vi sono state trovate, e che ne’ loro rovesci ci fanno vedere questo circo; la statua di Caracalla stesso, e di Giulia di lui madre, ritrovate fra le rovine in quelle vicinanze nel pontificato di Clemente XI., e state comprate dal duca d’Abrantes ambasciatore di Portogallo in Roma; ed altri monumenti. Ved. Ficoroni Le vestig. di Roma ant. lib. 1. c. 24. p. 163., Orlandi nelle note al Nardini Roma ant. lib. 3. c. 3. p. 68. n. a.
  5. Problem. lib. 2. sect. 11. n. 8. 9. oper. Tom. IV. pag. 117.
  6. Come a tale effetto, e per l’armonia, si mettevano nei teatri., Ved. Vitruvio lib. 1. cap. 1., lib. 5. cap. 5. È degna di particolar osservazione la cupola della chiesa ora dedicata a s. Vitale in Ravenna, opera del VI. secolo dell’era cristiana ai tempi di Giustiniano. Essa è tutta fatta di tubi vuoti collocati orizontalmente, i quali entrano gli uni negli altri, e s’incatenano con tale esattezza, e proporzione, che resta per essi la cupola di lieve peso, e fortissima insieme. Ne darà la detenzione esatta il più volte lodato signor cavaliere d’Agincourt nella continuazione della Storia delle Arti del Disegno; e può vedersi anche il signor Serafino Barozzi nella descrizione, che ne ha data colle stampe di Bologna nell’anno 1782. in 4. pag. 13., e l’Antologia Romana, Tomo X. anno 1714. num. 33. pag. 258. In alcune volte dei portici, ond’è circondata la chiesa di s. Stefano Rotondo sul monte Celio, che è dell’età della suddetta, vi sono parimente usati quei tubi nei fianchi, ma posti quasi perpendicolarmente. Ne darà la figura, e descrizione lo stesso d’Agincourt.
  7. Paus. lib. 2. cap. 20. pag. 156. lin. 28., cap. 25. pag. 165. lin. 20.
  8. Fazell. De reb. sicul. Tom. I. dec. 1. lib. 6. princ. pag. 248. [ Non dice Fazello, che si chiamasse così per questa ragione; ma perchè vi era rappresentata la congiura dei Giganti contro Giove nel portico, che guardava l’oriente, in tante statue. Nella stessa maniera si dice Tempio del Gigante una fabbrica di mattoni a Cuma per la statua gigantesca di Giove ivi ritrovata, e che ora si vede incontro al real palazzo in Napoli, ove fu eretta nel 1670. Ved. il Padre Paoli Antichità di Pozzuolo, ec. Tav. 47. fol. 29.
  9. Paus. lib. 8. cap. 41. pag. 684. in fine. [ Lo dice del tempio, che Ittino fabbricò a Figalia.
  10. I traduttori hanno spiegata questa parola nel luogo citato di Pausania, con quella di simetria: si trova, peraltro che Pausania se n’è quasi sempre servito per significare le commessure delle pietre. Vedasi lib. 2. c. 25. pag. 169. lin. 20., lib. 9. cap. 22. pag. 777. lin. 32., cap. 39. pag. 791. lin. 15.
  11. Plin. lib. 26. cap. 15. sect. 22.
  12. Vedi Tom. iI. pag. 24.
  13. Dell’archit. lib. 3. cap. 11.
  14. Ruin. des plus beaux monuments de la Gréce, Tom. I. par. 1. pag. 4. lin. 10.
  15. Così Flaminio Vacca Memorie, n. 39., racconta, che per accomodare il monistero rinchiuso nel Foro di Nerva furono gettati certi quadri di peperino, ne’ quali tra l’uno, e l’altro vi erano alcune spranghe di legno, da ogni banda fatte a coda di rondine, così ben conservate, che si potevano rimettere in opera; e nessun falegname conobbe di che legno fossero. Anche il signor Piranesi ha osservato, che in un sepolcro fuori di porta fan Sebastiano, passato Capo di Bove sull’antica via Appia, vi sono corsi di tufi grandi, le testate de’ quali sono legate per mezzo di spranghe di quercia tagliate parimente a coda di rondine. Ne dà la figura nelle Antich. rom. Tom. iI. Tav. 9. Pare che fra gli Ebrei nella Palestina si facesse uso grande di simili spranghe di legno, come si ha dalle Sacre Scritture, Eccli. c. 22. v. 19., c. 27. v. 2., Abacuc c. 2. v. 11. Ved. Menochio De republ. Hebr. lib. 7. cap. 5. quæst. 5. col. 659. Dai Greci si chiamavano ἱμάντωσις, secondo Suida. Più generale però doveva essere presso tutte le nazioni l’uso delle spranghe di ferro impiombate, dette γομφοί gomphi dai Greci, e dai Latini, come costa dalle antiche fabbriche, e da tanti antichi scrittori, molti de’ quali sono riportati dal Bergiero Hist. des grands chém. de l’emp. rom. Tom. I. liv. 2. chap. 6., e Suaresio De foram. lapid. in prisc. ædif. in suppl. Antiq. Roman. Sallengre, Tom. I. col. 321. Palladio De re rust. lib. 1. cap. 40. le chiama ancore, delle quali hanno qualche somiglianza.
