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Ragionamenti intorno alla legge naturale e civile/Della maniera di trattare le leggi romane

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Della maniera di trattare le leggi romane

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Difetti delle leggi romane Catalogo di alcuni libri usciti dalle stampe di Antonio Zatta librajo veneto, e di parecchi altri da esso acquistati
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DELLA MANIERA

DI TRATTARE

LE LEGGI ROMANE.


N
Oi abbiamo in un altro nostro ragionamento mostrato di quanti, e quali difetti cariche sieno le Leggi Romane, e per questo abbiamo noi fatto vedere, essere assolutamente necessario, che quelle Leggi vengano levate via, ed abolite. Imperciocchè l'uso di esse troppi pregiudizi alla retta giustizia arreca, ed in troppi errori fa cadere la maggior parte di coloro, che lo studio della Giurisprudenza professano. Ma siccome l'abolizione delle Leggi Romane si può bensì desiderare, ma non già sperare si presto, così ho io giudicato essere convenevole cosa, di dover di quelle regole trattare, le quali io avviso essere le più utili per riuscire buono, e vero Giureconsulto, intanto che queste Leggi Romane sussistono. E poichè su di questa cosa ho fatto qualche particolare studio, e quel tanto, che col raziocinio ho scoperto, ho anche osservato verificarsi in pratica, così mi lusingo di non andare nello stabilire tali regole errato, e di non dovere ingannare altrui. Un vero Giureconsulto deve necessariamente essere un buon teorico, ed un buon pratico insieine. La cognizione delle Leggi non serve a nulla in chi non sa dove, come, e quando possano essere applicate: e così vicendevolmente la pratica deve riuscire troppo incerta, cavillosa, e mal sicura, quando questa non vada accompagnata collo studio delle Leggi. Ma giacché i [p. 113 modifica]

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ti vizj, onde sono infette le Leggi Romane, impediscono, che non se ne possa ne' nostri fori quell' uso fare, che si converrebbe, e che inoltre la necessità ha messo in dovere gl’interpreti, ed i Giureconsulti d’introdurre colle loro ora buone, ed ora sciocche interpretazioni, estensioni, e limitazioni un’altra parte di Giurisprudenza, che troppo più vasta, e più ampia è di quella, che nella sola, ed immediata cognizione delle Leggi consiste; così ne seguita, che la maggiore, e più sostanzial parte di un vero Giurista dallo studio della pratica principalmente si formi. Laonde possiamo con ogni sicurezza conchiudere, che ben miseri legali sono coloro, i quali al solo studio delle Leggi Romane si danno, e propriamente Teorici s’appellano. Costoro in due classi si possono acconciamente dividere; l'una delle quali comprende i Teorici critici, ed eruditi, e l’altra contiene quelli, che d'ogni erudizione, di ogni letteratura, e di ogni altra cognizione sforniti all’interpretazione delle Leggi si danno, i quali brevemente Teorici barbari chiamare si debbono. I primi vanno in traccia de' testi scorretti, troncati, giuntati, o per altra maniera depravati. Essi cavano fuori le contrarietà delle Leggi, e trovano i modi di conciliarle, oppur le dichiarano irreconciliabili: Essi spargono il lume laddove in qualche testo regnan le tenebre: Essi danno la storia di quelle leggi, che senza tale cognizione riuscirebbono oscure: Essi raccontano l’origine, ed il progresso di certe leggi, rapportano la mente, ed il fine del Legislatore nello stabilimento di quelle, e fanno con ciò sapere fin dove si pos-


H sano
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sano estendere, ed a quali casi applicare si debbano. Chi non direbbe, che questi siano le colonne della Giurisprudenza? Così sarebbe in fatti, se tutto quello, che dicono, o se almeno buona parte delle loro invenzioni fossero vere. Ma la disgrazia si è, che il più delle fiate altro non sono, che arzigogoli, ghiribizzi, fantasie, e mattezze di uomini, che vogliono fare i dotti, i critici, gli eruditi senza pensare al sodo, al massiccio, e senza prendersi il minimo pensiero, se quello che scrivono sia vero, o falso. Per questa cagione altri poi della stessa professione, e colle medesime pazzie in capo si trovano, i quali per non parere da meno anch' essi, impugnano tutto quello, che i primi hanno detto, e scritto. Altri finalmente si mettono di mezzo per vedere, chi de' due primi si abbia il torto, o il diritto; e poi con nuovi capricci, e nuove fandonie o una delle prime opinioni confermano, o le rigettano tutte e due, e con qualche altra invenzione della loro fantasia vengono in campo. Sicché alla fin de’ conti si vede, che la critica, e l'erudizione di costoro lungi dall' ajutare ha impestata, e guastata la scienza legale. Che se i Teorici eruditi, e critici fanno tanto male alla nostra disciplina, cosa non faranno poi i Teorici barbari, quella gente goffa, inetta, sciocca, stupida come le pietre, i quali per parere uomini si vanno ogni dì logorando il cervello con trovar fuori nuove sottigliezze, distinzioni mai più udite, interpretazioni strane, ed opinioni stravolte; e le sostentano poi con un chiasso, con un empito, con parolaccie, e con una maniera di spiegarsi così barbara, zotica, orrida, che pa-


jo-
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jono anzi Cerberi tartarei, che uomini di questo mondo? Quando io era giovane, ed allo studio delle Leggi applicava, ho avuto fatal disavventura di urtare in bocca a questi cani, e mi trovava di avere attorno principalmente il Clarissimus, et Perdoctissimus Dnus Franz, il Clarmus Dnus Someting, il Clarmus Dnus Schambogen, il Clarmus, et Rmus P. Schmier, il Clarmus, et plurimum Rdus P. Desing, ed altri così fatti clarissimi; e mutato poi paese fui dagli stolti maestri gettato in preda all' Aurora Legalis dello inettissimo Tebaldo e di altri siffatti: e mi rimasi fra le unghie di questi animali irragionevoli, finché la sorte propizia me ne liberò col farmi capitare fra mani libri di gusto migliore, e di discernimento più sodo. Per quello adunque, che riguarda la Teoria, ossia la cognizione delle Leggi, sono io di avviso, che l'unica cura di chi vuol essere vero Legale, abbia da consister nel procurarsi prima di tutto una semplice cognizione di tutte le Leggi almeno in generale, e poi nell' estrarre, e raccorre quelle, che possono ancora a' nostri giorni fra' nostri costumi, e nostri giudizj essere di qualche uso. Fatta che si abbia quella scelta conviene internarsi nell'esame di tali Leggi, indagarne lo spirito, fissarne i limiti, e conoscerne l'uso per riguardo all'applicazione. E perchè tutto questo si possa con giudizio fare, ricercasi, che chi si mette a tale studio, abbia della critica, sappia la storia, e le antichità Romane, conosca la proprietà della lingua latina, ed abbia in mente l'analogia, e la corrispondenza di tutta questa parte di Giurisprudenza, che dalle Leggi Romane


