Spasimo/III. I ricordi di Roberto Vérod

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III. I ricordi di Roberto Vérod

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III. I ricordi di Roberto Vérod
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I.

I ricordi di Roberto Vérod.

Tramontava il sole. Dietro la catena del Jura i raggi d’oro che fendevano le nuvole agglomerate sui culmini davano imagine d’un immenso trofeo di spade. Sotto le rive di ponente il lago era di lavagna; verde come uno stagno fra le basse rive boscose di San Sulpizio, ridiveniva azzurro al largo, nell’alta conca chiusa dalle Alpi vallesi dove le nevi s’infiammavano all’ultima luce. Due vele immobili, incrociate come due ali, sulle acque immobili; una tenue riga di fumo verso Collonge; niun altro segno di vita. Nel silenzio infinito lenti rintocchi lontanamente dicevano che una vita erasi spenta.

Al cielo, alla terra, alla luce, Roberto Vérod chiedeva quella vita. Tratto tratto egli perdeva la coscienza dell’incredibile verità; dinanzi allo spettacolo che tante volte aveva rimirato con lei gli [p. 60 modifica]pareva d’esserle ancora d’accanto; poi, girando lo sguardo ansioso, la solitudine lo sgominava, l’orrore s’aggravava su lui. Andava, andava, ignaro della sua via, per respirare: l’immobilità lo avrebbe soffocato. Su per l’erta di Losanna, oltre la Croce, una carrozza lo avanzò. Allora egli fermossi, tremando.

Su quella via, in quel punto, alla stess’ora, egli l’aveva vista la prima volta apparire; un anno addietro, mentre errava per quella via, ella era passata, forse in quella stessa carrozza. L’imagine risorse in lui così viva, che ne fu abbagliato.

Che faceva egli a quel tempo? Che pensava? Che aspettava? Grigia, disutile, vuota era la vita sua a quel tempo. Trentaquattro anni, non rughe sulla fronte; ma quante nell’anima! Il chiuso pensiero, l’assiduo esame interiore, l’inveterato istinto e l’ostinato bisogno di guardare in sè stesso lo avevano avvelenato. La goccia d’acqua sembra più liquida perla quando l’occhio armato di lenti vi scorge dentro un orrido mondo? Col pensiero egli aveva guardato troppo sè stesso e le cose, e la bellezza aveva perduto ogni incanto, e della gioia egli aveva saputo il costo, e la speranza gli s’era consunta dinanzi. Una volta, in più fresca età, di quel suo genio dell’esame egli era stato superbo come d’una forza, come di una potenza; con gli anni aveva sentito che era la miseria sua. Nel mondo delle idee gli estremi orizzonti, le cime [p. 61 modifica]vertiginose erano a lui familiari; nella vita pratica moveva i suoi passi malcerto ancora più di un bambino. Quando tentava di reagire contro quell’impotenza, riconosceva che la volontà era inefficace, che egli restava condannato a una vita infeconda. Nato al confluente di tre civiltà, da una razza nella quale troppi elementi etnici si erano confusi, sollecitato in vario senso dagli istinti ereditarii e dai concetti acquisiti, sentiva di non poter gustare altre gioie fuorchè quelle dell’arido pensiero.

Aveva vissuto; ma come? Come il visitatore d’un cosmorama crede di trovarsi dinanzi agli spettacoli rappresentati: sapendo che sono dipinti sopra cartone. Egli non credeva alla vita. Gl’insensibili oggetti, le inanimate opere d’arte possono accenderci, pur sempre restando quelle che sono, fredde, mute, inerti: così egli aveva amato viventi creature. Ma dove il sentimento, non che essere ricambiato dalle cose, non si può neppure esprimere ad esse, da creature a lui simiglianti egli aveva un tempo sognato d’esser compreso; e poichè mai il suo sogno, il suo bisogno era stato appagato, un moto di superbia lo aveva persuaso d’avere un’anima diversa dalle comuni, di valer più che gli altri. La sua superbia era stata punita con la spaventosa solitudine che lo aveva circondato. Più triste della solitudine un’ultima persuasione gli aveva dimostrato che, pur valendo presso a poco [p. 62 modifica]egualmente, le creature umane sono condannate a non intendersi mai.

Così, con questa fede disperata, con l’amara compiacenza d’aver saputo comprendere la sterile verità, egli viveva da anni. L’arte sua rispecchiava troppo fedelmente queste opinioni; essa era negatrice fredda ed amara. Diceva che la vita è un inganno, che non c’è distinzione fra i sentimenti dell’uomo cosciente e le cieche potenze della natura, che tutto si riduce nel mondo a un meccanismo impassibile. Egli non aveva più nessuna ragione di vivere, e la sua vita era una continua morte. Egli frenava ogni sua tentazione cominciando da quella di morire; e col furore d’un iconoclasta distruggeva dentro di sè tutte le imagini delle cose e degli esseri. Così viveva da anni, quando ella era apparsa.

La vedeva ancora, nella carrozza che procedeva lentamente per l’erta, accanto a un’altra dama, incrociare un rapido sguardo col suo. Egli n’era rimasto stordito. Come era bianca, pallida, stanca! Che diceva lo sguardo?

