Prose (Foscolo)/III - Scritti vari dal 1799 al 1802/VI. Orazione a Bonaparte

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VI. Orazione a Bonaparte

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III - Scritti vari dal 1799 al 1802 - V. Progetto di un codice militare disciplinare
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VI

ORAZIONE A BONAPARTE

[gennaio 1802]

a’ cittadini
SOMMARIVA e RUGA
membri del comitato di governo
della repubblica cisalpina
ugo foscolo.

Ne’ tempi licenziosi o tirannici i governi sono sempre ubbriachi di lodi e sempre di lodi assetati; e, poiché tali (purtroppo!) sono i nostri tempi, grande argomento vi porgo dalla mia estimazione intitolandovi una operetta, che, le passate descrivendo e le presenti sciagure, tutte le speranze ripone nell’avvenire. Mi avete reputato degno di scrivere il vero a Bonaparte, ed io, riconoscente, vi reputo capaci di confermarlo con la vostra autoritá. Non è di voi colpa, ma del vostro potere, se bassi adulatori vi accerchiano; ma è certo egregio esempio di forte animo in voi, se, sviluppandovi dalle brighe di que’ tristi, trasceglieste a tanta opera un uomo di mezzano ingegno, ma di alto cuore, non mai domato né da’ benefici né dalle ingiurie. Salute.

Milano. 7 gennaio 1802.



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I

Perché da coloro che nelle terre cisalpine tengono la somma delle cose mi venne imposto di laudarti in nome del popolo, e di erigerti, per quanto può la voce di giovine e non affatto libero scrittore, un monumento di riconoscenza che ai posteri attesti «Bonaparte istitutore della repubblica cisalpina», io, quantunque del mio ingegno e dei tempi or licenziosi or tirannici diffidente, ma pieno dell’alto soggetto e del furore di gloria (furore che tutte le sublimi anime hanno comune con te), e infiammato dal patrio amore e dal voto di sacrificarmi alla veritá, volontieri tanta impresa mi assunsi, sperando di trarla almeno in parte al suo fine, non con la disciplina dello stile né con la magnificenza degli encomi, ma liberamente parlando al grandissimo de’ mortali. Ch’io per laudarti non dirò che la veritá; e, per procacciarmi la fede delle nazioni, parlerò come uomo che nulla teme e nulla spera dalla tua possanza, volgendomi a te con la fiducia della mia onestá e della tua virtú, appunto come le dive anime di Catone e di que’ grandi si volgeano alla suprema mente di Giove. E intatta fonte di gloria per te reputo lo scoprirti le piaghe tutte, che, per colpa della fortuna, per la prepotenza e rapacitá della conquista, per l’avarizia ed ignoranza dei governanti, gran tempo affiissero e affliggono or fieramente queste misere province d’Italia; onde, tu risanandole con la forte tua mano, immenso si accresca e non piú veduto splendore al tuo nome.

II

Che s’io ti appello «ricuperator di Tolone», «fulminatore di eserciti», «conquistatore dell’Italia e dell’Egitto», «redentore della Francia», «terror dei tiranni e de’ demagoghi», «Marte di Marengo», «signore della vittoria e della fortuna», «amico [p. 225 modifica] alle sacre muse», «cultore delle scienze», «profondissimo conoscitore degli uomini» e (quel che ogni merito avanza) «pacificatore d’Europa», non odo io prima di me tutti i popoli viventi acclamarti con questi nomi? non vedo la storia che a traverso delle generazioni e de’ secoli eterna i tuoi fatti? E nel solo nomarti ricorrono al pensiero senza che altri affetti di ricantarli; ché inetto panegirista e quasi sordido adulatore stimo colui il quale verbosamente magnifica cose belle e altissime per se stesse e a verun uomo nascoste. E. d’altra parte, a ciascuna delle tue imprese le passate etá contrappongono or Alessandro guerriero onnipotente. or Cesare dittatore magnanimo, or Augusto pacifico signore del mondo, or Alfredo padre dell’Inghilterra; e alla fortuna ed ai trionfi i recenti anni ti associano gl’incliti nomi di Moreau e di Massena. A ciascuno de’ tuoi pregi la storia contrappone e Tiberio solenne politico, e Marco Aurelio imperadore filosofo, e papa Leon decimo ospite delle lettere. Che se molti di questi sommi scarchi non vanno di delitti, uomini mortali erano come sei tu, e non le speranze o il tremore de’ contemporanei, ma la imperterrita posteritá le lor sentenze scriveva su la lor sepoltura. Infiniti ed illustri esempi hanno santificata ornai quella massima de’ sapienti: «Niun uomo doversi virtuoso predicare e beato anzi la morte».

III

Te dunque, o Bonaparte, nomerò, con inaudito titolo, «liberatore di popoli e fondatore di repubblica». Cosí tu. alto, solo, immortale, dominerai l’eternitá, pari agli altri grandi nelle gesta e ne’ meriti, ma a niuno comparabile nella intrapresa di fondare nazioni: perocché Teseo e Romolo, istituendo popoli, istituirono per se stessi tirannidi; e il divo Licurgo e Bruto, il primo romano, per le proprie patrie, e non per beneficenza all’umano genere, maestri si feano di libertá. Ma tanto titolo, or da te piú meritato, che, acquetata la tempesta delle fazioni, convocasti in Lione i primati di tutte le classi cittadinesche della Cisalpina;

                                   victorque volentes
               per populos das iura:

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si! a te invincibile capitano, a te legislatore filosofo, a te principe cittadino, tanto titolo al cospetto dell’Europa e delle universe genti future tornerá a sanguinosissima ingiuria, ove questa repubblica, quantunque figlia del tuo valore e del tuo senno, continui a rimanere ludibrio di ladri proconsoli, di petulanti cittadini e di pallidi magistrati. Non tanti forse sacrilegi tentarono, non tanto oro ed umano sangue i druidi di tutte le etá e di tutte le religioni empiamente beveano in nome del Dio ottimo massimo, padre e benefattore degli uomini, di quante scelleraggini compiacquero la sitibonda loro anima i tuoi ministri, i quali, profanando il tuo nome, te faceano con disperato gemito invocare dall’agricoltore fuggiasco dai suoi campi, dal denudato mercatante, da’ tribunali vilipesi o atterriti e dal padre che alimentava di lagrime i suoi figliuoli, i quali invano domandavan del pane.