H 2 deri-
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deriva. Quindi inutile affatto si è per un Giurista lo studio più minuto di tutte le Leggi, eziandio di quelle, che ne’ nostri tempi non si possono a'casi nostri applicare. Ed è gettato almeno rispetto ad un legale tutto il tempo, che nel fare la critica, e nel tirar fuori l’erudizione, e la storia di somiglianti leggi si spende. E siccome le Leggi di tal qualità sono in numero indicibile, così non è possibile, che un uomo, sia pur egli di sommo ingegno, e di singolare memoria dotato, possa impiegarsi allo studio di siffatte leggi, ed insieme avere la bisognevole notizia di tutte le altre più usuali. Laonde un vero Giureconsulto, cui piaccia il sodo, il massiccio, ed il sostanziale, deve contentarsi di dare una semplice scorsa alle Leggi troppo oscure, troppo controverse, e troppo aliene da’ nostri costumi: ed all’incontro egli dee procacciarsi una buona, giusta, ed accurata notizia di que’ testi, che sono ancora in vigore, e che possono fare al proposito de’ negozi, e delle controversie, che accadono a’ nostri giorni. Un tal Giurista si va nella seguente maniera formando. Egli prima di tutto si dà allo studio delle Istituzioni di Giustiniano, che per se medesime sono assai brevi, facili, e chiare. Il testo adunque di queste si è la prima cosa, cui debba prendere per la mano un giovane studioso. Nello stesso tempo leggerà egli con attenzione un qualche autore de’ più celebri per saviezza, dottrina, ed erudizione, che abbiano spiegato, cementato, e sotto giusto metodo, ed ordine ridotto quel tanto, che ne’ quattro libri delle mentovate Istituzioni si contiene. A questo fine me-


glio
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glio per ora, che ogni altro libro, potranno servire gli Elementi del Giure Civile secondo l'ordine delle Istituzioni dell' Eineccio, ed il comento sopra i quattro Libri delie Istituzioni di Arnoldo Vinnio. La sola opera dell' Eineccio non basta, perchè questo autore è troppo succinto, e dice troppo in troppo poche parole. Sicché vuolsi adoperare ancora il suaccennato comento di Vinnio, che è diffuso, chiaro, di buoni principi, e di buona dottrina ripieno. Altri autori non vorrei io, che nissun giovane prendesse per le mani: poiché in questi due tutto quello, che di bello e buono da altri buoni autori fu detto, già si ritrova. Ed oltre che la copia de' libri reca confusione nel capo di chiunque non sia molto avanti nella disciplina legale, egli avviene il più delle volte, che i giovani piuttosto in pessimi, che non dirò in buoni, ma solamente in mediocri scrittori s'abbattano. E se questo succede, si guastano, e restan guastati per sempre, poiché rari sono coloro, che de' loro errori s’avveggano, ed abbiano di pentirsene, e di liberarsene il coraggio. Siccome poi lo studio delle Istituzioni è per se facile, e breve, purché con buon ordine, e su gli addittati autori venga fatto, così chi non è di troppo lento, e corto ingegno può con quello accoppiare anche lo studio delle Antichità Romane, delle quali procurerà di acquistarsi tanta cognizione, quanta sia necessaria per intendere le Leggi Romane, le Costituzioni de’ vecchi Imperadori, e le interpretazioni, sentenze, e dottrine de' vecchi Giureconsulti Romani, dalle opere de' quali noi sappiamo, che furon per ordine di Giustiniano cavate, e formate la più parte delle Leg-


H 3 gi,
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gi, che nel Corpus Juris del sudetto Imperadore si ritrovano. Io non dico già, che una esatta, profonda, ed estesa cognizione delle antichità, e e della Storia Romana sia ad un Giureconsulto necessaria; ma che soltanto quella parte di esse antichità sapere da ognuno si debba, senza la quale impossibile cosa è il poter giugner ad intendere le leggi, di conoscere lo spirito, e di penetrare fino al midollo della Giurisprudenza Romana. Quindi quel tempo, e neppur tutto quel tempo, che i cattivi maestri impiegano a spiegare, e gl’infelici scolari adoperano ad imparare inezie, puerilità, e mille cose barbare, potrebbe sì dagli uni, come dagli altri venire collocato nello studio della storia, e delle antichità. Girolamo Aleandro racconta di se stesso nella prefazione alle Istituzioni di Cajo, che Libellus Institutionum Justiniani unicuique per se facilis, qui in bonis auctoribus evolendis aliquot dies consumserit, salebrosus mirum in modum videbatur, ac nullam aliam ob caussam, quam propter multiloqua indoctorum doctorum commentaria; (neque enim, quæ optima essent, adhuc quisquam patefecerat:) quod quum ego tunc temporis non intelligerem, putabam me rudi nimis ingenio natum, ac ita paullatim studiorum meorum spe destituebar. Demum jam fere elapso hoc in errore triennio, nebulam mihi bonus genius dissolvit, ut statim perspicerem, eum Romanam Juris prudentiam posse tenere, qui Romanos mores, et instituta teneret. Quamobrem pauculos menses in veterum auctorum, quos potui, ac novorum quoque, qui isthæc docerent, lectione impendi, et id quidem raptim, et currente oculo, ne que. madmodum olim Phrygiluo, postea mihi objiceretur,


ut
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ut sero saperem. Quello che sul principio della sua carriera legale è avvenuto ad Aleandro, accade oggidì alla maggior parte degli studenti ma a rarissimi all' incontro avviene di avvedersi delle tenebre, nelle quali camminano, e di potersene, o volersene mediante la luce, che dalle antichità Romane viene, liberare. Per questo ogni cautela vuolsi mettere in opera, per non traviare subito sul principio. E però con lo studio delle Istituzioni, o almeno presto dopo, che si avrà di quelle acquistata una sufficiente idea, devesi anche della storia, e delle antichità procacciarsi una bastevole cognizione. E questa potrassi da uno scolare acquistare colla lettura del Syntagma delle Antichità Romane dell' Eineccio, dell’ Istoria del Giure Civile del medesimo, e di diverse Dissertazioni, che tra' suoi opuscoli su di questa materia si trovano. Alle opere dell’ Eineccio potrassi aggiugnere, finché qualche cosa di meglio venga alla luce, il libro del Sig. Selcovv sulle antichità Romane secondo l'ordine delle Istituzioni. Preparato che sia di questa maniera l’animo del giovane studente, e bene istrutto, ed addottrinato ch'egli sia nello studio delle Riduzioni, della storia, e delle antichità, egli potrà, e deve passare a leggere i molti, e diffusi libri dei Digesti, lo studio de’ quali non gli riuscirà ormai più nè troppo difficile, nè troppo vasto. Solo deve egli avere riguardo di separare l'utile dal disutile, il certo dall’incerto, e l'oscuro dal chiaro. Le prime sue guide han da essere il Duareno, ed il Donello. E come colla lettura di questi si farà fatto ben forte; egli passerà a dar delle occhiate ai libri di Cujacio, di Ottomano, dei Fa-


H 4 bri,
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bri, di Bynkershoeckio, e di Noodt. Da questi egli imparerà la critica legale, che insegna a conoscere il vero via dal falso, ed a distinguere il corretto dal guasto. Dagli stessi apprenderà egli ancora la vera maniera d’interpretare le leggi, ossia tutta l’arte Hermeneutica: i medesimi gli faranno venire la voglia di dare anche una scorsa alle opere di Giacomo Gothofredo, di Brissonio, di Schultingio, di Balduino, Charonda, Contio, Giphanio, Merillio, Eraldo, Brummero, Averanio, e di tanti altri Giureconsulti, le opere de’ quali, quando vengano con giudizio, con ordine, e con moderazione lette, un gran giovamento, ed una gran cognizione arrecano ad ogni legale. Ma dissi, che vogliono essere con moderazione lette, perchè non si ha poi da perdere tutto il tempo dietro alle opere di costoro, nè tutto lo studio deve essere solamente teorico, poiché le teoria senza la pratica è una mera erudizione, che niente giova, e che non rende altrui degno del nome di Giureconsulto. E però quando da questi autori si abbia cavata quella cognizione, che sia bastevole per poter distinguere le leggi, di cui ci possiamo servire, da quelle, che per qualunque sia cagione non si possono adoperare; e che inoltre si sia acquistata la vera maniera d’interpretar le leggi usuali, e che finalmente si sia arrivato a conoscere lo spirito delle Leggi Romane, allora vuolsi far punto, e passare allo studio pratico con aver però cura di non perdere mai le cognizioni teoriche. L’altra classe de’ Giuristi viene composta da' puri Pratici, i quali allo studio della Teorica Giurisprudenza o troppo poco, o certamente non


