Ricordanze della mia vita/Parte prima/XXI. Segue la rivoluzione sino al 15 maggio

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XXI. Segue la rivoluzione sino al 15 maggio

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XXI. Segue la rivoluzione sino al 15 maggio
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XXI

Segue la rivoluzione sino al 15 maggio.

La cittá era stranamente disordinata, senza autoritá di magistrati civili o militari, i ministri, non trovandosi ancora i successori, rimanevano al loro posto per ispedire gli affari piú necessari. Voci molte, ma nessun fatto reo. Dicevano mille cose: e chi potrebbe ridire tutti i propositi e gli spropositi di quei cervelli bollenti? Fu pubblicato un programma politico che brevemente manifestava i desideri popolari, e ne fu detto autore il Saliceti. Riformare lo statuto; abolire la Camera dei pari, nome ed istituzione francese, che piaceva soltanto ai grandi ed ai nobili; riforma della legge elettorale, per iscegliere deputati non quelli soli che avevano censo, ma quanti erano capaci per ingegno e per esercizio di professione o arte liberale; mandare commessari nelle province con pieni poteri; la Camera de’ deputati dover riformare lo statuto, guerra all’Austria, spedire immediatamente milizie e volontari in Lombardia.

Tornava allora in Napoli il generale Guglielmo Pepe, giá guidatore sfortunato dell’esercito napoletano nel 1821, esule onorato per ventisette anni. Accolto dal re con molte carezze ed onoranze, gli disse: «Guidate voi stesso l’esercito, che vi conosce e vi ama: andate voi in Lombardia, ché li vincendo, come è certo, voi vincerete la Sicilia, e accheterete i tumulti di Napoli». «Ma andare senza prima far patti con Carlo Alberto?» «Che patti! chi piú fará piú avrá: col vostro esercito vittorioso li detterete voi i patti. L’importante è vincere e scacciare gli austriaci, e chi piú presto si muove piú certo vince». «Cotesto e l’importante», disse il re, e sorridendo mutò discorso. Si parlò del ministero, e il re lo pregò di trovargli [p. 190 modifica] uomini da esser ministri. Il Pepe gli mando alcuni nomi ed un programma: il re gli fece rispondere che i nomi non gli accettava, che il programma violava lo statuto: era il programma del Saliceti.

