Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo I/Parte III/Libro III/Capo VII

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Capo VII – Grammatici e Retori

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Capo VII.

Gramatici e Retori.

I. Dopo avere esaminati i progressi che in ciascheduna scienza fecero i Romani, rimane ora a dir qualche cosa de’ mezzi che essi ebbero ai’istruirsi, e che concorsero aa’accendere sempre maggiormente in essi l’amore alle lettere, e aa’agevolarne gli studi. E prima delle L Quali fi:j* l’le pnl„-’ lili< he scuole di Unica; e metodo iu “.SM tenui* [p. 550 modifica]55o PAH 1E rKUA pubbliche scuole. Io non favello qui de’ filosofi; che a parlar con rigore, non tenevano essi scuola in cui potesse ognuno, pagando al precettore la dovuta mercede, istruirsi nella filosofia. Erano anzi amichevoli conferenze e dispute erudite, in cui radunandosi insieme quelli che di cotali studi si dilettavano. si trattenevano dissertando or su una or su altra quistione; e lecito era ad ognuno il dire liberamente ciò che ne sentisse. Del che si è già parlato altrove. Pubbliche scuole erano propriamente quelle che si tenevano dai gramatici e dai retori. Alcuni di questi sono stati già da noi nominati nell’epoca precedente. Molti altri che fiorirono al tempo di cui parliamo, si annoverano da Svetonio ne’ due libri da lui scritti su questo argomento, e quindi non fa bisogno eli’ io ne ragioni diffusamente. Invece adunque di tessere una lunga e noiosa serie di gramatici e di retori illustri, solo accennerem qualche cosa alla storia di quest’arti appartenente. E quanto a’ gramatici, il loro impiego dapprima fu singolarmente spiegare, dichiarar, comentare i poeti: Sunt enim explanatores, dice Cicerone (De Divin. l. 1, n. 51), ut grammatici poetarum; ove vuolsi avvertire che per lungo tempo solevano i gramatici comentare i soli poeti greci. Quinto Cecilio liberto di Attico (a) i/i) Sembra che da questo Cecilio si debba distinguer quell’altro di cui parla Longino (c. 1.) come di autore di un trattato sul Sublime. Il primo, come narrasi nelle Vite degli illustri Gramatici’ , era oriondo dall’Epiro, e nato in Tusculo. Il secondo era di patria [p. 551 modifica]LIBRO TERZO 55 I fu il primo , al dir di Svetonio, che intraprese a spiegare Virgilio e gli altri recenti latini poeti (De Ili Grani, c. 16). Essi dicevansi ancora literati o lileratores, col qual nome indica vasi un nomo non già profondamente istruito , ma leggermente tinto nella letteratura (id. c. 5). II nome non era mollo onorevole, e pare che degni di molta stima non fossero la piò parte degli antichi gramatici. Ma col decorso del tempo ottennero maggior fama. Perciocché presero ad siciliano, schiavo prima, e detto di nome Arcagato secondo alcuni, poi fatto libero e di religione giudeo. Suida..che ce ne dà queste notizie , aggiugne ch’ei fu professor d’eloquenza in Roma da’ tempi di Augusto fino a’ quei di Adriano I cosa certo impossibile, se non tenne scuola più di cento anni), e che scrisse più libri, cioè due contro i Frigi. una scelta di voci più eleganti, un confronto tra Demostene e Cicerone, e un altro tra Demostene ed Eschine, e alcuni trattati sulla differenza che passa tra la imitazione attica e l’asiatica, sul carattere di dieci oratori , sulle orazioni genuine e spurie di Demostene , sulle cose che dagli oratori sono state dette o secondo, o contro la verità della storia, e più altre opere; e Suida conchiude dicendo eli’ è da stupirsi che tanto delle cose greche sapesse un giudeo. In molte di queste opere dovea Cecilio trattar del sublime: ma non è molto vantaggiosa l’idea che ce ne dà Longino, perciocchè ei dice che alla dignità dell’argomento mal corrisponde la bassezza dello stile, che non tocca le più importanti quistioni, che pago di dire che cosa sia il sublime, non indica i mezzi opportuni ad