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28 giugno 2018
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<dc:title> Ragionamenti intorno alla legge naturale e civile </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Carlo Antonio Pilati</dc:creator><dc:date>1766</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Pilati - Ragionamenti intorno la legge naturale e civile, 1766.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Ragionamenti_intorno_alla_legge_naturale_e_civile/Della_maniera_di_trattare_le_leggi_romane&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20180628084559</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Ragionamenti_intorno_alla_legge_naturale_e_civile/Della_maniera_di_trattare_le_leggi_romane&oldid=-20180628084559
Ragionamenti intorno alla legge naturale e civile - Della maniera di trattare le leggi romane Carlo Antonio PilatiPilati - Ragionamenti intorno la legge naturale e civile, 1766.djvu
Oi abbiamo in un altro nostro ragionamento mostrato di quanti, e quali difetti cariche sieno le Leggi Romane, e per questo abbiamo noi fatto vedere, essere assolutamente necessario, che quelle Leggi vengano levate via, ed abolite. Imperciocchè l'uso di esse troppi pregiudizi alla retta giustizia arreca, ed in troppi errori fa cadere la maggior parte di coloro, che lo studio della Giurisprudenza professano. Ma siccome l'abolizione delle Leggi Romane si può bensì desiderare, ma non già sperare si presto, così ho io giudicato essere convenevole cosa, di dover di quelle regole trattare, le quali io avviso essere le più utili per riuscire buono, e vero Giureconsulto, intanto che queste Leggi Romane sussistono. E poichè su di questa cosa ho fatto qualche particolare studio, e quel tanto, che col raziocinio ho scoperto, ho anche osservato verificarsi in pratica, così mi lusingo di non andare nello stabilire tali regole errato, e di non dovere ingannare altrui.
Un vero Giureconsulto deve necessariamente essere un buon teorico, ed un buon pratico insieine. La cognizione delle Leggi non serve a nulla in chi non sa dove, come, e quando possano essere applicate: e così vicendevolmente la pratica deve riuscire troppo incerta, cavillosa, e mal sicura, quando questa non vada accompagnata collo studio delle Leggi. Ma giacché i [p. 113modifica]
LE LEGGI ROMANE.
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ti vizj, onde sono infette le Leggi Romane,
impediscono, che non se ne possa ne' nostri fori
quell' uso fare, che si converrebbe, e che inoltre la
necessità ha messo in dovere gl’interpreti, ed i
Giureconsulti d’introdurre colle loro ora buone,
ed ora sciocche interpretazioni, estensioni, e
limitazioni un’altra parte di Giurisprudenza, che
troppo più vasta, e più ampia è di quella, che
nella sola, ed immediata cognizione delle Leggi
consiste; così ne seguita, che la maggiore, e più
sostanzial parte di un vero Giurista dallo studio
della pratica principalmente si formi.
Laonde possiamo con ogni sicurezza conchiudere,
che ben miseri legali sono coloro, i quali
al solo studio delle Leggi Romane si danno,
e propriamente Teorici s’appellano. Costoro in
due classi si possono acconciamente dividere;
l'una delle quali comprende i Teorici critici, ed
eruditi, e l’altra contiene quelli, che d'ogni erudizione,
di ogni letteratura, e di ogni altra cognizione
sforniti all’interpretazione delle Leggi
si danno, i quali brevemente Teorici barbari chiamare
si debbono.
I primi vanno in traccia de' testi scorretti, troncati,
giuntati, o per altra maniera depravati. Essi
cavano fuori le contrarietà delle Leggi, e trovano
i modi di conciliarle, oppur le dichiarano
irreconciliabili: Essi spargono il lume laddove in
qualche testo regnan le tenebre: Essi danno la
storia di quelle leggi, che senza tale cognizione
riuscirebbono oscure: Essi raccontano l’origine,
ed il progresso di certe leggi, rapportano la mente,
ed il fine del Legislatore nello stabilimento
di quelle, e fanno con ciò sapere fin dove si pos-
sano estendere, ed a quali casi applicare si debbano.
Chi non direbbe, che questi siano le colonne
della Giurisprudenza? Così sarebbe in fatti,
se tutto quello, che dicono, o se almeno buona
parte delle loro invenzioni fossero vere. Ma
la disgrazia si è, che il più delle fiate altro non
sono, che arzigogoli, ghiribizzi, fantasie, e mattezze
di uomini, che vogliono fare i dotti, i
critici, gli eruditi senza pensare al sodo, al massiccio,
e senza prendersi il minimo pensiero, se
quello che scrivono sia vero, o falso. Per questa
cagione altri poi della stessa professione, e colle
medesime pazzie in capo si trovano, i quali
per non parere da meno anch' essi, impugnano
tutto quello, che i primi hanno detto, e scritto.
Altri finalmente si mettono di mezzo per vedere,
chi de' due primi si abbia il torto, o il diritto;
e poi con nuovi capricci, e nuove fandonie
o una delle prime opinioni confermano, o le rigettano
tutte e due, e con qualche altra invenzione
della loro fantasia vengono in campo. Sicché
alla fin de’ conti si vede, che la critica, e
l'erudizione di costoro lungi dall' ajutare ha
impestata, e guastata la scienza legale.
Che se i Teorici eruditi, e critici fanno tanto
male alla nostra disciplina, cosa non faranno poi
i Teorici barbari, quella gente goffa, inetta, sciocca,
stupida come le pietre, i quali per parere uomini
si vanno ogni dì logorando il cervello con
trovar fuori nuove sottigliezze, distinzioni mai
più udite, interpretazioni strane, ed opinioni stravolte;
e le sostentano poi con un chiasso, con
un empito, con parolaccie, e con una maniera
di spiegarsi così barbara, zotica, orrida, che pa-
jono anzi Cerberi tartarei, che uomini di questo
mondo? Quando io era giovane, ed allo studio
delle Leggi applicava, ho avuto fatal disavventura
di urtare in bocca a questi cani, e mi trovava
di avere attorno principalmente il Clarissimus, etPerdoctissimus Dnus Franz, il Clarmus Dnus Someting,
il Clarmus Dnus Schambogen, il Clarmus,et Rmus P. Schmier, il Clarmus, et plurimumRdus P. Desing, ed altri così fatti clarissimi; e
mutato poi paese fui dagli stolti maestri gettato
in preda all' Aurora Legalis dello inettissimo
Tebaldo e di altri siffatti: e mi rimasi fra le unghie
di questi animali irragionevoli, finché la sorte
propizia me ne liberò col farmi capitare fra
mani libri di gusto migliore, e di discernimento
più sodo.
Per quello adunque, che riguarda la Teoria,
ossia la cognizione delle Leggi, sono io di avviso,
che l'unica cura di chi vuol essere vero Legale,
abbia da consister nel procurarsi prima di tutto
una semplice cognizione di tutte le Leggi almeno
in generale, e poi nell' estrarre, e raccorre
quelle, che possono ancora a' nostri giorni fra'
nostri costumi, e nostri giudizj essere di qualche
uso. Fatta che si abbia quella scelta conviene internarsi
nell'esame di tali Leggi, indagarne lo
spirito, fissarne i limiti, e conoscerne l'uso per
riguardo all'applicazione. E perchè tutto questo
si possa con giudizio fare, ricercasi, che chi si
mette a tale studio, abbia della critica, sappia la
storia, e le antichità Romane, conosca la proprietà
della lingua latina, ed abbia in mente
l'analogia, e la corrispondenza di tutta questa parte
di Giurisprudenza, che dalle Leggi Romane
deriva. Quindi inutile affatto si è per un Giurista
lo studio più minuto di tutte le Leggi,
eziandio di quelle, che ne’ nostri tempi non si
possono a'casi nostri applicare. Ed è gettato almeno
rispetto ad un legale tutto il tempo, che
nel fare la critica, e nel tirar fuori l’erudizione,
e la storia di somiglianti leggi si spende. E siccome
le Leggi di tal qualità sono in numero indicibile,
così non è possibile, che un uomo, sia
pur egli di sommo ingegno, e di singolare memoria
dotato, possa impiegarsi allo studio di siffatte
leggi, ed insieme avere la bisognevole notizia
di tutte le altre più usuali. Laonde un vero
Giureconsulto, cui piaccia il sodo, il massiccio,
ed il sostanziale, deve contentarsi di dare
una semplice scorsa alle Leggi troppo oscure, troppo
controverse, e troppo aliene da’ nostri costumi:
ed all’incontro egli dee procacciarsi una buona,
giusta, ed accurata notizia di que’ testi, che sono
ancora in vigore, e che possono fare al proposito
de’ negozi, e delle controversie, che accadono
a’ nostri giorni.