Fu dato l’incarico di comporre un ministero al generale Pignatelli, principe di Strongoli, vecchio, gentiluomo, debole. Gli corsero a casa persone d’ogni risma, ignoranti, ribaldi, spie degne di galera, e molti proposero se stessi: si scrivevano liste di nomi che a leggerle facevano ribrezzo, e si stampavano: scoppiarono le piú pazze ambizioni. Venne da me sinanche un bidello dell’universitá, Carlo Basile, che aveva stampato certe sue scempiaggini, e con quelle stampe a la mano mi disse: «Presentatemi al principe Pignatelli, proponetemi a ministro di pubblica istruzione, e vi farò vedere io come acconcerò le cose». Ebbi a sudare per liberarmi da quel matto, che poi me ne volle sempre. Il Pignatelli ebbe il senno di volgersi ad un onesto uomo, a Carlo Troya, scrittore della Storia d’Italia del medio evo, che tutti rispettavano per l’ingegno e la dottrina, tutti amavano per la bontá dell’animo ed una vita intemerata. E quantunque egli fosse nuovo nelle cose del governare, e vecchio, e perduto di gotte, pure ebbe il coraggio di offerirsi, come egli stesso diceva, in olocausto alla sua patria, e si mise alla difficile opera. Chiamò in sua casa il marchese Luigi Dragonetti, Saverio Baldacchini, Casimiro de Lieto, Raffaele Conforti, Aurelio Saliceti, e il colonnello Gabriele Pepe, sannita, d’altra famiglia del generale, prode, dotto, intemerato, fiore di galantuomo e di patriota. Non furono di accordo: il Saliceti, il Conforti, il de Lieto volevano riforma dello statuto: gli altri dicevano di averlo giurato, e volerlo mantenere, si riformerebbe col tempo. I tre uscirono, poi uscí il Pepe, che dimandato disse la cosa schietta. Ecco si sparge che il Saliceti vuole la repubblica, ecco battere i tamburi l’allarme per tutta la cittá. Si raccoglie la guardia nazionale, le milizie escono armate dai quartieri e si schierano su le piazze: tutti temono oscuri pericoli. Taluni uffiziali della guardia nazionale propongono di andare innanzi [p. 191 modifica] la reggia, e di gridare: «Abbasso il programma di Saliceti, viva lo statuto, viva la Camera dei pari»: la guardia nazionale non vuole, ed ebbe senno, perché sarebbe nato un conflitto. Quel bollore si acchetò: ma tutti erano stanchi, tutti sentivano il bisogno che cessasse quel disordine, quel tumulto continuo che si diffondeva nelle piazze, nelle case, e persin nella reggia, tutti volevano un governo pur che fosse, un ministero che facesse cessare quella stomachevole anarchia. Il buon Troya chiamò altri, e dopo molte chiacchiere compose un ministero cosí: esso Troya, presidente del consiglio, il marchese Luigi Dragonetti, agli affari esteri, Giovanni Vignali a grazia e giustizia, il generale degli Uberti ai lavori pubblici, il generale Raffaele del Giudice alla guerra e marina, il conte Pietro Ferretti anconitano, alle finanze, l’avvocato Giovanni d’Avossa all’interno, pochi giorni dopo, in luogo dell’Avossa ammalato, fu Raffaele Conforti, all’agricoltura e commercio il giovine professore Antonio Scialoia, all’istruzione pubblica Emilio Imbriani, agli affari ecclesiastici l’avvocato Francesco Paolo Ruggiero. Il re accettò tutti questi ministri, ed il loro programma pubblicato il 3 aprile, ed era questo: «Il censo de’ deputati eguale a quello degli elettori; poteva essere deputato ogni uomo di capacitá anche senza censo; i collegi elettorali proporre i pari, il re sceglierne cinquanta; le due Camere di accordo col re avessero facoltá di svolgere lo statuto massime riguardo ai pari; inviare ministri per stringere la lega italiana; mandare subito un grosso nerbo di milizia a la guerra contro l’Austria, incontanente un reggimento per mare: i tre colori a le bandiere; affrettare l’armamento della guardia nazionale; mandare commessari ordinatori nelle province». Il re lesse e rilesse molte volte il programma, ad ogni articolo fece difficoltá protestando sempre che egli era per mantenere lo statuto, ed alla parola svolgere fece molto rumore, la ricercò nel vocabolario, disse che quello svolgere significa mutare, e che egli non voleva né poteva mutar niente; discusse un pezzo, uscí piú volte della camera dove si trovava, quasi cercando consiglio dentro, dove dissero che [p. 192 modifica] stava il Filangieri; volle che la bandiera bianca borbonica fosse soltanto inquadrata da una lista verde e da una rossa; e infine approvò tutto, non potendo altro. E per allora si sfogò a mettere in canzone il nuovo ministero dicendo che il Troya era il presidente dei goti, il Vignali un protonotario, e che il Dragonetti ministro degli affari esteri aveva le notizie dal Lampo.

Col nuovo ministero chetarono un po’ i rumori di piazza, e la cittá sperava ordine e governo. Innanzi tutto si pensò a la guerra e si allestirono altri battaglioni di volontari comandati dagli uffiziali Francesco Carrano, Francesco Materazzo, Rocco Vaccaro, e quel Cesare Rosaroll, che fu condannato a morte, e dopo di essere stato sedici anni nell’ergastolo ne usciva pieno di fede e di ardire, e andava a la guerra. Partivano questi volontari: partiva un battaglione del 10° reggimento di linea, e pochi giorni appresso un altro andò per mare a Livorno.

Furono mandati a Roma per trattare la lega italiana ministri plenipotenziari il principe di Colobrano, Biagio Gamboa, Casimiro de Lieto, che non conchiusero niente perché il papa nella famosa allocuzione che tenne ai cardinali nel concistoro del 29 aprile disse che egli non voleva far guerra a nessuno. Fu mandato a Carlo Alberto ministro plenipotenziario Pier Silvestro Leopardi con l’incarico di stabilire i patti dell’alleanza, e qual parte si voleva dare a noi del paese che si torrebbe all’Austria, e il Leopardi seguí il re a la guerra, e non si brigò molto dei patti.