  16. Fabretti De col. Trajani, cap. 7. in fine, pag. 229. [ Questa è la maniera di fabbricare, che Vitruvio lib. 2. cap. 8. chiama antica, e incerta; come incerta si dice anche oggidì. Rassomiglia alla lastricatura delle strade, quale principalmente la vediamo nelle antiche di Roma, e fuori. Vedasene un saggio nella Tavola XII. in fine di questo Tomo. Ne restano avanzi di tempo antichissimo in molti luoghi, e tra gli altri in alcune parti delle mura di Roma fatte da Aureliano; nelle antiche mura di Alatri in quel sito detto ora Civita; nelle vecchie mura di Palestrina, come nota pure il Fabretti loc. cit., in quelle di Cora, che il P. Volpi Latium vetus, ec. Tom. IV. lib. 7. cap. 2. pag. 128. ha prese per fortificazioni fatte dai Goti. Vedi Piranesi Antichità di Cora, ec. pag. 3. segg., e la Breve notizia delle più insigni antichità esistenti in alcuni luoghi del Lazio in vicinanza di Roma, inserita in appendice al Nardini Roma ant. pag. XXVII.
  17. Descript. des pierr. grav. du Cab. de Stosch, cl. 2. sect. 13. n. 979. pag. 173.
  18. Parall. des anc. & des mod. Tom. I. pag. 115.
  19. lib. 6. cap. 11. [ Parla d’archi fatti a conio; ma non dice espressamente se conj di mattoni, de’ quali parlammo qui avanti pag. 19. n. b, o di pietra. Abbiamo però Strabone, il quale ci dice chiaramente lib. 3. pag. 360. Tom. I., che alcune cloache antiche di Roma, tanto larghe, e alte, che vi poteva pattare un carro carico di fieno, erano fatte colla volta di pietra; quali le vediamo ancora alla Cloaca massima, di cui su parlato qui avanti, e ad altri antichi avanzi, È pure di pietre l’arco della porta di Pesto, che fi darà nella Tavola II. in fine di questo Tomo.
  20. Non sempre si facevano di tufo; ma secondo i luoghi anche di peperino, e travertino, come osservò Ciampini Vet. monum. Tom. I. cap. 8.
  21. Alberti Dell’archit. lib. 3. cap. 9. Perrault ha preso da lui ciò che ha detto a questo proposito. [ Alberti non s’inganna altrimenti, essendo ben diverso ciò che scrive, da quello, che intende Winkelmann. Egli in sostanza non dice altro, se non che, il lavoro reticolato degli antichi era sovente interrotto con dei corsi di mattoncini fatti bislunghi, o a parallelogrammi. Ecco le di lui parole: „Io ho avvertito, che gli antichi usarono nelle opere reticolate tirarvi il recinto, che fosse di cinque ordini di mattoncini, o non meno di tre; e che tutti, o almeno un ordine fosse di pietre non più grosse che le altre, ma bene più lunghe, e più larghe„: il che si conferma dalla figura, che ne dà nell’annessa Tavola. In tanti altri lavori di reticolato fanno lo stesso effetto i corsi di grandi pietre, o lunghi mattoni, sino a sei, e sette ordini, come sono nell’anfiteatro di Lucca, e di Arezzo, per testimonianza di Guazzesi Diss. intorno agli anfit. della Tosc. op. Tom. l.pag. 22.; e anche sino agli undici, come osservò Ciampini loc. cit. ove dà la figura di questa maniera di fabbricare, e delle altre. Vedasi la Tav. XII. in fine di questo Tomo.