Un tal Giurista si va nella seguente maniera
formando. Egli prima di tutto si dà allo studio
delle Istituzioni di Giustiniano, che per se medesime
sono assai brevi, facili, e chiare. Il testo
adunque di queste si è la prima cosa, cui debba
prendere per la mano un giovane studioso. Nello
stesso tempo leggerà egli con attenzione un
qualche autore de’ più celebri per saviezza, dottrina,
ed erudizione, che abbiano spiegato, cementato,
e sotto giusto metodo, ed ordine ridotto
quel tanto, che ne’ quattro libri delle mentovate
Istituzioni si contiene. A questo fine me-
glio per ora, che ogni altro libro, potranno servire
gli Elementi del Giure Civile secondo l'ordinedelle Istituzioni dell' Eineccio, ed il comento
sopra i quattro Libri delie Istituzioni di Arnoldo
Vinnio. La sola opera dell' Eineccio non basta,
perchè questo autore è troppo succinto, e dice
troppo in troppo poche parole. Sicché vuolsi adoperare
ancora il suaccennato comento di Vinnio,
che è diffuso, chiaro, di buoni principi, e di
buona dottrina ripieno. Altri autori non vorrei
io, che nissun giovane prendesse per le mani: poiché
in questi due tutto quello, che di bello e
buono da altri buoni autori fu detto, già si ritrova.
Ed oltre che la copia de' libri reca confusione
nel capo di chiunque non sia molto avanti
nella disciplina legale, egli avviene il più delle
volte, che i giovani piuttosto in pessimi, che
non dirò in buoni, ma solamente in mediocri
scrittori s'abbattano. E se questo succede, si guastano,
e restan guastati per sempre, poiché rari
sono coloro, che de' loro errori s’avveggano, ed
abbiano di pentirsene, e di liberarsene il coraggio.
Siccome poi lo studio delle Istituzioni è per
se facile, e breve, purché con buon ordine, e su
gli addittati autori venga fatto, così chi non è
di troppo lento, e corto ingegno può con quello
accoppiare anche lo studio delle Antichità Romane,
delle quali procurerà di acquistarsi tanta cognizione,
quanta sia necessaria per intendere le
Leggi Romane, le Costituzioni de’ vecchi Imperadori,
e le interpretazioni, sentenze, e dottrine
de' vecchi Giureconsulti Romani, dalle opere de'
quali noi sappiamo, che furon per ordine di Giustiniano
cavate, e formate la più parte delle Leg-
gi, che nel Corpus Juris del sudetto Imperadore
si ritrovano. Io non dico già, che una esatta,
profonda, ed estesa cognizione delle antichità, e
e della Storia Romana sia ad un Giureconsulto
necessaria; ma che soltanto quella parte di esse
antichità sapere da ognuno si debba, senza la
quale impossibile cosa è il poter giugner ad intendere
le leggi, di conoscere lo spirito, e di penetrare
fino al midollo della Giurisprudenza Romana.
Quindi quel tempo, e neppur tutto quel
tempo, che i cattivi maestri impiegano a spiegare,
e gl’infelici scolari adoperano ad imparare
inezie, puerilità, e mille cose barbare, potrebbe
sì dagli uni, come dagli altri venire collocato
nello studio della storia, e delle antichità. Girolamo
Aleandro racconta di se stesso nella prefazione
alle Istituzioni di Cajo, che Libellus InstitutionumJustiniani unicuique per se facilis, qui inbonis auctoribus evolendis aliquot dies consumserit,salebrosus mirum in modum videbatur, ac nullamaliam ob caussam, quam propter multiloqua indoctorumdoctorum commentaria; (neque enim, quæoptima essent, adhuc quisquam patefecerat:) quodquum ego tunc temporis non intelligerem, putabamme rudi nimis ingenio natum, ac ita paullatim studiorummeorum spe destituebar. Demum jam fere elapsohoc in errore triennio, nebulam mihi bonus geniusdissolvit, ut statim perspicerem, eum RomanamJuris prudentiam posse tenere, qui Romanosmores, et instituta teneret. Quamobrem pauculosmenses in veterum auctorum, quos potui, ac novorumquoque, qui isthæc docerent, lectione impendi,et id quidem raptim, et currente oculo, ne que.madmodum olim Phrygiluo, postea mihi objiceretur,
ut sero saperem. Quello che sul principio della
sua carriera legale è avvenuto ad Aleandro, accade
oggidì alla maggior parte degli studenti ma
a rarissimi all' incontro avviene di avvedersi delle
tenebre, nelle quali camminano, e di potersene,
o volersene mediante la luce, che dalle antichità
Romane viene, liberare. Per questo ogni cautela
vuolsi mettere in opera, per non traviare subito
sul principio. E però con lo studio delle Istituzioni,
o almeno presto dopo, che si avrà di
quelle acquistata una sufficiente idea, devesi anche
della storia, e delle antichità procacciarsi una
bastevole cognizione. E questa potrassi da uno
scolare acquistare colla lettura del Syntagma delle
Antichità Romane dell' Eineccio, dell’ Istoria
del Giure Civile del medesimo, e di diverse Dissertazioni,
che tra' suoi opuscoli su di questa materia
si trovano. Alle opere dell’ Eineccio potrassi
aggiugnere, finché qualche cosa di meglio venga
alla luce, il libro del Sig. Selcovv sulle antichità
Romane secondo l'ordine delle Istituzioni.
Preparato che sia di questa maniera l’animo del
giovane studente, e bene istrutto, ed addottrinato
ch'egli sia nello studio delle Riduzioni, della
storia, e delle antichità, egli potrà, e deve passare
a leggere i molti, e diffusi libri dei Digesti,
lo studio de’ quali non gli riuscirà ormai più nè
troppo difficile, nè troppo vasto. Solo deve egli
avere riguardo di separare l'utile dal disutile, il
certo dall’incerto, e l'oscuro dal chiaro. Le prime
sue guide han da essere il Duareno, ed il
Donello. E come colla lettura di questi si farà
fatto ben forte; egli passerà a dar delle occhiate
ai libri di Cujacio, di Ottomano, dei Fa-
bri, di Bynkershoeckio, e di Noodt. Da
questi egli imparerà la critica legale, che insegna
a conoscere il vero via dal falso, ed a distinguere
il corretto dal guasto. Dagli stessi apprenderà
egli ancora la vera maniera d’interpretare
le leggi, ossia tutta l’arte Hermeneutica: i
medesimi gli faranno venire la voglia di dare anche
una scorsa alle opere di Giacomo Gothofredo,
di Brissonio, di Schultingio, di Balduino,
Charonda, Contio, Giphanio, Merillio, Eraldo,
Brummero, Averanio, e di tanti altri Giureconsulti,
le opere de’ quali, quando vengano con giudizio,
con ordine, e con moderazione lette, un
gran giovamento, ed una gran cognizione arrecano
ad ogni legale. Ma dissi, che vogliono essere
con moderazione lette, perchè non si ha poi da
perdere tutto il tempo dietro alle opere di costoro,
nè tutto lo studio deve essere solamente teorico,
poiché le teoria senza la pratica è una mera
erudizione, che niente giova, e che non rende
altrui degno del nome di Giureconsulto. E
però quando da questi autori si abbia cavata quella
cognizione, che sia bastevole per poter distinguere
le leggi, di cui ci possiamo servire, da quelle,
che per qualunque sia cagione non si possono
adoperare; e che inoltre si sia acquistata la vera
maniera d’interpretar le leggi usuali, e che finalmente
si sia arrivato a conoscere lo spirito
delle Leggi Romane, allora vuolsi far punto, e
passare allo studio pratico con aver però cura di
non perdere mai le cognizioni teoriche.
