Scola della Patienza/Parte seconda/Capitolo III
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CAP. III.
Come l'afflittione insegna l’Oratione, e la Mortificatione.
L’Oratione è a guisa d’una bellissima, e soavissima rosa; ma se non hà le sue spine della mortificatione non hà troppo buon odore. E’ commune parere di tutti i Santi Dottori, che l’oratione senza la mortificatione sia quasi di nessun valore; che una non possa star senza l’altra; e che queste due cose non si possino fra di loro separare. Quindi è, che essendo una volta lodato un Religioso in presenza del N. S. P. Ignatio, per huomo di molta oratione; il Santo soggiunse in un’altro tono: egli è un’huomo di molta mortificatione, che non solamente attende a macerare il corpo, ma ancora, e molto più a vincere, e suggiogare la propria volontà, e giuditio.2 E che queste due cose, cioè l’oratione, e la mortificatione s’insegnino benissimo nella Scuola della Patienza l’andarò mostrando in questo capitolo.
Note
§. 1.
Il primo è che se la Cetera, o la Lira è di più corde, è necessario che tra di loro siano molto ben accordate, perche se una sol corda non consonerà con l’altre, tutto il concento si perde. Ne altrimente occorre nella materia nostra. Perche Quicumque totam legem servaverit, offendat autem in uno, factus est omnium reus.2 Se uno osservarà tutta la legge, e in una sol cosa manchi, è come se non ne osservasse niente. Sij pur casto, e limonisiero quanto tu vuoi: se con tutto ciò sei iracondo, e invidioso; già il concento è nullo, ed è come se non avesti fatto niente. E per il contrario, sij tu mansuetissimo senza portar invidia a nessuno, se con tutto ciò non sei casto, l’harmonia è perduta, e sei d’ogni cosa fatto reo. Perciò cantate al Signore nella Ceterea, e nella Cetera che sia molto bene accordata. Tal sia la tua oratione qual sia la tua vita.
Il secondo: In voce psalmi. vuole che la voce s’accordi con il suono de gli strumenti. Che se una sol voce sarà discorde, già la soavità del canto è spedita. Chi ora, sappia ciò, che dice: bisogna, che la vera oratione sia attenta.
Il terzo: In tubis ductilibus. La tromba è un’instrumento,che non si fà se non con molte martellate, il che significa la mortificatione: è molto più difficile a vincere se stesso, che qualsivoglia potentissimo nemico. Neque vero gloriosa est victoria: (come dice S. Ambrogio) nisi ubi fuerint laboriosa certamina.3 Nè gloriosa è quella vittoria, dove non siano state faticose le battaglie. Quello fà, e suona bene una tromba, che a se stesso valorosamente comanda.
Il quarto: et voce tubae corneae. La cornetta è un’instrumento stretto; e angusto, ma è molto artificioso, e soave, se hà un perito e valente sonatore. Quì ci vien significato il digiuno, e la limosina. Ergo bona est oratio cum ieiunio, et eleemosyna.4 Adunque buona è l’oratione col digiuno, e la limosina. E buona è quell’oratione, ch’è accompagnata dalla mortificatione. Noi cantiamo spesso a Dio, ma senza suoni, e instromenti, e così la nostra musica non vale niente, facciamo oratione, mà non castighiamo la ribellione della nostra carne. Con questa frode molti s’ingannano. Poiche facendo spesso oratione, e stando tutto il giorno in ginocchioni si pensano d’esser huomini di molta oratione, e per tali si tengono. Voi dunque siete quei musici così valenti? La voce sola non è ingrata, mà dove sono le trombe, dove la cetera, dove la cornetta? E’ buona l’oratione mà dov’è la mortificatione? Queste cose bisogna, che stiano insieme altrimenti la musica non andarà bene. Christo non ci insegnò solamente a fare oratione, mà c’insegnò ancora ad odiare noi stessi; e là nel monte Oliveto non solamente ordinò ai suoi, che orassero, ma che vegliassero ancora, ne si lasciassero vincere dal sonno. Tutte due queste cose s’insegnano nella Scuola della Patienza, e l’oratione, e la mortificatione. Ditemi di gratia, quanti marinari havete voi veduto