ottenerlo. Dionigi Alicarnasseo in una sua lettera a Pompeo fa menzione di un Cecilio suo carissimo (Resp. ad Pompe/i epi-.t). Ma non sappiamo di qual fra questi due ei ragioni. Di Cecilio dice a un di presso le stesse cose l’imperadrice Eudossia nell’opera più altre volte citata (De Villoison Anecd. Graec. Vol. 1 , pag. 26$). [p. 552 modifica]^,2 MAR jlu/.a insegnare ancora i principii! della rettorica, e l’uso di quelle figure che a’ giovani sogliono insegnarsi, acciocchè in tal modo potessero i lor discepoli passare già laasiev. m,. istruiti alle scuole de’ retori (Svet.ib Quinti. z,c. 1). Le declamazioni ancora, comecchè proprie fossero de’ retori, furono da’ gramatici nelle loro scuole introdotte, e in esse così felicemente si esercitarono alcuni di loro, che dal! tenere scuola passarono a perorare nel foro, e di gramatici divennero oratori (Svet ib.); e talun di essi venne in sì grande stima, che i più ragguardevoli cittadini romani, quando doveano pubblicamente arringare, a lui ricorrevano, perchè scrivesse loro le orazioni; come essere avvenuto a L. Elio raccontano Cicerone (De Cl. Orat. n. 56) e Svetonio (ib. c. 3), da’ quali egli è appellato uom dotto , e nelle greche e nelle latine lettere eruditissimo. Esaminavano essi ancora , quali fosser le vere, quali le supposte opere degli autori, e quali i passi per frode, o per ignoranza in esse intrusi, e li correggevano secondo il bisogno. Di tutti questi e di altri somiglianti impieghi dei gramatici veggasi Quintiliano che ne ragiona colla consueta sua esattezza e riflessione (l. 2, c. 1), e tra’ moderni Giannernesto Emanuele Walchio nelle due diatribe De Arte Critica ve fe rum Ronuinorum stampate in Jena gli anni 1746 e 174i)* Intorno poi alla maniera da essi tenuta nell insegnare, veggasi la dissertazione di Giovanni Oliva De antiqua in Romanis scholis Grommati contili disciplina stampata in Venezia 1 anno 1718. e una diatriba di Gian Giorgio Vi alcbio [p. 553 modifica]LIBRO TERZO 5éò Pe variis modis literas colendi apud Romanos inserita ne’ suoi Parerghi Accademici. II. Nè i soli fanciulli andavano alle scuole de’ gramatici ad apprendervi i primi semi della letteratura , ma spesso ancora vedevansi le loro scuole da’ più grandi e da’ più dotti uomini di Roma onorate, e chiamati erano ad ammaestrare i figliuoli de’ primarii patrizii e degl’imperadori. Cosi Cicerone essendo attualmente pretore recavasi spesso alla scuola di Antonio Gnifone (Svet. c. 7; Macrob. l. 3, c. 12). Così Sallustio e Asinio Pollione onorarono dell’amicizia loro Atteio per la moltiplice erudizione soprannomato il Filologo, da cui anche furono a compilare le loro storie ajutati (Svet. c. 10). Così Verrio Flacco fu da Augusto destinato maestro a’ suoi nipoti, e chiamato alla Corte a tenervi la sua scuola (id. c. 17). Vidersi anche alcuni di essi sollevati a onorevoli impieghi, come Caio Giulio Igino e Caio Melisso, a’ quali fu da Augusto data la cura delle sue biblioteche. Ove vuolsi di passaggio riflettere che le opere che abbiamo sotto il nome di Igino, gli son supposte, come comunemente si crede; e ancorchè fossero da lui scritte, non è qui a farne menzione (*), poiché secondo alcuni ei fu (*) E qui, e poscia altra volta ho nominato con lode Igino. Nondimeno il sig. ab. Lampillas si duole (t. 2, p. 41) perchè io ho detto che essendo egli straniero , io non dovea farne menzione. E qui ancora col suo gran telescopio scopritore delle altrui intenzioni, dopo avermi attentamente esaminato, decide: La ragione io penso che sia, perchè premeva troppo al detto autore (cioè a me) che non comparisse in lioìtta nel [p. 554 modifica]554 PARTE TERZA Spaglinolo, secondo alil i Alessandrino (id.c. 20. Fabric. Bibl. bit. I. 2, c. 1). Maggiore ancor fu l’onore a cui salirono il sopraddetto Verrio fiacco e Orbilio; perciocché una statua fu ad ambedue innalzata, a quello in Palestlina. detta allora Frenesie , a questo in Benevento (Svet. c.gci’ j (a). Nè onori soltanto, ma ricchezze ancora non ordinarie raccolsero alcuni gramatici dalla loro scuola. 