Ma, perch’io vòto declamatore non sembri, procederò storicamente, mostrando corrotti sino ad oggi in questa repubblica i tre elementi di ogni politica societá: leggi, armi, costumi. Applaudiranno allo schietto mio dire tutti gli animosi veri italiani, applaudiranno con bellicoso clamore gli ardenti giovani cisalpini, e i sospiri delle madri e delle spose, e i voti di quei pochi ottimi magistrati, e gl’inni de’sacerdoti, e le speranze degl’infelici, e la santa giustizia e la virtú contaminate e vendute, e le dolorose ombre di coloro che dalle ribellioni, dalla disperazione e dalla fame furono al caro lume della vita rapiti. Ed applaudirá la tua grande anima, non solo perch’io t’addito quanto manca ad adempiere il tuo benefico e glorioso concetto, ma assai piú perché i secoli e i secoli potranno asserire: — Bonaparte fu principe quando fieri e nobili spiriti non temeano di dire la veritá a lui, che non temea di ascoltarla. —

IV

Quella è inutile e perniciosa costituzione, che fondata non sia su la natura, le arti, le forze e gli usi del popolo costituito, e che, sfrenando l’arbitrio dell’erario, della milizia e delle cariche alla potestá esecutiva, appena a’ legislatori concede [p. 227 modifica] l’ambizione del nome, il furore delle ringhiere, e la dimenticata o delusa sanzione di opposte innumerabili leggi. Eppure tale si fu la costituzione, onde tu, per decreto del Direttorio francese, nome davi e diritto alla nostra repubblica; e la tua mente presagiva forse le nostre disavventure, e gemevi nel generoso tuo cuore, aspettando tempo di vendicarne. Ben hai dato a dividere a’ tuoi salvi concittadini e all’attonito mondo quanto mortali quelle leggi riuscissero; poiché, con quelle ordinata essendo la Francia, ove dalla ardimentosa tua dittatura non venivano di repente annientate, certo che gl’infausti destini della Polonia sovrastavano la vincitrice di tante nazioni. E a quanta piú obbrobriosa rovina non dovevano strascinare noi, non riuniti, ma legati; non armati, ma atterriti dalle armi; non fatti dotti, ma insaniti per le sanguinose vostre rivoluzioni? E a che mani, d’altronde, e a quale senato vennero queste fondamentali leggi commesse? Tacerò le controversie, ond’erano faziosi e tumultuanti i Consigli legislativi; e gli oratori mercatanti de’ propri suffragi; e la ridicola arroganza de’ molti che, ignari pur dianzi del come e del perché obbedivano, e proni, quando che fosse, a obbedire, scienza e coraggio affettavano di libertá; e le gare territoriali; e i decreti circa l’annona e le tenute pubbliche, estorti da que’ legislatori, a cui libertá, gloria, patria essendo il proprio utile, fra la fame e le imprecazioni del popolo, ratto sursero opulentissimi. Tacerò l’audace povertá degli uni domata da’ benefici del Direttorio, e l’ambizione de’ ricchi dallo splendore delle cariche...; e tutto oro, briga, tremore! E tacerò la generale ignoranza di queste assemblee; imperciocché que’ rari egregi nelle arti e nelle scienze e che, in tanta malvagitá, illibata fama d’ingegno e di costumi serbavano, ignudi al tutto erano della feroce fortezza e della sapienza, necessarie ad ordinare gli Stati, ma escluse dal sacro ozio delle lor discipline e dalla semplicitá dell’antico loro istituto. O italiani! nel recente senato, che «consulta legislativa» appellavasi, il gentile, magnifico, armonioso nostro idioma, che primiero dalla notte della barbarie destò le vergini muse e le arti belle e le lettere, adulterato per gran tempo stolidamente e servilmente ne’ pubblici editti, fu indi interamente nelle [p. 228 modifica] adunanze di que’ senatori obbliato; e, dai pochi i patri affari in linguaggio straniero disputandosi, tutto era quindi manomesso dai pochi, sebbene apparentemente sancito dalla indolente e paurosa ignoranza dei piú. Non ch’io m’arroghi, o Bonaparte, di dannare le tue elezioni; ché né sapevi, né potevi a un tratto conoscere chi atto era a governare, né li avresti sí agevolmente trovati; perché i torti e i saggi italiani sapeano non donarsi, ma conquistarsi la libertá, e, sdegnosi quindi di essere stromento dello straniero, celavansi. E poni che le nostre leggi opra fosser di un Dio, e gli esecutori santissimi; il senato romano, quantunque pieno ancora di personaggi e per prosapia e per dovizie e per trionfi e per virtú e per possanza cospicui, e ognun di essi primate del mondo, che potea piú quando non la giustizia e le avite leggi, ma gli eserciti comandavano? Né eserciti erano stranieri. Nomi furono i nostri corpi legislativi; i tribunali e i governi, ignudi nomi; e, mentre il sangue della vostra nazione ci redimea dalle catene, lo scettro de’ capitani e de’ proconsoli francesi il cisalpino popolo flagellava. Dove eri tu, o liberatore, quando, assediato di armati, il Consiglio de’ seniori fu astretto a scrivere la sentenza capitale della repubblica, ratificando il «trattato d’alleanza» perfidamente dai cinque despoti imposto: imperciocché, non accettato, ci tornava nell’infame e lagrimevole stato di conquistati; e, accettato, ci avrebbe, per la calcolata impossibilitá di lungamente attenerlo, proclamati all’universo sconoscenti e sleali infrattori de’ patti e ricondotti a un palese meritato servaggio? Dove eri tu, quando Trouvé e Riveau, conculcato il gius delle genti, di ambasciatori si convertirono in despoti, forzando i principi, legislatori e magistrati a giurare solennemente un’altra costituzione, solennemente la tua spergiurando? Ben dissi «principi, legislatori e magistrati», poiché il popolo e le nuove leggi e i nuovi invasori altamente sdegnava. Fra l’universo fremito intanto della schernita maestá popolare, fra le proteste magnanime de’ pochi imperterriti e santamente tenaci legislatori a viva forza dai loro seggi strappati, sfrontatamente in pubblico nome si decretò una costituzione, per origine, illegale; per gli modi onde fu imposta, tirannica; pel recente [p. 229 modifica] esempio dell’altra, inobbedita; e per la venalitá e bassezza de’ suoi spergiuri esecutori, derisa. Te allora lungi d’Italia teneano i mari incliti per le tue vittorie, e la fama e la fortuna, comandando agli elementi e precorrendo le tue navi, cospiravano con la politica de’ tiranni, che a remote, inutili forse, e (tranne Bonaparte) per tutt’uomo mortali imprese t’affaticavano, per maturare sicuramente la servitú della Francia e l’irredimibile traffico della nostra patria infelice. Avresti nella Cisalpina veduto giudici inesorabili, capitali sentenze, non penale statuto; enormi censi, decretate estorsioni, non pubblico erario; inculcato insomma il dovere del giusto, ma patentemente consecrato il diritto della scelleraggine.

Men duro è l’avere pessime leggi, anziché averne niuna; ché nelle cittá senza leggi, sbalzati dal trono i pochi guasti o avari o imbelli tiranni, ma pur pochi sempre e sempre quindi tremanti, siede e regna la orrenda multiforme tirannide della plebe. Memoranda fede di questa sentenza ne die’ la Francia, quando tutti al potere nuotavano per mari di sangue. Brevi nulladimeno della moltitudine sono gl’imperi, sempre dalla stessa immensa lor mole precipitati; e dalle sostenute burrasche sovente esperienza si ricava e salute. E però il fierissimo di tutti gli stati fu veramente ed è questo delle cittá cisalpine, dove una diuturna straniera armata autoritá, chiamandole libere per non imporre leggi, tutte le leggi rompe e niuna ne impone; onde, tutte cosí assumendo le sembianze, tutti usurpando i poteri, tutti i cittadini opprimendo, tutte invadendo le cose, tutti i vitupèri addossandoci e i danni, può pienamente ed impunemente signoreggiare.