in
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in quella guisa, che conviene, si danno. Or quelli ordinariamente sono gli animali più cattivi, e perniciosi, che vengano a rovinare il gran campo della Giurisprudenza. E perchè più agevolmente comprendasi, come ciò avvenga, è pregio dell’opera il vedere, come un pratico Giurisperito comunemente si faccia. Ma quì si conviene di avvertire, che io non intendo già di rappresentare un pratico, che insieme colla pratica una buona teoria ami d' accoppiare, la qual sorta di Legali è rarissima di modo, che appena se ne trovano: la mia intenzione si è adunque solamente di descrivere uno di questi pratici, che alla giornata si fanno, e di cui è pieno il mondo. Un tale pertanto si va facendo per questo modo. Costui viene dalle scuole basse, dove ha imparato un latino gotico, longobardico, o che certamente è tutto altro, che latino. Lo stile suo, se pur sa mettere i suoi pensieri in carta, ha del goffo, dell’inetto, dell’incoerente, e vi si trova molto di tutto quello, che ne’ differenti stili vi può essere di male. Il gusto suo è depravato, o dirò meglio, non gli è mai stato verun buon gusto ispirato. Se Iddio gli ha datto dello spirito, e del talento, i suoi maestri lo hanno reso disputatore insolente, amante di sottigliezze, di cavilli, d’imbrogli, rintracciatore di tutte le cose inutili, sprezzatore di tutto il bello, e buono: se poi non ha talento, oltre l'essere barbaro, egli è anche uno stupido, un cavolo, un’oca, che di niente si cura che non viene commosso nè dall’immagine del buono, nè da quella del cattivo, ed a cui negli studj tutto è uguale, tutto indifferente, tutto l’istesso, purchè abbia impiegato quel deter-


mi-
[p. 122 modifica]minato tempo o ad impararlo da qualsissia maestro, ad a succhiarlo da qualunque libro, impiegando in ciò non tanto il capo a riflettere quanto il derettano a stare sedendo. L’erudizione sua è un nulla, o se pure è qualche cosa, ella è una cognizione di certe puerilità, inezie, sporcherie, che nelle scuole comunemente s’imparano. Di Storia o non ne sa, o se per sua disavventura egli ne ha qualche cognizione, sono per lo più falsità, fandonie, e cose di nissuna importanza, che senza ordine, senza connessione, e coerenza alcuna, senza verun principio di critica, non già per istruirlo, ma per ingannarlo, o per fargli passare il tempo, gli furono dagli stolti, o furbi maestri suoi insegnate. Con questi bei preparamenti s’accigne il giovane allo studio della Giurisprudenza pratica: e prende però per mano qualche Istituzionista, il di cui nome fra’ pratici sia celebrato, e famoso. Questi è comunemente lo Schneidevvino, ossia l'Oinotomo, che senza dubbio è finora il men cattivo autore di quanti pratici Istituzionisti abbiamo. Ma questo Scrittore non ha però alcun criterio, e non allega per lo più alcuna ragione de’ suoi detti, contentandosi al solito de’ pratici di lasciarsi guidare dalle autorità de’ Dottori, o seppure per rarità di qualche ragione fa uso, essa è per lo più falsa, o almeno ben rare volte quella, che principale, e sostanziale chiamare si possa. Inoltre non osserva nissun ordine e nissun metodo, e mette spesse fiate delle proposizioni, e delle dottrine, laddove non vi hanno per nissuna maniera da stare. Finalmente gli manca tanto la critica, che la storia, senza la cognizione delle quali cose impossibile affatto si è, [p. 123 modifica]che si possa giugnere all’intelligenza delle Leggi

Romane. Ma peggio ancora va la bisogna, se un tale s’abbatte nel Tebaldo, nel Verde, o in altre simili bestie, che minor giudizio, minor cognizione legale, meno ordine, e meno metodo dello Schneidevvino mostrano d’avere avuto. Fatto che il giovane si abbia questo studio per uno, o due anni, egli comincia ad imperare la pratica sotto la direzione d’un qualche Avvocato, che de’ più valenti venga riputato. Quivi gli vengono dati de’ processi da leggere, acciocchè per tempo impari le cabale, le furberie, le stiracchiature, ed i sutterfugj de’ procuratori, e de causidici, e le formole, che nel fabbricare qualsissia atto giudiziale si costuma di adoperare. Nello stesso tempo vengono allo studente proposte le questioni, che da processi risultano, o che senza processo vengono all’Avvocato pel suo sentimento presentate. L’impiego che rispetto a tali quistioni vien dato al candidato, si è di cercare fuori gli Autori, di esaminare gl’indici, i repertorj, gli alfabeti per vedere, se a qualche parola si trovi la quistione, di cui si tratta. L’Avvocato Maestro gli dice: cercate in questa parola, o in quella: vedete quello autore, e quello, e quell’altro ancora: non vi perdete di animo, che già troverete qualcosa. Di fatto il praticante trova alla fine non solo quello, ch’ei vuole, ma molto più ancora. E quasi sempre addiviene, che fra i molti Autori, che ha veduti parte sono di uno, e parte di un altro tutto opposto sentimento. Allora il suo Maestro gli dà ordine, che noti quelli, i quali possono servire a prò di quel cliente, in di cui favore ha determinato di scrivere. [p. 124 modifica]Quando si sono radunate le autorità in buon numero, tanto basta. Le Ragioni per lo più non si cercano, nè quelle, che fanno per istabilire il proprio sentimento, nè quelle, che per la parte contraria potessero servire.

Sicchè il Sig. Consulente passa a distendere il suo consulto, dove spiega il suo parere in favore di chi lo paga, e lo va confermando con una frotta di autorità, che con somma diligenza si sono raccolte. Nello stesso tempo vi s’infilzano delle chiacchiere, delle inezie, e delle puerilità, che il Sig. Consulente spaccia per sode ragioni, e per belle erudizioni. Ed ecco fatto il bellissimo, dottissimo, ed eruditissimo consulto, che il praticante poi legge, rilegge per imprimerlo nella mente, e ne trae una copia tanto per usarsi alla cotanto buona, ed elegante maniera di scrivere, e distendere consulti, quanto per potersene in somiglianti casi a suo tempo servire. Lo stile del consulto sia Italiano, sia Latino, ha da essere barbaro, orrido, spaventevole, senza ortografia, senza ordine, senza connessione; ma prolisso, gonfio, pieno zeppo di espressioni pratico-legali. E se il Consulente arriva a tanto, egli avrà anche fatto una pulita, e ben elegante scrittura: e felice quello studente, cui riesca di saper imitare un così ameno, e leggiadro stile. In tutto questo tempo di pratica lo studioso non ha da vedere il Corpus Juris, se non che per mero accidente l’una o l’altra fiata soltanto. Egli non ha da studiare mai tanto di latino, che possa giugnere ad intendere un qualche testo delle Leggi. Egli non ha mai da guardare un Libro metodico, sistematico, e pieno di buoni prin[p. 125 modifica]cipj. Egli non deve mai guastarsi il cervello ad indagare le ragioni di una opinione: ma al più egli si ha da contentare di numerare le autorità. Egli non deve mai dare un’occhiata ad un libro critico, di Storia, o delle antichità Romane: ciò farebbe un buttare il tempo: e vuolsi in vece di queste inutili antichità fare una raccolta di belle erudizioni pratico-legali, come farebbe a dire: Delicta carnis omnes tangunt, præcipue vero Ictos: crede mihi. Juristæ sunt mali Christæ: e tali frascherie, che recano nausea, e fanno male a chiunque ha fior d’ingegno, e di giudizio.