E l’aveva riveduta, la sera stessa, qualche ora dopo, alla Casa di salute dove un dottore amico lo persuadeva a curare con un po’ d’acqua tepida sulle spalle il male dell’anima. D’altro rimedio aveva egli bisogno! Non le docce, non l’aria, non l’esercizio dei muscoli potevano nulla contro il suo dolore. Anche una volta, alla terrazza della [p. 63 modifica]Casa di salute, egli le era passato dinanzi, più da presso; e quantunque il nuovo incontro fosse rapido come il primo, pure egli aveva notato che l’estenuata bellezza di lei era a un tratto tutta rianimata e lucente. E anche una volta l’aveva guardata negli occhi. Che diceva lo sguardo?...

Ora le ombre sorgevano più dense dalla conca del lago. Le nubi già d’oro erano grige, e solo per qualche pennellata cuprea e violacea la luce attestava di non essere morta interamente. Un riflesso di quelle colorazioni dava alle acque stagnanti l’iridescenza delle lamine metalliche. Le digradanti coste dei monti savoiardi parevano cadere a picco sul lago e le cime staccavansi nere sul chiaro fondo del cielo, come un intaglio. Egli riprese ad andare, anelante.

L’appressarsi della notte lo sgominava. Che avrebbe fatto, nella notte? Dovunque volgesse lo sguardo, ora vedeva almeno qualcosa che gli parlava di lei. Egli la rivedeva come l’aveva tante volte veduta, tutta vestita dell’ultima luce, contemplare immobile il muto spettacolo del tramonto; egli tratteneva il respiro ed il passo, come un tempo dinanzi alla figura vivente, pauroso di vederla sparire, di vederla dileguare, di perderla. Ed era sparita, si era dileguata, egli l’aveva perduta! Quante volte questo sentimento di paura aveva stretto il suo cuore! Era ella fatta per la vita terrena? Quante volte l’aveva udita [p. 64 modifica]dire, parlando del futuro, di disegni da compiere un giorno: «Se sarò ancora al mondo!...» Allora egli sostava, senza vedere più nulla, con gli occhi chiusi dal pianto; e il suo dolore era così acuto e ineffabile che diveniva quasi una mortale voluttà. Il pianto era stato la voluttà di quell’amore: di gioia, di speranza, di pietà, di paura, di dolore egli aveva pianto.

Così fortemente la prima vista di lei lo aveva percosso, che egli non aveva potuto tutta comprenderne la bellezza. Consisteva la sua maggior seduzione nella grazia languida e quasi vacillante della persona alta e tenue, o nella purezza dei lineamenti, del gracile viso, della fronte tersa come un’opera di scultura, cinta di chiome copiose nere e lucenti che le scendevano in due bande lungo le tempie e la rassomigliavano alle figurazioni della Vergine; o nella dolcezza dolorosa dello sguardo, nell’espressione profonda di un’anima ansiosa?

Per una più pacata contemplazione aveva egli compreso più tardi che tutte queste cose insieme formavano il molteplice incanto di lei; ma allora aveva anche visto che quella bellezza non era durabile. A giorni, a ore la magrezza delle guance pareva troppo grande; tutte le linee del viso s’alteravano come prossime a disfarsi; la carnagione, non più illuminata dalle fiamme interiori, era smorta; lo sguardo velato e quasi cieco. Ma queste improvvise oscurazioni che parevano lo scotto d’una [p. 65 modifica]bellezza troppo grande e quasi fuor dell’umano, lo avevano fatto tremar di paura, rivelandogli la minaccia che pendeva sulla vita di lei. Il sentimento d’ammirazione che la prestigiosa creatura destava nei momenti del suo massimo splendore mutavasi allora in sollecita pietà; e la pietà della fugace e peritura bellezza avvinceva il cuore di lui più saldamente che non potesse avvincerlo l’ammirazione per ogni altra bellezza superba e trionfante. Egli rammentava ancora le parole udite una sera lontana, quando, in uno dei troppi rari momenti di pace, sedotta dalla insistenza d’una folla giuliva, ella s’era messa al pianoforte. Musiche inebbrianti uscivano dallo strumento sonoro, e la misteriosa virtù della melodia disponeva l’animo di lui a tutta comprendere la sovrumana bellezza che per l’improvvisa animazione le sfolgorava in viso. A quel massimo grado di meraviglia egli sentivasi però umiliato e quasi offeso: quanto più stupenda ella era, tanto più inarrivabile doveva sentirla, tanto più mediocre e indegno doveva giudicare sè stesso. Ma come più il suo cuore chiudevasi dall’angoscia per la coscienza della troppa distanza che lo separava da lei, ad un tratto, senza che ella interrompesse l’esecuzione d’un Largo di Bach, la porpora delle sue guance impallidì, la meravigliosa purezza dei suoi lineamenti s’alterò e dissolse. In quel punto uno degli spettatori ch’ei credeva occupati da un sentimento eguale al suo pro[p. 66 modifica]prio gli era venuto accosto per dirgli, additandola: «Non è un peccato, guardate? Senza queste improvvise mancanze, che bellezza perfetta! Sarebbe veramente stupenda, se non mancasse da un momento all’altro, così!...» Allora, repentinamente, l’angoscia e la tristezza s’erano dileguate; egli non l’aveva più sentita tanto alta e lontana da lui, ma tutta vicina e sua; perchè non il senso di rammarico che altri esprimeva, ma un impeto di tenerezza lo animava ponendo mente alla inferma, un sentimento di commossa pietà, un bisogno di prodigare alla vulnerata creatura tante cure gelose, un così vigile affetto, da compensare i suoi passati dolori, da risparmiarle i venturi.

Era egli riuscito in quest’opera?...