V

E quando ottime, eterne fosser le leggi, nulle per noi tornerebbero senza la milizia, principio, sicurezza ed ingrandimento degli Stati: però niun’arte permetteva a’ lacedemoni il divo Licurgo, che appartenente alla guerra non fosse. Ben tu sul tuo dipartire, alla nostra salute provvedendo, principale consiglio a noi davi, le armi: né sperse andavan tue voci, ché anime [p. 230 modifica] italiane, sopite sí ma non morte, percoteano; e a grandi fatti dai tuo esempio spronate, e dalle avite, gloriose, incalzanti memorie: — Armi, armi! — i giovinetti esclamavano, e di armi era splendida e forte in que’ giorni la repubblica tutta. Salutare veracemente fu quella istituzione, che, tutti armando i cittadini, a non compre mani ed a petti amorosi affidava la quiete delle cittá, assuefacendoli a un tempo alle arti guerresche, all’ardore di gloria ed alla santa caritá per la patria; onde e spada erano della giustizia contro a’ malvagi, e scudo di libertá contro a’ tiranni domestici, ed inespugnabili mura per gli esterni nemici. Ma, dopo non molto, coloro che slealmente maneggiavano le cose, impalliditi al cospetto della forza popolare, e con dissidi e con vilipendii e con denaro strozzarono sul nascere quest’Ercole vendicatore, che, ove fosse robustamente cresciuto, avria la repubblica dalle ladre e tremanti lor mani ritolta. Né giova dissimulare che male avrebbero tanta scelleraggine consumata, se istigamenti, comandi ed aiuti non scendeano dalle Alpi; perché questa repubblica (quando forte, indipendente, vera repubblica stata fosse) potentissimo inciampo sorgeva a’ tradimenti e all’orgoglio del Direttorio francese. Perciò, custodite e assediate quasi da innumerabili schiere confederate, ammutirono le cittá, impoverite pel mantenimento di non propri eserciti e dal brando de’ generali e commissari arbitrariamente dissanguate. Voi soli vedemmo, o soldati francesi; voi di eroiche virtú liberali e di sangue, voi dalle ferite, dalla fame, dai lunghi viaggi e da tutte le fiere necessitá della guerra consunti, e molto piú dalla ingordigia ed ingratitudine de’ condottieri; voi soli vedemmo piangere al nostro pianto, e chiamar Bonaparte, che tanti trofei aveva eretti in Italia per comperare la vostra miseria, la infamia della vostra nazione e la ignominiosa servitú de’ vostri alleati.

Una larva frattanto di milizia, se nazionale o mercenaria non so, fu soldata d’uomini non per legge deletti né per etá, ma o disertori de’ principati confinanti, o fuorusciti a’ quali non restava che vendere il corpo e l’anima, o prigioni alemanni, dallo squallore convinti e dalla forza e dalla disperazione [p. 231 modifica] delle lontane case natie. Tale fu sempre, se pochi ne scevri, la universalitá de’ soldati gregari, che deserta avrebbono, insanguinata ed arsa la repubblica, dove, tutti i disagi durando, né patria, né sostanze, né congiunti, né amici, né altari, né onore difendevano: se non che, e per la brevitá del tempo, e per le rade legioni, e per le perpetue fatiche, e per lo zelo de’ pochi patri capitani, e per la divozione al tuo nome, gli effetti di queste armi si ritorsero soltanto nell’esaurimento dell’erario, con che gl’infiniti questori tripudiando, nudo, non pasciuto, e col diritto quindi al misfatto, sudava l’infelice soldato. Né si presuma che i tanti ufficiali francesi, ridottisi a questi stipendi, grande onore o eccitamento recassero; ché colui, il quale dalle vittrici gloriose libere insegne rifugge della propria repubblica, scarsa laude può mercare, e dalla patria ch’egli abbandona, e da quella che elegge. Quindi la militare licenza, i delitti e le pene della fame, il furore, l’arti e la impunitá della rapina, le vastazioni e gli omicidii nelle terre, le reciproche ire de’ cittadini e della milizia, gl’immensi dispendi e la niuna difesa della repubblica. E, quand’anche armi cotali a somma forza giungessero, tremendo, certo, e da piú genti esperimentato sorgerebbe a un tempo il pericolo, che gli ambiziosi capitani dalla dappocaggine de’ magistrati, dal silenzio d’inermi leggi, da’ neghittosi odii de’ cittadini, dalle servili speranze de’ soldati, validi mezzi traessero per occupare tirannescamente lo Stato.

Che se taluno perciò, insultando alla fortuna da tanti secoli avversa agli italiani, osasse chiamarci degeneri da’ nostri avi ed incapaci di ridivenire popolo indipendente e marziale; oh! sorgete voi, italiani caduti nelle battaglie, quando Scherer, tante concittadine anime perdendo, pieno de’ vostri cadaveri facea scorrere l’Adige, che, fuggente dalle sponde indifese, all’Adria addolorata e sdegnosa portava sangue venduto. Gridate voi, morti nelle valli di Trebbia, sempre all’armi libere infausta, ove ora con voi infinite ombre di guerrieri francesi fremono fra gl’insepolti romani al nome del secondo Annibale, né dalla vendetta, che rapida col terrore e con la sconfitta lo incalzò negli elvetici monti, sono ancora placate. E voi, che da’ ricuperati [p. 232 modifica] colli di Genova accompagnaste alle sedi degli eroi lo spirito di Giuseppe Fantuzzi, gridate voi tutti: — Forti, terribili e a libera morte devoti furono i nostri petti, benché pochi, ignudi e spregiati. — Stanno ancora i vessilli tolti a’ nemici dall’ardita gioventú bolognese, che, né da legge né da stipendi costretta, e terre e cittá redimea da’ ribelli. Stanno i trofei del Tirolo e della Toscana, dedicati dagli italiani agli augúri della Vittoria, di cui Bonaparte ha pieni e l’Italia e il Tirreno e l’Egitto. E chi potea vincere genti, che con te e per te combattevano, e a’quali tu la virtú e la fortuna e l’audacia spiravi? Ma vivrai tu eterno?

VI

Incominciano ad inasprirsi piú atrocemente le nostre ferite, e dell’inglorioso mi accorgo tristissimo assunto, e incerte sento le forze, ora che tutti mi si schierano innanzi gl’imperanti costumi, originati dalle vecchie, putride, profondissime ulcere del servaggio, le quali, rinsanguinate nel bollore delle rivoluzioni, e piú e piú con le scatenate passioni estendendosi, quasi i piú sani corpi hanno guasti ed infetta la divina libertá. E, per onta nostra maggiore, non espulsi tiranni, non principi uccisi, non sedizioni, non varia illustre fortuna di vittorie e sconfitte; bensí calunnie, concussioni, adultèri, adulatori, spie, discordie, raggiri, avarizia, stoltezza: non ardui delitti insomma, ma vizi; né continui, ma, per la stessa bassezza d’animo, ed intermessi e riassunti. Sobriamente quindi, o consolo, e per la tua dignitá e per la riverenza alla patria, dirò cose da me piú volentieri ne’ profondi del dolente mio petto sepolte, ove l’esportele non fosse d’espresso utile a noi e di gloria per te. Né parlerò della privata scostumatezza, né de’ popolari difetti, né del dissipamento recato dagli eserciti; tacce essendo queste comuni per tutte forse le cittá dell’Europa, e mali talor necessari, e certo irreparabili, perché naturali al corso de’ tempi e delle nazioni e voluti dall’universale ordine delle cose. Il perché dirò de’ costumi, o insiti nel governo o dal governo scaturiti; i quali, quando ardono e regnano, se guasti corrompono la nazione, se ottimi la risanano. [p. 233 modifica]