Per mandare i volontari e i due battaglioni del 10° di linea, e poi spedire l’esercito il ministro della guerra Raffaele del Giudice dovette fare sforzi e fatiche incredibili per vincere gli ostacoli che il re apponeva. Ora voleva, ora non voleva mandare i soldati, ora diceva mandarne tanti quanti erano i volontari, ora destinava un reggimento ora un altro. Il ministro cercava armi, cercava munizioni, vesti, scarpe: non si trovava niente nei magazzini, che pure erano fornitissimi. Il re che aveva per molti anni tenuto da sé e regolato quel [p. 193 modifica] ministero negava tutto, e dava il peggio, e tardi. Voleva dare il comando dell’esercito al Nunziante, o al Vial, o al Landi, poi disse: «Vogliono Guglielmo Pepe: ebbene questi è migliore degli altri perché fará un’altra frittata come quella che fece nel 1821». Il Pepe partí con dodici mila uomini su la fine di aprile, e con pochi napoletani sostenne l’onore d’Italia a Venezia.

Nel ministero dell’interno si lavorò a furia e si compilò una legge elettorale con cui poteva essere eletto deputato anche un mascalzone. «Ma che sorta di legge è cotesta?» dissi io ad un amico. «Cosí abbiamo gli uomini del nostro colore», mi rispose egli. Ed io: «Voi parlate sempre di colore, e non mai di sapore». Si fecero le elezioni il giorno 18 aprile, e furono migliori di quello che io credevo, che in massima parte furono eletti uomini stimabili. Si stabilí il 1° maggio per l’apertura del parlamento, e poi si differí al 15 maggio. Si pensò lungamente dove allogare le due Camere del parlamento, e dopo molte discussioni si stabilí di allogarle nell’universitá; la Camera dei deputati nella gran sala del museo mineralogico, e la Camera dei pari nella gran sala della biblioteca. Io mi feci come un serpente: «Ma cotesto significa chiudere l’universitá. Ma chiese e conventi non ce ne sono? ma non avete l’immensa isola dei gesuiti, dove fu il parlamento nel 1820, e dove ce ne possono stare dieci non uno? ma i nostri antichi e tutti gl’italiani non tenevano nelle chiese i loro parlamenti? Chiudere con tavole gli scaffali dove sono i minerali è certamente un danno, pure i minerali non si guastano: ma i libri, ma tanti preziosi libri seppellirli cosí è distruggerli certamente». Io ripetevo queste cose nella sala della biblioteca all’architetto che dirigeva i lavori, e che levando le spalle mi disse queste proprie parole: «È provvisorio, non dura molto, ognuno lo capisce». Ed era vero pur troppo: questo c’era nella coscienza della moltitudine.

Nel ministero d’istruzione pubblica l’Imbriani fece un decreto col quale si toglieva ai vescovi ogni ingerenza nella istruzione: il re fece molte opposizioni, infine lo sottoscrisse; [p. 194 modifica] ma questo decreto fu revocato ed annullato primo di tutti gli altri il 16 maggio. Altro che pensare agli studi, l’universitá era invasa dalle camere legislative, e si pensava mandare i giovani piuttosto a la guerra che a la scuola. Fu nominato Camillo de Meis direttore del collegio medico-cerusico, e non ricordo che fu fatta altra cosa d’importanza. Ma mi ricordo che si perdeva molto tempo e si facevano lunghissime chiacchiere pel teatro San Carlo, che con gli altri dipendeva dal ministero, e il duca di Caianiello che n’era il soprintendente, veniva ogni giorno e parlava parlava parlava di quel benedetto teatro, e si facevano mille disegni, e non si veniva mai a capo di nulla. Alcuni medici mi stomacavano. Veniva uno, e mi diceva corna di un altro, e mentre se n’andava, capitava quell’altro, si salutavano, si stringevano la mano, e poi l’altro mi diceva corna del primo. E cosí facevano molti, e io udivo e mi rodevo. Un giorno venne un prete che era rettore del collegio di musica, e mi disse che bisognava cacciar subito sei giovani che erano ribaldi, scostumati, degni di galera. Io mando pel Mercadante, che viene, e mi dice: «Questi sono i migliori giovani: non possono vedere i preti, ecco perché sono scostumati e cattivi. Ma che? vogliono gli artisti come i monaci? Poveri figli miei! i migliori, i piú ingegnosi, i piú bravi!» «Grazie, maestro, di questa vostra testimonianza che vale per mille». Fu licenziato il prete che ne aveva fatte di molte, e gridava contro tutti perché non gridassero contro di lui.

