Saggio sulla rivoluzione/Capitolo III
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Capitolo Terzo
IX. Diritto di proprietà. — X. Governo. — XI. Dichiarazione di principii. — XII. Ricapitolazione.
IX. I legami indissolubili che esistono fra nazionalità e libertà, le condizioni da cui quest’ultima non può scompagnarsi, gli inconvenienti che si riscontrano nell’unità, come nella federazione, sono stati svolti nel precedente capitolo. Opera, diranno molti, di sola distruzione, perocchè niuna sostituzione s’è fatta in loro vece. La risposta è semplicissima: voi, che dagli individui pretendete sapere con quali ordini la società debba ricostituirsi, sconoscete affatto le leggi dell’eterna repubblica naturale, sconoscete i diritti dell’intera nazione, e pretendete sostituire il concetto di un uomo, alla ragione universale.
Ogni nazione, lo abbiamo provato con la storia, deve sottostare al proprio fato, che, i rapporti sociali, il suo passato con le sue tradizioni, il presente, l’indole del popolo, le sue correlazioni co’ vicini costituiscono. Ogni nazione prossima ad un rivolgimento, nasconde nel suo seno il futuro reggimento, le sue future sorti; esse non attendono a svilupparsi, che una causa, la quale turbando l’equilibrio la precipiti nel moto. L’avvenire d’un popolo, facendo accurato studio sulla sua ragione storica, su i suoi rapporti sociali... può comprendersi nel suo insieme, come uno scienziato comprende la scienza, ma non può manifestarsi, che da una serie successiva di fatti, come la scienza non può esporsi da quello, se non pigliando le mosse dalle semplici, e facendo seguire le une alle altre, le varie preposizioni.
Tale manifestazione comincia dall’apparire de’ riformatori, sagaci interpreti della loro età, di cui esprimono il sentire. La missione di costoro non è di formulare nuovi ordinamenti, ma distruggere gli esistenti, esplorando sin nel profondo, e ponendo a nudo le piaghe della società. I riformatori sono la manifestazione della ragione collettiva, dal dolore costretta all’esame de’ mali sociali; sono piloti, che non determinano la meta del viaggio già stabilita, ma indicano gli scogli contro cui la nave potrebbe rompere; sono quelli che fanno studio, che scrutano, registrano le sanguinose esperienze fatte dal popolo, ne traggono le conseguenze, le presentano ad esso dicendogli: rifletti, non fidarti, se non vuoi soffrire i medesimi mali.
Intanto i riformatori, non solo distruggono, ma non tralasciano di proporre nuovi ordini, di creare sistemi; ma la prima parte del loro lavoro è sempre incontrastabile, è la ragione universale che predomina; nella seconda, sempre o quasi sempre, errano; è l’individuo che parla; non raggiungono mai il vero, ma tanto più vi si accostano, quanto più vicino è un rivolgimento. Meno sentiti, meno gravi sono i mali, più calmi sono gli animi, più profonda, più vasta è la dottrina de’ riformatori, ma nell’applicarla, eglino poco o nulla si distaccano dagl’instituti vigenti. Se, invece, gli animi sono concitati, se l’odio al presente è fortemente sentito, i riformatori saranno meno dotti, ma di tempra più gagliarda, d’indole più audace; le conchiusioni vogliono esser recise, non vaghe; tali le richieggono i tempi, e l’applicazione de’ principii, scostandosi dagli instituti in vigore, perchè universalmente odiati, più si avvicinano al futuro che prevedono.
La schiera de’ riformatori surse in Italia assai precocemente: l’Accademia Telesiana, come accennammo nel primo saggio, quindi Bruno, Vannino, Campanella riconobbero i mali da cui veniva roso l’edifizio sociale, e dalla cima vollero diroccarlo. Cominciarono dal riscattare il diritto della ragione, e sostituirlo all’autorità; era questa l’arma che dovevano guadagnarsi onde compiere la loro missione; questa prima tenzone costò loro la vita. I conservatori surti a combatterli, eziandio d’ingegno potente, furono i gesuiti rincalzati dalla schiera fratesca. La discussione condusse Bruno e Vannino al rogo, e Campanella soffrì la tortura e ventisette anni di carcere; e se oggi ne annunziamo il profondo e splendido ingegno, i contemporanei ne ammirarono il sovrumano coraggio. Se i filosofi francesi del XVIII secolo poterono lietamente abbandonarsi ai voli del loro ingegno, ed oggi i socialisti disputano, senza tema del carnefice e del rogo, devesi ciò ai riformatori italiani, che comprarono col sangue il diritto di ragionare.
Ai sullodati riformatori tenne dietro il Vico, il Gravina... e tutta la nobile schiera dei nostri filosofi che termina con Romagnosi. Le leggi, come fugacemente dicemmo, che regolano le società, non furono più ignote, e la filosofia civile come un maestoso fiume, che raccoglie nel suo placido corso i spumeggianti torrenti, riunì le sparse membra dello scibile umano e formonne un tutto.
Intanto oltr’Alpe s’inaugurò il governo costituzionale, ecletismo politico, epperò sursero gli eclettici in filosofia, e la paralisi che da mezzo secolo ci opprime dalla Francia si sparse sull’Europa intera. L’incerta e pallida luce dell’eclettismo riverberò in Italia, quindi venne interrotto il maestoso lavoro, che seguitava continuo da Telesio a Romagnosi. Le dottrine di Gioberti, Mamiani, Rosmini, Ventura vennero in luce. In esse non riscontrasi nulla del gran pensiero italiano, ma, invece, uno strano connubio de’ più contraddittori i principii: ragione e fede, autorità e libertà, diritti dei popoli e diritti dei principi: nè costoro, che intrecciano la loro filosofia sull’orditura imposta loro dai birri e dai preti, meritano il nome dei filosofi italiani. Durante i rivolgimenti del 48, ligia l’Italia a tali dottrine, naufragò prima di prendere il largo.