far oratione passata ch’è la tempesta, rasserenato già il cielo, e dopo il pericolo del naufragio? Quanti soldati havete voi veduti a battersi il petto mentre lontani dal nemico stanno raccontando favole, e burle appresso il fuoco? Appresso moltissimi huomini tanta stima si fa di Dio nelle prosperità, quanto conto facciamo noi altri del caldo d’una fornace nel mezo dell’estate, d’una torcia a mezzogiorno, d’un soldato a tempo di pace, d’un sonatore quando non si balla, d’un architetto quando non c’è da fabbricare. E quanto conto si fà di una tavola bene apparecchiata quando non c’è appetito; d’un’avvocato, ò d’un Procuratore quando non ci sono liti, e del medico, quando tutti stanno sani. Oh come disse bene quel Poeta: Rarae fumant felicibus arae. 5 Quei, che stanno in prosperità rare volte attendono alle divotioni. Nel tempo della prosperità non si attende all’oratione, non si và alla messa, non si accomodano gl’altari, ma come viene poi l’inverno, e si fa sentire il freddo all’hora ci accostiamo al fuoco, quando è notte all’hora accendiamo le candele, e facciamo venire le torcie; quando vi è la guerra, all’hora facciamo soldati; quando siamo infermi, all’hora chiaminamo il medico; quando più incrudelisce la fortuna, all’hora ricorriamo all’oratione, e alziamo le mani al cielo. E così ci vogliono buone bastonate, se habbiamo a far bene.
Note
§. 2.
Quello scelerato Rè Manasse, non haverebbe mai imparato a far oratione, se non fosse stato messo in prigione. Ma che dirò di tanti huomini santissimi? Moisè carico di molti travagli, Giacob perseguitato dal fratello, Sansone burlato da i Filistei, Tobia con la perdita della robba, e de gl’occhi, Sara caricata di mille ingiurie, i tre giovinetti Hebrei nel mezo delle fiamme ardenti, Daniele nel lago de’ Leoni, Pietro in mare, Paolo, e Sila in una stretta prigione, e mille altri, che tralascio, hebbero occasione, e impararono a far oratione in mezo dell’avversità, e de i travagli. Così Giona Profeta imparò ad ubbidire nel ventre d’una Balena, E quei barbari Geraseni dopo haver perduti i porci se ne andarono a supplicar Giesù Christo.
Gl’Apostoli quando stava per affondarsi la lor barchetta; all’hora più, che mai dimandarono il divino aiuto. Poiche la fiera all’hora se ne corre alle tane quando i cani la seguono: all’hora un’albero ombroso è caro a un viandante, quando lo punge il sole, ò sopravien la pioggia. Così a punto siamo noi altri: che quando stiamo bene, non diamo tanto fastidio a Dio con le nostre orationi perche ò non oriamo o, se ’l facciamo, è con molta negligenza, e freddezza. Mà quando i cani ci assaltano, e ci perseguitano, all’hora ci diamo fretta, all’hora ci mettiamo a correre quanto potiamo per ritrovar qualche scampo: Quando siamo travagliati dal caldo delle tribulationi, e delle miserie, e bagnati da una copiosa pioggia di lagrime; all’hora chiamiamo in nostro aiuto Iddio con tutti quanti i Santi. A questo tale potria molto bene dire Iddio: tù non saresti venuto da me, se come Padre non t’havessi chiamato con la ferla. E David era di tanta ingenuità, che confessando questo istesso, disse: Ad Dominum cum tribularer, clamavi.5 All’hora io gridai al Signore invocando il suo aiuto, quando ero tribulato.
Il Rè Faraone stando in una pessima ostinatione osò dire: Nescio Dominum, et Israel non dimittam. 6 Io non sò chi si sia questo Signore, e non voglio altrimente, che il popolo d’Israele si parta. Certamente, che all’hora non havea ancor provato i flagelli di quel Signore, ch’ei diceva non sapere chi si fusse. Ma come poi hebbe provato i suoi castighi, imparò di parlare altrimente. E disse più d’una volta: Orate Dominum, ut desinant tonitrua Dei, et granso.7 Pregate il Signore che faccia cessare questi tuoni spaventosi, e questa grandine. O Faraone adesso tu conosci il Signore? Certo che a tuo marcio dispetto hai imparato a parlar così nella Scuola della Patienza.