Ci volevan danari, e si penso al solito di fare un prestito, di tre milioni di ducati, dei quali due forzosi, uno volontario. Il prestito forzoso obbligava tutti i cittadini: l’altro no. Io feci l’offerta di un terzo del mio stipendio, e portai la carta scritta al ministro delle finanze, ma non potei parlargli perché aveva tanta gente intorno che chiedeva e strepitava che io ebbi pietá di lui, e diedi la carta ad un impiegato che gliela fece pervenire in mano. Il povero Ferretti la fece stampare, e mi lodò: io credetti di fare il mio dovere, ma rimasi solo, non ci fu altra offerta. Ma che offerte se tutti chiedevano di [p. 195 modifica] essere ristorati dei danni patiti, di essere premiati de’ meriti acquistati nella rivoluzione, del fiato gettato a gridare? E i modi del chiedere erano furiosi, osceni, pazzi. Uno presentò al Ferretti una sua dimanda a la punta d’un pugnale e il Ferretti dovette prenderla, leggerla, e promettere di provvedervi. Una triste donna di quelle che facevano da spie al Delcarretto e vivevano scroccando sussidi dagli altri ministri, chiedeva danari al Vignali, e dicendo egli non potere dargliene, colei gli diede uno schiaffo. Fu arrestata, ma liberata subito, tornò al suo tristo mestiere. Tutti i ministri erano oppressi dalle petulanti e superbe dimande di uomini che parevano ubbriachi, e volevano essere uditi per forza, pretendevano tutto per forza, e credevano la libertá un banchetto a cui ciascuno dovesse sedere e farsi una scorpacciata. Salivano tutte le scale, strepitavano in tutte le case: era un’anarchia brutta: e non v’era uomo sennato di qualsivoglia opinione che non desiderasse di vedere un governo forte, e non quei ministri avvocati che chiacchierando sempre di legalitá e di libertá, e avendo fede solo nelle chiacchiere, facevano andare ogni cosa a rotoli, e poi se ne spaventavano e davano le loro dimissioni, come fece il Ferretti a cui fu sostituito il Manna, e come fecero poi l’Imbriani per onorate cagioni, e il Ruggiero che si serbò a tempi migliori. Questa anarchia che il governo non sapeva frenare era mantenuta, favorita, stimolata da un potere occulto che poneva ostacoli ad ogni cosa. Coloro che piú strepitavano erano dopo alcun tempo riconosciuti come agenti provocatori, arnesi della vecchia polizia, e poi divennero famosi nella reazione: uno di costoro fu Nicola Barone. Il prete don Placido Baccher che nella chiesa del Gesú vecchio predicava a gran numero di bizzoche, diceva loro si raccomandassero a Dio perché egli vedeva avvicinarsi gli orrori, il sangue, il saccheggio del 1799. Alcuni preti spargevano che san Gennaro non farebbe il solito miracolo nei primi giorni di maggio: tre uffiziali della guardia nazionale, Giuseppe Avitabile, Giovanni La Cecilia, e Michele Sorgente andarono dal cardinale arcivescovo ammonendolo che [p. 196 modifica] pregasse il santo di fare il miracolo, e il buon santo non si fece pregare lungamente, e fece il miracolo senza difficoltá. Si spargevano altre voci che i calabresi che stavano in Napoli volevano fare repubblica, e uccidere tutti i soldati, o rimandare gli svizzeri. Nel 10 maggio il canonico Paolo Pellicano, uno dei condannati di Reggio, che aveva molto parlato e molto promesso, e perché bello di persona era piaciuto ad alcune dame, ed era stato nominato coadiutore nel ministero degli affari ecclesiastici, dopo aver fatto un sermone nella chiesa del Gesú Nuovo, all’uscire fu assalito da due soldati di marina, ferito di vari colpi di baionetta, e campò la vita quasi per miracolo. I soldati in divisa, veduti, conosciuti, fuggirono via, e non furono mai puniti né processati. S’avvicinava il 15 maggio e tutti speravano che in quel giorno, occupandosi gli animi di nuove cose, cesserebbe quello scompiglio. Si doveva eleggere i pari. Delle quattordici province del regno solamente sette avevano nominati i pari: le altre non li volevano, e si astennero. Il re, che doveva fare la scelta chiamò i ministri, vi andò lo Scialoia con mandato de’ suoi colleghi, e trovò tutti i grandi uffiziali di corte, che in quei giorni stavano sempre nella reggia. Il re lo condusse in una camera vicina, e serrò a chiave la porta dicendo: «Non facciamo udire i fatti nostri a questa gente: tutti mi darebbero noia per esser nominati: sono servitori e debbono stare da servitori». Parole dettemi dallo stesso Scialoia.