11 detto Verrio per l’am maestramento de’ nipoti d’Augusto avea ogni anno cento mila scsterzii ossia due mila cinquecento scudi romani, e lino a quattrocento mila scsterzii ossia dieci mila scudi romani traeva dalla sua scuola Lucio Apuleio (idL c. 3 e 17), benché alcuni vogliono che a questo luogo di Svctonio invece di quadringentis si debba leggere quadragenis, che sarebbono mille scudi romani. Quindi avvenne che molli erano seroi et oro uno spagnuolo il quale tra i letterati romani fosse stato prescelto da Augusto, a cui affidar la cura delf imperiai biblioteca. Io ho scritto qui che ad Igino fu da Augusto data la cura delle sue b blioteche, ec.. e altrove ho detto che tra viii più dotti uomini che fossero allora in Roma, ai quali fu affidata da Augusto la pubblica biblioteca, fu Igiatf, unni • nelle antichità versatissimo. Or se le cose che a me preme che non si sappiano, si dicon da me due volte, quante volte dovrò io dir quelle le quali mi preme che sappiami? (a) Fu anche in Roma a’ tempi del gran Pompeo, come narra Suida, un Dionigi Alessandrino soprannomato Tero dal nome di suo padre, di professione gramatico , e scolaro già di Aristarco. Tra’ suoi scolari ebbe , come afferma lo stesso scrittore, Tirannione il vecchio, e scrisse diversi comenti, e più opere gru* mancali. [p. 555 modifica]LIBRO TERZO 553 Ldoro che aprivano scuola di gramatica , talchè a qualche tempo ve n’ebbe in Roma di cotali scuole oltre a venti, e tutte illustri (id.c.3); e che non i soli schiavi e liberti, ma cittadini e cavalieri romani professavan quest’arte, fra’ quali da Svetonio vengono nominati L. Elio e Servio Claudio (ib.). III. La moltitudine de’ gramatici che era in Roma, fu probabilmente l’origine del coltivamento degli studi in altre città d’Italia. Fino a questi tempi appena troviamo alcun accenno di lettere che fiorissero di qua dall’Appennino. Roma come era il centro a cui tutti si riducevano i più grandi affari, così era ancora la sede di tutte le scienze. E se era vi nelle provincie alcuno che dal suo ingegno portato fosse agli studi, e che sperasse in essi di acquistarsi nome, venivane tosto a Roma, ove era certo che nè pascolo alle sue brame, nè premio alle sue fatiche non gli sarebbe mancato. Ma i gramatici in Roma all’età singolarmente di Cesare e di Augusto eran cresciuti a segno, che non potendo tutti trovar discepoli, colla istruzion de’ quali vivere ed arricchirsi, cominciarono a spargersi ancora per le altre provincie d’Italia e ad aprirvi pubbliche scuole. In provincias quoque, dice Svetonio (ib.), grammatica penetraverat, ac nonnulli de doctissimis doctoribus pere gre docuerunt, maxime, in Gallia Togata, inter quos Octavius Teucer et Siscennius Jacchus et Oppius Cares, hic quidem ad ultimam aetatem, et cum jam non gressu modo deficeretur, sed et. visu. La Gallia Togata, come ad ognuno è noto, è la stessa che la Cisalpina che ni. Molti gr.1mal ii idillioina si spargono in alIr« ritta d’Italia« [p. 556 modifica]556 PARTE TEhZA comprende singolarmente la Lombardia, e que sta sembra perciò che fosse il paese in cui dopo Roma si cominciassero più che altrove a coltivare le scienze. In fatti veduto abbiamo di sopra che Virgilio in Cremona prima e poscia in Milano attese giovinetto agLi studi: il che conferma che precettori vi erano in quelle città. Un epitafio di Pudente gramatico a’ tempi d’Augusto fu già scoperto in Bergamo nella chiesa di S. Agata, ed è il seguente. PVDENS M ■ LF.PIDl L • G R A MMATICVS PROCVRATOK • ERAM • LEP1DAE • MORESQ R EGEE AVI DVM • VIX1 • MANS1T • CAESAR1S • ILLA • NV&VS PllILOLOGVS IflSClPVLVS (a). (a) Questa iscrizione era certamente in Bergamo circa il 1531, nel qual anno Gio. Crisostomo Zanchi