Anche una volta dal cielo delle memorie la sua attenzione rivolgevasi al circostante spettacolo. Le prime fiamme splendevano, aurate nell’ultimo crepuscolo, sulle rive e sulle pendici della Savoia; il fanale d’un battello, come una punta infocata, solcava le acque. Andarsene, fuggire, sparire: solo così egli avrebbe potuto evitare a lei ed a sè stesso altre pene. Di fuggire egli era stato tentato, quando il turbamento che lo vinceva anche a scorgerla da lontano gli diceva che fuoco lo avrebbe investito se l’avesse conosciuta da presso. E rammentava le lettere scritte in quei giorni per annunziar la partenza: lettere dove la tristezza della rinunzia a un’adorazione ch’ei presentiva formidabile si [p. 67 modifica]mascherava, si sfogava in accuse alla volgarità del luogo e dei suoi popolatori. Ma, deliberato di andarsene, era rimasto ancora, aveva continuamente rimandato il distacco gustando la mirrata dolcezza dell’ultima contemplazione; quando un giorno aveva potuto parlarle. Egli aveva potuto udire la sua voce: la voce sommessa, armonia lenta, musica velata, eco dell’anima profonda. Che sottile virtù era nelle sue parole; come ogni sua parola pareva inaudita, felicemente creata ad esprimere il pensiero recondito! Ed era rimasto, per udirla.

L’anima sua fu allora occupata dalla meraviglia. Egli non credeva possibile dipendere così da una creatura umana. Ripensando i suoi passati amori non rinveniva nulla di simile alla presente realtà. I suoi amori erano morti, interamente; ma non perciò egli ne negava la forza; essi non già gli parevano scialbi per quella natural legge secondo la quale i ricordi hanno più debole vita e importano meno delle impressioni attuali: la nuova apparizione trionfava per una tutta sua propria virtù, offuscava fantasmi ed imagini con la purezza della sua luce. Anche la meraviglia di lui cresceva per la subitanea fede risposta in un’anima che gli era tuttavia ignota. L’idea della bellezza associasi naturalmente alle idee contigue della bontà e della virtù, talchè nulla è più facile dell’attribuzione di queste doti alle belle creature; ma non era egli uso, oltre che a difendersi contro le troppo natu[p. 68 modifica]rali e non ancora verificate deduzioni, a osservare altresì con tanta penetrazione gli altri, sè stesso e la vita da negare, come aveva negato, ogni prestigio? Pagava ora forse la lunga, strenua e disperata resistenza a tutte le lusinghe con la dedizione improvvisa? Ma la prova maggiore del mutamento operatosi in lui era questa: che non più come un tempo egli compiacevasi nei faticosi e infecondi esercizii dell’indagine intima, nelle continue alternative del dubbio; ma, senza discutere, quasi obbediva una volontà estranea e imperiosa. L’espressione di questa volontà era nello sguardo di lei che diceva: «Ama e vivi, credi e vivi, spera e vivi.» Egli uniformavasi al comandamento.

L’atto di fede compito attribuendo ogni pregio alla creatura d’elezione era quotidianamente confortato di prove. Poteva egli pensare d’essersi ingannato se al suo sentimento tutti partecipavano, intorno a lui? Parole di ammirazione erano su tutte le labbra; quale appariva in vista tale ella rivelavasi: tutta buona, dolce e pietosa, tutta piena di grazia. Come non parea fatta per la vita del mondo così intendeva costantemente al cielo lo sguardo e il pensiero. Quando egli la cercava, quando aveva bisogno di vederla, era sicuro di trovarla nelle case della preghiera, genuflessa, umiliata dinanzi a Dio. Quante volte, non visto da lei, era entrato negli insoliti luoghi! Che ore ineffabili vi aveva vissuto! All’idea che anch’egli una [p. 69 modifica]volta aveva creduto, al ricordo dell’anima ingenua che era morta in lui, alla speranza di poter credere ancora per essere più vicino a lei, per comunicare con lei, come aveva pianto di dolce tristezza e di trepida gioia!

Un giorno, da Evian, l’aveva guidata a una cappella dove celebravano una festa che chiamava a torme i credenti dai luoghi più lontani: anche egli aveva chinato la dubitosa fronte come tutti quegli umili, come lei; ma non soltanto per seguire l’esempio della fedele, per nascondere a un tempo il pianto che lo accecava. Un’altra volta, sulla montagna, ella erasi fermata dinanzi a una cappelletta alla porta tarlata della quale stava infissa la grossa chiave rugginosa; con la debole mano bianca cercava di schiudere quella porta, inutilmente. Egli stesso l’aprì, e nell’atto che schiudeva alla pia il varco del sacro luogo, egli pensava come grande fosse la secreta forza di quella debolezza apparente: quando la povera mano s’era stancata invano e pareva aver dovuto rinunziare all’intento, il muscoloso braccio era stato spinto a vincere per lei l’ostacolo. E allora egli aveva sentito struggersi dal bisogno di baciare quella mano addolorata, di baciarla devotamente sul dorso, di baciarla avidamente sulla palma; dal bisogno di sentirsi imporre la miracolosa mano sulla fronte infiammata. Non era la dolce mano soccorrevole e salutare? Non l’aveva egli vista un giorno me[p. 70 modifica]dicare pietosamente un ferito, un infermo della cui insania morale tutti ridevano e che ella sola commiserava? Quell’uomo era caduto, grondava sangue; e alla vista del suo sangue, all’udire le sue parole più scomposte del consueto, le risa crudeli crescevano; ella sola, come una suora, aveva saputo medicarlo e guarirlo. La sua mano era soave ed agile, pronta e destra all’ufficio di carità, tutta animata da una vita prodiga di sè stessa; la sua mano era larga, pieghevole, venata e fresca come una foglia; nello stringerla nuda egli risentiva la freschezza d’una foglia polputa.