Uomini nuovi ci governavano, per educazione né politici né guerrieri (essenziali doti ne’ capi delle repubbliche); antichi schiavi, novelli tiranni, schiavi pur sempre di se stessi e delle circostanze, che né sapeano né voleano domare; fra i pericoli e l’amor del potere ondeggianti, tutto perplessamente operavano; regia autoritá era in essi, ma per inopia di coraggio e d’ingegno né violenti né astuti; consci de’ propri vizi, e quindi diffidenti, discordi, addossantisi scambievoli vitupèri; datori di cariche e palpati, non temuti; alla plebe esosi come potenti, e, come imbecilli, spregiati; convennero con iattanza di pubblico bene e libidine di primeggiare, ma né pensiero pure di onore; vili con gli audaci, audaci coi vili, spegneano le accuse coi benefici e le querele con le minacce; e per la sempre imminente rovina, di oro puntellati con la fortuna, di brighe con i proconsoli e di tradimenti con i principi stranieri. Nella povertá dell’erario, nelle lagrime delle cittá, nelle protette concussioni, unica, perpetua e troppo forse creduta discolpa secretamente vociferavano: doversi alla spada straniera obbedire, e per sommi danni soltanto ricomperarsi lo Stato. Perfidi! Cotanti, e sí ampli e sí profondi moltiplicavansi i danni, che per voi non di presta e generosa morte, ma di lenta agonia obbrobriosamente la repubblica intera periva. Forzati invero talora voi foste, ma voi stessi il piú delle volte volevate la forza; ché né umana né divina possanza può mai costringere a delitti chi alla salute della patria e al proprio onore fortemente e lealmente la sua vita consacra. Irrompevano i Galli vittoriosi nel Campidoglio, dove tutti i romani validi alle armi s’erano rifuggiti alla estrema difesa; mentre i fanciulli, e le madri, e le vergini, e le imbelli turbe, e le vestali, e le matrone fuggivano. Ma i sacerdoti degli dèi e i vecchi consolari e di trionfi insigniti, perché malfermi si sentissero a combattere, non per tanto sostennero di abbandonare la cittá; ma, ornati delle luminose e trionfali lor vestimenta, votarono se medesimi alla patria, e, seduti nel fòro sopra sedie di avorio, aspettavano tranquillamente la sovrastante fortuna. Brenno, invasa Roma ed assediato il Campidoglio, scese nel fòro, e ristette al magnifico e portentoso spettacolo di que’ personaggi, che, senza far motto, [p. 234 modifica] né rizzarsi né mutare aspetto, al venir de’ nemici, immoti sedeano ed intrepidi, appoggiati a’ bastoni e guardandosi vicendevolmente l’un l’altro. Da divino quasi stupore a tal vista percossi, i Galli per gran tempo né toccarli ardivano né approssimarsi, reputandoli piú che uomini. Quando poi uno di loro, fatto animo, accostatosi a Manio Papirio, placidamente gli toccò il mento, strisciandogli la mano giú per la barba, Papirio lo percosse col bastone e gli ruppe il capo; onde il barbaro, sguainata la spada, lo uccise; e quindi impetuosamente gli altri soldati consumarono la strage di que’ venerandi romani, che d’onorare sdegnavano il trionfo de’ conquistatori con impotenti insulti o con servili preghiere. Che se tanta fortezza non v’era dato, o principi cisalpini, di emulare, niuno vi contendea di tornare privati, alla Francia ed al mondo gridando: che, disperata essendo la patria, veruno italiano soffriva di amministrare la comune sciagura. E ben esempio ne porsero que’ due del Direttorio che generosamente impugnarono il trattato di alleanza, e que’ pochi legislatori fedeli al giuramento. Ma gli accusatori, i testimoni ed i giudici de’ vostri delitti sono le vostre tante improvvise, malnate ricchezze, onde, di poveri e abbietti, superbi oggi andate ed impuni. Sostenere la ingiustizia è da forte, dissimularla è da schiavo; ina ritorcerla a proprio vantaggio, dividendo, quasi opime spoglie, le vesti de’ propri concittadini, è da bassissimo scellerato.

Dirò io quanti e quali complici intorno a sí fatto governo sudassero? mostri fra il popolo e il trono, peste di tutti gli Stati; e di questo assai piú, dove molti e vari sono i tiranni, niuno l’assoluto signore. Gente di abbietta fortuna, di altere brame; codarda e invereconda; al comandare incapace; delle leggi impaziente; ne’ fastosi vizi del molle secolo corrotta e corrompitrice; mecandanti del proprio ingegno, delle mogli, delle sorelle e della fama, se fama avessero; di tutte fazioni, di niuna patria; barattieri; delatori; citaredi; usurai; delle patrizie angariate famiglie patrocinatori venali, e quindi turcimanni delle occulte avanie de’ regnanti; persecutori de’ buoni, ma né amici pure a’ malvagi, tutto con la cabala e con le servili colpe e con le speranze ingoiando; di matrone e di vergini incettatori, agevole scala alle regali amicizie; [p. 235 modifica] prodighi di danaro, quasi semenza in letame...; orribile mistura e di vizi e di nomi e di vitupèri; ed al secolo infamia, e alla terra che li sostenne!... ma necessario stromento alle scelleraggini del governo e alla tirannide degl’invasori. E taluni, armati di tutte arti, dittatori anche delle lettere siedono; onde dalle cisalpine universitá esiliate vernano la greca e la latina lingua, e le muse meretrici di ciurmadori, e i supremi ingegni depressi, e da’ licei gli antichi professori cacciati da chi surse maestro di scienza, di cui non fu discepolo mai; specchio a’ dotti uomini, che (tranne la gloria) emolumento di lunghe vigilie si aspettano! Né paghi della persecuzione contro a’ viventi, osano con censoria autoritá cacciare le mani nelle sepolture di Virgilio e di Orazio e di que’ divini poeti, e conturbarne le ossa, predicandoli adulatori d’Augusto e indegni di liberissime menti... Ahi, ciurma! ahi, libera nel mal fare! e non ti vegg’io, fetida di adulazione e di benefici, non ammansare con celesti carmi il monarca dell’universo, ma con rimate vandaliche ciance blandire i rimorsi di pochi vacillanti tirannucci; sicché, se modo omai non si muta, e’ ci dorrá di essere appellati «italiani». Pompeggiano intanto costoro e ne’ tribunali e ne’ ministeri, e chi segretario de’ magistrati e delle legazioni, e chi prefetto nelle cittá, e chi sopraintendente a’ teatri ed agli spettacoli, e chi questore di eserciti, e chi su le cattedre de’ licei; esultando tutti fra le deluse speranze di benemeriti cittadini e di magnanimi giovani, che, per mostrar di sudori e di cicatrici e d’illibati costumi e di studi, non altro mercano che ripulse, per cui, fuggendo dalla patria matrigna con le mani vuote al petto, si ascondono. Ché riesce espediente preporre all’erario, all’ambascerie, all’annona, alla interna vigilanza ed alla milizia insufficienti ministri, tutto cosí impunemente invadendosi dal governo.