E se bene Faraone era uno scolaro indocile del tutto, e di niuna speranza, nondimeno battuto fece profitto. Sentì d’altra maniera, e parlò meglio dopo le percosse, e le battiture. Ma che ci maravigliamo di Faraone? L’istesso Demonio parlando con Christo da lui non conosciuto gl’hebbe a dire: Si filius Dei es, dic ut lapides isti panes fiant.8 Se tu sei figliuol di Dio, converti queste pietre in tanto pane. Ma sentite come mutò parlare quando fù battuto, poiche: Exibant daemonia a multis clamantia, et dicentia, quia tu es filius Dei.9 Uscivano da molti i demonij gridando, e dicendo; Tu sei figliuol di Dio, è più duro del durissimo Faraone, più duro degl’istessi sassi, e peggior assai degli stessi sassi, e peggior assai dell’istesso Demonio. Se alcuno si vorrà portare da huomo nell’afflittione imparerà di far oratione, se prima nol sapeva. L’afflittione è un’ottima maestra per insegnar a far oratione.
Note
§. 3.
Quivi il benignissimo Iddio fa parare a mezo il corso questo sboccato, e feroce cavallo, mentre con danni diversi, e con diverse calamità, e miserie l’incontra per domar questa indomita bestia. E sì come quando un cavallo non si vuol lasciar cavalcare, se gli si cuopre la testa col mantello, così fa Dio con un’huomo feroce, e bestiale, gli mette in testa il mantello della malenconia, e della tristezza accioche impari bene ciò, che prima non voleva.
Dice segnalatamente S. Agostino; equus non se domat, Elephantus no se domat, Aspis non se domat, Leo non se domat, sic homo non se domat, sed ut dometur equus, bos, camelus, Elephantus, Aspis, Leo quaeritur homo; ergo Deus quaeratur, ut dometur homo. 2 Il cavallo dice questo Santo non si doma da se stesso, come ne anche l’Elefante, ne l’Aspide, ne ’l Leone; così ne anche l’huomo si doma, ma per domare il Cavallo, il Bue, il Cammelo, l’Elefante, l’Aspide, e il Leone si cerca un’huomo: adunque per domar l’huomo si cerchi Dio. Ma questo nostro Cozzone mette ancor mano ai flagelli, e molte volte ci tratta, come trattiamo noi altri i nostri giumenti, i quali domiamo con freni, con bastoni, con flagelli, con pertiche, e bisognando ancora col manico del forcone. Hor perche ci lamentiamo quando Dio fa così con noi? Noi siamo giumenti di Dio come dice il Rè David: Homo, cum in honore esset, non intellexit, comparatus est iumentis insipientibus, et similis factus est illis. 3 L’Huomo, quando se ne stava con la sua riputatione, e honoratamente, non se lo seppe conoscere; e perciò fù assomigliato a i sciocchi, e stolidi giumenti, e fù fatto simile a loro. Hor perche non potrà Dio usar le sue ragioni in questi suoi giumenti, e batterli, come più gli farà piacere, cioè castigarli con la povertà, con contumelie, con pianto, e con mestizie?
Non solamente hà domato Iddio con flagelli un Nabuchdonosor, un’Acab, un Manasse, e un Antiocho, mà moltissimi altri ferocissimi Leoni simili a loro, i quali non solo deposero la ferocità, e lasciati i crudelissimi loro affetti, tornarono in se stessi, e si mostrarono da huomini, dove prima gl’haveresti giudicati tutti per bestie. Quod si iumentum (dice S. Agostino) mansuefieri se patiatur, quid ei a te premij est? Nec sepulchrum quidem das mortuo: Deus patientiam tuam remunerabit caelo, et mortuum ad vitam revocabit, nihil tui peribit, Ad hanc spem homo domatur, et domitor intolerabilis habetur? Ad hanc spem homo domantur, et contra istum utilem domitorem, si forte flagellum proferat, murmuratur? Che se ’l tuo giumento si lascia domare, che premio da te riporta? ne anche, quando muore lo sepellisci. Mà Iddio remunererà la tua patienza con darti il cielo, e dopo la tua morte ti ritornerà in vita, e niente di te si perderà già mai. Con questa speranza si doma l’huomo, e chi lo doma è tenuto per intollerabile? Con questa speranza l’huomo si doma, e contra d’un sì utile domatore si mormora, se forsi talvolta adopera la sferza? Habbiamo almeno tanto cervello, quanto ne hanno le bestie. Queste se si attaccano a un cocchio, à una carrozza, a un carro, ò ad un aratro; e con la verga ò con la sferza son percosse; sanno almeno haver quelle bastonate, ò perche vanno fuor di strada, ò caminano troppo tardi, onde tornano subito sù la strada ò camminano più presto.