L’altra classe de’ Giuristi viene composta da'
puri Pratici, i quali allo studio della Teorica
Giurisprudenza o troppo poco, o certamente non
in quella guisa, che conviene, si danno. Or quelli
ordinariamente sono gli animali più cattivi, e
perniciosi, che vengano a rovinare il gran campo
della Giurisprudenza. E perchè più agevolmente
comprendasi, come ciò avvenga, è pregio
dell’opera il vedere, come un pratico Giurisperito
comunemente si faccia. Ma quì si conviene
di avvertire, che io non intendo già di rappresentare
un pratico, che insieme colla pratica una
buona teoria ami d' accoppiare, la qual sorta di
Legali è rarissima di modo, che appena se ne
trovano: la mia intenzione si è adunque solamente
di descrivere uno di questi pratici, che
alla giornata si fanno, e di cui è pieno il mondo.
Un tale pertanto si va facendo per questo
modo. Costui viene dalle scuole basse, dove ha
imparato un latino gotico, longobardico, o che
certamente è tutto altro, che latino. Lo stile suo,
se pur sa mettere i suoi pensieri in carta, ha del
goffo, dell’inetto, dell’incoerente, e vi si trova
molto di tutto quello, che ne’ differenti stili vi
può essere di male. Il gusto suo è depravato, o
dirò meglio, non gli è mai stato verun buon
gusto ispirato. Se Iddio gli ha datto dello spirito,
e del talento, i suoi maestri lo hanno reso
disputatore insolente, amante di sottigliezze, di
cavilli, d’imbrogli, rintracciatore di tutte le cose
inutili, sprezzatore di tutto il bello, e buono: se
poi non ha talento, oltre l'essere barbaro, egli è
anche uno stupido, un cavolo, un’oca, che di niente
si cura che non viene commosso nè dall’immagine
del buono, nè da quella del cattivo, ed a cui
negli studj tutto è uguale, tutto indifferente, tutto
l’istesso, purchè abbia impiegato quel deter-
mi-
[p. 122modifica]minato tempo o ad impararlo da qualsissia maestro, ad a succhiarlo da qualunque libro, impiegando in ciò non tanto il capo a riflettere quanto il derettano a stare sedendo. L’erudizione sua è un nulla, o se pure è qualche cosa, ella è una cognizione di certe puerilità, inezie, sporcherie, che nelle scuole comunemente s’imparano. Di Storia o non ne sa, o se per sua disavventura egli ne ha qualche cognizione, sono per lo più falsità, fandonie, e cose di nissuna importanza, che senza ordine, senza connessione, e coerenza alcuna, senza verun principio di critica, non già per istruirlo, ma per ingannarlo, o per fargli passare il tempo, gli furono dagli stolti, o furbi maestri suoi insegnate. Con questi bei preparamenti s’accigne il giovane allo studio della Giurisprudenza pratica: e prende però per mano qualche Istituzionista, il di cui nome fra’ pratici sia celebrato, e famoso. Questi è comunemente lo Schneidevvino, ossia l'Oinotomo, che senza dubbio è finora il men cattivo autore di quanti pratici Istituzionisti abbiamo. Ma questo Scrittore non ha però alcun criterio, e non allega per lo più alcuna ragione de’ suoi detti, contentandosi al solito de’ pratici di lasciarsi guidare dalle autorità de’ Dottori, o seppure per rarità di qualche ragione fa uso, essa è per lo più falsa, o almeno ben rare volte quella, che principale, e sostanziale chiamare si possa. Inoltre non osserva nissun ordine e nissun metodo, e mette spesse fiate delle proposizioni, e delle dottrine, laddove non vi hanno per nissuna maniera da stare. Finalmente gli manca tanto la critica, che la storia, senza la cognizione delle quali cose impossibile affatto si è, [p. 123modifica]che si possa giugnere all’intelligenza delle Leggi
Romane. Ma peggio ancora va la bisogna,
se un tale s’abbatte nel Tebaldo, nel Verde, o
in altre simili bestie, che minor giudizio, minor
cognizione legale, meno ordine, e meno
metodo dello Schneidevvino mostrano d’avere
avuto. Fatto che il giovane si abbia questo studio
per uno, o due anni, egli comincia ad imperare
la pratica sotto la direzione d’un qualche
Avvocato, che de’ più valenti venga riputato.
Quivi gli vengono dati de’ processi da leggere, acciocchè
per tempo impari le cabale, le furberie,
le stiracchiature, ed i sutterfugj de’ procuratori,
e de causidici, e le formole, che nel fabbricare
qualsissia atto giudiziale si costuma di adoperare.
Nello stesso tempo vengono allo studente proposte
le questioni, che da processi risultano, o che
senza processo vengono all’Avvocato pel suo sentimento
presentate. L’impiego che rispetto a tali
quistioni vien dato al candidato, si è di cercare
fuori gli Autori, di esaminare gl’indici, i
repertorj, gli alfabeti per vedere, se a qualche
parola si trovi la quistione, di cui si tratta.
L’Avvocato Maestro gli dice: cercate in questa parola,o in quella: vedete quello autore, e quello, equell’altro ancora: non vi perdete di animo, che giàtroverete qualcosa. Di fatto il praticante trova
alla fine non solo quello, ch’ei vuole, ma molto
più ancora. E quasi sempre addiviene, che fra
i molti Autori, che ha veduti parte sono di uno,
e parte di un altro tutto opposto sentimento.
Allora il suo Maestro gli dà ordine, che noti
quelli, i quali possono servire a prò di quel cliente,
in di cui favore ha determinato di scrivere. [p. 124modifica]Quando si sono radunate le autorità in buon
numero, tanto basta. Le Ragioni per lo più non
si cercano, nè quelle, che fanno per istabilire il
proprio sentimento, nè quelle, che per la parte
contraria potessero servire.
Sicchè il Sig. Consulente passa a distendere il suo
consulto, dove spiega il suo parere in favore di
chi lo paga, e lo va confermando con una frotta
di autorità, che con somma diligenza si sono raccolte.
Nello stesso tempo vi s’infilzano delle
chiacchiere, delle inezie, e delle puerilità, che il
Sig. Consulente spaccia per sode ragioni, e per
belle erudizioni. Ed ecco fatto il bellissimo,
dottissimo, ed eruditissimo consulto, che il praticante
poi legge, rilegge per imprimerlo nella
mente, e ne trae una copia tanto per usarsi alla
cotanto buona, ed elegante maniera di scrivere,
e distendere consulti, quanto per potersene
in somiglianti casi a suo tempo servire. Lo
stile del consulto sia Italiano, sia Latino, ha da
essere barbaro, orrido, spaventevole, senza ortografia,
senza ordine, senza connessione; ma prolisso, gonfio, pieno zeppo di
espressioni pratico-legali. E se il Consulente arriva a tanto, egli
avrà anche fatto una pulita, e ben elegante scrittura:
e felice quello studente, cui riesca di saper
imitare un così ameno, e leggiadro stile.
In tutto questo tempo di pratica lo studioso non
ha da vedere il Corpus Juris, se non che per
mero accidente l’una o l’altra fiata soltanto. Egli
non ha da studiare mai tanto di latino, che
possa giugnere ad intendere un qualche testo delle
Leggi. Egli non ha mai da guardare un Libro
metodico, sistematico, e pieno di buoni prin[p. 125modifica]cipj. Egli non deve mai guastarsi il cervello ad
indagare le ragioni di una opinione: ma al più
egli si ha da contentare di numerare le autorità.
Egli non deve mai dare un’occhiata ad un libro
critico, di Storia, o delle antichità Romane:
ciò farebbe un buttare il tempo: e vuolsi in vece
di queste inutili antichità fare una raccolta di
belle erudizioni pratico-legali, come farebbe a
dire: Delicta carnis omnes tangunt, præcipue veroIctos: crede mihi. Juristæ sunt mali Christæ: e
tali frascherie, che recano nausea, e fanno male
a chiunque ha fior d’ingegno, e di giudizio.
Ecco pertanto per tal maniera fatto il gran
Giureconsulto pratico, che in avvenire ha da sedere
a scranna, e fare consulti, e sentenze, che spaventino.