Se ci faremo a svolgere le pagine dei nostri filosofi, vi troveremo consacrate le leggi magistrali della natura. Eglino tentarono applicarle, ma troppo lontani dal risorgimento, subirono l’ascendente dei tempi, epperò vollero raddolcire i mali, rammorbidire le parti soverchiamente rigide, e non già sbarbicare quelli e rompere queste. Ma oggi le passate esperienze, le tendenze della società, i suoi mali cresciuti, ci danno facoltà a farlo. Quelle leggi debbono formare i cardini su cui dovrà equilibrarsi l’edificio sociale. Ricercare le istituzioni contraddittorie con esse, annientarle, e sostituire in loro vece i principii che ne emergono, sarà lo scopo del ragionamento che segue.
La prima verità che non può disconoscersi, senza negare l’evidenza, senza negare quaranta secoli di storia, è, che la ragione economica, nella società, domina la politica; quindi senza riformar quella, riesce inutile riformar questa. «Conservazione e tranquillità, scrive Filangieri, è il primo dato, e questo e non altro, è l’oggetto unico ed universale della scienza della legislazione. Ma l’uomo non può conservarsi senza i mezzi, la possibilità dunque di esistere, e di esistere con agio.» A che servono infatti i diritti dalle leggi accordati se la miseria rende impossibile il profittarne? Inoltre il difetto de’ mezzi materiali necessarii ad esistere annulla la vita politica della più gran parte della nazione, ma l’eccesso delle ricchezze, che si accumulano fra pochi, non produce danno minore: ingigantiscono le voglie, succede all’operosità l’ignavia, ed in putredine di vizii si marcisce. La società dall’ingiusto riparto delle ricchezze vien divisa in due parti, i pochi e i molti, e questi da quelli dipendenti; proclamare i diritti della democrazia è un’impostura, un’ipocrisia. Chi in buona fede può negare che i capitalisti ed i proprietarii sono i soli a cui è dato godere de’ diritti politici, che la società è governata dalla gretta aristocrazia dell’oro, inspiratrice della codarda e ruinosa politica moderna? Si rimedierà, dicono alcuni, a questi mali, con istabilire più eque relazioni fra il proprietario ed il fittaiuolo, fra il capitalista e l’operaio: sparirà la miseria, dicono altri, con lo sviluppo dell’industria, con l’aumento del prodotto sociale. Abbiamo discorso nei precedenti capitoli dell’efficacia di tali mezzi; è cosa chiara come la sostituzione d’un nuovo protezionismo all’antico riuscirebbe inutile tirannide, inutile inceppamento all’industria, e dimostrammo come la miseria cresce al crescere del prodotto sociale. Finchè i pochi sono proprietarii dei mezzi, onde soddisfare agli incalzanti bisogni de’ molti, questi saranno servi di quelli, qualunque siano le leggi; basta che esse riconoscano e proteggano il diritto di proprietà.
L’assicurare a tutti un’agiata esistenza, sarebbe al certo un mezzo efficace, ma ove cercare le ingenti somme? non potrebbesi che spogliare parte della società, per togliere all’altra ogni stimolo al lavoro; la società perirebbe; e riconoscendo il diritto di proprietà, come potrà mutilarsi, come limitarlo? non potranno essere che leggi complicate e contraddittorie, incentivo alla frode ed all’ingiustizia.
Non resterebbe che l’uguale riparto delle ricchezze, ma spaventati rispondono gli economisti: in Francia, nazione ricca, avrebbesi appena 78 centesimi per caduno. Un tale asserto è assurdo e ridicolo; lo spirito di partito, meglio l’amor dell’oro li costringe a mentire con inconcepibile impudenza. Se fosse esatto, la Francia altro non sarebbe che una nazione di mendichi. Avvegnachè sarebbe tale il numero di coloro, che posseggono meno di sì tenue somma, che appena raggiungerebbesi una tal cifra, facendo un eguale riparto di tutte le ricchezze di coloro che posseggono più di 78 centesimi. Questo calcolo deve essere assolutamente falso; ma noi vogliamo ammettere, che rappresenti il riparto del prodotto netto. In tal caso un operaio con moglie e cinque figli avrebbe il suo salario, più sette volte 78 centesimi; nè questo è tutto, sarebbevi un aumento non picciolo, riducendo ad un medio salario tutti i pingui stipendii, che i capitalisti insaccano come compenso alla fatica che durano per arricchirsi; epperò saremmo al disotto del vero affermando che un tale operaio percepirebbe un dieci lire al giorno, ovvero un vivere agiato. E chi negherà essere più giusto che tutti vivano agiatamente, invece di far perire nella miseria nove decimi della nazione, acciocchè pochissimi abbiano a possedere oltre il bisogno? Ma la ragione che rende impossibile la pratica di tale idea è più potente di questa ridicola menzogna.
Una tale ripartizione sarebbe operazione complicatissima, nè mai potrebbesi evitare la frode; la società dovrebbe sottostare ad una continua forza tirannica, che spigolasse tutte le borse, altrimenti la materiale uguaglianza stabilita non durerebbe che un giorno solo.
Sortono alcuni da questo campo, che per essi lo trovano troppo gretto e materiale, e dicono; noi allevieremo, anzi distruggeremo i mali del proletario con l’educazione. Strana utopia di questa buona gente, condannata dalla natura a vivere d’astrazioni! Come vi procaccerete le grandi somme necessarie all’educazione dei proletarii, alla loro esistenza durante tale educazione, ed al compenso che bisogna pagare alla famiglia privata del guadagno che avrebbele fruttato il lavoro del giovane che voi gli rapite per educare? Con le gravezze forse? Ma non sapete che, rispettando il diritto di proprietà, esse ricadono precisamente sul proletario, nel modo stesso che la base sopporta tutto il peso e le pressioni del soprastante edifizio? Voi l’affamerete per educarlo. Ma vogliamo ammettere possibile la vostra utopia; cosa guadagneranno con l’educazione? Condannati, come Sisifo, ad un perpetuo lavoro, non avendo che qualche ora necessaria a rinfrancare le forze, l’educazione ricevuta li farebbe più infelici. Se hanno da vivere da bruti, è meglio lasciarli bruti quali or sono.