pubblicò la sua operetta de Orobiorum origine; perciocchè egli la riporta nel terzo libro come attualmente esistente presso l’antica chiesa di S. Agata nella stessa città. Nondimeno quasi 150 anni dopo la veggiamo indicata come iscrizione trovata in Vicenza nelle rovine del teatro Berico ch’era presso la città stessa. Egli è il P. D. Giambattista Ferretti casinese che nella sua opera intitolala: Mtisae Lapìdarine nnt tfuorum ili mitrmaribiis carmina, ec. stampata in Verona nel 1672 , la riporta (l. 1, p. 77) dicendo: Pud ntis grammatici M. Lepidi sarcophagus Vicentiae in ruderibus Theatri Reric.i olim celeberrimi inventus. Or a chi di questi due scrittori crederem noi? Al Zanchi che ce la indica , come allora, mentre egli scriveva, esistente in Bergamo , e ne addita il luogo preciso, benchè ora essa più non vi sia; o al Ferretti che la dice scoperta nelle rovine di quel teatro, senza indicarci nè quando essa si scoprisse, nè ove essa allora esistesse? A me è nalo sospeno che il Ferretti abbia preso un equivoco. Il Zanchi parla prima delle iscrizioni che erano nella chiesa di S. Vincenzo di Bergamo, e passa poi a dire [p. 557 modifica]LIBRO TERZO 55"] Intorno al qual epitaffi), da cui pare che si licavi che questo Pudente tenne in Bergamo pubblica scuola, una bella ed erudita dissertatone abbiamo alle stampe dell’ab. Pierantonio Serassi (Racc. d Opusc. scient. t. 4 <)■ IV. 1 retori a’ quali ora facciam passaggio, e più tardi e più difficilmente che non i gradatici, ottennero in Roma sede ed onore. Si è veduto nell1 epoca precedente che alcuni Greci avean cominciato a tenere in Roma scuola pubblica d’eloquenza; ma che Tanno 592 per ordine del senato furon costretti a partirne; e si è esaminato qual fosse il motivo di sì severo -decreto. Ma dappoichè la compii sta della Grecia trasse a Roma in sì gran numero i più colti uomini che vi fiorivano, e poiché i Romani deposta ebbero quella austera avversione che nutrito aveano per lungo tempo contro ogni letteratura, egli è probabile che molti relori greci riaprissero in Roma le loro scuole, di (¡nelle elverano nella chiesa di S. Agata; ma il passaggio non ha nessuna segno visibile che lo faccia osservare, di modo che io stesso leggendo il libro, credetti dapprima che quella iscrizione appartenesse al tempio di S. Vincenzo?. Ciò che a me è accaduto, accadde forse ad alcuni di quelli che volendo raccogliere le iscrizioni, le copian da’ libri che lor vengono alle mani; e forse egli volendo indicare il luogo ove era quella iscrizione, scrisse nel suo zibaldone: In T. S. Vinc. Berg.; le quali parole lette in fretta, e peggio intese, diedero forse luogo all’equivoco di creder l’iscrizione trovata nel teatro Berieo di \ icenza. lo non so se questo sia un mio sogno; ma certo le leggi della buona critica mi sembrano assicurarci che questa iscrizione a Bergamo debba assegnarsi non a Vicenza. rv. I retori son cacciati da Roma. [p. 558 modifica]V. Mutivi di questo sì severo decreto. K>° b PARTE TERZA c che i Romani volentieri vedessero la lor gioventù ad esse accostarsi. Certo si è gi:> veduto (di sopra, che i più valenti tra’ Greci scelse Cornelia ad istruire nell’eloquenza i due Gracchi suoi figli, e fra gli altri Diofane di Mitilene; e che i più celebri retori greci furon da Cicerone nella sua fanciullezza uditi. Ma di essi non parla Svetonio, il quale solo de’ latini retori ci ha lasciate alcune memorie. Narra « di adunque t De Cl. Rhet c. 1) che alcuni Romani a imitazione de’ Greci presero essi pure a tenere scuola d’eloquenza, e a prendere perciò il nome di retori latini. Ma appena avean essi cominciato, che furon costretti a tacere. Ecco il grave e severo decreto di Gneo Domizio Enobarbo e di Lucio Licinio Crasso censori contro di essi, promulgato l’anno 661, quale da Svetonio (ib.) e da Gellio (l. 15, c. 11) ci vien riferito. Renuntiatum est nobis, esse