Siamo ancor noi come persone ragionevoli, almeno tanto sagaci, e scaltri, che quando uno è corretto dal Signore, vada fra di sè pensando, e dicendo: adunque hò fatto male, e sono andato fuor di strada: ecco, che son richiamato con la sferza. E Dio sà dove andavo a parare se mi lasciavano andare? Ma dato che io sia sempre stato nella strada, perche io caminavo troppo adagio, come una tartaruga, però con ragione i castighi m’avvisano, ch’io faccia il debito mio. E così da hora in poi andarò un poco più presto. Sin’hora pareva, che io dormissi, hora starò vigilante, e non perdonarò a fatica alcuna. Se non facciamo così, habbiamo manco cervello delle bestie, le quali, come si è detto, con le bastonate si riducono alla buona strada.
Note
§. 4.
A questo modo gl’huomini diventano bestie; perche mangiano come porci, bevono come tante vacche, tirano calci come asini, e annitriscono come cavalli. Diresti, che fossero nella scuola dell’intemperanza, della lascivia, e d’ogni più svergognata bruttezza, e malvagità. Non condanno le nozze, dice S. Gio. Grisostomo, mà le cose, che si fanno nelle nozze, quella pompa diabolica, quei cimbali, quei pifferi, e quelle canzoni piene di fornicationi, e d’adulterij. Ma non è già così nella casa del pianto, dove si vede ogni cosa ben composta, una quiete grande, un silenzio profondo, dove si trova la memoria della morte, la meditatione delle cose future, e la vera sapienza: dove non vi è cosa disordinata, ne scomposta; ogn’uno che quivi parla, parla piano, poco, e con modestia. Tale è la natura del pianto, insegna ad haver cervello, e a comporsi ad ogni modestia, e frugalità.
E così è molto meglio andare in quella casa dove si piange, che in quella dove si ride, e si banchetta2. Perche da quella ne usciamo più modesti, e più santi; E da questa più sfacciati, più stolti, e più maligni. E si come un corpo, che sia pieno di succo, e di sangue, e, che per la grassezza appena si può regger in piedi, è un preparato alloggiamento per l’infermità, e malatie; e quello che travaglia, e ogni giorno lotta con la fame, è sicuro da simili miserie, così ancora l’animo fra gli spassi, e le delitie si snerva, e si dà tutto in preda à i vitij: mà quello, ch‘è travagliato da fastidi, e da malenconie, per il più è senza vitij, e con le avversità cresce, e diventa più forte.
Et ecco, come l’afflittione, e il pianto raffrena ogni leggerezza, e tutto ciò, che può sapere d’immodestia. Perciò Dio ci manda il pianto, e l’afflittione, per tagliarci l’ale come a tanti uccelli, acciò non habbiamo a volare altrove.
Hor, che stiamo a negare? La nostra conscienza istessa ci fa contra, e ci convince. Noi altri per la maggior parte, siamo troppo vivaci; habbiamo dentro di noi certi affetti, e certi desiderij troppo ardenti, e molto indomiti: E perche noi assaggiamo la mortificatione, come fanno i cani l’acqua del Nilo, pigliandone manco che potiamo; Perciò Iddio benedetto ci manda cose salubri, anchorche non vogliamo, e ce ne lamentiamo, e talmente ci essercita con molestie, e con miserie, accioche siamo più mansueti, e più composti, e più facilmente diventiamo huomini da bene. O se tu sapessi, quanto t’importa l’esser così mortificato per liberarti da vitij in questa vita? E’ cosa certa, che i mali, che quà ci vengono, ci sforzano d’andar a Dio. L’oratione è buona, ma accompagnata con il digiuno, e con la limosina. E buona è quella oratione ch’è congiunta con la mortificatione. L’un, e l’altro ci insegna con ogni soavità la Scuola della Patienza. E questo in vero fù il grande, e continuo studio di tutti quanti i santi, parte per placare Iddio con l’oratione, e parte d’affligere se stessi con questa quotidiana morte. Impariamo questo, e haveremo fatto un gran profitto nella Scuola della Patienza. Aggiungo hora alcune cose, che confermaranno ciò, che habbiamo detto.