E il commercio, magnifica sentenza de’ moderni politici, nella repubblica universalmente fioriva, non giá nel lusso civile o nello spaccio delle derrate: merce de’ trafficato fu sempre la povertá dello Stato, la quale, riparata con usure ognor raddoppiate e provocate forse, palliata veniva ed esulcerata ad un tempo, talché ogni debito spento uno piú grave ne raccendea; dote le [p. 236 modifica] pubbliche sostanze facendosi della infedele astuzia mercantile, che spesso, mutati i nomi, i padri della patria arricchiva. Spavento e obbrobrio della umana schiatta è l’efferata stolidità di Caligola, quando, chiusi i granai, intimava al popolo romano la fame: ma quell’ardito intelletto, che imprenderá gli annali presenti, dará a’ posteri storia piú orrenda; poiché la sterilitá della natura e le rapine della guerra, congiurate col monopolio armato dietro al trono, la cisalpina plebe affamarono, e le vane strida degli agricoltori, e lo sconsolato compianto delle madri e de’ figliuoli morenti, e la disperazione, e le pestilenze, sorgenti furon di lucro; orde dalle traspadane rive all’Appennino le montagne e le valli, giá per lunga feconditá beate, di bestemmie suonano ancora e di gemiti, luttuose per esequie recenti e seminate di umane ossa.

Gli astii provinciali frattanto, armi giá di vecchia politica, ora e per forza di destino e per arte straniera bollivano: quindi repubblica questa di nome, ma veramente acefalo corpo di volghi, í quali, opposti e nelle leggi e ne’ dialetti e nelle monete e negli usi e nello stesso servaggio, e dalle nuove sciagure piú concitati, infaticabilmente per dismembrarsi si dibatteano. Né le province soltanto. Micidiali avversari, i concittadini e i fratelli e gli sposi partivansi in due sètte di nomi stranamente usurpati: «aristocratici», «patrioti»; e, tutti intenti al propro utile, fondato su la tenacitá delle proprie opinioni, né patria avendo veruna (e chi «patria» nomerebbe la terra dove il ricco non ha giustizia, il misero non ha pane, e la nazione né leggi né gloria né forza?), satellite ciascuno si fea de’ confinanti stranieri, che con fraudi e con armi si contendeano l’Italia, premio sempre della vittoria! E, lorda ciascuna setta de’ propri suoi vizi, aizzata era una al furore, l’altra alle trame dalla incauta persecuzione contro la religione de’ nostri padri; onde i «patrioti» impudentemente sfrenati, gli «aristocratici» studiosamente superstiziosi, strascinavano quasi la plebe agl’infernali delitti della licenza o del fanatismo: la sciagurata plebe dal fato delle cose civili eternamente sentenziata alla ignoranza, al bisogno e alla fatica, e quindi alle colpe e a’ tumulti, da niuno spavento è illusa che delle folgori [p. 237 modifica] celesti, da niuno conforto che dalla speranza di un mondo diverso da questo, ove mangia il pane bagnato sempre di sudore e di lagrime! Derisi intanto e minacciati e denudati i sacerdoti, fatti miserando e sedizioso spettacolo alle cittá, i templi distrutti, i profanati altari, le interdette ceremonie, gli atterrati simulacri tacitamente mostravano, e, quasi profeti del popolo di Giuda per la cattivitá di Babilonia gementi, nelle viscere delle famiglie abborrimento inculcavano per la repubblica, la sterminatrice ira vaticinando del Dio vendicatore. Ignota fu sempre a’ nostri reggitori quella sentenza: non doversi perseguitare le sètte, ma o spegnerle a un tratto sotto la scure, o domarle con l’oro ed avvilirle fomentando i lor vizi, se potenti, e disprezzarle, se deboli. Al solo tempo spetta di rodere le religioni, e alla umana incostanza di farle obbliare: e mal si vorrebbe la natura nostra combattere, che, le cose spregiate abbandonando, anela sempre alle proibite. Ma i «patrioti», or delatori, ora sgherri, demagoghi sempre; armati di ridicole insegne, di sediziose dicerie, d’irritanti minacce; avventati contro i sacerdoti, i patrizi, ed il volgo incurioso ed inerme; missionari di rivoluzione e in traccia di mártiri, non di seguaci; morte e sangue gridavano, feroci di mente mostrandosi, prodi in parole e ad ogni impresa impotenti: se nonché avviluppavano talvolta il governo, che, di tutto ignaro e di tutto dubbio, ad ogni avviso della regnante setta inchinavasi: non con le armi o con aperte magnanime accuse l’amor patrio sfogavano, ma con libelli, calunnie e clamori; talché, di niuno lasciando intatta la fama, fatta era inutile la virtú, perché non creduta, e i veri infami nella comune taccia impuniti: ben l’avverso partito, e per soffocati ribollenti rancori e per onnipotente ricchezza e per prisca autoritá di nome e per insania di religione tremendo, al primo voltar di fortuna, di proscrizioni, di confische, di esili, di catene, di pianto, la misera patria affliggea. E mentre le russe turme e le tedesche, con la ubbriachezza della vittoria, la ingordigia della conquista e la rabbia della vendetta, desolavano i nostri campi, contaminavano i letti, insanguinavano le mense, il braccio de’cittadini piantava inquisizioni e patiboli; onde i padri e gli orfani profughi in Francia, limosinando di porta in [p. 238 modifica] porta la vita, sentiano ancor piú grave l’esilio per la compagnia di sbanditi, che, asilo implorando di libertá, asilo otteneano a’ misfatti; e in tutta Italia gli amici e i congiunti o atterriti o compri al tradimento; e i fanciulli, e le donne, e gli infermi vecchi lapidati; e frementi d’innocente ululato le carceri; e i pochi, o per virtú o per scienze o per sostenute dignitá, insigni e securi, confinati in barbare terre; e Cristo, capitano di ribellioni; e da per tutto violamenti, saccheggi, incendi, carnificine!

VII

Cosí la fortuna e gli uomini e il cielo abbandonata aveano l’Italia. Ma ora la dea Speranza, solo nume fedele agl’infelicissimi mortali, la fine di tanta ira predice; poiché teco, o Bonaparte, in nostro aiuto par che ritornino e la fortuna e gli uomini e il cielo. Onde, le gloriose imprese tue trapassando, non temo io di laudarti per quelle cose che a prò della repubblica nostra farai: e di che altro mai possiam esserti grati? e che deve aspettarsi la patria date, date, sangue italiano, fuorché la propria salute? Illustri certo e potenti per la universale viltá, ma né beati né pochi sono i conquistatori e i tiranni; né tu sei tale da aspirare a gloria comune, ed al tuo capo manca ancora l’unico lauro, da niun mortale posseduto mai, quello di salvatore de’ popoli conquistati. Che se Timoleone, quell’uom pari a Dio, il radicato servaggio dalla Sicilia spiantò, non fe’ però tanto la celeste libertá rifiorire che non tornasse ad allignarvi la tirannide, tremenda ancor piú per la memoria di quei pochi anni felici, che indarno poi quei popoli sospiravano. Non odi tu l’Italia che grida: — Stava l’ombra del mio gran nume in quella cittá, che, fondata sul mare, grandeggiava secura da tutte le forze mortali, e dove parea che i destini di Roma eterno asilo serbassero alla italica libertá. Il tempo, governatore delle terrene vicende, e la politica delle forti nazioni, e forse gli stessi suoi vizi la rovesciarono: udranno nondimeno le generazioni uscire dalle sue rovine con fremito lamentoso il nome di Bonaparte? — Ma si ritorcerá questa taccia in tuo elogio, poiché la Storia, [p. 239 modifica] seduta sopra quelle stesse rovine, scriverá: «La sorte stava contro l’Italia, e Bonaparte contro la sorte: annientò un’antica repubblica, ma un’altra piú grande e piú libera ne fondava».