Ecco pertanto per tal maniera fatto il gran Giureconsulto pratico, che in avvenire ha da sedere a scranna, e fare consulti, e sentenze, che spaventino. Ma costui è una bestia, e non un uomo ragionevole: egli è un furfantaccio, un ladro, un briccone, che alla gente va vendendo lucciuole per lanterne, e che professa d’insegnare, dire, e sostenere contro buon pagamento il giusto, mentre egli nè del giusto, nè del vero ha la menoma idea, poichè tutto il suo cervello è in disordine, tutto ii capo è rovinato, e in tutta l’anima sua non si trova una giusta immagine della giustizia, dell’equità, e della verità. Io non vorrei, che alcuno credesse, che la fantasia mi si sia quì contro tutti li pratici troppo riscaldata: poichè non intendo di biasimarli tutti, ben sapendo, che in ogni luogo si trovano di quelli, che se non con altro, almen col raziocinio naturale arrivano a distinguere per lo più il vero via dal falso, i quali per poco li rispetterei, e stimerei più, che un altro vero Giureconsulto, che abbia fatto grande studio delle Leggi Roma[p. 126 modifica]ne, siccome quelli, i quali senza tante ambagi, e senza tante seccaggini, che nello studio delle Leggi s’incontrano, fanno per naturale loro capacità conoscere il diritto via dal rovescio: ma il mio discorso riguarda solamente coloro, che non hanno dalla natura sortito un sì raro talento, e con quella loro così infame Giurisprudenza fanno professione d’insegnare e fare a chicchessia giustizia. Per la qual cosa meritano di essere grandemente biasimati, e caricati di vituperj, perchè la gente impari a conoscerli, ed a fuggirli, ed i Principi si risolvano una volta ad estirparli, siccome quelli, che al pubblico indicibili mali arrecano. E non sarà forse un gran male, che uomini, i quali non hanno fatto nissun ordinato studio della Giurisprudenza, che nissun sistgema, e nissun certo principio hanno in capo, e la di cui cognizione tutta è cavata da Indici, da Repertori, e da Zibaldoni, e però ammassata a caso senza metodo, senza regola, e senza ordine, che tutta è incerta, vaga, incoerente, contraria, come contrarj, ed incoerenti tra loro sono i differenti Repertori, donde fu pianpano raccolta, che uomini, dico, di questa fatta si pongano a consultare, o a decidere su le cause altrui? Con che principio passerà un tale a fare la decisione di una causa, se principio veruno in capo non ha? Che sistema osserverà costui nello sciogliere le questioni, che gli vengono presentate, e nel far vedere la giustizia da una banda, e dall’altra l’ingiustizia, se intorno al diritto, ed al torto non si è fatto sistema veruno? In tal caso la bisogna deve necessariamente andare, come in effetto e tutto giorno si vede, cioè che [p. 127 modifica]per ogni quistione, e per ogni decisone convenga andare cercando degli Autori, che dicano qualche cosa, che faccia a proposito. E però se il Sig. Consulente, o il Sig. Giudice è un qualche cerettano, od impostore, che vende la Giustizia a chi più paga, egli andrà in traccia di Autori, che sostengano quello, ch’egli vorrebbe, de’quali sempre un buon numero potrà trovare, perchè siccome questi in altra maniera non sono divenuti Dottori, ch’egli medesimo; così con quella bella Giurisprudenza, che aveano in capo, sono poi passati a scrivere quelle Opere Legali, che piene sono di falsità, di frascherie, e di inezie, le quali poi col tempo vengono in acconcio a qualche altro galantuomo, che o nel decidere, o nel confutare voglia farne uso. Ed ecco pertanto coll’aiuto di somiglianti Autori fatto il consulto, o la sentenza a modo di chi con contanti, e con altri regali la seppe comperare. Che se all’incontro il Consulente, od il Giudice è di buona coscienza, e disposto a non far torto a nissuno, gli Autori, che per mancanza di alcun sistema, e principio Legale egli deve andar a vedere, gli faranno ben spesso dire delli spropositi, di cui sono pieni zeppi, ed il condurrano a fare qualche ingiusta decisione, perchè si sarà per avventura abbattuto in quelli, che in vece del diritto, e del giusto, si saranno o per impegno o per ignoranza, o per bizzaria determinati ad insegnare, e sostenere il torto, e l’ingiusto. Ora chi negherà, che questo non sia un indicibil male per ogni Repubblica, alla quale troppo importa, che ad ogni privato

membro di essa venga bene amministrata la [p. 128 modifica]
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giustizia, e che le di lui sostanze da furbi, ed ignoranti causidici non vengano rovinate? Chi negherà, che tali Legisti meritino di essere scherniti, vilipesi, dileggiati, e con mille vituperi abbominati, siccome coloro, che danno il guasto ai patrimoni de’ cittadini, e vengono per conseguenza a pregiudicare grandemente alle Repubbliche intiere? Eppure questi sono comunemente i Legali, che dominano ne’ fori, e che sono più singolarmente rispettati: il che ha da essere un perpetuo obbrobrio, e vitupero del nostro Secolo, nel quale tutte le altre scienze, ed arti, che pel pubblico bene sono meno necessarie, al sommo ripulite, coltivate, e portate vengono; laddove la Giurisprudenza vien lasciata in abbandono a bestie immonde, che ogni dì più imbrattando, e lordando la vanno; e quei che potrebbono, non si curano di cavarla dal fango, in cui immersa trovasi, e di confidarla poi solamente a poche persone, che siano comunemente tenute per le più savie, più oneste, e più intendenti, con proibire ad ogni altro, che non ardisca di approssimarvisi, e di toccarla.

Ma io voglio quì por fine ai miei lamenti, i quali già so, che inutili sono: e siccome ho accennato di sopra le regole, per mezzo delle quali un buon teorico si fa, così passerò ora a stabilire quella maniera, per la quale altri possa divenire anche buon pratico. La prima regola però si è, che prima di passare alla pratica, si abbia un buon fondo di teoria: altramente sarà impossibile affatto, che un buon pratico si riesca. E se questo avvertimento non si osserva, è già traviato il cammino, ed in vece di venir mai


sulla
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LE LEGGI ROMANE. 129

sulla strada della Giurisprudenza, resterassi sempre nella incominciata via dell’errore o per ignoranza, o per ostinazione, poichè quel tale non si accorgerà di aver fallato, o venendone avvertito avrà rossore di confessarlo, di pentirsene, e di dover tornare addietro. E però ben disse il Berni:

Si suol cotidianamente usare
Un sì fatto proverbio fra la gente,
Che ci bisogna molto ben guardare
Dal primo errore, ed inconveniente:
E sempremai con l'arco teso stare,
Sempremai esser cauto, e prudente,
Diligente, svegliato, accorto, attento,
Che un disordin che nasca, ne fa cento.
Anzi pur fagli la nostra follia,
Fassi, come intervien spesso, un errore,
E chi lo fa, per non parer, che sia
Stato egli, il vuol coprir con un maggiore:
Poi fanne un altro, e va di lungo via
In infinito, e diventa furore,
Bestialità; superbia, ostinazione,
Nè si pon più corregger le persone.
Che poichè la disgrazia, o l’imprudenzia
Nostra ci ha fatto far qualche peccato,
Se volessimo farne penitenzia,
E la superbia non ci fosse a lato,
E l'ira, e la perversa coscienzia,
A dir ch'è bene a tenerlo celato,
E mettessimo al punto le brigate,
Che men mal si faria, vo che crediate.