Ma costui è una bestia, e non un uomo
ragionevole: egli è un furfantaccio, un ladro,
un briccone, che alla gente va vendendo lucciuole
per lanterne, e che professa d’insegnare, dire,
e sostenere contro buon pagamento il giusto,
mentre egli nè del giusto, nè del vero ha
la menoma idea, poichè tutto il suo cervello è
in disordine, tutto ii capo è rovinato, e in tutta
l’anima sua non si trova una giusta immagine
della giustizia, dell’equità, e della verità. Io
non vorrei, che alcuno credesse, che la fantasia
mi si sia quì contro tutti li pratici troppo
riscaldata: poichè non intendo di biasimarli tutti, ben
sapendo, che in ogni luogo si trovano di quelli,
che se non con altro, almen col raziocinio naturale
arrivano a distinguere per lo più il vero
via dal falso, i quali per poco li rispetterei, e
stimerei più, che un altro vero Giureconsulto,
che abbia fatto grande studio delle Leggi Roma[p. 126modifica]ne, siccome quelli, i quali senza tante ambagi,
e senza tante seccaggini, che nello studio delle
Leggi s’incontrano, fanno per naturale loro capacità
conoscere il diritto via dal rovescio: ma il
mio discorso riguarda solamente coloro, che non
hanno dalla natura sortito un sì raro talento, e
con quella loro così infame Giurisprudenza fanno
professione d’insegnare e fare a chicchessia
giustizia. Per la qual cosa meritano di essere
grandemente biasimati, e caricati di vituperj,
perchè la gente impari a conoscerli, ed a fuggirli,
ed i Principi si risolvano una volta ad estirparli,
siccome quelli, che al pubblico indicibili
mali arrecano. E non sarà forse un gran male,
che uomini, i quali non hanno fatto nissun ordinato
studio della Giurisprudenza, che nissun
sistgema, e nissun certo principio hanno in capo,
e la di cui cognizione tutta è cavata da Indici,
da Repertori, e da Zibaldoni, e però ammassata
a caso senza metodo, senza regola, e senza ordine,
che tutta è incerta, vaga, incoerente, contraria,
come contrarj, ed incoerenti tra loro sono
i differenti Repertori, donde fu pianpano raccolta,
che uomini, dico, di questa fatta si pongano
a consultare, o a decidere su le cause altrui?
Con che principio passerà un tale a fare la
decisione di una causa, se principio veruno in capo
non ha? Che sistema osserverà costui nello
sciogliere le questioni, che gli vengono presentate,
e nel far vedere la giustizia da una banda, e
dall’altra l’ingiustizia, se intorno al diritto, ed
al torto non si è fatto sistema veruno? In tal
caso la bisogna deve necessariamente andare, come
in effetto e tutto giorno si vede, cioè che [p. 127modifica]per ogni quistione, e per ogni decisone convenga
andare cercando degli Autori, che dicano
qualche cosa, che faccia a proposito. E però se
il Sig. Consulente, o il Sig. Giudice è un qualche
cerettano, od impostore, che vende la Giustizia
a chi più paga, egli andrà in traccia di
Autori, che sostengano quello, ch’egli vorrebbe,
de’quali sempre un buon numero potrà trovare,
perchè siccome questi in altra maniera non
sono divenuti Dottori, ch’egli medesimo; così
con quella bella Giurisprudenza, che aveano in
capo, sono poi passati a scrivere quelle Opere
Legali, che piene sono di falsità, di frascherie,
e di inezie, le quali poi col tempo vengono in
acconcio a qualche altro galantuomo, che o nel
decidere, o nel confutare voglia farne uso. Ed
ecco pertanto coll’aiuto di somiglianti Autori
fatto il consulto, o la sentenza a modo di chi
con contanti, e con altri regali la seppe comperare.
Che se all’incontro il Consulente, od il Giudice
è di buona coscienza, e disposto a non far
torto a nissuno, gli Autori, che per mancanza
di alcun sistema, e principio Legale egli deve
andar a vedere, gli faranno ben spesso dire delli
spropositi, di cui sono pieni zeppi, ed il condurrano
a fare qualche ingiusta decisione, perchè
si sarà per avventura abbattuto in quelli,
che in vece del diritto, e del giusto, si
saranno o per impegno o per ignoranza, o per
bizzaria determinati ad insegnare, e sostenere il
torto, e l’ingiusto. Ora chi negherà, che questo non
sia un indicibil male per ogni Repubblica,
alla quale troppo importa, che ad ogni privato
membro di essa venga bene amministrata la [p. 128modifica]
128
DELLA MANIERA DI TRATTARE
giustizia, e che le di lui sostanze da furbi, ed
ignoranti causidici non vengano rovinate? Chi
negherà, che tali Legisti meritino di essere scherniti,
vilipesi, dileggiati, e con mille vituperi abbominati,
siccome coloro, che danno il guasto
ai patrimoni de’ cittadini, e vengono per conseguenza
a pregiudicare grandemente alle Repubbliche
intiere? Eppure questi sono comunemente
i Legali, che dominano ne’ fori, e che sono
più singolarmente rispettati: il che ha da essere
un perpetuo obbrobrio, e vitupero del nostro Secolo,
nel quale tutte le altre scienze, ed arti,
che pel pubblico bene sono meno necessarie,
al sommo ripulite, coltivate, e portate vengono;
laddove la Giurisprudenza vien lasciata in abbandono
a bestie immonde, che ogni dì più imbrattando,
e lordando la vanno; e quei che potrebbono,
non si curano di cavarla dal fango, in cui
immersa trovasi, e di confidarla poi solamente
a poche persone, che siano comunemente tenute
per le più savie, più oneste, e più intendenti,
con proibire ad ogni altro, che non ardisca
di approssimarvisi, e di toccarla.
Ma io voglio quì por fine ai miei lamenti, i
quali già so, che inutili sono: e siccome ho accennato
di sopra le regole, per mezzo delle quali
un buon teorico si fa, così passerò ora a stabilire
quella maniera, per la quale altri possa divenire
anche buon pratico. La prima regola però
si è, che prima di passare alla pratica, si abbia
un buon fondo di teoria: altramente sarà impossibile
affatto, che un buon pratico si riesca. E
se questo avvertimento non si osserva, è già
traviato il cammino, ed in vece di venir mai
sulla strada della Giurisprudenza, resterassi
sempre nella incominciata via dell’errore o per
ignoranza, o per ostinazione, poichè quel tale non
si accorgerà di aver fallato, o venendone avvertito
avrà rossore di confessarlo, di pentirsene, e
di dover tornare addietro. E però ben disse il
Berni:
Si suol cotidianamente usare
Un sì fatto proverbio fra la gente,
Che ci bisogna molto ben guardare
Dal primo errore, ed inconveniente:
E sempremai con l'arco teso stare,
Sempremai esser cauto, e prudente,
Diligente, svegliato, accorto, attento,
Che un disordin che nasca, ne fa cento.
Anzi pur fagli la nostra follia,
Fassi, come intervien spesso, un errore,
E chi lo fa, per non parer, che sia
Stato egli, il vuol coprir con un maggiore:
Poi fanne un altro, e va di lungo via
In infinito, e diventa furore,
Bestialità; superbia, ostinazione,
Nè si pon più corregger le persone.
Che poichè la disgrazia, o l’imprudenzia
Nostra ci ha fatto far qualche peccato,
Se volessimo farne penitenzia,
E la superbia non ci fosse a lato,
E l'ira, e la perversa coscienzia,
A dir ch'è bene a tenerlo celato,
E mettessimo al punto le brigate,
Che men mal si faria, vo che crediate.
Quando adunque un buon fondo di teoria abbiasi
già acquistato, devesi incominciare lo stu-
dio pratico dal leggere i processi, che nel paese
sì fanno per osservare la maniera , che si tiene
nel fabbricarli, e per imparare pian piano a
conoscere le malizie, le frodi, le stiracchiature, i
sutterfugj, le cabale, e le trappole, che da' procuratori
sì degli attori, come de’ rei, tanto per
vincere la causa, quanto per iscansarne, o sospenderne
la perdita, soglionsi mettere in opera.