Il giorno 13 maggio si lesse un manifesto che pubblicava la nomina di cinquanta pari, l’ordine del cerimoniale, e la formola del giuramento che dar dovevano i deputati ed i pari: ed era questo: «Io giuro di professare e di far professare la religione cattolica apostolica romana: giuro fedeltá al re del regno delle due Sicilie: giuro di osservare la costituzione conceduta dal re il 10 febbraio». Chi ha scritto questo manifesto? Si corre dai ministri, si domanda, rispondono non saper nulla: dunque l’ha fatto il re. I deputati si raccolsero nel palazzo municipale di Monteoliveto per accordarsi tra loro su quello che avevano a fare, e tutti ricusarono quel giuramento [p. 197 modifica] che negava la libertá di coscienza, negava la rivoluzione di Sicilia, negava il programma del 3 aprile: fecero sapere le loro ragioni ai ministri, i quali unanimi decisero ed ordinarono di non farsi alcun giuramento. E questo piacque. Ma il giorno appresso che fu il 14 maggio si seppe che quel giuramento era mantenuto, che il re lo voleva, che i ministri si erano invano adoperati a persuaderlo facendogli vedere i disordini e i pericoli che potrebbero nascere, e che infine avevano date le loro dimissioni, e il re aveva risposto: «No, non posso accettarle ora: dovete rimanere al vostro posto in mezzo a la tempesta suscitata da voi». La concitazione degli animi era grande, e cresceva ad ogni ora, e pareva il montare della marea. I deputati, raccolti nella gran sala di Monteoliveto, consigliavano, parlavano, mandavano messaggi al ministero: e il ministero mandava or questo or quel ministro ai deputati con una nuova formola, che non era accettata. Nelle vie tutti parlavano, discutevano, ed era un andare, un venire, e talora grida e minacce. Io diceva tra me: «Si verrá al partito piú semplice, non giurare, e finiranno tutte queste voci». Ero stanco di lavoro, di noia, di disgusto, mi sentivo un brivido di febbre, andai a casa, mi misi a letto, e mi addormentai.