homines qui novum genus disciplinae institueru.nl, ad quos juventus in ludos conveniat: eos sibi nomen imposuisse latinos rhetores: ibi homines adolescentulos totosdies desidere. Majores nostri, quae liberos suos discere, et quos in ludos itare vellent, constituerunt. Haec nova quae praeter consuetudinem ac morem majorum fiunt, neque placent, neque recta videntur. Quopropter et iis qui eos ludos habent, et iis qui eo venire consueverunt, vide tur faciendum. ut ostendamus nostram sententiam, nobis non piacere. V.Questo decreto sembra a prima vista dettato da quel medesimo spirito di austera rozzezza che fece per lungo tempo aborrire a’ Romani gli studi d ogni maniera. Ma veramente, se con [p. 559 modifica]LIBRO TERZO 55g più altenzion si consideri, noi vedremo che fu anzi zelo della gloria della romana letteratura, che a fare questo decreto condusse i censori. In fatti è a riflettere che Crasso, uno de’ censori che il pubblicarono, è quel Crasso medesimo che come uno de’ più valenti oratori abbiam già veduto lodarsi da Cicerone. Quindi non poteva egli certo aver in odio l’eloquenza, nè bramare che i Romani non la coltivassero. Qual fu dunque il motivo che alla pubblicazione lo spinse di un tal decreto? Egli stesso cel dice presso Cicerone, il quale a ragionar di ciò lo introduce per tal maniera (De Orat. l. 1, n. 24): Ella è questa una gran selva di cose (dice egli parlando degli ornamenti richiesti a ben ragionare), la quale benchè da’ Greci medesimi non. bene si comprendesse, e avvenisse perciò a’ nostri giovani di dare addietro, anzichè avanzare in quest’arte, nondimeno in questi ultimi due anni vi ebbe ancora alcuni professori latini di eloquenza; i quali io, essendo censore, aveva con mio editto tolti di mezzo; non già., come io ben sapeva dirsi da alcuni, perchè non. volessi che coltivati fosser gl’ingegni de’ giovinetti, ma anzi perchè io non voleva che si offuscasse loro l’ingegno, e il solo ardir si accrescesse. Perciocchè i greci retori finalmente, qualunque essi si fossero , avevan pure, corti io vedeva, e l’esercizio della lor lingua, e qualche tradizione , e quella coltura ancora che del sapere è propria. Ma da questi nuovi maestri rudi’ altro parevami che apprender potessero i giovani, fuorchè ad esser arditi; il che, ancor quando a lodevoli azioni congiungesi, è in ogni. [p. 560 modifica]■r>l’° PARTE TERZA modo a ftiggire. Or non insegnandosi da essi juorc he ciò solamente, ed essendo quella , a dir vero, una scuola if impudenza , giudicai dover di censore di fare in modo che tal male non serpeggiasse più oltre. Le quali cose non dico io già, perchè pensi che impossibile sia il trattare e ornare latinamente quell’argomento di t ni abbiam favellato: perciocchè la Un ma nostra e l’indole delle cose è tale, che quelli antica ed esimia arte de’ Greci si può alle, leggi nostre adattare e. ai nostri costumi. Ma a ciò fa d’uopo d’uomini eruditi, de’ quali in questo genere niuno ancora è stato fra noi. Che se un giorno alcuni ne sorgeranno, dovranno essi a’ Greci stessi antiporsi. Fin qui Crasso, dal cui parlare raccogliesi chiaramente che non già l’arte de’ retori, ma l’ignoranza di quelli che l’esercitavano, avea egli con tal decreto presa di mira. E qui ad osservare che Crasso dice che in quegli ultimi due anni avean cominciato i retori latini a introdursi in Roma. Ora il Dialogo in cui egli parla, finge Cicerone che si tenesse nell’anno stesso, anzi pochi giorni prima della morte del medesimo Crasso, che accadde l’anno 662. Due anni innanzi adunque, cioè l’anno 660, avean essi aperte le loro scuole; e l’anno seguente fu contro lor pubblicato il riferito decreto. VI. Il primo tra’ retori latini fu Lucio Plozio ì Gallo. I dotti autori della Storia Letteraria di Francia 1’ hanno annoverato tra’ loro uomini illustri solo pel soprannome di Gallo (t. 1 ,p. 83). Ma già si è mostrato