E giá veggo rinate nello Stato cisalpino quelle leggi per cui Venezia fu un tempo reputata immortale; non leggi licenziose, non mantici agl’incendi della plebe, ma fatale muraglia alla invasione degli ottimati. Correggeranno e la povertá estrema, che persuade sempre la schiavitú, e le immani ricchezze, scala al trono e alla oligarchia. Uomini siamo pria di essere cittadini, e prepotenti in noi regnano le supreme necessitá della natura ed il furor del potere; onde la famelica moltitudine per la vita vende la libertá, e i pochi opulenti comprano la patria, quando tutto può essere comperato dall’oro. Queste due mortali infermitá di tutti gli Stati liberi allontanarono da’ suoi principi la repubblica veneta, la quale, di popolare divenuta aristocratica, col volger degli anni e delle ricchezze a cader venne nelle mani di pochi, ed il governo si fondò nel terrore de’ patrizi, nella ignoranza de’ cittadini e nella corruzione squallida della plebe.

Quindi tua prima cura è la giustizia, nella quale ogni virtú, ogni possanza ed ogni gloria è riposta, e che sola fa prosperare le pubbliche e le private sostanze. I bisogni piú gravi assai dell’entrate, le militari estorsioni e le infedeltá di chi ne reggeva, hanno perduta la pubblica economia, rotta ogni fede sociale, angariata l’agricoltura, vera nostra ricchezza, avvilita la onesta industria, prodotte al sommo le usure, e tutti i cittadini ridotti nemici taciti dello Stato. Ma l’allontanamento degli eserciti stranieri, il patibolo agli incliti ladri, l’entrate pareggiate a’ bisogni restituiranno l’ordine pubblico, e la fede del governo verso il popolo ricondurrá la reciproca fede ne’ cittadini; talché, rassicurate veggendosi ciascheduno le proprietá, piú certi saranno ad un tempo i sussidi per lo Stato, e meno urgenti, meno scarsi e piú equi i contratti nel civile commercio, meno avvilite per la celere diffusione e riproduzione dell’oro le derrate; e cosí rianimato il sacro agricoltore, riconfortato lo spavento, che, tenendo seppellito il danaro, affama le arti e fa inutile e disperato [p. 240 modifica] il sudore della moltitudine, e finalmente, con l’esempio della pubblica onestá, corretta la privata scostumatezza e tolta ogni esca alla usura. Né per me conosco alcun savio italiano, il quale stimi potersi a un tratto da te ordinare per noi una perfetta costituzione: bensí, ove le cose della repubblica sieno edificate su la giustizia sí che la universalitá goda della riposata e facile vita, per la quale i fieri mortali alla lor solitaria libertá naturale rinunziarono, agevolmente poi la esperienza degli anni e la natura stessa della nazione cisalpina compieranno un codice di leggi; prima di che è necessario distôrre ogni straniera preponderanza, dar pane alla plebe e freno alle particolari ricchezze, onde quella divina legge risulti, unica forza e palladio delle repubbliche: l’amor della patria.

VIII

Allora non piú ausiliarie, non piú mercenarie legioni, non piú coorti dalla feccia della plebe, non piú perpetui eserciti che nell’esterna pace e nell’abbondanza interna covano guerra e povertá perenne, non piú soldati per arte, soldati nell’ozio, non cittadini nelle battaglie; bensí devoti figli della repubblica difenderanno la patria, da cui ricavano gloria, libertá e sicurezza. Ed ecco omai, e per mantenere nel vigore del corpo la fortezza dell’animo, e per correggere la effeminatezza de’ tempi, e per apprestarsi alle guerre future, la gioventú cisalpina sudare negli esercizi marziali. Te, Bonaparte, invocheremo nelle battaglie, come i romani invocarono Romolo deificato; a te ne’ campi della vittoria innalzeremo simulacri ed altari; a te canteranno inni gli eserciti; a te consecreranno ecatombe solenni su le sepolture de’ nemici, sopra le quali tu ergesti questa repubblica. Generosa emulazione saremo a tutti gl’italiani, che da noi soli la libertá e lo splendore de’ padri nostri giustamente si aspettano; e la militar disciplina, e il rinato valore, e piú assai la concordia delle cittá cisalpine ridesteranno per tutta Italia le prische virtú, le forti anime e la riverenza del nome latino, che piú delle alpi e dei mari stará schermo immortale all’audacia nemica. E voi, [p. 241 modifica] figli d’Italia, spegnete omai le ire che, di principi della terra, vituperosi e smembrati tributari vi han fatto delle vostre province. Per la comune patria è da combattere contro a’ barbari: a che dunque struggete le vostre forze contro voi stessi? E, quando il genio nostro maligno, e gli umani sdegni, e la divina necessitá ci tirassero a pugnar fra di noi, combattasi fino alla vittoria, e riserbisi contro a’ barbari il combattere fino alla morte. Inveterate, purtroppo, sono le nostre inimicizie! ma che prò il vendicarle? Risorgeranno forse dalle nuove sciagure que’ tanti nostri concittadini morti negli esili, nelle carceri e nelle civili battaglie? Riparerete le stragi con le stragi? Racquisterete l’onore, la libertá e la possanza con quelle forsennate arti, per le quali li avete perduti? E per chi? Non avete giá voi finor combattuto né per gli altari, né per li figli, né per lé madri, né per le spose, né per le vostre sacre dimore; non avete voi giá combattuto né per le vostre opinioni, né per la vostra gloria, né per le vostre stesse passioni: bensí per fare de’ vostri cadaveri fondamento al trono degli stranieri. Oh! dalle mani italiane gronda ancora sangue italiano! e griderá eternamente vendetta, e griderá la vostra infamia eternamente, fino a che non vi siate lavati nel sangue de’ vostri tiranni. Non ch’io piú i Cesari accusi, o i romani pontefici, o tutti gli altri monarchi europei, che ne’ caduti secoli le fiamme fra noi della discordia attizzavano, per accorrere quindi ad estinguerle e pagarsi del proprio beneficio con la nostra schiavitú: ma piango e fremo, vedove e serve mirando le belle cittá dov’io nudrito fui sí dolcemente; dove, benché nato non libero, appresi liberi sensi; dove tante imprese suonano ancora di eroi; dove sorgono tanti sepolcri di altissimi personaggi: e piango e fremo, debellata veggendo dalle proprie sue armi e prostrata nel fango questa regina dell’universo.