I più positivi propongono l’associazione, ed esaltano la sua innegabile potenza, ma più che l’associazione è potente il capitale. Non vale proporre come regole alcune eccezioni; egli è una delle cardinali verità di economia pubblica, non solo che l’associazione del lavoro deve soccombere in contro alla potenza del capitale, ma eziandio che i piccoli capitali sono inesorabilmente condannati ad essere inghiottiti dai grandi. L’associazione del capitale e del lavoro non conviene al capitalista, specialmente se fa uso di macchine. Alcuni il negano asserendo che l’associazione del capitale e del lavoro, accrescendo il prodotto, debba riuscire eziandio vantaggiosa al capitalista, senza riflettere, che il guadagno individuale del capitalista con tale associazione scema moltissimo. Infatti, eglino medesimi aggiungono: se questa associazione non è libera, ma imposta da una legge, i capitali saranno trafugati. Contraddizione manifesta, imperocché se reali fossero i vantaggi del capitalista, sarebbero ben presto conosciuti, ed ognuno, senza contrasto, contentissimo sottoporrebbesi a tal legge. Quindi per fornire di capitali il lavoro, altro mezzo non v’è che imporre gravezze a coloro che posseggono; ma quale ne sarebbe il risultamento il dicemmo: gli operai verrebbero affamati e non soccorsi.
Concludiamo, che l’offrire a tutti un vivere agiato, cardine su cui, giusta la sentenza del Filangieri, debbono poggiare gli ordini sociali, non solo non è in uso nella moderna società, ma non v’è alcun mezzo onde soddisfare a tale condizione. La società è divisa in due parti, possessori e nullatenenti, che il diritto di proprietà determina. L’economia pubblica, pigliando le mosse da questo diritto, sviluppa le sue leggi, che si basano su di esso. Queste leggi regolano inesorabilmente il rapporto fra queste due classi, e conducono a conseguenze inevitabili e funeste. Cotesti rapporti che risultano di fatto non possono modificarsi, sotto pena di un deperimento universale; unica legge possibile è la libertà: conseguenza di essa, miseria sempre crescente. Se togliete al ricco parte del suo avere onde soccorrere il povero, egli, mentre con una mano sborsa il denaro che gli vien chiesto, con l’altra lo rapisce di nuovo; ben presto incarisce il vivere, e la miseria s’accresce. Dunque: la causa che volge tutte le riforme in danno del povero, la causa che accrescendo continuamente la miseria, mena, come altrove vedemmo, alla dissoluzione sociale, e contrasta allo scopo principale, che si propone la società, il benessere di tutti, o almeno de’ più, è il mostruoso diritto di proprietà. La logica adunque impone di rimuovere l’ostacolo, poco curandosi delle conseguenze; la società riprenderà da sè l’equilibrio, dal caos naturalmente verrà il cosmos. Verremo ora a rincalzare il nostro ragionamento, per sè medesimo abbastanza chiaro, con l’opinione di due illustri uomini, Cesare Beccaria e Mario Pagano.
«Il furto, dice Beccaria, non è per l’ordinario che il delitto della miseria e della disperazione, il delitto di quella infelice parte di uomini a cui il diritto di proprietà (terribile e forse non necessario diritto) non ha lasciato che una nuda esistenza.»
Molto più a lungo ed esplicito ne ragiona Mario Pagano: «Quello che viene occupato, posseduto ed ingombro dal nostro corpo è pur nostro, perchè ivi si estende» la nostra fisica potenza, e morale benanche. Quell’aria che respiriamo, e ch’ebbe eziandio, sotto la tirannide de’ greci imperatori, a riscattare con un dazio l’avvilito mortale; quella porzione di terra che premiamo col piede, la quale è solo retaggio di gran moltitudine d’uomini; quello spazio cui riempie il nostro corpo, il quale neppure ci si toglie con la vita stessa, è così nostro come le proprie membra. Quei prodotti della terra che, per sostenimento della nostra vita occupa la nostra mano, per la medesima ragione sono nostri, che della pianta sono non solamente il tronco, i rami, le radici, il suolo ove quelle vengono confinate, ma ben’anche quel nutrimento, quell’umore, quei succhi, che beono le sue radici, e servono al conservamento suo.
Ma come poi si appropria un uomo solo quelle ampie foreste, quegl’immensi campi che non misura il suo piede, la mano sua non occupa, e neppur signoreggia lo sguardo?
La natura un patrimonio comune ha conceduto agli uomini tutti, ha legato loro un’ampia eredità, la quale è questa terra, dal cui seno prodotti gli ha, e nel seno della quale, gli ha piantati e radicati. Come alle piante per nutrirsi ha dato le radici, così le mani all’uomo per estendere la sua forza sul retaggio comune, e far proprio ciò che alla sua sussistenza faccia d’uopo. Ma queste naturali potenze dirette dalla sua sensibilità, e svilupate dalla sua mano, hanno un termine ed un confine, tra il quale quando esse sono racchiuse, divengono morali potenze, e diritti originali dell’eterna immutabile legge dell’ordine.
E quali sono mai questi confini, e quali gli stabiliti scopi? I limiti delle azioni sono, come si è detto, dalle reazioni degli altri essere circoscritti. Quando l’essere dalla sua sfera uscendo invade ed occupa lo spazio e la sfera d’un altro, quello reagisce e riurta, e nella propria situazione lo ripone. Quando un corpo vuol penetrare nell’altro, cioè passare in quella parte dello spazio occupato da quella, ritrova la resistenza che impenetrabilità diciamo, prova la reazione, o se mai persiste nello sforzo di compenetrarvi, vien finalmente distrutto. Così se tu mortale, distendi la tua mano e la tua forza di là dei confini che ti segnò natura, se occupi dei prodotti della terra tanto che ne siano offesi gli altri esseri tuoi simili, e manchi loro la sussistenza, tu proverai il riurto; il tuo delitto è l’invasione, il violamento dell’ordine; la tua pena è la tua distruzione.»