Il mattino del 15 all’alba mi levo, odo un rumore sordo, che è? Stanotte hanno fatte le barricate. Prendo un fucile che avevo in casa ed esco. Innanzi al palazzo d’Angri in via Toledo incontro Giovanni la Cecilia che fuma e trascina una sciabola turca, gli dimando: «Che cosa è questa?» «Non vedi? la rivoluzione». «Ma che rivoluzione?» Egli passò oltre, e non mi rispose, e forse gli parvi sciocco. Giungo al largo della Caritá, e vedo una barricata presso al palazzo del Nunzio, e giú di lontano ne vedo un’altra, e mi dissero che ce n’erano altre, una a Santa Brigida, e un’altra fortissima a San Ferdinando. C’era molta gente, e tutti armati e chi in divisa di guardia nazionale, chi in nero abito e nero cappello calabrese, facce sconvolte, diverse favelle e strane. «No», dicevano, «le barricate non s’hanno a disfare, e chi le tocca è un traditore, ed io gli tiro come a traditore». «Le truppe stanno [p. 198 modifica] pronte innanzi palazzo reale, e aspettano l’ordine di Ferdinando». «Egli ci ha ingannati finora, e credo che con l’inganno riuscirá a sterminarci». «Si mandino tutti i soldati in Lombardia, si dieno i castelli al popolo, e allora toglieremo le barricate». Vidi ad un muro un cartello a stampa sottoscritto da Vincenzio Lanza vicepresidente della Camera de’ deputati, col quale la Camera ringraziava la guardia nazionale dell’attitudine presa per tutelare la rappresentanza della nazione, e diceva che essendosi ottenuto l’intento, la invitava a disfare le barricate, per inaugurare l’atto solenne dell’apertura del parlamento. Mentre io leggeva quel cartello mi vidi accerchiato da parecchi che mi dicevano: «I nostri deputati sono ingannati, noi non li possiamo ubbidire. Le truppe stanno pronte laggiú, e le barricate non si possono disfare». Ed uno con certi occhietti furbi soggiunse: «Curioso quel don Vincenzio Lanza! Sí, leviamo le barricate, e dopo tutto quello che c’è stato stanotte e ancora c’è, vestiamoci di gala, ed andiamo ad aprire il parlamento!» Io dicevo tra me: «E che ci è stato dunque? Chi ha ordinato di farle le barricate? E perché?» E non trovavo nessuno che potesse dirmi qualcosa. A un tratto vedo mio fratello Giovanni, armato anch’egli, che mi dice: «Sono stato in tua casa: tua moglie mi ha detto che eri uscito, ed io ti ho cercato lungamente, e voglio starti vicino». «Sai nulla di quel che è stato stanotte?» «Grandi rumori a Monteoliveto, e le barricate». «Niente altro?» «Niente». In questo vedo avvicinarsi Gabriele Pepe, generale della guardia nazionale, io gli vo incontro, e gli dico: «Generale, perché la guardia nazionale non ubbidisce agli ordini della Camera?» Ed egli: «L’ho detto a questi signori, e non mi vogliono ascoltare. Provate voi, diteglielo voi». «E che sono io, o generale, rispetto a voi?» Qui entra un giovane che io conosceva, e con gli occhi e il volto come di un matto, dice: «Chi parla di togliere le barricate, è un traditore, ed io gli tiro». E appunta il fucile sul petto a Gabriele Pepe, il quale come chi scaccia una mosca, lievemente spinse in alto la punta del fucile, dicendo: «Non fate sciocchezze». E voltò [p. 199 modifica] le spalle, e messesi le mani dietro le reni, se ne ando via tranquillo. Io presi pel braccio quel giovane, e: «Sai tu chi è quell’uomo contro il cui petto impugnasti il fucile? Sai tu chi è Gabriele Pepe? È un prode soldato che ha il petto pieno di cicatrici, e colui che difese l’onore d’Italia contro il francese Lamartine che la insultava, è un grande e savio cittadino, è un uomo di virtú unica, innanzi al quale tu ed io dovremmo cadere in ginocchio». Il giovane si fece pallidissimo, mi disse: «Oggi siamo tutti pazzi»; e dopo un poco pianse. Vive ancora, e forse leggerá queste parole che ho scritto.