altrove che argomento troppo debole è questo a provarlo nativo della [p. 561 modifica]LIBRO TERZO 56l Gallia Transalpina. Svetonio ci ha conservati (De Cl. Rhet c. 2) parte di una lettera di Cicerone a Marco Titinnio, in cui così gli scrive: Io certo ricordomi che nella mia fanciullezza prima di ogni altro prese a insegnare latinamente un cotal Lucio Plozio, a cui facendosi gran concorso, poichè tutti i più studiosi innanzi a lui si venivano esercitando, io dolevami che ciò a me non fosse permesso. Ma me ne tratteneva F autorità di dottissimi uomini, i quali pensavano che da’ retori greci meglio si esercitassero e si coltivassero gt ingegni. E convien dire che uomo colto ed eloquente fosse creduto Plozio, perchè Cicerone stesso altrove narra (Pro Archia. c. 9) che il celebre Mario amavalo e coltiva vaio assai, perchè sperava ch’egli potesse un giorno narrare le cose da lui operate. Quintiliano dice (l. 4, c. 2) che tra’ retori latini che negli ultimi anni di Crasso tennero scuola , fu singolarmente insigne Plozio; e altrove (l. 11, c. 3) dice ch’egli scrisse un libro intorno al gesto. Mi sia qui lecito il dare un saggio di una recente opera sulla letteratura francese (Tableau histor. des gens de lettres par M. l’ab. de L.), di cui veggo parlarsi con molta lode da alcuni giornalisti, ma che a me pare che troppo sia lontana da quella esattezza e precisione che in tali opere è necessaria. Nè io so intendere per qual ragione l’autore di essa, che altro non fa veramente che compendiare la Storia Letteraria di Francia de’ dotti Maurini, pure non mai faccia menzione alcuna di tal opera, come se non ne avesse contezza. Ma almeno fosse fedele il compendio Tiraboschi, Val. I. 36 [p. 562 modifica]003 PARTE TERZA di’ egli ce ne olire, il peggio si è che egli non e.(.Iole clic nell adottarne gli errori, ove alcuno ne hanno commesso que’ dotti scrittori; nel rimanente egli travolge a suo piacere i lor sentimenti, e con sicurezza maravigliosa ci narra cose che evidentemente son false. Ne sia prova cio ch’egli ne dice di Plozio (t. 1 p. 12, ec.). Egli afferma che la Gallia. Narbonese fu la sua patria, e ciò senza alcun fondamento; che la gloria che ei s’acquistò nella professione di retore, gli ni rito il soprannome if Insigne conseivalogli da Quintiliano; e Quintiliano, come abbiamo veduto, non dice già ch’egli avesse un tal soprannome, ma che tra’ retori di quel tempo ei fu singolarmente insigne. Aggiugne che Cicerone si duole di essere stato privo delle sublimi lezioni di Plozio; e Cicerone, come abbiamo veduto, non ha mai chiamato sublimi le lezioni di questo retore; che Plozio terminò la sua carriera nell’oscurità di una vecchiezza coperta di gloria e di malattie; e Svetonio altro non dice, se non che diutissime vixit; e della oscurità, della gloria, delle malattie nè egli nè altro antico autore non fa parola; che Quintiliano parla col maggior elogio che sia possibile del libro scritto da Plozio intorno al gesto: e Quintiliano non dice altro se non che Plozio scrisse di tal argomento, e non aggiugne alcun motto di lode: Qui de gestu scripserunt circa tempora illa, Plotius Nigidiusque. Ma l’esattezza di questo autore si dà a vedere singolarmente in questo passo ch’io qui recherò colle sue parole medesime, perchè non credasi ch’io ne travolga [p. 563 modifica]L1UR0 TERZO 563 o ne esageri il senso: Mais tout l’éclat d’une réputation si bien établie ne put F arracher aux persécutions de l’envie, dont un certain Marcus Caelius fut le ministre le plus acharné, La protection intéressée que Marius accorda quelque temps à notre célèbre rhéteur, l’abandonna bientôt à toute la rage de ses ennemis. Ambitieux de se surfaire aux siécles à venir, il vit avec indignation que F éloquence fière de Plotius refusoit de se prêter au récit de ses belles actions; et c’est une excellente leçon pour ces gens de lettres si jaloux