Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo III/Libro II/Capo III

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Capo III – Belle lettere

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Capo III.

Belle Lettere.

I. La necessità di mantener tra’ Cattolici, e di difender contro gli Eretici i dogmi della religione, anche fra questi tempi di barbarie e di sconvolgimento condusse alcuni, come abbiam dimostrato, a coltivare gli studi sacri. Ma l’amena letteratura non era da stimolo o da motivo alcuno avvivata. I Longobardi, che signoreggiavano una gran parte d’Italia, appena [p. 197 modifica]SECONDO jy^ ne conoscevano il nome. I Greci, ch’eran padroni dell’altra, giaceansi essi ancora di questi tempi in una profonda ignoranza. Gl’Italiani gemevano fra le comuni sciagure; e ancor negli anni men torbidi a chi potevan essi sperar di piacere co’ loro studj, e qual premio e da chi potevano aspettarsene? Privi di scuole, di maestri, di libri, come potevano divenire oratori, poeti, storici valorosi; ancorchè a dispetto, per così dire, delle pubbliche calamità avesser cercato di rendersi eccellenti in quest’arti? La descrizion dello stato in cui trovossi l’Italia nel vu e neU’ vin secolo, che abbiam fatta nel primo capo di questo libro, dee già aver prevenuti bastevolmente i lettori, sicchè essi non si maraviglino al vedere sì pochi e sì infelici coltivatori dell’amena letteratura. La Grecia stessa che pure non fu soggetta alle funeste vicende a cui soggiacque l’Italia, era anch’essa in un deplorabile stato; e basti riflettere a ciò che narra lo stesso S. Gregorio il Grande, cioè che in Costantinopoli non trovavasi chi sapesse felicemente recare una qualche si fosse scrittura di greco in latino, o di latino in greco (l. 7, ep. 30). Nè dissomigliante era la condizion della Francia, come han dimostrato gli eruditi Maurini da noi più volte citati. Noi verrem dunque diligentemente cercando, quanto ci sarà possibile, que’ pochi frutti di amena letteratura, che produsse di questi tempi l’Italia, e ci anderem confortando sulla speranza, benché ancora lontana, di più lieta messe. II. E primieramente vuolsi avvertire che lo studio della lingua greca, che prima era sì a. L«> studio pero della [p. 198 modifica]1 ingiù girci! unu l’il iutemmiru te dimenticalo. lljS T.lllllO famigliare in Italia, c che poscia clopo l’invasione de’ Barbari venne quasi dimenticato, non cadde però per modo, che in ogni tempo non vi fossero alcuni in essa versati. Il dominio che i Greci tennero al tempo de’ Longobardi in una non picciola parte d’Italia , dovette contribuire assai a serbar vivo lo studio della lor lingua. In alcune chiese del regno di Napoli mantennesi costantemente la liturgia greca, e quella della stessa città di Napoli, che insieme alla Campania essendo immediatamente soggetta al romano pontefice, avea perciò adottato il rito latino, dopo i tempi di S. Gregorio per opera del patriarca di Costantinopoli tornò in parte a divenir greca, e più chiese vi erano di rito greco; il che dovea non poco giovare a mantener vivo lo studio di quella lingua. Belle notizie ci ha date su questo argomento il sig. Napoli Signorelli, non solo riguardo a’ tempi di cui parliamo (Vicende della Coltura nelle Due, Sicilie, t. 2, p. 103), ma anche riguardo a’ secoli susseguenti (ivi, p. 184); ed egli osserva fra le altre cose, che dal XII fino al xvi secolo non mai cessarono le scuole greche di Otranto e di Nardò, da noi pure mentovate altrove; che anche a’ tempi de’ Normanni e degli