Quando adunque un buon fondo di teoria abbiasi già acquistato, devesi incominciare lo stu-


dio
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dio pratico dal leggere i processi, che nel paese sì fanno per osservare la maniera , che si tiene nel fabbricarli, e per imparare pian piano a conoscere le malizie, le frodi, le stiracchiature, i sutterfugj, le cabale, e le trappole, che da' procuratori sì degli attori, come de’ rei, tanto per vincere la causa, quanto per iscansarne, o sospenderne la perdita, soglionsi mettere in opera. Egli è vero, che secondo che la giustizia di una Provincia è più, o meno regolata , così ancora le furberie , e gl’ incantesimi de' Giudici hanno più, o meno luogo: ma per quanto savj però siano i regolamenti a questo uopo fatti, contuttociò la malizia de’ Legali non potrà giammai venire impedita, ed esclusa del tutto. Sicchè le cabale avranno ne' processi sempre la sua parte: e queste voglionsi da un pratico sapere per tempo, non già per metterle in pratica esso medesimo, ma per poterle scansare, se sarà procuratore, od avvocato, e per impedirle, o troncarle del tutto, se alla carica di Giudice pervenisse. Un Giudice ha molto arbitrio in queste cose, perchè le Leggi non ne fanno menzione, essendo impossibile, che un Legislatore pensi a tutte le arti, e frodi, che la malizia umana sa inventare. Ed un Giudice, che sia savio, onesto, ed amante della vera, e non di quella da’ barbari legali mascherata Giustizia, taglia le gambe, per quanto gli sia possibile, a tutte le cabale forensi, benchè quelle fossero dalla corrente degli Autori pratici insegnate, e sostenute. L'uomo ragionevole non si lascia guidare, ma anzi più particolarmente si guarda da quelli Autori che


al
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al solito de’ Legali scrivono tuttociò, che hanno imparato da’ vecchi, o che la loro sciocca fantasia lor ha suggerito, senza altramenti pensare, se sia buona, o cattiva cosa. Per rendere tutto questo più chiaro vogliamo noi fra molte migliaja, che potremmo, un solo esempio, affin d’ essere più brevi, trascerre. Accade spesse fiate, che altri o per malizia, o per obblivione pretenda da un altro, che questi gli paghi il debito, che una volta teneva, ma che poi ha col pagamento estinto. Venendo la controversia portata in giudizio, l'attore suol fare posizioni, nelle quali pone tra le altre cose, che il reo ha ricevuto da lui per cagione di esempio mille fiorini. Se il reo a questa posizione risponde, che gli ha bensì ricevuti, ma che gli ha anche restituiti: esso è perduto, quando non abbia altre prove, che persuader possano il Giudice della restituzione seguita. La ragione della soccombenza del reo in mancanza di altre prove si è, che la risposta alla posizione può secondo il principio de’ Legali essere divisa, e quella venire dall’ attore accettata rispetto a quello che contiene di favorevole, ed all’ incontro rigettata riguardo all’ opposto, e contrario: così in questo caso l'attore può accettare la confessione del reo, in quanto dice di aver ricevuto i mille fiorini, e può rigettare l’altro membro della risposta, dove dice, che gli ha però anche restituiti; all’ incontro se nello stesso caso sopra la medesima posizione l' accorto, od avvertito reo risponde: Io non ho ricevuti i mille fiorini, se non gli ho anche restitui-


I 2 ti:
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ti: allora l'attore deve soccombere, quando per altro modo non provi la sua azione, benchè in effetto non gliene fosse stata fatta la restituzione. La differenza di questa consiste nell’ avere il reo cominciato la sua risposta con una negativa, la quale fa, che la risposta è tutta negativa, e però o tutta convenga approvarla, o rifiutarla tutta. Questa è una dottrina, che viene comunemente insegnata da tutti i Dottori pratici, e che ne' fori senza contrasto è ricevuta. Ma ella è però una dottrina falsa, cabalistica, e che tende ad ingannare gli uomini ingenui, e sinceri, e protegge all’ incontro la malizia de' cattivi. Quando un briccone risponde: io non ho ricevuto i mille fiorini, se non ne ho anche fatta la restituzione, l'attore è in necessità di pro- vare di avere al reo dati i mille fiorini, quantunque vero non sia, che poi gli siano stati restituiti. Se un povero, semplice, e sincero galantuomo rispondendo confessa, che gli avea ricevuti, ma che poi gli ha resi al creditore, l'attore è libero da ogni altra prova, e quando il rispondente non possa provare la restituzione, egli deve per cagione della sua sincera risposta pagare di bel nuovo i mille fiorini da lui già prima pagati. Or non è egli questo un volere introdurre, e proteggere la furfanteria, e non è egli un voler pretendere, che tutti gli uomini, che vengono in giudizio, abbiano ad essere furbi, birbanti, impostori, e degni della galera? Ma un Giudice di mente, onesto, e prudente lascia, che i Signori Legisti gracchino a posta loro, e che scrivano quello che vo-


glio-
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gliono. Intanto però egli amministra la giustizia secondo che richieggono le circostanze del caso, secondo le conghietture, che altramenti appariscono dal processo, e secondo le buone e ree qualità sì dell'attore, come del reo. In somma egli si regola secondo la Giurisprudenza, e non già secondo l’impertinenza degli Avvocati, e la stoltezza degli Scrittori. Questo è un solo esempio della cabala forense; ma mille altri ne potremmo addurre, se questo non fosse dal nostro presente intendimento troppo alieno; poichè noi non abbiamo ora in mira di mettere in veduta le trappole del foro; ma vogliamo solamente avvertire il pratico Giurista, ch’ egli le deve dalla lettura de’ processi rilevare tutte, per poi saperle sfuggire, ed impedire. Se ne’ processi civili le parti, che hanno pratica nel litigare, e gli Avvocati disonesti mettono in opera ogni sorta di cabale, i processi criminali porgono la medesima occasione a’ Giudici stessi: e benchè l’uso delle trappole riesca molto più abbominevole nel criminale, sì per cagione, che quì si tratta non sol della roba, ma dell'onore, e della vita dell’uomo, come perchè molto maggior sincerità, rettitudine, ed onestà in un Giudice, che in un Avvocato si richiede; niente però di meno parecchj Giudici crederebbero di parere inesperti giuristi, se per far cascare i poveri rei non facessero uso di tutte le arti, che colla loro iniqua malizia sanno inventare. Io nulla dirò quì degli interrogatori suggestivi, che fan-


I 3 no
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no vocalmente al reo, e che dopo averlo per sì fatta maniera ingannato, per tutto altro modo, e con tutt’altre parole dettano gl’interrogatorj in processo: nulla dirò neppure delle promesse, che mettono in uso per cavare dal reo quello, che vogliono, le quali poi o per essere state troppo generali, o troppo equivoche si possono mantenere, come si vuole, ed intanto il reo rimane deluso: nulla dirò nemmeno di tante altre arti inique, e disoneste, che da somiglianti Giudici alla giornata si praticano. Ma quello, di cui presentemente sopra tutto di parlare mi preme, si è la tortura, la più abbominevol cosa, che si abbia inventata la rabbia umana, ed il maggior vitupero del nostro secolo. Imperciocchè io non mi posso figurare a cosa possa giovare questa crudeltà, che da’ rabbiosi, ed inumani Giudici tutto il giorno si pratica. La tortura da costoro si adopera o per ricavare da’ testimonj la verità, o per purgare la infamia di un testimonio, che sia stato complice del delitto, o per far confessare il reo medesimo. Ma in tutti questi casi l’uso della tortura a nulla giova, dunque l’adoperarla è impresa da fiero, spietato, e crudele uomo. S'ella servisse a poter con sicurezza cavar la verità, vorrei tacermene, benchè questa sarebbe una maniera di venire in cognizione del vero molto barbara ed inumana: ma egli è impossibile il sofferire con indifferenza l'uso della tortura, quando si fa, che essa ad altro non giova, che a fare del male. Infiniti uomini sono co-


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sì debili, e così poco atti a sopportare il dolor della tortura, che confessano piuttosto come testimoni quello, che non sanno, e come rei quello, che non si sono mai sognati di fare, che di sofferire lunga pezza i tormenti, ed amano meglio tirarsi addosso, col confessare un delitto da essi non mai commesso, un gastigo ancor lontano, che patire il dolor presente. Altri all’ incontro sono così forti, e robusti, così usati al dolore, che resistono ad ogni tormento, e trovano per questa via il modo di scampare ogni qualunque pena, quantunque avessero commesso il più enorme delitto. Questi tali non solamente vanno via impuniti per li loro proprj delitti; ma sono anche capaci di accusare falsamente un innocente, e di sostenere in prova del loro detto ogni sorta di tortura. Eliano racconta nel libro settimo capo decimottavo della sua Storia, che gli Egiziani erano capaci, ed assueffatti a sostenere ogni tormento, ed a sofferire ogni dolore. Ciò viene confermato da Ammiano Marcellino al capo 22. E la stessa bravura veniva altre volte attribuita anche alla Nazione Spagnuola, come fa vedere Ruperto in Valerium Maxim. Lib. 3. cap. 3. Lo Scoliaste di Perseo dice alla satira sesta v. 77. che i Cappadoci s'accustumavano fino dalla fanciullezza a resistere ad ogni tormento, e ch’ essi si davano la tortura l’uno all’ altro per rendersi capaci di sostenere quelle pene, che si sarebbero nel progresso della loro vita a forza di false testimonianze potuto forse ti-