E i ricordi, i dolci luminosi imperituri ricordi lo incalzavano, nella sera serena, dinanzi al cielo verde come la speranza che ella aveva suscitata nel cuore di lui. Ella aveva spirato la vita nell’anima morta, ella era stata la vita dell’anima sua. Tutto ciò che ella credeva, le cose semplici, le cose buone, le cose eterne, erano state da lui finalmente credute. Ella aveva compito questo prodigio naturalmente, senza volerlo, con la sola virtù della sua presenza, come fa credere alla luce la vista del sole. Ella faceva il bene perchè era nata a farlo. E un sentimento nuovo, inaudito, incredibile, aveva occupato il cuore di lui, un sentimento che avrebbe dovuto essergli cagione di pena intollerabile, ma che invece egli sopportava rassegnatamente, quasi con gioia. Il cupido istinto voleva impossessarsi della miracolosa creatura, averla [p. 71 modifica]tutta per sè; la ragione riconosceva che ella non poteva essere distolta dal suo ufficio buono per amore d’un solo. Qual pazzo potrebbe sognare di prendere per sè tutta l’aria? Ed egli non era stato geloso sapendola d’un altro. Aveva pensato che, se era di un altro, ella doveva compiere un’opera fruttuosa; nessuno poteva biasimarla per questo, nessuno poteva distrarla dall’opera sua. Ella conosceva le secrete vie del cuore, sapeva le parole che leniscono e sanano, le parole soavi come un unguento. E l’uomo cui s’era unita aveva bisogno di soccorso; non proseguiva per vie sanguinose un intento inarrivabile? Non sospingeva a lotte tremende le anime miti con l’efficacia di un disperato esempio? Accanto a quell’uomo abbeverato d’odio, per cui la vita umana non aveva valore, che seminava di cadaveri il suo cammino, accanto a quell’uomo era il posto di lei. Nulla di nuovo aveva per lei l’ideale di giustizia e di pace in nome del quale colui levavasi in armi; ella doveva anzi difendere queste cose sante, tutelare la bellezza delle idee dalla contaminazione cruenta, convertire i fanatici, confortare i disperati. Ella era la ragione accanto al sofisma, l’umiltà accanto alla superbia, l’amore accanto all’odio; ella era la correzione del male, la sua vista era la consolazione del mondo...

Guardando intorno a sè, il giovane non sapeva ora più dove fosse. Ebbe bisogno di passarsi una [p. 72 modifica]mano sugli occhi prima di riconoscere la via di Belmont. Allora cadde sul parapetto della via, chiamando:

— Anima! Anima! Anima!...

Lo sconforto fremeva sordamente sotto la fede che gli dettava quell’invocazione. Egli non voleva e non poteva rassegnarsi alla mostruosa realtà; e un impeto violento di sdegno iracondo lo sollevava: torbide imagini e truci proponimenti gli accendevano lo sguardo e gli facevano stringere le pugna; disperate parole gli salivano alle labbra:

— Non c’è nulla!... Tutto è menzogna!... Non c’è altro che il male!...

Se l’amore era ripagato dall’odio, se la povera labile vita della creatura d’amore cui si dovevano le più gelose e trepide cure era stata selvaggiamente distrutta da chi pur sapeva la benignità del suo sorriso, non c’era nulla, null’altro che il male...

Ma Roberto Vérod reprimeva queste parole. Dal giorno che la vista di tutte le bellezze adunate nella fedele lo aveva abbagliato e convertito, un giudice e un custode vegliavano dentro di lui, lo difendevano contro i tristi pensieri, contro i propositi indegni, contro le imagini impure. In tutti gli atti della vita, in tutte le disposizioni della mente egli aveva voluto esser degno di lei, e quest’opera di preservazione gli era stata agevole fino a quel giorno. Se il dubbio lo aveva morso talvolta, [p. 73 modifica]quando lo spettacolo delle nequizie gli era apparso troppo crudamente, solo a pensare che la creatura d’amore esisteva egli agguerrivasi nella sua fede. Ora ella era morta! Era morta! Egli l’aveva dinanzi agli occhi, distesa al suolo, immota, gelata, col mostruoso fiore sanguigno sulla pallida tempia; e un’ansia mortale lo soffocava, perchè egli voleva credere che la morte non l’avesse tutta distrutta, che la miracolosa anima vivesse ancora, vegliasse su lui, gli ripetesse le parole della fede e del perdono; ma non poteva; o se pure la voce soave che ancora gli echeggiava attorno lo persuadeva, l’oltre umana vita di quell’anima non bastava più a consolare la sua esistenza; i suoi occhi mortali avevano bisogno di vedere, le sue orecchie di udire, egli aveva bisogno di stringere la mano di lei, di toccare il lembo della sua veste; e questo suo bisogno sarebbe rimasto inappagato, per sempre. Perdonare agli assassini? Egli doveva vendicarla!