E fu il nostro destino sí atroce, che la religione cristiana, speranza per noi di mansueti costumi e di comune concordia, ribellatasi dal suo istitutore, pose regal sede in Italia, donde ora, al dir del poeta, «puttaneggiando co’ regi», or popoli e regi soverchiando, veleni spargeva e indulgenze e roghi e maledizioni [p. 242 modifica] e pugnali, che di errori, di fiamme, di sangue per millecinquecento anni contristarono il globo. E, vendendo il cielo, comprò, spartí e fe’ tributaria la terra; e la dissensione, il tradimento, l’avarizia, tutte sue furie, piú che le altre nazioni la misera Italia straziarono e la innondavano d’armi barbariche, non pure in aiuto del sacerdozio e de’ suoi partigiani, ma sovente dai loro stessi avversari invocate; onde nel decimoterzo secolo il gran padre Allighieri e quegli esuli magnanimi, vagando ravvolti nella maestá delle loro disavventure, commetteano la patria alla spada degl’imperadori germanici, poich’altra via non restava a sottrarla alla tirannide fraudolenta de’ papi. Tua mercé intanto, o liberatore, la Chiesa a’ suoi principi rinasce, e tu dai templi della repubblica cisalpina la mitra disgiungi dalla corona, e i sacerdoti riconduci alla pia vita dell’Evangelo, per cui, come Socrate e i filosofi dell’antichitá, le morali virtú, la benevolenza e la pace istilleranno nel cuore de’ cittadini. Né ignudi saranno o spregiati, ma né opulenti ad un tempo né oziosi: e, poiché l’Uomo-Dio alle terrene leggi obbediva, alle terrene leggi i suoi discepoli obbediranno; leggi universali ed inesorabili, scudo e premio a tutte le virtú e scure a tutti i delitti. Non si compiace il Padre degli uomini del fumo di umani olocausti né di voti violenti: deporranno quindi le inquisizioni, i supplizi e le male arti, con cui per venalitá e per orgoglio i preti cattolici tutti que’ mortali gran tempo perseguitarono, che in diverse are e con preci diverse, ma con puro animo, il Padre degli uomini veneravano. I cieli mandano alle nazioni quei grandi e benefici cittadini, a’ quali la riconoscenza de’ contemporanei erge statue e mausolei, e la devozione de’ nepoti cantici ed altari consacra. Raggio sono della mente di Dio ottimo massimo; onde i Minossi, i Maometti e gli Odini divino culto ottenevano e popolari supplicazioni. Non vorranno dunque i sacerdoti tôrci dal cuore la religione, che co’ tuoi benefici tu per te ne ispirasti, né turbare le adorazioni e le feste solenni che noi dovremo un giorno a quegli eroi, i quali col valore e con l’intelletto costumata e possente avran fatta questa repubblica. [p. 243 modifica]

IX

E tu, Primo! perché quanta e quale prosperitá non prometti all’Italia, tu, che leggi, pace, gloria, fede e ricchezza in sí breve tempo alla Francia restituisti? Vieni! Tutte le colpe saranno alla tua presenza espiate; risanate tutte le piaghe; tutti i fausti presagi della repubblica nostra avverati; tutto insomma sará pieno di te. Deh! perché, se la natura mente divina e sovrumane forze ti ha conceduto, perché non ti ha dato divina salma e vita immortale? Chi non vorrebbe legislatore, capitano, padre, principe perpetuo Bonaparte? Ma quali principi a Numa successero? Oh! se dato mi fosse di diradare le tenebre che cuoprono le genti da tanti secoli trapassate, io vedrei forse i romani cercare nelle foreste a Numa sacre l’ombra di lui, che dopo morte veneravano come loro iddio; ma cercarlo e nominarlo sommessamente, perocché la tirannide de’ Tarquini, sebbene in tempi men guasti, non i frutti soltanto delle sue virtudi avea divorati, ma vietatane fin la memoria. Che, se il primo Bruto commetteva a’ posteri la vendetta della castitá di Lucrezia e della romana servitú, non pur l’opre di Numa, ma né il reverendo suo nome volerebbe piú per le bocche degli uomini: ogni alta cosa, ogni alto senso, ogni alto vestigio è sommerso dall’invida tirannia! Tu in tempo ancor sei. Lascia lo Stato non agli uomini, ma alle leggi; non alla generositá delle nazioni, ma alle stesse sue forze: diversamente, e alla ingratitudine degli uomini e al ludibrio della fortuna crederesti la stabilitá di questa tua impresa. Stará la immortalitá della tua fama anche quando nuovi delitti, nuovi imperii, nuove favelle terranno la terra, né piú orma forse apparirá di noi; ma la riconoscenza a’ tuoi benefici non vivrá se non quanto vivranno la Cisalpina e la Francia. Provvedi dunque e alla nostra prosperitá e alla tua verace gloria ad un tempo. Tali sieno le leggi, tale il tuo esempio, tale il nostro vigore, che niuno piú ardisca dominarci dopo di te. E chi sará mai successore degno di Bonaparte? E chi potrá, non che emularti, ma [p. 244 modifica] né seguirti pur da lontano? Immenso decorso di tempi la natura ed i casi frappongono pria di ornare la umana schiatta e di soccorrere alla sua sciagura, inviando, dopo tante rivoluzioni e sí spietate carnificine, un uomo che, pari a te, il furor della guerra ed i premi della conquista adonesti, istituendo con essi un possente e libero popolo. Anzi quanto piú splendidi saranno i tuoi fatti, tanto piú la invidia di chi avrá il tuo sublime potere, ma non l’animo tuo sublime, tenterá d’oscurarli, o in eccidio o in lagrime convertendo la piú generosa delle opere tue. Se dunque tu vivere nostro eternamente non puoi, sia suggello della nostra libertá il lasciarla inviolata tu stesso. E col popolo tutto io chiamo «nostra libertá» il non avere (tranne Bonaparte) niun magistrato che italiano non sia, niun capitano che non sia cittadino. Chiunque, e avesse pur fama d’incolpabile fra i mortali, ma che cittadino soggetto alle comuni leggi non fosse, ove per te di alcuna preponderanza, sotto nome di «condottiero di eserciti» o d’«ambasciadore», rivestito venisse, tutti gli ordini, tutte le armi, tutto lo Stato insomma, in brevissimi giorni sovvertirebbe. Imperciocché e a te fôra ardua cosa l’antivedere l’avarizia e la superbia e tutti gli altri morbi che il cuore corrodono di chi comanda, e antivedutili risanarli; e piú arduo ancora a chi per te governasse riuscirebbe il preservarsi dagli arbitri de’ suoi ministri, dalle brighe de’ nostri malvagi concittadini, e molto piú dalla rabbia delle parti: ché le parti lá regnano, dove uno, assoluto, universale non è il governo. Sapientemente Omero, poeta sovrano, ne’ cui libri assai morale e politica filosofia parmi riposta, simboleggiò la necessitá onde i pastori de’ popoli sono le piú volte ingannati, quando ci pinge Giove, re degli uomini e degli iddíi, il quale, dopo avere col fatale giuramento decretato niun de’ celesti poter soccorrere a’ troiani o agli achei, appena ei tòrse da Troia gli occhi tuttoveggenti, che Nettuno uscí dagli immensi suoi regni, e si fe’ di soppiatto e in onta a Giove aiutatore de’ greci. Or, se, te vivo, vacillante sarebbe la libertá, qual mai v’ha speranza che ferma ritorni quando i destini ti rapiranno alla terra? No, non v’è libertá, non sostanze, non vita, non anima in qualunque [p. 245 modifica] paese e con qualunque piú libera forma di governo, dove la nazionale indipendenza è in catene. Avrebbe maturata giammai Filippo macedone la totale servitú della Grecia ch’egli infaticabilmente macchinava, se i tebani noi creavano anfizione? Sedea con tal nome nell’assemblea generale de’ greci, dove, spiando tutte le faccende, e distogliendo i buoni provvedimenti, e tutti i consigli e gli animi preoccupando, come greco domò la greca libertá, la quale né con i tesori né con le falangi non avea potuto atterrire come nemico.