I 4 rare
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rare addosso, e per poter vendere a più alto prezzo i loro spergiurj a misura, che si fossero resi più robusti, e più costanti nel tollerare ogni dolore. Quello che allora costumavano di fare le nazioni intere, perchè non lo potrà oggidì per la stessa maniera fare uno scellerato, ed un delinquente, il quale già prevede il male, che gli deve venire addosso? Si ha dunque da lasciar correre un ribaldo, ed un delinquente, perchè ha avuto il coraggio di sostenere la tortura; si ha all’ incontro da punire uno innocente, perchè non gli è bastato l’ animo di sopportare que’ crudeli tormenti? Giacchè alla tortura non si può venire, se non che dopo avere scoperto de’ gravi indicj contro il reo, egli è molto meglio il dettargli secondo le circostanze una qualche pena estraordinaria, e l'assolverlo dall’ordinaria, quando altre prove non si possano contra di lui avere, che il servirsi della tortura, la quale sempre è crudele, ed inumana, perchè potrebbe forse obbligarlo a confessare, benchè fosse interamente innocente. Ed è cosa più prudente, più equa, e più umana il lasciar andare dieci rei non del tutto giusta il merito loro puniti, che il gastigare indebitamente un solo innocente meschinello. Che iniquità non è poi anche quella di dar la tortura ad un testimonio complice del delitto, il quale contro il suo compagno abbia fatta testimonianza? Gli stolti e barbari Giudici vogliono, che la tortura in tale caso sia necessaria per vedere, se il testimonio correo del


de-
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delitto persista nella sua deposizione, come ancora per purgare la infamia del testimonio, che annessa è al delitto da lui confessato. Si può egli sentir cosa più insensata di questa? dar la tortura ad un testimonio per vedere, se sia costante nel suo detto, quando certa cosa è, che il tormento lungi dal fare in favore dell’ altro correo, contra di cui avesse prima deposto, ritirare al testimonio la sua prima deposizione, lo indurrebbe piuttosto a deporre contro il compagno, benchè prima lo avesse fatto, e non avesse avuto intenzione di farlo . Tutti i testimoni già sanno, che il Giudice cerca continuamente delle deposizioni in favore del fisco; e però la tortura non è un mezzo, che possa servire ad obbligare il testimonio, che ritratti una deposizione non vera contra il vero supposto complice; ma essa serve piuttosto a far deporre il falso in favore del fisco, ed in pregiudizio del preteso correo. Inoltre non è egli una vera bestialità il dire, che la tortura purga l’infamia, quando tutto all’ opposto ella è cosa sicura, che il tormento al meno nell’opinion comune del volgo basterebbe per se solo a rendere infame, chi anche nol fosse prima? E certamente neppure la gente prudente può avere buona opinione di chi dal Giudice sia stato reputato meritevole della tortura. Che diamine! di pensare adunque si è questa, che quella cosa, la quale arreca infamia, pur si adoperi per purgare l’infamia? Oh storditi, o bestie! finitela una volta, e tralasciate di tormentare


I 5 la
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la povera gente per così sciocca, e crudele maniera. Voi giudicate pure tutto il giorno, che chi è stato per grave minaccia, o per forza obbligato a promettere, o fare alcuna cosa, non sia punto tenuto ad eseguire la sua promessa, e che la cosa da lui fatta si debba tenere in conto di non fatta: e voi costumate pur di gastigare ancora severamente chiunque ad intendimento di ottenere dall’altro uomo ciò, che vuole, alle minacce, ed alla forza si volge. Or perchè biasimate voi in altri quello che in voi praticate voi medesimi? perchè non osservate con voi stessi la stessa regola? perchè riguardate come libera, e sincera una confessione fattavi per forza, e per iscansare un lungo, e crudel dolore? Non vedete, che questa non può essere una vera, e sicura confessione del reo: non capite, che non è la verità, ma il tormento, che move il reo a dire, come volete? So, che sciocconi, come siete, mi venite a rispondere, che ad una tal confessione non si presta fede, se il reo non torna a confermarla fuori di ogni tortura. Ma bestiacce! chi non sa, che costumate di incrudelire di bel nuovo contro il povero reo, s'egli per sua disgrazia non tornasse a confermare quello, ch’ egli si ha per isfuggire la tortura confessato. E siccome questa vostra maladetta pratica è saputa anche da’ rei, così si dispongono a confessare piuttosto, che a voler di bel nuovo sofferire quelli enormi dolori. Io conosco de’ Giudici savj, ed onesti, i quali hanno avuto da formare processi contro


rei
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rei di gravissimi delitti; e senza fare il menomo uso della tortura, sono venuti in cognizione della verità per altri modi onesti, e leciti. Imitate anche voi altri lo esempio di questi: specchiatevi nella Legge del Divino Legislatore degli Ebrei, il quale al popolo suo non ha dato alcun cenno della tortura: e però da essi mai fu adoperata. Seguite lo esempio di tanti popoli, che per altro da noi con troppa ingiustizia vengono tenuti per barbari, i quali mai nissun uso han fatto della tortura, come sarebbe a dire i Sassoni, gli Alemanni, gli Scoti, ed i Franchi, uniformatevi al costume de’ presenti Inglesi, i quali ogni sorta di tortura hanno in abbominazione per modo, che, come attesta Barclaio al capo quar- to del suo Icon animorum, non se ne servono neppure nel delitto di Lesa Maestà. Cedete finalmente alle ragioni, ed all’autorità di tanti valentuomini, come lo Scottano, Antonio Matteo, il Wefenbecio, il Montesquieu, il Bielefeld, e parecchj altri, i quali per questo empio, ed inumano costume un grande orrore hanno manifestato di avere. Laonde lo studente pratico da’ processi criminali deve notare, osservare, ed imprimersi bene nell’ animo solamente quello che vi è di buono, e non anche queste crudeltà, e tante altre infami trappole de’ Giudici ad ingannare i rei unicamente indirizzate. Insieme colla lettura de’ processi devesi anche unire lo studio degli Statuti municipali, e delle consuetudini: poichè tanto i primi, quanto le seconde ad ogni altra Legge precedono: e le Leg-