Così i fatti, la ragione, l’autorità d’accordo protestano e dichiarano il diritto di proprietà la causa dei mali, alla cui piena indarno la società oppone argini e serragli. Egli è cosa mostruosa scorgere la proprietà del frutto dei proprii lavori, non solo non protetta dalle leggi, ma annullata, manomessa, in vantaggio dell’usurpazione dichiarata proprietà sacra ed inviolabile. Si garantisce la proprietà, e più tosto che violarla si lasciano migliaia d’infelici perire nella miseria; ma non proteggono le leggi il frutto de’ lavori d’un operaio, i sudori di un contadino, contro l’usura e l’avidità dei capitalisti e dei proprietarii. È dichiarato assassino colui che uccide per rapire un pane necessario alla sua esistenza; uomo onesto chi, divorando il vitto sufficiente a dieci famiglie, lascia che queste periscano d’inedia. E ciò avviene in nome della giustizia; prova evidente che essa altro non è che una parola, il cui significato cangia al cangiar dei rapporti sociali: quello che oggi dicesi giusto, i posteri lo vedranno con l’orrore medesimo che noi riguardiamo il diritto di vita e di morte che accordavasi al padrone sugli schiavi. Il frutto del proprio lavoro garantito; tutt’altra proprietà non solo abolita, ma dalle leggi fulminata come il furto, dovrà essere la chiave del nuovo edifizio sociale. È ormai tempo di porre ad esecuzione la solenne sentenza, che la natura ha pronunciato per la bocca di Mario Pagano: la distruzione di chi usurpa.
X. «L’essere senziente, scrive il Romagnosi, nel sentire, non può mai uscire da sè medesimo. Egli non può sentire che con la propria sensibilità, non può sentire che il proprio piacere o dolore; non può amare o odiare che in sè e per sè; agire cogli altri, ed a prò degli altri, o contro gli altri ma per sè.... Avviene che l’amor proprio d’ognuno trasportato in scietà è un centro d’attrazione, che tende ad appropriarsi il maggior numero di beni, e di servizii; e per sè solo opera anche quando agisce a prò d’altrui, benchè di ciò egli per avventura non si avvegga».
Ecco in poche parole messa a nudo l’umana natura, trovata la cagione di ogni speranza, d’ogni pensiero, d’ogni atto: ricercare il piacere, fuggire il dolore; piaceri e dolori, che secondo l’indole dell’uomo ed i rapporti sociali variano in mille guise, dall’epicureo che cerca il godimento nell’ozio e nella crapula, a Bruno, che preferisce il rogo al dolore di rinnegare le proprie dottrine. Ogni atto è preceduto dalla volontà, e la determinazione di essa è un effetto relativo e proporzionale alla specie ed all’energia de’ moventi, che si riscontrano nel mondo esteriore. Una grande efficacia in questi motivi, esercitata in un individuo d’un’indole capace a sentirla, genera le forti passioni, che richieggono fortissima dose d’amor proprio. Queste forti passioni formano gli eroi e gli scellerati, i grandi genii nelle scienze e nelle arti, ed i grandi corruttori delle une e delle altre.
In una società in cui la fama, il potere, le ricchezze.... non possono sperarsi che dalla guerra, o dal bene operato a prò del pubblico, nascono gli Scevola, gli Attilii, i Curzii. «Chi più di loro, esclama Filangieri, fu agitato da una forte passione, chi più di loro amò per conseguenza sè stesso, chi più di loro servì la società e la patria?». Se poi un governo si farà il distributore di onori, di ricchezze e di ogni altro bene sociale, tutti gli sforzi degl’individui saranno rivolti, non già a guadagnarsi il pubblico plauso, ma le grazie di questo governo: quindi cortigiani, adulatori, sicari; e quanto più l’indole della nazione sarà capace di forti passioni, tanto più impudenti e tiranni saranno i satelliti, che si stringono intorno a questo centro, usurpatore degli universali diritti. Quel popolo, che durante il suo splendore sarà stato ricco d’eroi, nella sua decadenza i seidi avrà numerosissimi, e numerosissimi i martiri se comincia ad accennare al suo risorgimento. Per contro, ove tardo è il corso degli umori e le passioni rimesse non vi saranno nè eroi nè scellerati; all’apogèo come al perigèo tutto sarà pedestre e volgare.
La virtù ed il vizio adunque, nulla hanno d’assoluto; lo loro sede non è nell’uomo ma nella società; i significati di queste parole cangiano al cangiar degli ordini sociali. Infatti, facendo astrazione della società, le virtù ed i vizii spariscono, l’uomo isolato non ha che due qualità; forza ed astuzia. Marco Bruto vicino a morte esclamò: Oh virtù, tu non sei che un nome, io ti seguiva come fossi cosa; ma tu sottostavi alla fortuna. Ingannavasi Bruto: essa non sottostava alla fortuna, ma ai tempi. L’antica Roma riverberava nel suo cuore le virtù già tramontate all’epoca di sua vita: esse erano sentite dall’universale come l’ultima e debole vibrazione di un suono che muore; alle virtù de’ Bruti erano successe le virtù de’ Cesari a cui la società destinava il trionfo.
Queste leggi magistrali della natura, svolte da Vico, da Beccaria, da Pagano, da Filangieri, da Romagnosi e dagli altri filosofi italiani non imbastarditi dall’eclettismo d’oltremonte, sono l’ordito su cui debbono adattarsi gli ordinamenti sociali, sono i veri che debbono dar norma a tutte le istituzioni; e noi su tali principii baseremo il ragionamento che segue.
Il fine che si propone la società nel costituirsi, altro non dovrebb’essere che assicurare il pieno e libero sviluppo di queste leggi, facendole tutte concorrere al pubblico bene. Se esse vengono violate o interdette nella benchè minima parte, l’opera non solo è tirannica, ma stolta, perchè invano combattesi contro le forze della natura.