Egli è vero, che secondo che la giustizia di una
Provincia è più, o meno regolata , così ancora
le furberie , e gl’ incantesimi de' Giudici hanno
più, o meno luogo: ma per quanto savj però
siano i regolamenti a questo uopo fatti, contuttociò
la malizia de’ Legali non potrà giammai
venire impedita, ed esclusa del tutto. Sicchè le
cabale avranno ne' processi sempre la sua parte:
e queste voglionsi da un pratico sapere per tempo,
non già per metterle in pratica esso medesimo,
ma per poterle scansare, se sarà procuratore,
od avvocato, e per impedirle, o troncarle
del tutto, se alla carica di Giudice pervenisse.
Un Giudice ha molto arbitrio in queste cose,
perchè le Leggi non ne fanno menzione, essendo
impossibile, che un Legislatore pensi a tutte
le arti, e frodi, che la malizia umana sa inventare.
Ed un Giudice, che sia savio, onesto,
ed amante della vera, e non di quella da’ barbari
legali mascherata Giustizia, taglia le gambe,
per quanto gli sia possibile, a tutte le cabale forensi,
benchè quelle fossero dalla corrente degli
Autori pratici insegnate, e sostenute. L'uomo
ragionevole non si lascia guidare, ma anzi più
particolarmente si guarda da quelli Autori che
al solito de’ Legali scrivono tuttociò, che hanno
imparato da’ vecchi, o che la loro sciocca fantasia
lor ha suggerito, senza altramenti pensare,
se sia buona, o cattiva cosa. Per rendere
tutto questo più chiaro vogliamo noi fra molte
migliaja, che potremmo, un solo esempio,
affin d’ essere più brevi, trascerre. Accade spesse
fiate, che altri o per malizia, o per obblivione
pretenda da un altro, che questi gli paghi
il debito, che una volta teneva, ma che
poi ha col pagamento estinto. Venendo la
controversia portata in giudizio, l'attore suol
fare posizioni, nelle quali pone tra le altre cose,
che il reo ha ricevuto da lui per cagione
di esempio mille fiorini. Se il reo a questa
posizione risponde, che gli ha bensì ricevuti, ma
che gli ha anche restituiti: esso è perduto,
quando non abbia altre prove, che persuader
possano il Giudice della restituzione seguita. La
ragione della soccombenza del reo in mancanza
di altre prove si è, che la risposta alla
posizione può secondo il principio de’ Legali essere
divisa, e quella venire dall’ attore accettata
rispetto a quello che contiene di favorevole, ed
all’ incontro rigettata riguardo all’ opposto, e
contrario: così in questo caso l'attore può
accettare la confessione del reo, in quanto dice di
aver ricevuto i mille fiorini, e può rigettare
l’altro membro della risposta, dove dice, che
gli ha però anche restituiti; all’ incontro se nello
stesso caso sopra la medesima posizione l' accorto,
od avvertito reo risponde: Io non ho ricevutii mille fiorini, se non gli ho anche restitui-
ti: allora l'attore deve soccombere, quando per
altro modo non provi la sua azione, benchè in
effetto non gliene fosse stata fatta la restituzione.
La differenza di questa consiste nell’ avere
il reo cominciato la sua risposta con una negativa,
la quale fa, che la risposta è tutta negativa,
e però o tutta convenga approvarla, o rifiutarla
tutta. Questa è una dottrina, che viene
comunemente insegnata da tutti i Dottori pratici,
e che ne' fori senza contrasto è ricevuta.
Ma ella è però una dottrina falsa, cabalistica,
e che tende ad ingannare gli uomini ingenui, e
sinceri, e protegge all’ incontro la malizia de'
cattivi. Quando un briccone risponde: io non ho
ricevuto i mille fiorini, se non ne ho anche fatta
la restituzione, l'attore è in necessità di pro-
vare di avere al reo dati i mille fiorini,
quantunque vero non sia, che poi gli siano stati
restituiti. Se un povero, semplice, e sincero
galantuomo rispondendo confessa, che gli avea
ricevuti, ma che poi gli ha resi al creditore,
l'attore è libero da ogni altra prova, e quando
il rispondente non possa provare la restituzione,
egli deve per cagione della sua sincera risposta
pagare di bel nuovo i mille fiorini da lui già
prima pagati. Or non è egli questo un volere
introdurre, e proteggere la furfanteria, e
non è egli un voler pretendere, che tutti gli
uomini, che vengono in giudizio, abbiano ad
essere furbi, birbanti, impostori, e degni della
galera? Ma un Giudice di mente, onesto, e
prudente lascia, che i Signori Legisti gracchino
a posta loro, e che scrivano quello che vo-
gliono. Intanto però egli amministra la giustizia
secondo che richieggono le circostanze del
caso, secondo le conghietture, che altramenti
appariscono dal processo, e secondo le buone e
ree qualità sì dell'attore, come del reo. In
somma egli si regola secondo la Giurisprudenza,
e non già secondo l’impertinenza degli
Avvocati, e la stoltezza degli Scrittori.
Questo è un solo esempio della cabala forense;
ma mille altri ne potremmo addurre, se questo
non fosse dal nostro presente intendimento
troppo alieno; poichè noi non abbiamo
ora in mira di mettere in veduta le trappole
del foro; ma vogliamo solamente avvertire
il pratico Giurista, ch’ egli le deve dalla
lettura de’ processi rilevare tutte, per poi saperle
sfuggire, ed impedire.
Se ne’ processi civili le parti, che hanno
pratica nel litigare, e gli Avvocati disonesti
mettono in opera ogni sorta di cabale, i processi
criminali porgono la medesima occasione
a’ Giudici stessi: e benchè l’uso delle trappole
riesca molto più abbominevole nel criminale,
sì per cagione, che quì si tratta non sol
della roba, ma dell'onore, e della vita dell’uomo,
come perchè molto maggior sincerità,
rettitudine, ed onestà in un Giudice, che in
un Avvocato si richiede; niente però di meno
parecchj Giudici crederebbero di parere inesperti
giuristi, se per far cascare i poveri rei
non facessero uso di tutte le arti, che colla
loro iniqua malizia sanno inventare. Io nulla
dirò quì degli interrogatori suggestivi, che fan-
no vocalmente al reo, e che dopo averlo per
sì fatta maniera ingannato, per tutto altro
modo, e con tutt’altre parole dettano
gl’interrogatorj in processo: nulla dirò neppure
delle promesse, che mettono in uso per cavare
dal reo quello, che vogliono, le quali poi o
per essere state troppo generali, o troppo
equivoche si possono mantenere, come si vuole, ed
intanto il reo rimane deluso: nulla dirò nemmeno
di tante altre arti inique, e disoneste,
che da somiglianti Giudici alla giornata si
praticano. Ma quello, di cui presentemente sopra
tutto di parlare mi preme, si è la tortura,
la più abbominevol cosa, che si abbia
inventata la rabbia umana, ed il maggior
vitupero del nostro secolo. Imperciocchè io non
mi posso figurare a cosa possa giovare questa
crudeltà, che da’ rabbiosi, ed inumani Giudici
tutto il giorno si pratica. La tortura da
costoro si adopera o per ricavare da’ testimonj
la verità, o per purgare la infamia di un
testimonio, che sia stato complice del delitto,
o per far confessare il reo medesimo. Ma in
tutti questi casi l’uso della tortura a nulla
giova, dunque l’adoperarla è impresa da fiero,
spietato, e crudele uomo. S'ella servisse a
poter con sicurezza cavar la verità, vorrei
tacermene, benchè questa sarebbe una maniera
di venire in cognizione del vero molto barbara
ed inumana: ma egli è impossibile il sofferire
con indifferenza l'uso della tortura,
quando si fa, che essa ad altro non giova,
che a fare del male. Infiniti uomini sono co-
sì debili, e così poco atti a sopportare il
dolor della tortura, che confessano piuttosto
come testimoni quello, che non sanno, e
come rei quello, che non si sono mai sognati
di fare, che di sofferire lunga pezza i
tormenti, ed amano meglio tirarsi addosso, col
confessare un delitto da essi non mai commesso,
un gastigo ancor lontano, che patire
il dolor presente. Altri all’ incontro sono così
forti, e robusti, così usati al dolore, che
resistono ad ogni tormento, e trovano per questa
via il modo di scampare ogni qualunque
pena, quantunque avessero commesso il più
enorme delitto. Questi tali non solamente vanno
via impuniti per li loro proprj delitti; ma
sono anche capaci di accusare falsamente un
innocente, e di sostenere in prova del loro
detto ogni sorta di tortura. Eliano racconta
nel libro settimo capo decimottavo della sua
Storia, che gli Egiziani erano capaci, ed
assueffatti a sostenere ogni tormento, ed a
sofferire ogni dolore. Ciò viene confermato da
Ammiano Marcellino al capo 22. E la stessa
bravura veniva altre volte attribuita anche
alla Nazione Spagnuola, come fa vedere
Ruperto in Valerium Maxim. Lib. 3. cap. 3. Lo
Scoliaste di Perseo dice alla satira sesta v. 77.