du commerce des grands. Convien qui ricordare ciò clie sopra si è detto, che Mario sperava che le sue imprese potessero venir descritte da Plozio; e conviene aggiugnere ciò che narra Svetonio (De Cl. Rhet. c. 2), che M. Celio in una sua orazione parlò con disprezzo di Plozio, chiamandolo latinamente rhetorem hordearum. Or il nostro autore di Mario e di Marco Celio par che faccia un uom solo, chiamandolo ora Marco Celio, ora Marco; e dice ch’egli dopo aver per suo interesse protetto Plozio, sperando di essere da lui lodato, quando si avvide che Plozio negava di compiacerlo, prese a perseguitarlo: cosa di cui non v’ ha fondamento alcuno negli antichi scrittori, e appoggiata solo a’ due fatti diversi di sopra accennati , confusi dal nostro autore in un solo, e travisati a capriccio (*). E (*) Le parole nelle quali io ho scritto che l’ab. Longchamps pare che faccia una sola persona di Mario e di M. Celio, possono, anzi sembrano veramente avere ancora altro senso; e credo che l’autore abbia voluto [p. 564 modifica]VII. Altri retori a Roma. 564 PARTE TERZA I questo basti per saggio di una tal opera, di cui assai poco varrommi nel decorso.di questa storia; poichè, come si è detto, ciucile vi ha di pregevole, tutto è tratto dalla Storia Letteraria di Francia; e il confutarne tutti gli errori, sarebbe cosa a non finir così presto. VII Il passo che abbiamo recato di Cicerone, in cui parla della scuola aperta in Roma da Plozio, rischiara maravigliosamente e conferma ciò che di sopra si è detto. Era Cicerone nato r anno 647, ed era perciò fanciullo di tredici in quattordici anni, quando Plozio cominciò a insegnar la rettorica latinamente. Il motivo da noi accennato, per cui contro di lui e degli altri che ne seguivan l’esempio pubblicarono i Censori il riferito decreto l’anno 661, è qui chiaramente espresso; cioè la comun persuasione de’ più dot ti uomini di Roma, che a’ giovinetti fosse assai più vantaggioso il frequentar le scuole de’ Greci, ed esser da questi ammaestrati nell’eloquenza. Ma il decreto di Domizio e di Crasso non ebbe gran forza; e alcuni, benchè pochi, retori latini vengon nominati.da Svetonio, che vissero a questi tempi medesimi, come Lucio Otacilio Pilito ch’ebbe a suo scolare Pompeo il Grande (c. 3), Epidio distinguere 1’uno dall"’altro. Ma ciò non ostante si dovrà sempre dire che non è appoggiata ad alcun fondamento, ma finta interamente a capriccio la persecuzione da M. Celio mossa a Plozio, poiché non altro sappiamo se non che una vnlla chiamollo ‘intonili hordtanum, e molto più lo sdegno di Mano contro il medesimo Plozio, di cui non vi ha vestigio presso gli antichi scrittori. [p. 565 modifica]LIBRO TERZO 565 pii’ebbe Marco Antonio ed Augusto (c. 4)? e Sesto Clodio siciliano che di greca insieme e di latina eloquenza fu professore, e amicissimo di Antonio (c. 5), il quale per testimonianza di Cicerone (Phil. 2, n. 17) donogli due mila jugeri di terreno esenti da ogni imposta nelle campagne de’ Leontini in Sicilia. Finalmente Caio Albuzio Silo novarese retore e oratore insieme, il quale fuggito dispettosamente dalla sua patria, perchè essendovi egli edile, e pronunciando sentenza dal tribunale, coloro ch’ei condannava, presolo pe’ piedi l’aveano villanamente trascinato a terra, sen venne a Roma, vi tenne per molti anni pubblica scuola, e talvolta ancora, benchè di raro, perorò nel foro or con lieto, or con infelice successo; finchè tornato alla patria, e travagliato da una vomica, risolvette di uccidersi colla fame; e radunato il popolo, e esposte le ragioni della sua risoluzione, la pose ad effetto. Delle virtù ch’egli aveva nel declamare e nel perorare, ma congiunte ancora a molti vizii, parla lungamente, oltre Svetonio (c. 6), Seneca il retore (Praem. l. 3 Controv.), e tra’ moderni il co. Mazzuchelli ne’ suoi Scrittori italiani (a). Fiorì egli verso gli ultimi anni dell’impero d’Augusto. Sembra però che i retori minor fama ottenessero in Roma che i gr amati ci, e che uomini più (a) Merita ili esser letto 1" elogio che «li Albuzio Silo ba pubblicato il eh. sig. co. Felice Durando di Villa, ove assai bene egli svolge ciò che all eloquenza di esso c degli altri retori di quel tempo appartiene (Pntinoi,tesi Illustri, torri. 