Da questo vero il principio d’autorità viene completamente distrutto; chiunque vuole insegnarmi la virtù, costringermi a seguirla, è un impostore o un tiranno; un impostore se a convalidare le sue dottrine chiama in aiuto il misticismo, un tiranno se ricorre alla forza, e se non giovasi, o non può giovarsi di alcuno di questi due mezzi. Le dottrine de’ pittagorici, quelle di Platone, il manuale d’Epiteto, la morale del Vangelo, non hanno per tanti secoli non dico modificata, ma neanche scossa l’umana natura; gli uomini usando diverse parole hanno sempre operato nel modo medesimo. Il Vangelo, non solo ha predicato la fratellanza e la mansuetudine, minacciando le pene dell’inferno, ma ha ricorso alla spada, ai tormenti, al rogo... e che cosa ha ottenuto con tali mezzi? Ha costretto la natura umana che sempre ubbidì alle medesime leggi, a covrirsi con la maschera dell’ipocrisia. Invano verrà inculcato l’amor di patria ove la patria non dona che miserie e stenti; nè vi sarà bisogno inculcarlo quando la felicità del cittadino dipenderà dalla grandezza e prosperità di essa. A che predicherete l’amore della gloria, il disprezzo delle ricchezze, in una società ove, non curata la fama, potentissimo è l’oro? E se i beni maggiori saranno conseguenza della fama e delle virtù, tale dottrina non avrà bisogno di apostoli. Concludiamo, che il pubblico costume, assolutamente indipendente dalle dottrine, dalla fede, dalle pene, scaturisce immediatamente dai rapporti e dagli ordini sociali; voler cangiare i costumi, senza cangiar questi è impossibile, quindi: un governo regolatore de’ costumi è la più stupida ed assurda tirannide che mai uomo possa immaginare.
L’origine del governo fu il dominio eroico de’ forti sui deboli. Le prime leggi, l’arbitrio di quelli, in seguito trasformaronsi in consuetudini. I famuli resi potenti per numero, impedirono i nuovi arbitrii, obbligarono i forti a sottomettersi alla ragione storica, a rispettare le consuetudini, le quali furono, perciò, il rudimento del patto comune, del codice. Questo patto, comunque modificato, non ha potuto, nè potrà mai librare su giusta lance i diritti di tutti: imperciocchè trae origine dalla violenza e dall’usurpazione, e dovrà esservi sempre qualche parte che preponderi, qualche altra che minacci reazione. A mantenere nella società questo labile equilibrio, ebbesi uopo del governo, che può definirsi l’ostacolo allo sviluppo delle leggi naturali, il sostegno de’ privilegii. Ma se ogni privilegio cessasse, se i diritti risultassero dai rapporti reali e necessarii delle cose, il dovere diverrebbe un bisogno; l’uomo non servirebbe più all’uomo ma, come scrive Romagnosi, solamente alla necessità della natura, ed al proprio meglio. In altri termini il Filangieri esprime l’opinione medesima: «L’uomo non può essere felice, dic’egli, senza esser libero. L’uomo non può essere felice senza convivere coi suoi simili. L’uomo non può convivere co’ suoi simili senza governo e senza leggi. Dunque per essere felice deve esser libero e indipendente. Ma il dovere senza la volontà esclude la libertà; la volontà senza il dovere esclude la dipendenza. Il nesso che unisce queste due opposte condizioni non può essere che, la volontà di far ciò che si deve». Quindi la società costituita ne’ suoi reali e necessarii rapporti, esclude ogni idea di governo, e come ben equilibrato edifizio regge da sè, senza aver bisogno di fasciature o di rinfianchi. Questi principii de’ nostri padri ora cominciano a discutersi eziandio in Francia; ivi esclama Proudhon: «chiunque mette la mano su di me per governarmi, è un usurpatore, un tiranno, io lo dichiaro mio nemico...»; ed altrove: «chi siete voi per sostituire la vostra saggezza di un quarto d’ora, alla ragione eterna ed universale?»
Ciascuno nasce con speciali attitudini ed inclinazioni, ed una società ben costituita dovrebbe offrire ad ogni individuo i mezzi onde soddisfar queste ed utilizzar quelle, e così, seguendo l’uomo la propria volontà ed il proprio utile, seconderà la volontà collettiva e l’utile pubblico. Derogare a questa legge e costringere l’uomo ad un lavoro forzato è una tirannide. Quindi il governo, che lo abbiamo trovato assurdo e tirannico, tanto come correttor di costumi, quanto come sostegno del patto sociale, come educatore è inutile; l’educazione altro non deve essere, che una legge generale, con la quale pongansi a disposizione d’ogni cittadino, onde facilitare lo sviluppo delle sue facoltà fisiche e morali, tutti i mezzi di cui dispone la società.
Ma ancora più innanzi vanno i mali, che, senza utile veruno, sgorgano inevitabilmente dal governo. Se ad esso non concedansi nè altra forza, nè altri mezzi onde esercitare il potere, se non quelli che potrà trarre dall’universale appoggio, che i cittadini darebbero ai suoi atti, credendoli giusti, ne risulterà un governo inutile e ridicolo: lo si vedrà darsi cura di educazione, di costumi, di patto sociale; fatti, i quali risultano e si sostengono in forza de’ rapporti medesimi delle cose, che esso, privo di forza, non potrà menomamente modificare; epperò quanto più operoso, tanto più sarà ridicolo; se poi gli concederete forza materiale, e lo farete distributore di cariche, di premii, di onori, allora cominciano i perigli per la società. Colui o coloro nelle cui mani verrà affidato il maestrato supremo, come nel precedente capitolo dicemmo, dovranno, perchè uomini, soggiacere all’impero delle passioni e delle loro imperfezioni fisiche e morali: quindi il giudizio e le determinazioni di questo governo dovranno, senza dubbio, trovarsi in disaccordo coi giudizii e le determinazioni del pubblico, che, essendo la media di tutti i giudizii e le determinazioni individuali, resta scevra da tali influenze. Dichiarare un governo rappresentante la pubblica opinione e la pubblica volontà, è lo stesso che dichiarare una parte rappresentante del tutto. Inoltre, l’uomo per sua natura sdegna i rivali e l’opposizione, e gli amici del governo non saranno certamente coloro, che manifestano i suoi errori, che contrastano la sua opinione, ma bensì quei che lo piaggiano; gli oppositori saranno occultamente odiati, e, se lo si potrà impunemente, oppressi; negarlo è un disconoscere l’umana natura, è negare la storia, negare i fatti che tuttodì si riproducono; quindi questo governo sarà sempre un’ulcera che tende a spandere la cancrena sull’intera società.