Svevi fu talmente in uso la lingua greca, che moltissime pergamene si trovano in essa scritte, e che Federigo II credette necessario che le sue Costituzioni pel regno di Sicilia non solo si pubblicassero in latino, ma anche in greco (ivi,p.273); e che lo stesso accadde sotto i re francesi (ivi, t. 3, p.41), e che anche al presente in varii paesi calabresi e pugliesi si parla il moderno greco [p. 199 modifica]SECONDO iyy volgare presso che nella medesima guisa che nella Grecia (ivi, p. 42) ”■ Noi dovremo fra poco parlar del celebre Giovanniccio di Ravenna, che in questa lingua ancora parlava con facilità ed eleganza maravigliosa. In Roma oltre la ragione medesima del dominio de’ Greci, a cui essa ubbidiva, si aggiunse ancora a mantenere in qualche fiore lo studio della lingua greca la necessità in cui erano i romani pontefici di aver frequente commercio cogl’imperai lo ri e co’ vescovi greci; perciocchè non intendendosi da essi comunemente la lingua latina, ed altro idioma non sapendo usare che il greco, conveniva loro aver uomini che potessero interpretare le lettere che venivan di Grecia, e far loro le opportune risposte. E questo io penso che fosse un dei motivi per cui il pontefice Paolo I verso l’anno 760 avendo fondato nella paterna sua casa un monastero in onore dei santi Stefano e Silvestro, volle, come racconta Anastasio (Script.Rer.ital. t. 3, pars 1, p. 173), che i monaci usassero ne’ divini uffici la lingua greca. Il qual consiglio fu poscia da altri pontefici ne’ tempi seguenti imitato, come a suo luogo vedremo. Così i papi potevano aver facilmente uomini di cui valersi a intendere le lettere e i libri che si scrivean da’ Grecj, e a scrivere ancora, ove fosse d’uopo, in tal lingua. Abbiamo inoltre veduto che S. Leone II era in amendue le lingue erudito. E in Milano ancora, benchè non avesse questa città comunicazione alcuna co’ Greci, vi ebbe nondimeno, come già si è detto, l’arcivescovo Natale che possedeva non sol la greca, ma anche l’ebraica [p. 200 modifica]200 LIBRO favella. Il ch. monsig. Gradenigo, da noi altre volte mentovato con lode, ha pubblicato un erudito Ragionamento intorno alla Letteratura grecoitaliana (Brescia, 1759, in 8), in cui egli dimostra che anche ne’ bassi secoli non son mancati all’Italia i coltivatori della lingua greca. Egli però ha ristrette le sue ricerche al secolo xi e a’ seguenti fino al xiv, perciocchè dice che pei secoli che F undecimo precedettero, sì scarse e rare ne abbiam le memorie, che si può dire affatto perduto per quel corso di tempo presso de’ nostri alle greche lettere V amore (p. 18). E certo non può negarsi che pochissimi in questi tempi fossero, singolarmente ne’ paesi de’ Longobardi, coloro che sapesser di greco. Nondimeno ciò che ora abbiam detto, e ciò che dovrem dire ne’ due secoli susseguenti, ci mostra che qualche studio di detta lingua si fece in Italia anche in que’ tempi che ad essa furono i più infelici. III. Sì pochi coltivatori ebbe ancora la poesia , che l’unico di questa età, cui il nome di poeta possa in qualche modo concedersi, è Venanzio Fortunato vescovo di Poitiers. Io non so su qual fondamento l’ab. Longchamps abbia voluto sparger de’ dubbj sulla patria di questo scrittore, dicendo che di ciò non vi sono che oscure notizie, che alcuni il fanno nascere a Poitiers, ma che è probabile ch’ei nascesse in Ceneda (Tabl.hist. ec. t. 3, p. 84, ec.). Non vi è scrittore di cui sia più certa la patria, che di Venanzio Fortunato. Non solo Paolo Diacono chiaramente la segna, dicendo di