L’ultima luce del crepuscolo agonizzava, ma già l’alba lunare schiariva l’oriente. La pace era divina. E nella divina pace, nel silenzio augusto, Roberto Vérod si premeva la testa fra le mani per tentar di sedare la tempesta che lo travolgeva. Al pensiero di non aver saputo ispirare al giudice la propria certezza la sua ragione vacillava. Perchè non era stato più efficace? Se un caso imprevedibile aveva voluto che il giudice fosse un suo antico [p. 74 modifica]compagno, perchè non gli si era dato a conoscere, come mai non aveva saputo persuaderlo della propria sincerità? Non solo per discrezione egli non aveva rammentato al giudice i loro antichi rapporti, ma per paura altresì; giacchè sapeva diverso dal suo, e rigido, e severo l’animo di lui. Ed aveva costui visto più lucidamente? Egli stesso si era ingannato? Aveva ella voluto morire?... Tornava allora con la mente al passato, all’angoscioso stupore che lo aveva occupato nel discoprire il male secreto dal quale quella povera anima era piegata. Nell’atto che salvava altrui ella stessa era perduta. Le sue parole d’un giorno gli tornavano alla memoria: un giorno, alla notizia che un disperato s’era tolta la vita, alla condanna che i più facevano pesare sopra il suicida, ella aveva espresso un sentimento del quale i credenti non sono capaci: non era vero, ella diceva, che il rinunziare all’esistenza portasse una dannazione implacabile, che la fede condannasse in ogni caso la volontaria morte. Come d’ogni altra azione umana doveva la coscienza liberamente valutare i motivi di questa ed accettare le conseguenze del proprio deliberato; ma se l’inganno, la paura, la viltà meritavano biasimo e pena, per altre ragioni non si doveva disperare d’un più mite giudizio. Perchè queste idee fossero da lei concepite ed espresse non bisognava che ella stessa si trovasse ridotta a tale da pensare alla morte? E di che pietà il cuore di lui era stato invaso nel [p. 75 modifica]vedere che l’argomentazione rispondeva al vero più ch’ei non credesse!

Ella non aveva pensato alla morte per fuggire il dolore. Il dolore era la stessa legge della vita, diceva. Non che fuggirlo, bisognava far consistere il dovere e la gioia nel sopportarlo serenamente. Ella aveva voluto sottrarsi al male. Lo aveva affrontato per distruggerlo; era discesa fino ad esso per un’opera di redenzione. La forza dell’amore le era parsa così grande da trionfare, immancabilmente. Passando sopra alle leggi umane e, prova maggiore, alle divine, aveva sperato di farle accettare all’uomo che le negava e le combatteva, tutte. Ella stessa era caduta nell’errore per evitare che egli continuasse a consumarlo, perchè egli credesse a qualche cosa di bene. Dal sogno superbo s’era destata impotente, piagata, avvilita ella stessa. L’amor suo era stato disprezzato, le sue preghiere schernite, la sua fede offesa; l’opera di distruzione era continuata più alacre di prima; ella che aveva voluto impedirla se n’era sentita complice. Allora aveva riconosciuto troppo tardi che la via tenuta doveva fatalmente avere quell’uscita; il suo inganno le era parso immeritevole di perdono: allora aveva pensato alla morte. Nel punto che le conseguenze dell’inganno fatale le apparivano più gravi, quando l’ultimo lume di speranza erasi spento, Roberto Vérod l’aveva incontrata; e come egli aveva attinto in lei la salute, ella stessa s’era [p. 76 modifica]sentita rivivere. Cieco, egli aveva visto per lei; piagata, ella era stata sorretta da lui. Lungamente quella mutua salvazione era rimasta ignota ad entrambi. Nessuno dei due, sentendosi rinascere per opera dell’altro, aveva creduto possibile che un eguale miracolo si fosse prodotto per sua propria virtù. Nei primi tempi egli s’era appagato della vista di lei, era vissuto nella sua luce, nessuna gioia imaginando maggiore. Quando ne aveva concepita e intraveduta un’altra, allora era fuggito.

Girando intorno lo sguardo per la cerchia dei monti grigi nel lume di luna, egli ricordava ora l’alba della fuga, l’alba livida e fredda, il lago plumbeo flagellato dal vento, irto di onde opache. Egli fuggiva senza esitare. La speranza, la certezza di rivederla lo sorreggevano. Quando, dove? Non sapeva. Ma l’avrebbe rivista. E la portava nell’anima. Non aveva pianto, con l’anima piena di lei. Sulla riva, all’improvviso apparire del battello, grigio sulle acque grige, ansante e tangheggiante, s’era sentito chiudere il cuore. Finchè erano rimaste visibili, i suoi occhi non avevano lasciato le sponde di Ouchy, le alture di Losanna. E nulla rammentava del viaggio, altro che alcune rapide scene. Aveva vegliato tutta la notte prima di fuggire, scrivendo. Sapeva che non avrebbe potuto mandarle altro che una parola di saluto: ma aveva scritto tutta la notte. Sul battello un [p. 77 modifica]sonno penoso, un incubo greve lo aveva abbattuto. Udiva tratto tratto il fragore delle onde rotte contro i fianchi poderosi, l’arrestarsi dell’ansante respiro; vedeva le rive fuggire e ignorava dove fosse, dove andasse. Era andato in Italia, per vedere il bel paese, il chiaro sole, il cielo dolce che l’avevano fatta qual era. Era stato a Milano per vedere la sua casa natale: la casa alta e severa come una torre, in una via remota e silenziosa, dinanzi a una chiesetta tutta fiorita. Aveva visitato la piccola cittadella di provincia nel collegio della quale ella aveva trascorsa l’adolescenza; poi, in Brianza, il paese delle rose dove ella aveva passato tanta parte della giovinezza, dove erano sepolti i suoi cari. Imaginazioni felici lo avevano occupato; pensando ai giovani anni della diletta, alle ingenue speranze che le avevano sorriso, alla pura gioia che aveva diffuso intorno a sè, all’alba radiosa di quella benefica vita, egli aveva pianto lacrime grate. Ma il tempestoso pianto lo aspettava altrove.