Se, cessando dal ragionare, ci faremo a scendere nel fondo della nostra coscienza, ad interrogare l’intimo nostro sentimento, vi troveremo la condanna d’ogni governo. Quella complicazione di ruote, aggiunte alla macchina sociale, per tutelarsi contro l’usurpazione e la tirannide de’ governanti, ha già fatto pessima prova; senza impedire i mali, li accresce, e rende il procedere lento ed incerto. La pubblica opinione è affatto cangiata su tale riguardo; ognuno, nei tempi passati, sforzavasi ad aggiungere qualche pezzo alla macchina, o come regolatore, o come moderatore, mentre ora, per contro, tendesi alla semplificazione, il cui ultimo termine è l’anarchia, ove l’umano intelletto s’accheterà. I propugnatori de’ governi forti fanno fine ad ogni loro diceria, ad ogni loro ragionamento, col proporre le misure da cui eglino sperano la pubblica felicità; ed il convincimento che riscontrasi in ogni individuo, che i soli provvedimenti per reggere con successo la cosa pubblica, son quelli che egli nasconde nel proprio cuore, è la condanna la più aperta d’ogni forma di governo.
Da quanto esponemmo possiamo desumere, che le numerose esperienze registrate dalla storia, che nelle leggi regolatrici della natura trovano piena conferma, additano come terribili sorgenti di male, come ostacoli all’umana felicità, come scogli di sicuro naufragio, il diritto di proprietà ed il governo. Ma come la società, diranno molti, priva di questi mali, potrà reggere? Cosa verrà ad essi sostituito? Non sono questioni che deve farsi il rivoluzionario, né che si fanno le moltitudini.
Quello addita la causa dei mali, gli ostacoli al bene pubblico; queste irrompono come marosi mugghianti e li rovesciano. La società, come le acque che tendono sempre a livellarsi, riprenderà da sè l’equilibrio; egli è strano pretendere che un uomo dia conto di ciò che l’universale volontà potrà compiere. Nondimeno, dalle leggi stesse naturali ed eterne, che ci hanno condotti a queste conclusioni, emergono alcuni principii inconcussi, che violati in tutto o in parte dalle varie società antiche e moderne, sono state e saranno la ragione di loro ruina; questi principii, che ora verremo svolgendo, sono superiori ai diritti de’ popoli, e sono gl’incastri fra’ quali l’umanità, dopo tante penose oscillazioni, verrà ad assettarsi.
XI. La natura avendo concesso a tutti gli uomini i medesimi organi, le medesime sensazioni, i medesimi bisogni, li ha dichiarati eguali, ed ha, con tal fatto, concesso loro uguale diritto al godimento dei beni, che essa produce. Come del pari, avendo creato ogni uomo capace di provvedere alla propria esistenza, lo ha dichiarato indipendente e libero.
I bisogni sono i soli limiti naturali della libertà ed indipendenza; quindi, se all’uomo si facilitano i mezzi a soddisfarli, la libertà ed indipendenza è più completa. L’uomo s’associa onde più facilmente soddisfare ai suoi bisogni, ovvero ampliare la sfera in cui si esercitano le sue facoltà, e conseguire libertà ed indipendenza maggiore: epperò ogni rapporto sociale che tende a mutilare questi due attributi dell’uomo, non ha potuto, perchè contro natura, contro il fine che si propone la società, stabilirsi volontariamente, ma dovette subirsi a forza; esso non può esser l’effetto di libera associazione, ma di conquista o d’errore. Dunque ogni contratto, in cui una delle parti, dalla fame o dalla forza, viene costretta ad accettarlo e mantenerlo, è violazione manifesta delle leggi di natura; ogni contratto dovrà perciò dichiararsi annullato di fatto, appena mancagli il liberissimo consenso delle due parti contrattanti. Da queste leggi eterne ed incontrastabili, che debbono essere la base del patto sociale, emergono i seguenti principii, i quali riassumono l’intera rivoluzione economica:
1.° Ogni individuo ha il diritto di godere di tutti i mezzi materiali, di cui dispone la società, onde dar pieno sviluppo alle sue facoltà fisiche e morali.
2.° Oggetto principale del patto sociale, il guarentire ad ognuno la libertà assoluta.
3.° Indipendenza assoluta di vita, ovvero completa proprietà del proprio essere, epperò;
a) L’usufruttuazione dell’uomo all’uomo abolita;
b) Abolizione d’ogni contratto ove non siavi pieno consenso delle parti contraenti;
c) Godimento de’ mezzi materiali, indispensabili al lavoro, con cui deve provvedersi alla propria esistenza;
d) Il frutto de’ proprii lavori sacro ed inviolabile.
Determinata con tre principii fondamentali la rivoluzione economica, passeremo alla politica.
I bisogni sono i limiti della libertà ed indipendenza. Questa legge è innegabile ed universalmente sentita. Ogni altra legge o principio, non sentito ma predicato, non può essere altro che impostura di qualche scaltro che tenda profittare dell’altrui semplicità, ovvero effetto dell’ignoranza di chi predica e di chi ascolta, e la gerarchia, che viola direttamente libertà ed indipendenza, è contro natura.
La sovranità risiede nella nazione intera. Gli atti di ogni uomo sono proporzionati e conseguenza della facoltà di sentire, variabile in ogni individuo; del pari, gli atti della sovranità sono proporzionati e conseguenza della media fra tutte le facoltà di sentire de’ varii individui che la compongono: media in cui son distrutte tutte le particolari influenze alle quali ogni essere più o meno soggiace: la sovranità è il senso comune, ovvero, come dice Vico, quel giudizio, che senz’alcuna riflessione viene comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutto il genere umano, ed il delegarla è un assurdo, come sarebbe quello di delegare la propria sensibilità; essa è inalienabile, risiede nell’intera nazione, nè mai può essere legittimamente rappresentata da una parte di essa. Le leggi di natura, sotto pena di gravissimi mali, proibiscono il comandare del pari che l’ubbidire. Un popolo, che per esistere più facilmente delega la propria sovranità, opera come uno, che, per meglio correre, legasi gambe e braccia. Da queste verità emergono i seguenti principii, che fanno seguito a quelli già stabiliti.