3 , p. mi, ec.). [p. 566 modifica]. PARTE TERZA illusili fbsser tra questi cbc non tra quelli. Anzi ove abbiamo esaminata l’origine del dicadimento della romana eloquenza, si è veduto che, per testimonio dell’autore del dialogo de Causis corruptae, eloquentiae, essi non erano mai stati in gran pregio, e che uomini assai mediocri erano comunemente, e tali che bastar non potevano certamente a formare un perfetto oratore. Alcuni nondimeno ve n’ebbe eccellenti nell’arte loro ed illustri, e perciò cari sommamente a’ grandi uomini di quel tempo, come di sopra si è detto. VITI. Il principale esercizio de’ retori era quello del declamare, in cui non solo istruivano e esercitavano i lor discepoli, ma spesso si occupavano aneli’ essi. Proponavasi qualche argomento somigliante a quelli che trattar si solevano più frequentemente nel foro, e di esso si ragionava, come appunto credevasi che sarebbe convenuto fare in tale occasione. Il quale esercizio era certamente vantaggioso al sommo, come vantaggioso è a’ soldati il venire a finte battaglie per addestrarsi alle vere. Quindi uomini anche già avanzati in età e avvolti ne’ pubblici affari usavano spesso di declamare. Così di Gneo Pompeo racconta Svetonio (ib. c. 1) che sul principio della guerra civile per disporsi a rispondere a Curione. il quale preso avea a difendere la causa di Cesare, ripigliò l’esercizio del declamare da molto tempo interrotto; e che M. Antonio ed Augusto, anche mentre stavano in campo nella guerra di Modena , solevano a ciò dar qualche tempo. Ma Cicerone singolarmente era di questo [p. 567 modifica]LIBRO TERZO 56^ esercizio amantissimo: Io mi esercitava, egli dice (De Cl. Or. n. 90), parlando de’ giovanili suoi studi, declamando , come ora dicono, spesso con Marco Pisone e con Quinto Pompeo , o con alcun altro ogni giorno; il che io faceva spesso in latino, ma più sovente ancora in greco; o perchè, essendo il greco linguaggio più ricco di grazie e di ornamenti, mi addestrava a parlare somigliantemente in latino; o perchè, se non avessi usato del greco, da’ celebri professori greci non avrei potuto essere nè corretto nè istruito. Nè in età giovanile soltanto, ma fino al tempo in cui fu pretore, continuò egli a declamare in greco (Svetib.c. 1). Anzi dopo la guerra civile, quando egli ritiratosi per alcun tempo nella sua villa Tusculana tutto era immerso negli amati suoi studi, non solo declamava egli, ma udiva pur volenlentieri gli altri innanzi a lui declamare, e tra essi Irzio, che non molto dopo fu console, e Dolabella (l. 9 ad Fam. ep. 16); talchè scrivendo a Papirio Peto, e leggiadramente scherzando die e (ib. ep. 18) che come narravasi del tiranno di Siracusa Dionigi che cacciato dal regno si ritirasse in Corinto e vi aprisse pubblica scuola, lo stesso faceva egli pure allora, dappoichè, tolti di mezzo i giudicii!, perduto aveva il regno che teneva prima nel foro. Questo esercizio di declamare privatamente, finchè fu congiunto allo studio delle più gravi scienze in cui solevano istruirsi que’ che aspiravano alla fama di grande oratore, e finchè fu avvivato dalla speranza di brillare nel foro e di salire per mezzo della eloquenza alle più [p. 568 modifica]luminose cariche della repubblica, giovò non poco a formare perfetti oratori. Ma fin dal tempo di Augusto cominciarono a cambiar le cose, e in! istato assai peggiore vennero nell’età posteriori, come già si è mostrato parlando dele’eloquenza, e come dovrem poscia vedere innoltrandoci nella storia letteraria de’ secoli susseguenti.