  22. Vitr. lib. 2. c. 8. [ e Plinio l. 36. c. 22. sect. 51.
  23. Osserva bene il marchese Galiani al luogo citato di Vitruvio, n. 3., che di questa specie di lavoro ci siano restati monumenti in maggior copia, che delle altre; benchè Perrault lo neghi senza fondamento. Egli crede che la facilità di screpolarsi, che vi notano Vitruvio, e Plinio, possa nascere dai letti delle pietre, che non sono orizontali; ma che ciò non o tante siano fortissimi questi lavori per la piccolezza delle pietre, e l’abbondanza della calce. Le fabbriche, che fanno più maraviglia in questo genere, sono due di Baja, intorno alle quali vedasi quanto scrive il P. Paoli nella lettera a me diretta, che si darà in fine delle Osservazioni sul tempio di Girgenti, §. 45. Ciò che mi resta qui da riflettere, si è, che Vitruvio dice usata questa maniera di fabbricare a reticolato per la bellezza sua: ma pure io vedo, che gli antichi l’usavano anche nei luoghi ove non compariva; come per esempio l’avanzo del condotto dell’acqua Alsiatina, dato da Piranesi Le antich. rom. Tom. I. Tav. 12. fig. 1., è rivestito di reticolato non solo al di fuori, ma anche al di dentro, ove poi è intonacato con lastrico di testacei pesti. Così sono lavorate la camera sepolcrale di L. Arunzio, e liberti, data dallo stesso Piranesi Tom. iI. Tav. 9. 10., ed altra camera sepolcrale data nella Tav. 16. Sono di reticolato con intonaco sopra.
  24. V. Burmann. Syll. epist. Tom.iI. p. 191.
  25. lib. 2. cap. 8.
  26. Vedi la Tav. XII.
  27. Per meglio comprendere qual uso facessero gli antichi de’ mattoni, e come praticassero la riempitura, gioverà assai l’osservare le fabbriche di Pozzuolo, Cuma, e Baja, delle quali da un saggio il P. Paoli nella Tav. 67. In essa potrà osservarsi, che oltre il formare il muro con mattoni al di fuora, riempito con rottami e calce al di dentro, ponevansi a certe distanze mattoni stragrandi, che formavano come una carena. Tali si vedono pure nelle mura di Roma fatte da Aureliano, delle quali parlammo qui avanti pag. 32. n. a., e in altre fabbriche.
  28. lib. 1. cap. 180. pag. 85.
  29. Eusthat. ad Odiss. Σ' pag. 1851. l. 25.
  30. Dissert. Herod. pag. 43.
  31. Può assicurarsi certamente, essendone fatta la fabbrica, di cui parla Winkelmann qui appresso al Capo iI. §. 18.
  32. Memorie d’Urbino, cap. 3. pag. 46.
  33. Si può anche intendere dei mattoni, i quali al di fuori comparivano intieri, ma erano triangolati, non essendo altro, un quarto di un mattone grande; cosicchè al di dentro del muro facevano tra di loro un angolo ove entrava la calce. Vitruvio non ne parla. Si vedono però in tante fabbriche. e fra le altre, nelle mura di Aureliano, delle quali parlammo alla pagina precedente. Ne diamo un saggio nella Tav. XII.
  34. lib. 7. cap. 4.
  35. ad Vitruv. loc. cit. pag. 229.
  36. Non sarà totalmente esatta la figura, che che dà Perrault loc. cit. per ispiegare il sentimento di Vitruvio; ma ciò, che dice Winkelmann, non giova se non se ad intendere uno dei rimedj, e il più facile, che suggerisce quell’architetto; essendo più complicati gli altri.
  37. Qui Winkelmann prende lo stesso equivoco intorno ai nomi dei venti, che nella Storia, Tom. 1. pag. 51., ove può vedersi quello, che noi vi abbiano notato.
  38. Pausan. lib. 2. cap. 34. pag. 192.
  39. Pausania parla veramente del vento chiamato dai Greci λίψ, dai Latini africus, e da noi libeccio; non già dello scirocco, di cui intende parlare il nostro Autore, e rilevarne i cattivi effetti, che io ho confermati si luogo citato del Tomo I.; come pure dell’austro, o vento meridionale: de’ quali due venti, e loro maligni influssi nell’agro romano, e nell’Italia, può vedersi anche il Donio De restit. sslubr. agri rom. in supplem. Antiq.Rom. Sallengre, Tom. I. col. 960. Se libeccio a Mentana bruciava i teneri pampini delle viti, come scrive Pausania; l’austro in Italia recava danno alle uve, come dice Stazio Sylvar. lib. 5. cap. 1. vers. 146.:

    ....Sic plena maligno
    Afflantur vineta noto.

  40. Non è il semplice vento, che lo corrode; ma il gran caldo del sole, che lo squaglia, a segno di farlo talvolta scorrere fuso in qualche parte: e molto contribuiscono a rovinarlo anche le gelate.
  41. Mazochi Amphith. Campan. [Lo riportaremo qui appresso Tav. XIII.
  42. lib. 7. Cap. 4.