4.º Le gerarchie, l’autorità, violazione manifesta delle leggi di natura, vanno abolite. La piramide — Dio, il re, i migliori, la plebe — adeguata alla base.
5.º Come ogni italiano non può essere che libero ed indipendente, del pari dovrà esserlo ogni comune. Come è assurda la gerarchia fra gl’individui, lo è fra i comuni. Ogni comune non può essere che una libera associazione d’individui, e la nazione una libera associazione dei comuni.
Intanto molti ostacoli materiali e morali vietano in molte occorrenze le funzioni della sovranità. I principii stabiliti, conseguenza delle leggi di natura, non sono che il primo ordito degli ordini sociali e non bastano: bisogna discendere a determinare i varii rapporti che dovranno essere d’accordo con essi. In questa laboriosa ricerca, la nostra natura, vinta dal costume, e, smarrita nel suo corso, ad ogni passo cade nell’errore; quindi richiedesi una continuità d’attenzione, una serie di ragionamenti, cose per le moltitudini impossibili, e soventi mancherebbe il luogo e il tempo, onde far agio a sì numerosa assemblea di riunirsi e deliberare.
Cotesti lavori sono da individui, ed uno solo dev’essere dichiarato legislatore. Inoltre, è una verità dimostrata all’evidenza da Romagnosi, che il giudizio di tutti i savii del mondo può essere erroneo nel sindacare il lavoro compito da un solo; quindi un congresso di delegati del popolo avrebbe l’incumbenza, non già di svolgere, di sopraccaricare di clausole ed emendamenti le leggi proposte, ma solo di verificare scrupolosamente se i principii immutabili, dichiarati base del patto sociale, vengano in qualche parte lesi da queste leggi. Fatto ciò pubblicarle; nè può andar più innanzi il potere del legislatore e del congresso; la nazione le adotterà se vorrà, e quando vorrà, non avendo il diritto di concedere ad uno o a pochi il potere d’impor le leggi: l’attuazione di esse è atto della sovranità, e la sovranità non può delegarsi. I concetti di un individuo possono definirsi i pensieri della nazione; è il modo di cui essa si vale a manifestare il suo concetto collettivo. Per la ragione medesima, che la sovranità non può abdicarsi o trasmettersi, non potrà determinarsi la durata delle funzioni del legislatore e del congresso; esse cesseranno, appena la nazione il vorrà; e la volontà del mandante dovendo costituire la legge del mandatario, ogni deputato non può essere che sempre revocabile da’ suoi elettori. L’imporsi per un dato tempo un governo o un’assemblea, è un assurdo, come lo è per un individuo il costringersi con un voto. È lo stesso che dichiarare la volontà e la determinazione di un momento arbitra e tiranna della volontà che progressivamente può manifestarsi in avvenire. Di qui i principii che seguono.
6.° Le leggi non possono imporsi, ma proporsi alla nazione.
7.° I mandatarii sono sempre revocabili dai mandanti.
Di più la natura stessa, che ha creato l’uomo indipendente e libero, ha dotato ogni individuo di attitudini speciali: d’onde la potenza del lavoro collettivo, la sociabilità. Coteste attitudini sono quelle appunto che, nelle varie operazioni della vita, costituiscono la diversità delle incumbenze. Dichiarare un’incumbenza più nobile che un’altra è un assurdo degno di una società che ha vanità e privilegio per base. «Ma qual si è l’arte vile, esclama Mario Pagano, quando ella giova alla società? vile è l’opinione degli uomini, che avvilisce gli utili mestieri». Ed è eziandio assurdo dichiarare una funzione più che un’altra faticosa; la meno faticosa è quella che meglio armonizzi con le proprie attitudini ed inclinazioni, epperò esse solamente debbono dar norma alla distribuzione delle varie cariche e mestieri che nella società si riscontrano.
In tutte le varie operazioni dell’intera società o di un nucleo qualunque di cittadini, sono indispensabili gli ordini, e la distribuzione delle funzioni; egli è impossibile operare tumultuariamente. Ciò deve aver luogo nelle grandi, come nelle piccole cose, tanto nella guerra e nella pubblica amministrazione, come in qualunque altra speculazione o industria. A conservare illesa la sovranità nazionale, nel caso che una parte di cittadini debba compiere un’impresa che riguarda l’intera società, due condizioni si richieggono, cioè: che l’impresa da eseguirsi e gli ordini d’adottarsi siano il risultamento della volontà nazionale, il che emerge di fatto dai principii 6.° e 7.°; e che la distribuzione delle varie funzioni fra quel nucleo di cittadini operanti venga fatta da que’ cittadini medesimi. Se la nazione volesse indicare i capi che debbono dirigerli, violerebbe manifestamente la libera associazione. Quindi i principii seguenti:
8.° Ogni funzionario non potrà che essere eletto dal popolo, e sarà sempre dal popolo revocabile.
9.° Qualunque nucleo di cittadini i quali sieno dalla società destinati a compiere una speciale missione, hanno il diritto di distribuirsi eglino medesimi le varie funzioni, ed eleggersi i proprii capi. Finalmente l’uomo, facendo parte di una società, è immedesimato con essa; e questa società proponendosi come fine principale non solo di guarentire, ma di ampliare quanto più sia possibile la libertà ed indipendenza individuale, ed ogni offesa di individuo riducendosi alla violazione di questi due attributi, ne segue che le offese private debbono tutte considerarsi come offese pubbliche; ogni misfatto, ogni delitto, ogni errore offende direttamente l’intera società, la quale giusta il tacito patto che ha con ognuno de’ suoi membri, ha il dovere di vendicare l’offeso, e con l’esempio contenere i male-intenzionati; e questo dovere della società, per la natura medesima dell’uomo, portato a vendicare altrui a tutela di sè medesimo, diventa, come dice Romagnosi, controspinta, ma non già criminosa; imperocchè l’urtato ha il diritto di riurtare, ed il riurto risulta, evitando la riproduzione del delitto utile. Se poi ci faremo a considerare come ogni delitto trovi la cagione promotrice negli ordini sociali, nell’indole dell’individuo, dovremo conchiuderne che il patto sociale debba esser volto a rimuovere le cagioni del delinquere ed all’educazione dei colpevoli, onde non venga distrutto dalla società medesima uno de’ suoi membri.