Dopo alcun tempo vedo a caso il deputato Benedetto Musolino, e con lui vo a Monteoliveto seguito dal mio Giovanni, a cui lasciai il mio fucile, ed entrai nella gran sala, dove di mano in mano vennero gli altri deputati. «Insomma puoi dirmi tu che è avvenuto stanotte?» «Quel maledetto giuramento ha imbrogliato ogni cosa». «E non saria meglio non darlo?» «Cosí penso anch’io, ma il re vuole che si giuri. Le pratiche durarono tutta la giornata di ieri, e verso sera venne qui il ministro Conforti, e lesse una nuova formola, che affermò scritta proprio dal re, e che non fu accettata. Egli se n’andò, e qui fu un tumulto indescrivibile: tra noi si gridava, si proponeva mille cose, ma tutti concordi a non cedere: il popolo su la piazza con molte fiaccole accese gridava, applaudiva ad alcuni deputati che da quei balconi aringavano: ‘coraggio, resistete, viva i deputati!’ Verso tardi entrano da quella porta alcuni uomini con un uffiziale di guardia nazionale e dicono: ‘Deputati, le truppe sono uscite dai quartieri, e stanno innanzi Palazzo: il popolo faccia le barricate’». E mille voci ripeterono ’barricate’». «Anche i deputati?» «Alcuni sí. E tutta stanotte è stato un battere di tamburi, e gridare ‘tradimento, alle armi’, e si sono fatte le barricate che hai vedute». «Ebbene, e poi come si è fatto dalla Camera quell’avviso che ordina disfarle?» «Verso la mezza notte il re finalmente ha ceduto, ha chiamato il ministro Troya, ed ha sottoscritto un decreto che contiene un’altra [p. 200 modifica] formula di giuramento. Eccolo qui sul tavolo: ‘Prometto e giuro innanzi a Dio fedeltá al re costituzionale Ferdinando. Prometto e giuro di compiere con massimo zelo e con la massima probitá ed onoratezza le funzioni del mio mandato. Prometto e giuro di essere fedele alla costituzione quale sará svolta e modificata dalle due Camere d’accordo col re, massimamente intorno alla Camera dei pari, come è detto nell’art. 5 del programma del 3 aprile. Cosí giuro e Iddio mi aiuti’. I ministri hanno presentato questo decreto alla Camera, che l’ha accettato, ed ha ordinato disfare le barricate. Essi ci hanno detto di aver pregato il re di far rientrare le truppe almeno nei cortili e nei giardini della reggia, di non farle vedere dal popolo cosí schierate nella piazza, ed egli non ha voluto. Ora siamo a questo punto: il re dice: ‘Non ritiro i soldati se non disfate le barricate’: il popolo dice: ‘Non togliamo le barricate, se i soldati non si ritirano’ L’una parte non ha fede nell’altra». «E chi cederá?» «Il popolo no, né io glielo consiglierei. Se non cede egli, come finora ha ceduto, si verrá ad un conflitto, e la finiremo una volta con costui».

Mentre facevamo questo discorso erano poco piú delle undici del mattino, ed entrarono a furia nella sala alcuni dicendo: «È cominciato il fuoco, si combatte a San Ferdinando». E udimmo colpi di cannone. Dopo un poco entrò Filippo Capone con in mano una palla di cannone, e disse: «Ecco quello che ci manda Ferdinando». Vennero altri e dicevano: «Il popolo vince, i soldati fuggono». Ma il cannone che tonava diceva il contrario. In quella sala tutti si movevano, tutti parlavano stranamente commossi: alcuni proponevano dichiararsi Ferdinando nemico pubblico e decaduto dal trono, altri nominare un governo provvisorio; il Ricciardi propose nominarsi un comitato di pubblica sicurezza con poteri pieni ed assoluti, e furono nominati Ottavio marchese Tupputi, presidente, e membri Gaetano Giardini, Vincenzio Lanza, Gennaro Bellelli, Ferdinando Petruccelli. A questo punto io dissi al Musolino: «Tu rimarrai qui, e farai il tuo dovere come [p. 201 modifica] deputato: io vado a fare il mio». Uscii, e, ripreso il mio fucile, discesi su la via con mio fratello. Dai balconi del municipio furono gettati sulla via Toledo alcuni busti in gesso del re, e la gente applaudiva. Io mi voltai a quelli che a caso mi erano intorno, e dissi: «Che facciamo qui? andiamo dove si combatte». E m’avviai seguito da cinque o sei sconosciuti. Quando fui innanzi al palazzo del principe di Montemiletto mi trovai solo con Giovanni. Sento chiamarmi a nome. «Dove vai? Vieni qui: piú innanzi ci è pericolo». Era Filippo Cappelli di Reggio, che scende, mi piglia per un braccio, e dicendomi: «Combatteremo da le case: questo è deciso, cosí fanno tutti: non vedi che sulla via non c’è un’anima?» mi tira dentro al portone che fu chiuso, e montiamo su la casa del principe di Montemiletto, dove trovo Errico Sannia, un attore del teatro Fiorentini in veste di guardia nazionale, ed alcuni altri pochi sconosciuti. Mi fo ad un balcone. Il cielo era azzurro, splendeva un sole bellissimo, la via Toledo era deserta, le barricate senza uno che le difendesse, da palazzo tonava il cannone, e da tutte le case usciva un grido: «Morte al Borbone!» Io dico al Cappelli: «Al cannone si risponde con le grida». «E con le fucilate ancora». «Ma a che cosa servono, e che cosa sono quelle barricate? Sono barriere che fanno i fanciulli: un colpo di cannone le abbatte e le spazza. È stata una stoltezza farle, stoltezza farle qui nella via piú larga e diritta. Il popolo di Masaniello anche asserragliò le vie, e combatté: ma dove? dove le vie sono strette e non ci vanno né cannoni né cavalli, né ci guardano i castelli, e i soldati ci sarebbero schiacciati dalle case. Abbiamo fatte le barricate dove si passeggia, l’abbiamo fatte per imitare la Francia». «Hai ragione, ma ora ci siamo, e bisogna fare il dovere». «Faremo il dovere, ubbidiremo anche pochi stolti e pazzi! Dio voglia che non andiamo a rovina».