  43. La maniera, che insegna Vitruvio, è molto più faticosa, di quello, che mostri di farla credere Winkelmann; e certamente dovea essere più grossa, e alta l’incrostatura. Sarà bene di portarne le parole secondo la traduzione di Galiani. „ Terminati i cornicioni, si rinzaffino più rozzamente che sia possibile le mura: mentre sta per asciuttarsi il rinzaffo, si cuopra d’arricciatura, regolando le lunghezze colla riga, e col filo, le altezze col piombo, e gli angoli colla squadra; perchè un intonaco così fatto ne farà parer bella la pittura: mentre sta per seccarsi quello arricciato, vi si stenderà il secondo, e poi il terzo. Così quanto più alto sarà l’arricciato, tanto più duro e stabile sarà l’intonaco. Quando oltre il rinzaffo si faranno fatte non meno di tre croste d’arricciato, allora si stenderanno i piani di polvere di marmo; e quello stucco si stempererà in modo, che nello impastarsi non attacchi alla pala, ma n’esca netto il ferro: steso lo stucco, mentre si secca, vi si stende un altro piano più sottile: e quando sarà questo ben maneggiato, e lisciato, si metta anche il terzo e più sottile. Così fortificate le mura con tre incrostature d’arena, ed altrettante di marmo non porranno essere sottoposte nè a crepature, nè a difetto alcuno: ma anzi essendo stati colle mazzuole ben battuti, ed assodati i piani di sotto, e poi ben lisciati per la durezza e candidezza del marmo, cacceranno i colori messivi ne’ pulimenti una somma nettezza e vivezza „. Ognuno intende, che Vitruvio parla di un intonaco per dipingervi sopra., com’egli dice più chiaramente nel progresso, e segue a dire, che non si faccia sottile, ma grosso quanto più sarà possibile. Se poi fosse umido il luogo dove si vuol dipingere, prescrive nel capo seguente le cautele, che ho accennate qui avanti pag. 36. n. a. Per le cisterne, o conserve d’acqua lib. 8. cap. 7. prescrive soltanto una crosta di calce, e di frombole. Queste devono essere di selce, e non più grosse d’una libra. La calce sia della più gagliarda, che poi si mescola con cinque parti di arena della più pura, e più aspra. Un tal metodo però non si vede usato negli antichi acquedotti, e nelle conserve, delle quali parla Winkelmann appresso. Gl’intonachi per le volte, e per le stanze, ove non si volea dipingere, si faceano di tre mani di calce, e l’ultima col marmo pesto, secondo Palladio De re rust. lib. 1. cap. 13. 15.; e con due di marmo, se si voleva ben lustro, come scrive Plinio lib. 36. cap. 23. sect. 55.
  44. Anche il P. Paoli Antich. di Pozzuolo, ec. Tav. 61. fol. 34. ci descrive la sodezza straordinaria, e marmorea dell’intonaco, che vedesi in quella piscina di Baja. Crede però non doversi ciò alla maestria dell’incrostatura, ma bensì alla deposizione fatta dall’acqua delle sue particelle saline: ed ha trovato sempre questa sorta di sodo intonaco nelle conserve d’acqua, non già altrove. Questo intonaco poi è ruvido all’esterno, e quasi globoso. Conviene osservarlo dalla parte, che era attaccata al muro, per averlo liseio; e bisogna arruotarlo perchè sia lucente. L’intonaco nelle Sette Sale, che erano recipienti, o conserve d’acqua, come osservò Nardini Roma ant. lib. 3. cap. 10. pag. 100., e il nostro Autore Tom. iI. pag. 241. §. 10., è fatto certamente con particolar diligenza, ed è di tre diversi ordini, o mani. Ved. Ficoroni Osservaz. ec. pag. 27.
  45. Nella notizia delle antichità scoperte, che si trova in fine dell’opera intitolata: Roma antica, e moderna.
  46. Winkelmann ha probabilmente scritto di memoria questa notizia, equivocando tra Sante Bartoli, e Flaminio Vacca. Il primo è stato valente disegnatore, e incisore celeberrimo, ma non già scrittore, per quanto io sappia. L’altro ha scritte nel 1594. le Memorie di varie antichità trovate in diversi luoghi della città di Roma, che l’Andreoli aggiunse in fine della Roma antica del Nardini ristampata in Roma nel 1704., e in queste Memorie, n. 101., il Vacca dà quella notizia della stanza, e del luogo, ove fu trovata, che è sul monte Aventino incontro alla chiesa di s. Saba. Ecco le di lui parole. „Flaminio Galgano padrone di una vigna in contro santo Savo, dove si cavano li tufi per far le mura della città, mi raccontò, che cavandosi alle radici di quel monte, si trovò dentro il tufo uno stanzino molto adorno, col pavimento fatto di agata, e corniola, e li muri foderati di rame dorati con alcune medaglie commesse, con piatti, e bocali, tutti istromenti da sagrifizj; ma ogni cosa aveva patito fuoco: il detto stanzino non aveva nè porte, nè finestre, e vi si scendeva per di sopra.
  47. Vedi Tom. iI. pag. 215.
  48. Vedine un saggio nella Tav. XII.
  49. De la Bastie Remarq. sur. quelq. inscrip. ant. Acad. des Inscr. Tom. XV. Mém. p. 442.
  50. Vulp. Tab. Antiat. pag. 16.