Egli è indubitato che le leggi scritte, invariabili, fra il continuo mutar dei tempi e dei costumi riescono, in alcune epoche, soverchiamente rigide, e troppo forte il loro contrasto con la pubblica opinione; quindi l’utile della giurisprudenza, che cerca rammorbidirle ed adottarle ai tempi. Ma se riesce soverchiamente duro il non lasciare al giudice altra facoltà, se non quella di pronunciare la sua sentenza, dietro il sillogismo prescritto dal Beccaria, l’è cosa egualmente perigliosa il dar luogo alla giurisprudenza, che conduce all’arbitrio. Come evitare entrambi questi inconvenienti che risultano dall’ordine stesso sociale, dallo svolgersi e modificarsi dei rapporti? rimandate il reo ai suoi giudici naturali, al popolo. Le leggi scritte siano di norma, e non d’altro; le decisioni del popolo superiori ad ogni legge. Potrà il popolo eleggere dal suo seno alcuni cittadini e costituirli giudici; ma i giudizii di questi saranno sempre annullati dalla volontà collettiva, a cui deve riconoscersi come diritto inalienabile, inerente alla sua natura, alla sua sovranità, la decisione suprema di ogni contesa. Così non potrà più avvenire, che vengano inflitte punizioni contraddittorie alla pubblica opinione ed ai tempi; così avverrà che le leggi seguiranno lo svolgersi ed il mutare dei costumi, nè mai questi verranno in lotta accanita o sanguinosa con esse. Adunque:
10.° La sentenza del popolo è superiore ad ogni legge, ad ogni maestrato. Chiunque credesi mal giudicato può appellarsi al popolo.
E così prendendo le mosse da due semplicissime ed incontrastabili verità: 1ª L’uomo è creato indipendente e libero, e solo i bisogni sono assegnati come limiti a questi attributi. 2ª Per allontanare da sè questi limiti, a rendere sempre più, ampia la sfera di sua attività l’uomo si associa epperò la società non può, senza mancare al proprio scopo, ledere in minima parte gli attributi dell’uomo; siamo stati condotti alla dichiarazione di dieci principii fondamentali, de’ quali un solo che non venga rigorosamente osservato, la libertà e l’indipendenza saranno violate. Dunque ogni contratto sociale, volto, non già a confermare l’usurpazione di una classe, ma la felicità dell’intera nazione, deve aver come base questi principii.
XII. Pria di procedere più innanzi, rileva rammentare per sommi capi quello di cui sino ad ora discorremmo in questo saggio. Ragionando del progresso abbiamo scorto come le società tendono nelle varie loro evoluzioni ad assettarsi fra le leggi naturali, e quando, per errore dell’istinto, per disaccordo del sentimento con la ragione, se ne allontanano, esse rapidamente declinano.
Indi osservammo, come lo scambio facilissimo delle idee e dei prodotti, abbia fatto di tutt’Europa un popolo di costumi, di leggi, di propensioni quasi uniformi; e noi abbracciandolo nel suo insieme ne siamo venuti scrutando le tendenze, sì economiche che politiche. Il continuo aumento del prodotto sociale, il restringersi il numero de’ possessori di esso, il crescere incessante dei miseri e della miseria, sono cose evidenti, innegabili; e quindi i mali, la necessità di migliorare, la reazione de’ miseri, contro i pochissimi ricchi, certa, immancabile. Quinci, sotto varie cagioni mascherato il connubio dei pochi agiati co’ despoti; e ad ogni minaccia, ad ogni rivolgimento, crescere le milizie perpetue, solo argine contro la numerosa plebe, e da questa lotta emergere indubitamente il despotismo militare, o il trionfo della democrazia, l’uno seguito dalla licenza e dalla dissoluzione, l’altro dal rinnovamento sociale. Altra alternativa non v’è.
Incerti, ci siamo fatti a cercare quale delle due soluzioni fosse la più probabile. L’atteggiamento, i tentativi, il cupo premere del proletario, fanno fede che la sua fibra è rozza, non flacida; l’elatere n’è compresso, ma non spento; quindi havvi speme di vita. Il soldato che lo fronteggia non è pretoriano, non avventuriere, ma proletario anch’esso, affatturato da magica forza, che lo costringe a sacrificare sè medesimo in sostegno delle proprie catene e di quelle de’ suoi eguali, epperò la speme che la sua ottenebrata mentre possa balenare per un istante; e ciò basterebbe alla società per risorgere. Questi incerti e pallidi raggi di luce ci sembrarono fulgidi, scorgendosi quasi nunzi del nuovo giorno la splendida pleiade de’ socialisti, la tendenza delle moltitudini all’associazione, la preponderanza, che giornalmente il concetto sociale acquista sul politico. Ristorato l’animo, ci siamo ristretti all’Italia solamente.
Abbiamo fatto studio sulle varie questioni politiche, che si agitano in seno della nostra patria, e dimostrammo quanto vana ed inutile sarebbe la loro soluzione, se non si sbarbicassero le due cagioni da cui la miseria, la schiavitù, la corruzione irraggiano, proprietà e governo. In ultimo abbiamo stabiliti dieci principii, conseguenza immediata delle leggi di natura come base del futuro contratto sociale. Ora non verremo esponendo un sistema, proponendo ordini, promettendo felicità, nè esorteremo con gonfie declamazioni gli italiani alla concordia o alla battaglia. Studieremo le forze che operano nel seno della nazione, ne cercheremo l’intensità, la direzione, la risultante, onde conoscere cosa l’Italia sarà, non già cosa i partiti vogliono che essa sia. Epperò cominceremo dall’esaminare quale sia lo stato dell’Italia relativamente alle altre nazioni dell’Europa.
- Testi in cui è citato Giovanni Vincenzo Gravina
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