I 6 gi
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gi Romane allora solamente hanno vigore, e forza, quando nè lo Statuto, nè il coftume della patria alcuna cosa dispone. I Principi, ed i Popoli non erano, e non sono tenuti di ricevere ne’ loro Tribunali le Leggi Romane; e dipende però dal loro puro arbitrio, se vogliano trattenerle, o dare ad esse l’esilio. Sicchè l’introduzione, e la conservazione delle Leggi di Giustiniano non deve, ne può per alcun verso pregiudicare agli Statuti, ed a’ costumi della patria. La preferenza è dovuta a questi: e solamente quando essi tacciono, possono parlare le Leggi Romane, le quali unicamente per supplire laddove gli Statuti, e le consuetudini mancano, sono state introdotte. Da questo risulta, che una manifesta assurdità si è quella di dire, che gli Statuti vanno interpretati strettissimamente, che tutto quello, che nel- lo Statuto non si trova espressamente deciso, debbasi giusta la Legge comune, e non secondo lo Statuto giudicare, che non convenga fare estensione da caso, a caso, e da persona a persona, benchè la medesima ragione proceda, e benchè ancora per il caso non compreso una ragion maggiore vi fosse. I barbari legali costumano di esprimere questa loro dottrina con un bel detto alla lor moda, cioè che Statuta non pariunt sicuti mulæ. Ma questo, e simili altri lor proverbj contengono un evidente errore; imperciochè gli Statuti, e le consuetudini sono le prime Leggi, e queste debbonsi avanti ogni altra rispettare, ed in pratica seguitare: le Leggi Romane non sono, che di sussidio, e servono di supplemento in mancanza delle prime. Ora ella cosa, e


che
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che dalla ragion naturale viene insegnata , che in ogni Legge devesi aver riguardo allo spirito, all’intenzione, ed al fine, e non già alle sole parole, che non sono già il midollo, ma la pura corteccia della Legge. Sicchè ne viene per necessaria conseguenza, che dove si sia l’istesso fine, l’istesso spirito, e l’istessa intenzione, debba anche aver luogo la medesima decisione, benchè lo Statuto non faccia alcuna espressa menzione del caso, o della persona, che viene in controversia. Così per cagione di esempio, se lo Statuto esclude dalla successione le femmine, quando vi siano de’ fratelli maschi, s'intende, ch’esse restano in vigore dello stesso Statuto escluse, benchè i fratelli da altra madre, ma però dall’ istesso padre discendessero, e benchè lo Statuto solamente de’ fratelli germani parlasse, quando non apparisse espressamente, che il Legislatore in favore di questi soli abbia voluto così disporre: perchè altramenti devesi credere, che lo statuente abbia avuto in mira di privare dell’ ere- dità le donne in favore dell’agnazione; quantunque egli non avesse per avventura con precise, e chiare parole fatto manifesto questo suo fine. Ora l’agnazione vien conservata non solamente da un fratello germano, ma sippure da un consanguineo. Sicché avendo nell’uno, e nell’ altro la medesima ragione luogo, ne deve anche in amendue seguitar la medesima decisione. Per questa cagione ancora non posso io fare a meno di scandalezzarmi grandemente di una assurdissima opinione; che da' certi legali viene insegnata, e sostenuta, la quale è questa. Quando in una


ven-
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vendita di un qualche bene stabile viene tra' contraenti pattuito, che il prezzo abbia da essere pagato a giusta stima, allora tutti vanno d’ accordo, che debbasi nello stimare il bene osservare la consuetudine, che corre nel paese rispetto al prezzo de’ beni stabili; e che però non si debba avere riguardo al frutto, che annualmente se ne cava, ma al prezzo, che se ne suole ordinariamente in quel luogo pagare, benchè l’annuo frutto non venisse poi a corrispondere al capitale. Ma se all'incontro i contraenti fossero convenuti, che la vendita si faccia a giusta, e legale stima, allora pretendono molti Signori pratici d’insegnare, che per motivo di quella parola Legale si debba cangiare la stima, e che convenga farla secondo l’annuo frutto, che lo stabile renda. Oh questo mò è uno spropositaccio! Se la consuetudine porta, che i beni non si stimino giusta il frutto, ma fecondo quello, che si suole pagare, perchè mai dovrà questa consuetudine cessare, allor quando vi si è aggiunta la parola di Legale. Il dire a giusta stima non fa, che cessi la consuetudine: e l’apporvi Legale opera, che la consuetudine non abbia luogo. Signori pratici, perdonatemi, questa è una bestialità, questo è un giuoco di parole da non potersi tollerare. Che differenza ponete tra l’essere legale, e l’essere giusto? La giustizia, e la legalità sono elleno forse cose opposte? Quello che è di Legge, ha egli da essere ingiusto? Oppure la consuetudine non è ella un'altra Legge? E se la consuetudine non ripugna alla giustizia, perchè s'opporrà ella alla Legalità ? Vedete quanti sfarfal-


loni
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loni in un gruppo! Deh tralasciate queste Dottrine inette, incoerenti, e nemiche della retta ragione. Le Leggi Romane non hanno forza di Leggi, finchè gli Statuti, e le consuetudini della patria ci sono. E però non hassi da considerare gli Statuti, e le Leggi comuni come cose opposte, che convenga nel più possibile modo conciliare: ma deesi pensare, che fintantochè gli Statuti parlano o colle parole, o colla maggioranza, oppur colla identità della ragione, le Leggi comuni sempre tacciono, sempre son mutole, nè mai vogliono essere per alcuna maniera ascoltate. I Tedeschi, che ordinariamente con più giudizio, e con maggiore sodezza, che non è solita buona parte di noi altri Italiani, trattano lo studio della Giurisprudenza, passano meco in questo punto interamente d'accordo. Vegga, chi ha voglia, quello che sopra di ciò dicono lo Schiltero, lo Skykio, il Boehmero, Leyfero, e tanti altri nei titoli de Legibus, et de Principum Constitutionibus. Io però mi contenterò di citare le parole di Cristiano Enrico Eckard, il quale al lib. 2. c. I. §. 28. della sua Arte Ermeneutica a questo proposito nella seguente maniera si esprime. Recte denique quartum axioma postulat, ut Statutorum æque, ac Legum Provincialium interpretatio secundum legitimas Hermeneuticæ regulas instituatur. Statuta enim sunt Leges, et quodcumque Legis vim habet, illud si dubium, si ambiguum, si obscurum est, interpretationem desiderat, absque qua nullus foret Legis usus in Republica. Et quum Hermeneutica veras interpretandi regulas tradat; nemo dubitave-


rit,
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rit, quin secundum illas jura etiam Statutaria debeant explicari, earamque ope verus illorum sensus eruatur. Ex quo porro consequitur, ut insulsa sit regula, quam generatim commendant, Statuta stricte esse interpretanda, adeoque prorsus ex Ictorum scholis exterminanda. Hanc quidem regulam Leguleji, et formulari Icti cum vulgari Doctorum herba non sine strepitu decantant, etiamsi ratione prorsus destituatur. E più sotto. Æque absurdum est axioma, Statutum numquam in dubio pro correctorio habendum esse, quoniam omnis correctio odiosa sit.... Falsum quoque est, jura correctoria stricte esse interpretanda, siquidem lex correctoria æque apta est ad recipiendam correctionem laxam, ac strictam, uti observat Gottlob Gerhard Titius Obser. ad Lauterb. p. 312. Io conosco diversi Giureconsulti pratici, i quali mossi dalla forza di queste ragioni hanno ingenuamente confessato, essere falsa, e doversi da tutti tenere per tale, quella regola, che insegna, doversi interpretare gli Statuti strettamente, e per modo, che il meno, che sia possibile, alle Leggi comuni deroghino. Tuttavia gli ho io veduti consultare, e giudicare sul fatto tutto all’opposto. E però debbo credere, che l’abbiano fatto, perchè allora così tornasse loro il conto: o se un’altra volta il loro interesse avesse richiesto, che tenessero la regola ora insegnata da me, non vi è dubbio, che così parimente avrebbero fatto. Questa è presso i Legali una già antica costumanza, che l'Arcivescovo Incmaro ha già rimproverata anche ai Giudici del suo tempo, scrivendo egli al capo 15. del suo trattato de Potestate Regia così: Quando sperant aliquid lucri


ad
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ad Legem Romanam se convertunt; quando per Legem non æstimant acquirere, ad capitula (Regum Francorum) confugiunt: sicque interdum fit, ut nec capitula plene conserventur, nec lex. Veggasi su di ciò un esempio riferito da Cristiano Gottl. Riccio nel suo Spicilegio Historico Diplomatico de Juris Justinianei in aulis Germ. Principum a sæculo XIII. et XIV. Ufu Pragmatico.