che i Cappadoci s'accustumavano fino dalla
fanciullezza a resistere ad ogni tormento, e
ch’ essi si davano la tortura l’uno all’ altro
per rendersi capaci di sostenere quelle pene,
che si sarebbero nel progresso della loro vita
a forza di false testimonianze potuto forse ti-
rare addosso, e per poter vendere a più alto
prezzo i loro spergiurj a misura, che si fossero
resi più robusti, e più costanti nel tollerare
ogni dolore. Quello che allora costumavano
di fare le nazioni intere, perchè non
lo potrà oggidì per la stessa maniera fare uno
scellerato, ed un delinquente, il quale già prevede
il male, che gli deve venire addosso?
Si ha dunque da lasciar correre un ribaldo,
ed un delinquente, perchè ha avuto il coraggio
di sostenere la tortura; si ha all’ incontro
da punire uno innocente, perchè non gli
è bastato l’ animo di sopportare que’ crudeli
tormenti? Giacchè alla tortura non si può
venire, se non che dopo avere scoperto de’
gravi indicj contro il reo, egli è molto meglio
il dettargli secondo le circostanze una qualche
pena estraordinaria, e l'assolverlo dall’ordinaria,
quando altre prove non si possano contra
di lui avere, che il servirsi della tortura,
la quale sempre è crudele, ed inumana,
perchè potrebbe forse obbligarlo a confessare,
benchè fosse interamente innocente. Ed è cosa
più prudente, più equa, e più umana il
lasciar andare dieci rei non del tutto giusta
il merito loro puniti, che il gastigare
indebitamente un solo innocente meschinello. Che
iniquità non è poi anche quella di dar la tortura
ad un testimonio complice del delitto, il
quale contro il suo compagno abbia fatta
testimonianza? Gli stolti e barbari Giudici
vogliono, che la tortura in tale caso sia necessaria
per vedere, se il testimonio correo del
delitto persista nella sua deposizione, come
ancora per purgare la infamia del testimonio,
che annessa è al delitto da lui confessato. Si
può egli sentir cosa più insensata di questa?
dar la tortura ad un testimonio per vedere,
se sia costante nel suo detto, quando certa
cosa è, che il tormento lungi dal fare in favore
dell’ altro correo, contra di cui avesse
prima deposto, ritirare al testimonio la sua
prima deposizione, lo indurrebbe piuttosto a
deporre contro il compagno, benchè prima lo
avesse fatto, e non avesse avuto intenzione
di farlo . Tutti i testimoni già sanno, che
il Giudice cerca continuamente delle deposizioni
in favore del fisco; e però la tortura non
è un mezzo, che possa servire ad obbligare
il testimonio, che ritratti una deposizione non
vera contra il vero supposto complice; ma essa
serve piuttosto a far deporre il falso in favore
del fisco, ed in pregiudizio del preteso
correo. Inoltre non è egli una vera bestialità
il dire, che la tortura purga l’infamia,
quando tutto all’ opposto ella è cosa sicura,
che il tormento al meno nell’opinion comune
del volgo basterebbe per se solo a rendere infame,
chi anche nol fosse prima? E certamente
neppure la gente prudente può avere buona
opinione di chi dal Giudice sia stato
reputato meritevole della tortura. Che diamine!
di pensare adunque si è questa, che quella cosa,
la quale arreca infamia, pur si adoperi
per purgare l’infamia? Oh storditi, o bestie!
finitela una volta, e tralasciate di tormentare
la povera gente per così sciocca, e crudele maniera.
Voi giudicate pure tutto il giorno, che
chi è stato per grave minaccia, o per forza
obbligato a promettere, o fare alcuna cosa,
non sia punto tenuto ad eseguire la sua promessa,
e che la cosa da lui fatta si debba
tenere in conto di non fatta: e voi costumate
pur di gastigare ancora severamente chiunque
ad intendimento di ottenere dall’altro uomo
ciò, che vuole, alle minacce, ed alla
forza si volge. Or perchè biasimate voi in
altri quello che in voi praticate voi medesimi?
perchè non osservate con voi stessi la stessa
regola? perchè riguardate come libera, e sincera
una confessione fattavi per forza, e per
iscansare un lungo, e crudel dolore? Non vedete,
che questa non può essere una vera, e
sicura confessione del reo: non capite, che non
è la verità, ma il tormento, che move il reo
a dire, come volete? So, che sciocconi, come
siete, mi venite a rispondere, che ad una
tal confessione non si presta fede, se il reo non
torna a confermarla fuori di ogni tortura. Ma
bestiacce! chi non sa, che costumate di incrudelire
di bel nuovo contro il povero reo,
s'egli per sua disgrazia non tornasse a confermare
quello, ch’ egli si ha per isfuggire la
tortura confessato. E siccome questa vostra
maladetta pratica è saputa anche da’ rei, così si
dispongono a confessare piuttosto, che a voler
di bel nuovo sofferire quelli enormi dolori.
Io conosco de’ Giudici savj, ed onesti, i
quali hanno avuto da formare processi contro
rei di gravissimi delitti; e senza fare il
menomo uso della tortura, sono venuti in
cognizione della verità per altri modi onesti,
e leciti. Imitate anche voi altri lo esempio di
questi: specchiatevi nella Legge del Divino
Legislatore degli Ebrei, il quale al popolo suo
non ha dato alcun cenno della tortura: e
però da essi mai fu adoperata. Seguite lo esempio
di tanti popoli, che per altro da noi con
troppa ingiustizia vengono tenuti per barbari, i
quali mai nissun uso han fatto della tortura,
come sarebbe a dire i Sassoni, gli Alemanni,
gli Scoti, ed i Franchi, uniformatevi al
costume de’ presenti Inglesi, i quali ogni
sorta di tortura hanno in abbominazione per
modo, che, come attesta Barclaio al capo quar-
to del suo Icon animorum, non se ne servono
neppure nel delitto di Lesa Maestà. Cedete
finalmente alle ragioni, ed all’autorità di tanti
valentuomini, come lo Scottano, Antonio
Matteo, il Wefenbecio, il Montesquieu, il
Bielefeld, e parecchj altri, i quali per questo empio,
ed inumano costume un grande orrore hanno
manifestato di avere. Laonde lo studente pratico
da’ processi criminali deve notare, osservare, ed
imprimersi bene nell’ animo solamente quello
che vi è di buono, e non anche queste
crudeltà, e tante altre infami trappole de’ Giudici
ad ingannare i rei unicamente indirizzate.
Insieme colla lettura de’ processi devesi anche
unire lo studio degli Statuti municipali, e delle
consuetudini: poichè tanto i primi, quanto le
seconde ad ogni altra Legge precedono: e le Leg-
gi Romane allora solamente hanno vigore, e
forza, quando nè lo Statuto, nè il coftume della
patria alcuna cosa dispone. I Principi, ed i Popoli
non erano, e non sono tenuti di ricevere ne’
loro Tribunali le Leggi Romane; e dipende però
dal loro puro arbitrio, se vogliano trattenerle,
o dare ad esse l’esilio. Sicchè l’introduzione, e
la conservazione delle Leggi di Giustiniano non
deve, ne può per alcun verso pregiudicare agli
Statuti, ed a’ costumi della patria. La preferenza
è dovuta a questi: e solamente quando essi
tacciono, possono parlare le Leggi Romane, le
quali unicamente per supplire laddove gli Statuti, e
le consuetudini mancano, sono state introdotte.