Odi frattanto che l’Italia e tutte le genti te chiamano altamente «padre de’ popoli», poiché non solo pacificasti l’Europa, ma, la repubblica nostra fondando, piú stabile hai fatta e piú illustre la pace. Non che l’Impero e la Inghilterra e quei ch’oltre Appennino tengon l’Italia e tutti i signori d’Europa non bramassero in proprio retaggio queste chiare contrade, di messi fecondissime e d’uomini; ma, perché il gius delle genti è fondato sul timore reciproco, niuno per sé potendo occuparle, né volendo che altri occupandole diventi piú forte, tutti quindi alla nostra indipendenza congiurano. Ed è tuo dono se la Francia, la Liguria, la Elvezia e la Olanda avranno in questo popolo sempre un naturale confederato, e se tutti i regni in noi vedono uno Stato, che quanto sará piú possente tanto piú potrá controbilanciare l’ambizione de’ loro nemici. E però, se la nostra libertá sará base di pace, qualunque diritto, e sia pur minimo e lontano (ove quello della riconoscenza ne traggi), manterrá il governo francese sopra di noi, oh di qual sangue i nepoti vedranno spumanti l’Adige e il Po, quando, dileguatosi con te il terror del tuo nome, risorgeranno le genti a contendersi i nostri campi e le nostre vesti, e l’esempio della Francia sará incitamento e pretesto di future orride guerre! Effetti dunque saranno di tante tue mirabili gesta le desolazioni, i cadaveri e le lagrime nostre? E la speranza della gloria italiana si risolverá nella certezza di nuovo ed irreparabile vituperio? Oh! quanta notte si spargerebbe su la tua fama, se un giorno il popolo cisalpino esclamasse: — Perché, invece di destarci ad una burrascosa e passeggiera libertá, non ci hai abbandonati nella antica nostra sonnolenta servitú? — [p. 246 modifica]

X

Ma a quali vani timori l’amor della patria mi tragge, se ora, mentre ch’io parlo, tu, o Grande, con la viva tua voce in faccia al cielo ed a tutti i viventi raffermi a’ nostri concittadini convocati in Lione la indipendenza della repubblica cisalpina? Anzi prima verace prova ne dai, preponendo al governo quei personaggi, i quali dalle necessitá dell’Italia e dalle proprie e dalle popolari disavventure hanno ormai conosciuto che deliberata fortezza d’animo, austera probitá e infaticabile braccio sole guide sono di chi la somma delle cose maneggia. E, quantunque alcuni tristi o imbecilli (dalla insolente fortuna lasciati impuniti e potenti, ed a’ quali io so che amare riescono le mie parole) con sembianza di virtú e di meriti antichi mal tuo grado le pubbliche dignitá invaderanno, parmi nondimeno che l’ingegno comporranno con le circostanze, suprema lor arte; e, dove modo non cangino, ben sovr’essi stará l’occhio e la mano di quegli ottimi cittadini, che per te liberi ed elettivi principi saran dello Stato. E liberi veracemente; perocché l’esperienza degli anni recenti ne ha dimostrato che colui, il quale è schiavo, se agli altri comanda, rade volte non è tiranno, e che mal si confanno i pensieri servili alla altezza di mente e al forte petto, necessari per quel mortale che agli altri tutti presiede. Felici di questo popolo i reggitori, perché senza le stragi cittadine ed il sangue, primi nutrimenti (purtroppo!) di tutte le repubbliche, possono scevri di delitti tentare la propria grandezza nella grandezza della loro patria! E felici assai piú, poiché, rimettendo tu in essi il potere ed i mezzi di prosperarla, continua lena ed incitamento avran dal tuo esempio, onde non giá con le adulazioni, ma con le alte opere loro tesseran le tue laudi!

E tue laudi non sono e la prosperitá, e l’abbondanza, e la pace, e i vigorosi costumi, e i paterni esempi, e l’amor figliale, e la riverenza alla vecchiaia, e la domestica caritá, e la santa amicizia, e la fede, e le virtú tutte, che fino ad oggi sdegnavano d’albergare ne’ petti nostri dal servaggio contaminati, e che ora [p. 247 modifica] con la libertá, che trae da te suo principio, vengono nostre consolatrici e compagne? Tue laudi non sono, non dirò le arti, che prodighe vedo di egregi monumenti e alla crudeltá di Nerone e alla sovrumana virtú di Traiano; ma le vere lettere, che a gloria dei padri de’ popoli e ad infamia de’ tiranni propagano splendidamente la veritá; e la storia, che con maschio e schietto dire italiano consegna a quei che verranno lo specchio de’ nostri vizi e la gratitudine a’ tuoi benefici; e questi miei liberi sensi, ch’io non avrei osato tacere, e perché a te favellava, e perché favellava in nome del popolo, il quale con universale voce me li dettò, e la di cui maestá avrei offeso tacendoli?

A che tesso io dunque encomi e sentenze? E chi de’ mortali può leggere negli arcani della tua mente, e predire gl’istituti e gli ardimenti con cui t’accingerai forse a rivestire di nuove opinioni il tuo secolo, e le genti di nuova vita, ed un’altra epoca aggiungere alle solenni rivoluzioni del globo? Remoti viaggi, diversi costumi, miracolose guerre, infiniti generi d’uomini, lezioni d’antiche storie ed esperimento delle presenti, supremo potere, veneranda fama, immota fortuna e, con altissimo intelletto, semi di universa sapienza ti hanno conceduto le sorti: e, se dalle cose degli antichi fondatori de’ popoli, che pari ebbero circostanze alle tue, e tutti le sembianze sdegnarono de’loro tempi; se dalla tua sublime anima, e dalla prontezza, dalla forza, dalla magnificenza di tutti i tuoi fatti; se dalla decrepitezza, in cui il presente mondo vacilla, denno argomentare i sapienti quale e quanto sarai; io odo vaticinare rinato per te l’universo; né il dí forse è lontano.

NOTA

Questa orazione fu compiuta prima della Costituzione italiana. Avrebbe d’uopo d’assai schiarimenti, ma né i tempi il concedono, né mi sembrano cosa da note, ma da annali. E forse vi ha tale che li sta scrivendo, non solo per mandare a’ posteri i documenti delle nostre sciagure, ma per mostrare al mondo che le abbiamo sostenute, non dissimulate.