Ma non basta, che il giovane pratico sappia bene la Teorica, e che degli Statuti, e consuetudini della patria abbia una sufficiente cognizione. Imperocchè è necessario principalmente, che si procacci una vasta notizia delle più importanti quistioni, che a' giorni nostri, e ne' fori di oggidì sogliono nascere. Sono pur poche quelle controversie, che colle sole Leggi Romane possano esser decise, come noi già abbiamo fatto ampiamente vedere, non servendo ora queste Leggi quasi ad altro, che a sapere i principj, ed i fondamenti della Giurisprudenza. Così ancora non troppe sono le liti, che col solo ajuto degli Statuti, e delle patrie consuetudini possano venire troncate. I Fidecommissi, i Maggioraschi, le Primogeniture, e generalmente ogni sorta di successione, le doti, i concorsi de’ creditori fanno saltar fuori giornalmente delle dispute, che nè dalle Leggi Romane, nè dagli Statuti sono state per veruna maniera toccate. Per venire adunque in cognizione di queste quistioni conviene aver ricorso ai Libri de’ Giureconsulti pratici, o consulenti, o controversisti, o trattatisti, o raccoglitori di decisioni, o scrittori di repertorj, che sieno. A questo effetto tutti son buoni: perchè


da
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da tutti s’impara a conoscere quello, che vien trattato ne’ fori. E però io non posso disapprovare, che a tutti, per quanto in questa infinita copia di libri è possibile, una occhiata, ed anche una scorsa si dia. Ma qui conviene adoperare giudizio, perchè altro è leggerli di quà, e di là per vedere solamente, che quistioni trattino, e che dubbj facciano nascere: ed altro è studiarli per servirsi delle loro dottrine, e per seguitarli come maestri. Al primo fine tutti, come dissi, son buoni: ma al secondo poi pochissimi, ed anzi rarissimi. Tra infiniti Scrittori di quella razza, che ha prodotti l'Italia, e la Spagna, appena è, che io ne sapessi trovare trenta, od al più quaranta, che meritino di esser letti, e stimati. E tra questi senza verun dubbio il primo luogo si deve al Cardinal de Luca, il quale con tanto giudizio, e discernimento, e con una così soda, e massiccia Giurisprudenza ha trattato le sue controverse Legali, che se avesse solamente adoperato un pò più di coltura nello stile, e nel difendere i suoi pensieri, egli potrebbe servire per un vero ed assoluto modello di un perfetto Giureconsulto. Trattine questi trenta, o quaranta Scrittori, tutti gli altri son solenni cocomeri, cavoli, gufi, e storditi, i quali per rispetto alla Dottrina non vagliono un fil d’erba secca. La Francia, e principalmente la Germania possono mostrare un molto maggior numero di buoni Giuristi pratici; e beati coloro, se li possono comperare, e che li sanno intendere, perchè buona parte di essi hanno scritto nella loro lingua volgare. Il qual costume molto è lode-


vole,
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vole, perchè rarissimi sono que' Legali, che sappiano, non essendo quella lingua, che comunemente adoperano, latina, ma un miscuglio di molte barbare lingue del tempo dei Goti, e Langobardi. E cessi Iddio, che un Giurista pratico si cacci in testa di voler scrivere un bello, e terso latino; perchè non sapendo costui altro, che quelle miserabili frasi, che si ha bevuto nelle scuole, dove i maestri non sanno per lo più neppur essi cica di latino, egli cercherà ad ogni tratto di radunarsele tutte, e d’infilzarne, quante mai può, in ogni periodo, sicchè il suo stile lungi dall' essere semplice, terso, liscio, puro, riuscirà un miscuglio di parole mezze barbare, e mezze latine, e di espressioni affettate, stentate, ricercate, e tali in somma, che rechino nausea, e fastidio agli stessi ignoranti, non che a dotti, e colti Soggetti. Laonde farebbe meglio ognuno a scrivere nella sua lingua materna, benchè la maggior parte de’ Tedeschi, e degli Italiani non sanno neppure scrivere nella propria loro nativa favella, il che è proprio un vitupero, ed una cosa affatto intollerabile. Fatta che si abbia per questa maniera la pratica Legale puossi con sicurezza di ben riuscire passare a far Consulti, e Decisioni. Dove solamente conviene avvertire di non si lasciar strascinare dall' autorità altrui: poiché alla ragione tocca da decidere del diritto, e del torto, e non già ad un qualche scimunito Dottore. Se si tratta di far vedere, che l’opinione sia comune, e dai più accreditati Giuristi ricevuta, facciasi col nome di Dio qualche uso anche dell’autorità.


Ma
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Ma quando si ha per le mani una quistione, di cui o espressamente i più stimati Dottori, o varj sono i loro pareri, a che serve citare uno, o più di costoro? E se lo Scrittore fosse uno di questi Compositori di Zibaldoni, che non sia universalmente stimato, perchè fargli quest'onore di metterlo in veduta, e di fargli fare una onorata comparsa? Se voi faceste stampare le vostre scritture, sareste dagli altri citato ancora yoi, qualunque si fosse il merito vostro. Che autorità però deve fare o a voi, o al giudice l'opinione di un altro, se non il merito della persona, ma la sola stampa fa, che si possa citarlo? Lanciate che l'Autore parli in terminis terminantibus, finché vuole; questo non ha da farvi specie, se non è un uomo di gran credito: e se non arreca le ragioni della sua sentenza. Quando poi apporti le ragioni, esaminatele, e se le trovate buone, approvate il suo detto, se nò, cacciatela al diavolo insieme col libro. Pesate dunque le ragioni, e se sono buone, pigliatele senza curarvi di chi le addusse; poiché non il nome dell' Autore, ma il valor delle sua Dottrina vi ha da diriggere. Questo maledetto uso, che altro titolo non gli posso dare, del dipendere unicamente dalle autorità, è propriamente la peste della giustizia. Io conosco de' Consulenti, e de' Giudici, che non hanno nè ingegno, nè memoria, nè un vero principio di Giurisprudenza. Il più stordito tra questi, che è un vero gufo, ed un vero babuasso, non sa niente, non si ricorda di niente, non sa nè ben scrivere, nè speditamente par-


lare.
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LE LEGGI ROMANE. 149

lare. Egli non è nemmeno capace di dettare una delle più ordinarie, e più brevi formole giudiziali senza esitare, e senza fare una quantità di correzioni. Costui ha però in tempo di vita sua travagliato molto, non già colla testa, perchè non ne ha, ma col derettano, stando continuamene te a sedere per far delle note, ed un amplo repertorio di infinite quistioni. Costui e però in gran credito: e se ha da fare qualche decisione, o qualche consulto, le sue note sono, che lo han da assistere: egli cerca il caso per mare, e per terra: e finché non trova delle Dottrine, ch'egli stimi adattate al suo caso, egli non si dà pace; nè passa a fare il suo Consulto, o la sua Decisione. Ma se costui non ha nè un' oncia di giudizio, nè una mica di memoria, come può egli esser sicuro, che sappia bene applicare le Dottrine, che trova, che quadrino a tutte le circostanze del caso suo, e che delle altre Dottrine non v’abbiano, le quali siano più ragionevoli, e più ricevute di quelle, che gli è riuscito di trovare. Ecco le conseguenze, che porta questo bell’uso di valersi dell’autorità altrui: ed ecco il profitto, che ne cava la giustizia! cioè che i più sciocchi sono per questo verso capaci di fare i Giuristi, e di acquistar credito: e che n’escon fuori ogni giorno le più spropositate ed ingiuste sentenze. Sicché aboliscasi una volta questa perversa, e nocevolissima consuetudine, ed imitisi l’esempio di tante altre provincie, dove lecito non è di allegare Autori, ma solo devesi fare uso della ragione. E queste sono le principali regole, che


io
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150 DELLA MAN. DI TRAT. LE LEG. ROM.

io stimo doversi da un Giureconsulto osservare, finché dureranno le Leggi Romane, le quali non è speranza, che da per tutto vengano così presto abolite, come per il bene della giustizia sarebbe sommamente da desiderarsi.





IL FINE.







CATALO-