Da questo risulta, che una manifesta assurdità si
è quella di dire, che gli Statuti vanno
interpretati strettissimamente, che tutto quello, che nel-
lo Statuto non si trova espressamente deciso,
debbasi giusta la Legge comune, e non secondo lo
Statuto giudicare, che non convenga fare
estensione da caso, a caso, e da persona a persona,
benchè la medesima ragione proceda, e benchè
ancora per il caso non compreso una ragion
maggiore vi fosse. I barbari legali costumano di
esprimere questa loro dottrina con un bel detto
alla lor moda, cioè che Statuta non pariunt sicuti mulæ.
Ma questo, e simili altri lor proverbj
contengono un evidente errore; imperciochè gli
Statuti, e le consuetudini sono le prime Leggi,
e queste debbonsi avanti ogni altra rispettare, ed
in pratica seguitare: le Leggi Romane non
sono, che di sussidio, e servono di supplemento in
mancanza delle prime. Ora ella cosa, e
che dalla ragion naturale viene insegnata , che
in ogni Legge devesi aver riguardo allo spirito,
all’intenzione, ed al fine, e non già alle sole
parole, che non sono già il midollo, ma la pura
corteccia della Legge. Sicchè ne viene per
necessaria conseguenza, che dove si sia l’istesso
fine, l’istesso spirito, e l’istessa intenzione, debba
anche aver luogo la medesima decisione, benchè
lo Statuto non faccia alcuna espressa menzione
del caso, o della persona, che viene in
controversia. Così per cagione di esempio, se lo
Statuto esclude dalla successione le femmine,
quando vi siano de’ fratelli maschi, s'intende,
ch’esse restano in vigore dello stesso Statuto escluse,
benchè i fratelli da altra madre, ma però dall’
istesso padre discendessero, e benchè lo Statuto
solamente de’ fratelli germani parlasse, quando
non apparisse espressamente, che il Legislatore
in favore di questi soli abbia voluto così disporre:
perchè altramenti devesi credere, che lo
statuente abbia avuto in mira di privare dell’ ere-
dità le donne in favore dell’agnazione; quantunque
egli non avesse per avventura con precise,
e chiare parole fatto manifesto questo suo
fine. Ora l’agnazione vien conservata non
solamente da un fratello germano, ma sippure da
un consanguineo. Sicché avendo nell’uno, e nell’
altro la medesima ragione luogo, ne deve anche
in amendue seguitar la medesima decisione. Per
questa cagione ancora non posso io fare a meno
di scandalezzarmi grandemente di una assurdissima
opinione; che da' certi legali viene insegnata,
e sostenuta, la quale è questa. Quando in una
vendita di un qualche bene stabile viene tra'
contraenti pattuito, che il prezzo abbia da essere
pagato a giusta stima, allora tutti vanno d’ accordo,
che debbasi nello stimare il bene osservare
la consuetudine, che corre nel paese rispetto al
prezzo de’ beni stabili; e che però non si debba
avere riguardo al frutto, che annualmente se ne
cava, ma al prezzo, che se ne suole ordinariamente
in quel luogo pagare, benchè l’annuo frutto
non venisse poi a corrispondere al capitale.
Ma se all'incontro i contraenti fossero convenuti,
che la vendita si faccia a giusta, e legale
stima, allora pretendono molti Signori pratici
d’insegnare, che per motivo di quella parola Legale
si debba cangiare la stima, e che convenga
farla secondo l’annuo frutto, che lo stabile renda.
Oh questo mò è uno spropositaccio! Se la consuetudine
porta, che i beni non si stimino
giusta il frutto, ma fecondo quello, che si suole
pagare, perchè mai dovrà questa consuetudine cessare,
allor quando vi si è aggiunta la parola di
Legale. Il dire a giusta stima non fa, che cessi
la consuetudine: e l’apporvi Legale opera, che
la consuetudine non abbia luogo. Signori pratici,
perdonatemi, questa è una bestialità, questo
è un giuoco di parole da non potersi tollerare.
Che differenza ponete tra l’essere legale, e l’essere
giusto? La giustizia, e la legalità sono elleno
forse cose opposte? Quello che è di Legge,
ha egli da essere ingiusto? Oppure la consuetudine
non è ella un'altra Legge? E se la consuetudine
non ripugna alla giustizia, perchè s'opporrà
ella alla Legalità ? Vedete quanti sfarfal-
loni in un gruppo! Deh tralasciate queste Dottrine
inette, incoerenti, e nemiche della retta
ragione.
Le Leggi Romane non hanno forza di Leggi,
finchè gli Statuti, e le consuetudini della patria
ci sono. E però non hassi da considerare gli
Statuti, e le Leggi comuni come cose opposte,
che convenga nel più possibile modo conciliare:
ma deesi pensare, che fintantochè gli Statuti parlano
o colle parole, o colla maggioranza, oppur
colla identità della ragione, le Leggi comuni sempre
tacciono, sempre son mutole, nè mai vogliono
essere per alcuna maniera ascoltate. I Tedeschi,
che ordinariamente con più giudizio, e con
maggiore sodezza, che non è solita buona parte
di noi altri Italiani, trattano lo studio della
Giurisprudenza, passano meco in questo punto
interamente d'accordo. Vegga, chi ha voglia,
quello che sopra di ciò dicono lo Schiltero, lo
Skykio, il Boehmero, Leyfero, e tanti altri nei
titoli de Legibus, et de Principum Constitutionibus.
Io però mi contenterò di citare le parole di Cristiano
Enrico Eckard, il quale al lib. 2. c. I. §. 28.
della sua Arte Ermeneutica a questo proposito
nella seguente maniera si esprime. Recte deniquequartum axioma postulat, ut Statutorum æque, acLegum Provincialium interpretatio secundum legitimasHermeneuticæ regulas instituatur. Statutaenim sunt Leges, et quodcumque Legis vim habet,illud si dubium, si ambiguum, si obscurum est,interpretationem desiderat, absque qua nullus foretLegis usus in Republica. Et quum Hermeneuticaveras interpretandi regulas tradat; nemo dubitave-
rit, quin secundum illas jura etiam Statutariadebeant explicari, earamque ope verus illorum sensuseruatur. Ex quo porro consequitur, ut insulsa sitregula, quam generatim commendant, Statuta stricte
esse interpretanda, adeoque prorsus ex Ictorumscholis exterminanda. Hanc quidem regulamLeguleji, et formulari Icti cum vulgari Doctorumherba non sine strepitu decantant, etiamsi rationeprorsus destituatur. E più sotto. Æque absurdum estaxioma, Statutum numquam in dubio pro correctorio
habendum esse, quoniam omnis correctio
odiosa sit.... Falsum quoque est, jura correctoriastricte esse interpretanda, siquidem lex correctoria æqueapta est ad recipiendam correctionem laxam, ac strictam,uti observat Gottlob Gerhard Titius Obser.ad Lauterb. p. 312. Io conosco diversi Giureconsulti
pratici, i quali mossi dalla forza di queste
ragioni hanno ingenuamente confessato, essere
falsa, e doversi da tutti tenere per tale, quella
regola, che insegna, doversi interpretare gli Statutistrettamente, e per modo, che il meno, che siapossibile, alle Leggi comuni deroghino. Tuttavia gli
ho io veduti consultare, e giudicare sul fatto tutto
all’opposto. E però debbo credere, che
l’abbiano fatto, perchè allora così tornasse loro il
conto: o se un’altra volta il loro interesse avesse
richiesto, che tenessero la regola ora insegnata da
me, non vi è dubbio, che così parimente avrebbero
fatto. Questa è presso i Legali una già antica
costumanza, che l'Arcivescovo Incmaro ha
già rimproverata anche ai Giudici del suo tempo,
scrivendo egli al capo 15. del suo trattato de
Potestate Regia così: Quando sperant aliquid lucri
ad Legem Romanam se convertunt; quando perLegem non æstimant acquirere, ad capitula (Regum
Francorum) confugiunt: sicque interdum fit, utnec capitula plene conserventur, nec lex. Veggasi
su di ciò un esempio riferito da Cristiano Gottl.
Riccio nel suo Spicilegio Historico Diplomatico deJuris Justinianei in aulis Germ. Principum a sæculoXIII. et XIV. Ufu Pragmatico.
Ma non basta, che il giovane pratico sappia
bene la Teorica, e che degli Statuti, e consuetudini
della patria abbia una sufficiente cognizione.