Noi non vedevamo combattenti, udivamo di tanto in tanto il fuoco della moschetteria grosso e profondo.

Il principe di Montemiletto per naturale gentilezza di animo o per altro ci fece servire di rinfreschi: e mentre li [p. 202 modifica] sorbivamo udimmo: «Viv’o rre», terribile grido della plebe che faceva il saccheggio, il grido del ’99. I soldati svizzeri salivano per la via San Giacomo, e dal Palazzo Lieto che e dirimpetto quella via partirono alcuni colpi di fucile, a cui fu risposto col cannone che sfrantumò un angolo del palazzo, e poi da una fitta fucilata. Vedemmo allora gli svizzeri, che con un colpo di cannone aprirono il portone del palazzo, ed entrarono furibondi. Venne in quel punto il principe tutto smarrito, e ci disse: «Signori, vedete il palazzo Lieto, ogni resistenza è inutile: se tirate un colpo, saremo tutti scannati e la casa anderá a sacco e fuoco. Vi prego non per me, ma per mia moglie la principessa, che è da molto tempo ammalata, ed ora si dibatte in fiere convulsioni. Resistere ora è inutile, serbatevi a tempi migliori». Lo spettacolo del palazzo Lieto, il fuoco che continuava, le grida della plebe acutissime, ci persuasero a rimanerci. Il principe ci fece passare in luogo segreto della casa, ed egli vestito da gentiluomo di camera del re, fece spalancare il portone, si presentò ai soldati, disse che in sua casa non vi erano guardie nazionali, e fu creduto e rispettato, e ringraziato ancora pel vino che fece distribuire. La sua casa non ebbe altro danno che da una palla di cannone che portò via un pezzo di pilastro di marmo che è a destra del portone, il quale pezzo fu poi subito rimesso, e ancora si vede.

In su l’ora tardi della notte, lasciati i fucili, uscimmo di là, ed io andando per vie buie e deserte, lasciato mio fratello Giovanni, tornai a casa dove mia moglie e i miei figliuoli mi aspettavano.

Quella notte fu piena di angoscie. Nella cittá non appariva un lume, non si udiva una voce, pareva un sepolcro: era il silenzio della paura. Io avevo negli orecchi il grido di viva il re, e pensava: «Quanti saranno morti! E che sará dimani? La plebe è sfrenata, assalirá le case, scannerá quanti troverá. E tutto questo per pochi stolti scapigliati che hanno voluto le barricate, non per combattere no, ma per ispaurire un uomo che era sdegnato, e aveva soldati e cannoni, e animo [p. 203 modifica] di Borbone, ed essi volevano farlo fuggire con le grida e le minacce. Gli hanno dato ciò che egli non aveva, la coscienza della sua forza: egli ci temeva, ora ci disprezza, perché ci ha veduti discordi, deboli, codardi. Hanno voluto fare la scimmia ai francesi, hanno creduto di far fuggire Ferdinando, come è fuggito Luigi Filippo. Volevate cacciarlo? ma un nemico non si caccia con le grida: dovevate preparare uomini, armi, ordini: chiamar genti dalle province, stabilire i comandi, pigliare i luoghi della cittá i piú acconci. Cento uomini bene ordinati e diretti avrebbero combattuto e vinto. Che fece Palermo! Che fece Milano! Che ha fatto Napoli? Le barricate! fanciullaggine sanguinosa. Non è stata Napoli, ma pochi pazzi ubbriachi che han perduto ogni cosa. E poi per quale idea si è venuto a questo? Pel giuramento, se si doveva svolgere o non svolgere lo statuto. O avvocati, anzi paglietti, voi meritate la servitú. Che sará domani?»