Note
§. 5.
Mentre Costantino tenea così divotamente, e con tanta sollecitudine gli occhi fissi in cielo vede, e osserva in quello una scrittura di Stelle, che così diceva: Invoca me in die tribulationis, et eruam te, et glorificabis me. 2 Invocami quando sarai tribolato, che io ti liberarò, e havrai materia di glorificarmi.
Restò da principio l’imperatore a sì sublime prodigio un poco attonito, e spaventato; ma sentendosi subito mutare quel timore in allegrezza, drizzò un’altra volta avidamente gl’occhi al cielo, dove di nuovo vide un’altro prodigio, cioè una croce fatta pur di stelle con queste parole intorno: In hoc signo vinces. In questo segno tù sarai vincitore. Animato l’Imperatore da queste taciturne parole del cielo, pochi giorni dopo ritorna a uscire in campo contra i Bizantini, e ottenutane un’illustre, e segnalata Vittoria, prese ancor Bizantio. Dopo questi celesti prodigij, cominciò la croce ad esser tenuta in maggior veneratione, e honore.
Qualunque tu ti sia, ò huomo, che dalle tue proprie miserie sei turbato, alza la faccia, risguarda il cielo, e leggi quella divina essortatione fattati da Dio per tuo conforto con quelle belle parole. Invoca me in die tribulationis, Et eruam te, et glorificabis me.
Procura di vincere sempre te stesso, fatti amico Dio con l’oratione, e facilmente vincerai tutti i nemici, che ti si faranno incontro. Quivi S. Agostino con molta sollecitudine ti avvisa, e ricorda, che non ti venisse forsi in mente di lamentarti con Dio, e dirgli: Illi speraverunt, et liberasti eos: Ego speravi; et dereliquisti me: Et sine causa credidi in te, et sine causa nomen meum scriptum est apud te, et nomen tuum scriptum est in me.3 Signore quelli sperarono in voi, e li liberaste: Io ancora sperai in voi, e m’abandonaste. E così in darno vi hò creduto, e in darno fù scritto il mio nome appresso di voi, e il vostro in me. Perche questo ne sà d’oratione nè di mortificatione, ma più tosto d’un empio, e sagrilego rinfacciamento contra Dio. Mà tu, se hai cervello, dì più tosto ciò, che il medesimo S. Agostino ti suggerisce, cioè: Tu es ipse Rex meus, et Deus meus. Tu es ipse, non enim mutatus es. Tempora mutata video, creator temporum non mutatur. Tu me soles ducere, tu me soles regere, tu mihi soles subvenire.4 Voi, Signore, sete il mio Rè, e il mio Dio, Voi sete sempre l’istesso, poiche non vi sete mai mutato. Io vedo, che i tempi si mutano, ma il creator de’ tempi non si muta. Voi mi solete condurre, voi mi solete reggere, e voi sete quello, che mi solete dare aiuto. Voi Signore sete fatto il nostro refugio perche nascessimo non essendo; Voi il nostro refugio, perche essendo mali dinuovo rinascessimo: Voi il nostro refugio, per cibare chi vi havea abandonato. Voi rifugio per sollevare, e indirizzare i vostri figliuoli; Voi sete fatto il nostro refugio. Non ci partiremo mai da voi, poiche voi ci havete liberati da tutti i nostri mali. Ci date de i beni, e ci fate carezze, perche non ci stanchiamo per la via. Ci riprendete, ci date, ci percotete, e c’indirizzate perche non andiamo fuor di strada. O ci facciate dunque carezze perche non ci stanchiamo, ò ci castighiate accioche camminiamo bene; Signore voi sete fatto il nostro refugio.
Così la patienza insegna a far oratione. Ottimamente disse S. Chrisostomo: Oratio merces est calamitatum: orationis adiutorium ieiunium est.5 L’oratione è il premio delle calamità; e il digiuno è quello, che aiuta l’oratione. Quegli fa un’efficacissima oratione, che con una continua mortificatione sacrifica se stesso a quello, che egli prega.