Dopo una lunga peregrinazione, al morire della bella stagione era passato per Nizza come sempre usava prima di ridursi a Parigi. A Nizza egli aveva perduta la sorella sua, la sola compagna della sua orfana giovinezza; dinanzi al sepolcro della sorella egli veniva a meditare sui formidabili enimmi della vita e della morte. Quell’anno s’appressava al sepolcro più trepidante, pieno dei [p. 78 modifica]nuovi pensieri da confidare alla cara memoria, cupido delle ispirazioni che ella gli serbava. Della sorella morta aveva parlato a lei un giorno, accompagnandola a Chillon; le aveva detto che geloso amore egli aveva perduto, quanta parte di sè era chiusa in quella tomba. Ed ella stessa gli aveva chiesto di parlargliene ancora, più volte; aveva voluto sapere la vita della sorella sua e vederne i ritratti; con parole delle quali possedeva il secreto aveva detto la dolcezza forte del fraterno amore.

Appressatosi al sepolcro per comporre in un solo pensiero le tutelari imagini della morta e della lontana, i suoi occhi furono percossi da un bagliore. Sul muro funerario, accanto agli scheletri delle ghirlande votive che era venuto altre volte ad appendervi, una grande corona candida abbagliava come un’aureola. Non era intessuta di fiori, ma di bianche stoffe e di fili d’argento: una mano sapiente aveva piegato il raso bianco, i merletti bianchi, i veli bianchi, in modo da raffigurare petali nivei e foglie spumose. La sua confusione dinanzi a quel voto durò un attimo; per un attimo, pensando che nessuno al mondo fuorchè egli stesso aveva amato la morta, lo stupore, l’ignoranza dell’affetto dal quale veniva quel voto lo lasciarono perplesso e ansioso. Comprese come alla luce d’un lampo. Certo che nessuno fuorchè la creatura d’amore era potuto venire ad appendere quella corona [p. 79 modifica]votiva, le lacrime cominciarono a sgorgargli dagli occhi, inesauribili. Beatrice secreta, consolatrice pietosa, egli la riconosceva al pensiero d’amore che l’aveva nascostamente guidata dinanzi a quella lapide, al pensiero d’amore che le aveva fatto intrecciare quella ghirlanda. Le ossa della sorella morta avevano dovuto tremare, quando la pietosa mano aveva appeso la bianca ghirlanda! Tremando egli piangeva di gioia secreta, di gratitudine effusa, di timida speranza. Egli dunque viveva nella memoria, nel cuore di lei! Quando ancora chiedeva a sè stesso quali ricordi aveva lasciati alla lontana, quando dubitava d’esser rammentato da lei, ella aveva sposato la sua religione del sepolcro! Fissando lo sguardo velato alla corona luminosa pareva a lui che per un nuovo prodigio la sorella morta esprimesse i sentimenti dai quali egli era invaso; come oltre lo spazio ed il tempo il pensiero della lontana arrivava fino a lui, così oltre la vita l’anima della sorella parlava, ripeteva il consiglio che egli aveva udito altra volta: «Ama e vivi, credi e vivi, spera e vivi.» Presentendo di adunare in uno stesso quadro le imagini belle, egli le vedeva tenersi per mano, venirgli incontro raggianti. La lontana aveva tratto dal sepolcro la morta; i due fantasmi vivevano d’una stessa vita sovrumana, intangibile. Ma sopra la meraviglia beata e l’estasi trepida e la grata fede, un sentimento di secreta ambascia gli stringeva il cuore [p. 80 modifica]pensando che nessuna parola mai avrebbe potuto significare alla creatura vivente l’impeto di devozione, il bisogno di genuflessione che lo piegavano. Prendere genuflesso la mano di lei, baciare la mano che aveva intessuta la corona virginea, ciò solo egli poteva. Ma gli sarebbe bastato? Tutte le cose dolci che s’agitavano in lui non lo avrebbero soffocato? E al pensiero d’amor puro dal quale era stata guidata dinanzi a quella tomba avrebbe egli risposto confessando un amore esigente, un lesivo amore? Non voleva egli ora averla per sè, tutta, ora che la sapeva sua nella fraternità d’oltre tomba? La fuga era stata dunque inutile? Che avrebbe dovuto dunque egli fare?...

Sorse in piedi al ricordo di quell’ansietà, tornò indietro verso il lago, stendendo il braccio come in cerca d’un sostegno, come ebro. La dolcezza delle memorie lo inebriava, lo sottraeva allo strazio presente. Ma come l’insanguinata imagine riappariva, egli sentiva il suo cuore schiantarsi. L’iniquo destino distruggeva così le sole creature degne di vivere: una dopo l’altra egli perdeva così le sorelle.

— Sorella!... Sorella!...