Imperocchè è necessario principalmente, che
si procacci una vasta notizia delle più importanti
quistioni, che a' giorni nostri, e ne' fori di
oggidì sogliono nascere. Sono pur poche quelle
controversie, che colle sole Leggi Romane possano
esser decise, come noi già abbiamo fatto
ampiamente vedere, non servendo ora queste
Leggi quasi ad altro, che a sapere i principj, ed
i fondamenti della Giurisprudenza. Così ancora
non troppe sono le liti, che col solo ajuto degli
Statuti, e delle patrie consuetudini possano
venire troncate. I Fidecommissi, i Maggioraschi,
le Primogeniture, e generalmente ogni sorta di
successione, le doti, i concorsi de’ creditori fanno
saltar fuori giornalmente delle dispute, che nè
dalle Leggi Romane, nè dagli Statuti sono state
per veruna maniera toccate. Per venire adunque
in cognizione di queste quistioni conviene
aver ricorso ai Libri de’ Giureconsulti pratici, o
consulenti, o controversisti, o trattatisti, o
raccoglitori di decisioni, o scrittori di repertorj, che
sieno. A questo effetto tutti son buoni: perchè
da tutti s’impara a conoscere quello, che vien
trattato ne’ fori. E però io non posso disapprovare,
che a tutti, per quanto in questa infinita
copia di libri è possibile, una occhiata, ed anche
una scorsa si dia. Ma qui conviene adoperare
giudizio, perchè altro è leggerli di quà, e
di là per vedere solamente, che quistioni trattino,
e che dubbj facciano nascere: ed altro è studiarli
per servirsi delle loro dottrine, e per seguitarli
come maestri. Al primo fine tutti, come
dissi, son buoni: ma al secondo poi pochissimi,
ed anzi rarissimi. Tra infiniti Scrittori di
quella razza, che ha prodotti l'Italia, e la Spagna,
appena è, che io ne sapessi trovare trenta,
od al più quaranta, che meritino di esser letti,
e stimati. E tra questi senza verun dubbio il primo
luogo si deve al Cardinal de Luca, il quale
con tanto giudizio, e discernimento, e con una
così soda, e massiccia Giurisprudenza ha trattato
le sue controverse Legali, che se avesse solamente
adoperato un pò più di coltura nello stile,
e nel difendere i suoi pensieri, egli potrebbe
servire per un vero ed assoluto modello di un
perfetto Giureconsulto. Trattine questi trenta, o
quaranta Scrittori, tutti gli altri son solenni
cocomeri, cavoli, gufi, e storditi, i quali per
rispetto alla Dottrina non vagliono un fil d’erba
secca. La Francia, e principalmente la Germania
possono mostrare un molto maggior numero di
buoni Giuristi pratici; e beati coloro, se li possono
comperare, e che li sanno intendere, perchè
buona parte di essi hanno scritto nella loro
lingua volgare. Il qual costume molto è lode-
vole, perchè rarissimi sono que' Legali, che sappiano,
non essendo quella lingua, che comunemente
adoperano, latina, ma un miscuglio di
molte barbare lingue del tempo dei Goti, e Langobardi.
E cessi Iddio, che un Giurista pratico
si cacci in testa di voler scrivere un bello, e terso
latino; perchè non sapendo costui altro, che
quelle miserabili frasi, che si ha bevuto nelle
scuole, dove i maestri non sanno per lo più neppur
essi cica di latino, egli cercherà ad ogni tratto
di radunarsele tutte, e d’infilzarne, quante mai
può, in ogni periodo, sicchè il suo stile lungi
dall' essere semplice, terso, liscio, puro, riuscirà
un miscuglio di parole mezze barbare, e mezze
latine, e di espressioni affettate, stentate, ricercate,
e tali in somma, che rechino nausea,
e fastidio agli stessi ignoranti, non che a dotti,
e colti Soggetti. Laonde farebbe meglio ognuno
a scrivere nella sua lingua materna,
benchè la maggior parte de’ Tedeschi, e degli Italiani
non sanno neppure scrivere nella propria
loro nativa favella, il che è proprio un vitupero,
ed una cosa affatto intollerabile.
Fatta che si abbia per questa maniera la pratica
Legale puossi con sicurezza di ben riuscire
passare a far Consulti, e Decisioni. Dove solamente
conviene avvertire di non si lasciar strascinare
dall' autorità altrui: poiché alla ragione
tocca da decidere del diritto, e del torto, e non
già ad un qualche scimunito Dottore. Se si tratta
di far vedere, che l’opinione sia comune, e
dai più accreditati Giuristi ricevuta, facciasi col
nome di Dio qualche uso anche dell’autorità.
Ma quando si ha per le mani una quistione, di
cui o espressamente i più stimati Dottori, o varj
sono i loro pareri, a che serve citare uno,
o più di costoro? E se lo Scrittore fosse uno
di questi Compositori di Zibaldoni, che non sia
universalmente stimato, perchè fargli quest'onore
di metterlo in veduta, e di fargli fare una
onorata comparsa? Se voi faceste stampare le
vostre scritture, sareste dagli altri citato ancora
yoi, qualunque si fosse il merito vostro. Che
autorità però deve fare o a voi, o al giudice
l'opinione di un altro, se non il merito della
persona, ma la sola stampa fa, che si possa
citarlo? Lanciate che l'Autore parli in terministerminantibus, finché vuole; questo non
ha da farvi specie, se non è un uomo di gran
credito: e se non arreca le ragioni della sua
sentenza. Quando poi apporti le ragioni, esaminatele,
e se le trovate buone, approvate il
suo detto, se nò, cacciatela al diavolo insieme
col libro. Pesate dunque le ragioni, e se sono
buone, pigliatele senza curarvi di chi le
addusse; poiché non il nome dell' Autore, ma il
valor delle sua Dottrina vi ha da diriggere.
Questo maledetto uso, che altro titolo non gli
posso dare, del dipendere unicamente dalle autorità,
è propriamente la peste della giustizia. Io
conosco de' Consulenti, e de' Giudici, che non
hanno nè ingegno, nè memoria, nè un vero
principio di Giurisprudenza. Il più stordito tra
questi, che è un vero gufo, ed un vero babuasso,
non sa niente, non si ricorda di niente,
non sa nè ben scrivere, nè speditamente par-
lare. Egli non è nemmeno capace di dettare una
delle più ordinarie, e più brevi formole giudiziali
senza esitare, e senza fare una quantità di
correzioni. Costui ha però in tempo di vita sua
travagliato molto, non già colla testa, perchè non
ne ha, ma col derettano, stando continuamene
te a sedere per far delle note, ed un amplo repertorio
di infinite quistioni. Costui e però in
gran credito: e se ha da fare qualche decisione,
o qualche consulto, le sue note sono, che
lo han da assistere: egli cerca il caso per mare,
e per terra: e finché non trova delle Dottrine, ch'egli stimi
adattate al suo caso, egli
non si dà pace; nè passa a fare il suo Consulto,
o la sua Decisione. Ma se costui non ha
nè un' oncia di giudizio, nè una mica di memoria,
come può egli esser sicuro, che sappia
bene applicare le Dottrine, che trova, che quadrino
a tutte le circostanze del caso suo, e che
delle altre Dottrine non v’abbiano, le quali siano
più ragionevoli, e più ricevute di quelle,
che gli è riuscito di trovare. Ecco le conseguenze,
che porta questo bell’uso di valersi dell’autorità
altrui: ed ecco il profitto, che ne cava
la giustizia! cioè che i più sciocchi sono per
questo verso capaci di fare i Giuristi, e di
acquistar credito: e che n’escon fuori ogni giorno
le più spropositate ed ingiuste sentenze. Sicché
aboliscasi una volta questa perversa, e
nocevolissima consuetudine, ed imitisi l’esempio di
tante altre provincie, dove lecito non è di allegare
Autori, ma solo devesi fare uso della ragione.
E queste sono le principali regole, che
io stimo doversi da un Giureconsulto osservare,
finché dureranno le Leggi Romane, le quali
non è speranza, che da per tutto vengano così
presto abolite, come per il bene della giustizia
sarebbe sommamente da desiderarsi.