Tale era stata per lui. L’amor di sorella, il nome di sorella, erano le sole cose soavi al suo cuore. Tutti gli altri suoi amori erano stati perfidi e velenosi, non avevano lasciato neppure un solo ricordo buono; sdegno e nient’altro avanzava, di [p. 81 modifica]tanti amori: sdegno contro le perfide, sdegno contro sè stesso. Un tempo egli si era gloriato di queste sue passioni, se n’era insuperbito come di altrettante fortune. Ma, concepite nel male, esse portavano dentro il germe della distruzione; se null’altro n’era avanzato fuorchè putredine, se egli n’era rimasto ammorbato, ciò era il suo meritato castigo. Non volendo più commettere l’errore, sentendo risorgere il bisogno lungamente inappagato e represso d’un’intima comunione, non potendo più vivere solo, egli ritrovava in lei la sorella. Andarle incontro, dirle con viva voce la gioia che ella gli dava, era stato il suo primo impulso; ma non l’aveva obbedito. L’esagitazione dell’anima era ancora tanto violenta, e alla solitudine sua veniva tanta consolazione dall’assiduo pensiero di lei, che egli volle e potè aspettare. Geloso di sè stesso, quasi pauroso di menomare il proprio sentimento indagandolo, era vissuto in una beatitudine secreta della quale obliava quasi l’origine. Come al destarsi di lieti sogni, come quando latenti e ignote energie eccitano e moltiplicano i sensi della vita, egli trovava in tutte le cose una nuova virtù. Un giorno finalmente le scrisse. Alla sensitiva creatura, al proprio sentimento secreto, la troppo vivace espressione vocale non conveniva. E scrivendole egli contenne l’impeto delle passioni: tacque la speranza, moderò la gioia, disse soltanto pienamente la gratitudine. Ella rispose. Gli parlò [p. 82 modifica]della sorella morta. Quali altri ricordi avrebbero potuto mai cancellare dalla memoria di lui le parole fraterne? «Io certamente conobbi ed amai vostra sorella. Quando mi parlaste di lei, quando mi diceste le preziose e care doti della sua persona e del suo cuore, sentii che ella fu il desiderio della mia gioventù, la sorella che mai non potei consolarmi di non trovare al mio fianco nelle ore della gioia e della tristezza. Quando mi narraste lo strazio della sua morte mi parve come se tanta bellezza e tanta bontà fossero state da me stessa perdute. Io mi proposi di pregare sulla sua tomba, quando seppi che è sepolta nella città dove passo parte della mia vita. Ho compito con gioia l’impegno preso tra me e sono felice che il mio pensiero vi sia tanto grato...» Ora anch’ella era morta!

Il giorno era morto, la gioia era morta. La luna spandeva sul paesaggio un mortuario lume cinereo; i muri inalbati davano imagine di lapidi sepolcrali; il silenzio e l’immobilità della morte tenevano le acque, la terra, il cielo, tutte le cose. Ora egli aveva un altro sepolcro dinanzi al quale inginocchiarsi e appendere voti! Ma ella non era per anco sepolta. La salma sanguinosa era rimasta tutto il pomeriggio sulla tavola incisoria, in mano degli anatomisti. A quell’ora giaceva in chiesa. Egli si guardò ancora attorno per riconoscere il luogo, per avviarsi alla chiesa. Era sul Cammino [p. 83 modifica]di Lucinge: riprese ad andare per il Cammino di Jurigoz con passo più fermo.

Nella casa della preghiera dove erano convenuti le prime volte avevano ora l’estremo convegno! Lontano da lei il suo sguardo e il suo pensiero s’erano rivolti al cielo, per incontrarla. Dopo la prima lettera egli aveva tentato di scriverle ancora, ma le parole erano state inadatte. Allora era vissuto nell’ansia. La cercava dovunque. Credeva di vederla dinanzi a tutte le cose belle. Talvolta il cuore gli sobbalzava, se tra le figure incontrate per via qualcuna lontanamente le somigliava. Ma dopo queste imaginazioni il dolore si aggravava su lui. Il terrore delle notti erano i sogni durante i quali sentiva d’averla perduta, di non poterla rivedere più mai. Uno tornava assiduamente: egli le stava dinanzi, col cuore pieno di tumulto, con le mani tremanti, e non poteva dirle una sola parola: ed ella, dopo avere invano aspettato le sue parole, s’allontanava, svaniva, lasciandolo inanimato, impetrito. Questo sentimento di angosciosa incapacità lo teneva anche nella veglia, gl’impediva di correre incontro a lei. Quando andò a Nizza e non ve la trovò quasi ne restò confortato. Nel rivederla a Ouchy, sul principio dell’estate, tremò. Col tempo, per la lontananza, egli aveva creduto e quasi sperato d’essersi sottratto alla sua grazia: ella doveva rinnovare il prodigio. Ma l’angoscia e la paura e tutti i sentimenti indegni [p. 84 modifica]cederono improvvisamente quando le fu vicino. Poteva egli tacerle che viveva del suo favore?... Prima ancora che parlasse ella lo aveva compreso. Ella non s’era offesa della confessione dell’amor suo, non ne aveva dubitato. I falsi pudori, le ipocrisie del sentimento le erano ignoti. «Come io vi credo, mi crederete?» gli aveva domandato. Erano sulla montagna, nel bosco della Comte; oltre la pendula volta frondosa il lago, i monti, i paesi si disegnavano limpidi e tersi nella luce abbagliante. Bagliori di verità erano nelle sue parole: «La verità è come la luce: non si nasconde, La vostra memoria mi accompagnò dovunque; la speranza di rivedervi mi sorrise. Io sapevo che quest’ora sarebbe venuta. Ma vi sono più verità nella vita. Come ciò è realmente vero, è pur vero d’una verità morale che l’amor vostro e il mio non sono durabili. L’amore dev’essere appagato. Muore nella piena felicità, ma dopo aver vissuto. Contendergli la vita per paura della morte è lo stesso che uccidersi perchè si deve morire. Ma la vita dell’amore dipende da una condizione: dall’osservanza delle leggi. Pensate alla vostra sorella morta. Che cosa le avrebbe desiderato il vostro cuore, se fosse vissuta? Che avesse amato un uomo che l’avesse amata. Voi non avreste ricercato molto a dentro la precedente vita di quest’uomo; non vi sareste molto inquietato delle sue prime e meno degne passioni. Ciò è nella legge naturale che [p. 85 modifica]vuole gli uomini più cupidi e impazienti. Ma quest’uomo avrebbe sdegnato il proprio passato e avrebbe tremato di gioia superba nello stringere al cuore la vergine. Essi si sarebbero uniti per sempre. Non si sarebbero contentati d’un tacito impegno, ma avrebbero chiesto la sanzione sociale e la divina; perchè la legge morale vuole che l’amore sia il fondamento della famiglia: allora esso non muore, o si trasforma. Noi ci siamo conosciuti troppo tardi. Io non nego che si possa amare più d’una volta, da parte vostra segnatamente. Per noi donne l’esperienza è più rischiosa. E in generale quanto più si prova tanto meno si crede. Troppo a lungo io sono vissuta fuori della legge, perchè possa ancora sperare di rientrarvi. Voi non vorrete crederlo, ora, e siete sincero; ma sarete egualmente sincero più tardi, credendolo. Non mi faccio peggiore di quel che sono; ma se non gli altri, io stessa ho, indistruttibile, il sentimento della mia decadenza. Questo sentimento contenderebbe la vita alla fede. Dinanzi al sepolcro di vostra sorella, quando voi eravate lontano, quando non sapevo bene che cosa sarebbe accaduto fra noi, io pensai d’esservi unita da un sentimento fraterno. Ora sento che anche questo ci è conteso. Voi dovreste arrossire di me. Se la pietà fosse più forte, non riuscireste a vincere la tentazione di mutare la natura del nostro legame; o vincendola ne soffrireste troppo. Queste cose [p. 86 modifica]sono tutte fuori legge, tutte destinate naturalmente a perire ed a ferire...» Egli aveva tentato di opporsi alle luminose dimostrazioni, non sapendo ancor bene di trovarsi dinanzi a una coscienza tanto sicura. Allora ella aveva steso la mano verso i monti lontani: «Vedete quelle pendici? Alcune parti sono illuminate, altre restano avvolte nell’ombra. Ma come il sole compie il suo corso, così queste si illuminano e le altre si velano. La verità è in tutto come la luce: non va senza l’ombra. Se a quest’ora voi credete che ombre misteriose e propizie ci consentano di sperare, aspettate che il tempo s’avanzi e la luce cruda vi mostrerà l’inganno...» Egli non l’aveva lasciata finire: «E io vi dirò altre verità che voi non sapete o non volete sapere! Voi che vi giudicate così, voi che avete uno sguardo tanto chiaroveggente, non sapete che per la vostra dirittura, per la vostra sincerità, per la vostra umiltà, siete una creatura d’elezione, degna di riverenza? Non sapete che la vita contamina tutte le cose? Vi è tra noi chi sia esente da errori? E credete che la distinzione fra i lievi ed i maggiori importi poi molto? Ciò che importa è nutrire l’ideale del bene. Chi si smarrì una volta e se ne dolse non è altrettanto degno di premio di chi seguì sempre la via diritta? Un tempo io credei che questa fosse l’ingiustizia della fede cristiana; voi stessa mi faceste ricredere. Se pure erraste, le intenzioni che vi guidarono vi fanno più [p. 87 modifica]meritevole di perdono di ogni altro. Voi che ve ne sentite indegna, lo sperate, lo aspettate...»

Ella disse: «Non qui.» Allora egli pianse. Non ella!

E il tempo era passato senza disperdere l’ombre proprie. Egli non le aveva detto che l’amor suo aveva fatto di lui un uomo nuovo, capace di nuove cose: quest’orgoglio le sarebbe dispiaciuto, questa presunzione l’avrebbe ferita. Senza dirle più nulla s’era lasciato vivere nel puro incantamento. La certezza d’essere amato da lei lo colmava di una così limpida gioia, che non restava nell’essere suo nessun’altra energia per nessun altro oggetto. La speranza fioriva nell’ombra, nascostamente. Le parole non l’esprimevano perchè non aveva bisogno di essere espressa: doveva anzi restare gelosamente celata. La sua vitalità era così tenue che non avrebbe resistito ad un tocco. Lasciata a sè stessa si sostentava naturalmente, a poco a poco; traeva alimento da tutte le cose, era il loro alimento...

Robert Vérod s’arrestò a un tratto, rabbrividendo.

Era dinanzi a San Luigi. Le finestre si disegnavano sui muri della chiesa illuminate dalle luci interiori; le lampade vegliavano. Egli cadde contro il cancello.

Il giorno innanzi aveva udita la sua voce! Il giorno innanzi le aveva aperto il proprio cuore! [p. 88 modifica]Il giorno innanzi ella aveva lasciato che le baciasse la mano!

Ora era morta, assassinata; e il giudice non credeva al delitto, ed egli viveva!