lui: natus quidem in loco, qui Duplavilis dici tur, [p. 201 modifica]SECONDO 201 fuit, qui locus haud longe a Cenetense Castro vel Tarvisina distat civitate (de Gest Lang. l. 2, c. 13); ma egli stesso ce ne parla in modo che non lascia dubbio, o oscurità alcuna. Per Cenetam gradiens, et amicos Duplavilenses, Quae natale solum est mihi. De Vita S. Martini, l- 4Poteva egli nominare più espressamente la sua patria? Ella fu dunque la terra detta anticamente Duplavilis, o Duplavenis, che è quella che or dicesi Valdebiadene (16), ovvero, come pensa il sig. Liruti (Notizie de’ Letter. del Friuli, t. 1, p. 134)? la terra di S. Salvadore, terre amendue poste non molto lungi da Ceneda e da Trivigi, la qual seconda città ancora è da lui per tal motivo chiamala sua: Qua mca Tarvisus residcl (l. cit.). Paolo Diacono sieguc (*) La terra di Valdebiadene, patria di Venanzio Fortunato vescovo di Poitiers , appartiene al territorio trivigiano, come mi ha avvertito l’eruditissimo conte. Rambaldo degli Azzoni Avogaro canonico di Trevigi; il quale ancora mi ha indicato l’antico costume della chiesa di Poitiers , che dura anche al presente , di celebrare la festa di questo suo vescovo a’ 14 di dicembre con ufficio proprio di rito doppio. Con ugual diritto poi che tra’ poeti latini poteasi da noi annoverare Venanzio tra gli scrittori sacri, poichè oltre alcune opere da noi accennate , ne abbiamo ancora le Omelie e la Sposizione dell’Orazione Domenicale e del Simbolo Apostolico e alcune lettere, e innoltre la spiegazione del Simbolo Quicumque pubblicata ne’ suoi Aneddoti latini dal Muratori, il quale anche arreca più congetture a provare che di quel Simbolo, attribuito comunemente a S. Anastasio, sia autore lo stesso Venanzio. [p. 202 modifica]IV. Allr** epoche della sua vita: sue OpiTf. 303 LIBRO poscia a narrare che Venanzio Fortunato attesa agli studi in Ravenna, e coltivando la gramatica, la rettorica, la poesia, vi si rendette famoso. A que’ tempi era facile il divenirlo; e Venanzio che ora appena si annovera tra’ poeti, dovea allora sembrare un nuovo Virgilio. Egli parla di se stesso più modestamente assai, e ragionando de’ giovanili suoi studj, così ne dice: Ast ego sensus inops, Italae quota portio linguae, Faece gravis, sermone levis , ralione pigre<oen i, Mente hebes, arte carens. usu rudis, ore nec expers, Pan da gramroaticae lain’uens refluamina guttae , Rhetoricae exiguum praelibans gurgitis haustum , Cote ex juridica cui vix rubigo recessit; Quae prius addidici dediscens, et cui tantum Artibus ex illis odor est in naribus istis. De Vita S. Martini, l. 1. Questi versi medesimi ci fan vedere che non era certo Venanzio un gran poeta; e benchè egli parli in essi di se medesimo con sentimenti troppo modesti, ci persuade però facilmente eh’ ci 11011 fosse nella gramatica e nella poesia versato molto. IV. Mentre ei trattenevasi in Ravenna insieme con Felice che fu poi vescovo di Trivigi, furono presi amendue da un mal gravissimo d’occhi, a cui non trovando altronde rimedio alcuno, ebber ricorso all’intercessione di S. Martino, e in tal modo ottennero la guarigione. Così ci narra egli stesso, e dopo lui Paolo Diacono, (l. cit.) il quale aggiugne che Venanzio mosso da gratitudine verso il Santo suo liberatore, abbandonata la patria poco innanzi all’invasione de*Longobardi, andossene a Tours in Francia [p. 203 modifica]a visitarne il sepolcro, e quindi passato a Poitiers, dopo alcuni anni fatto prete di quella chiesa, ne fu poscia ordinato vescovo. Ei fu assai caro alla reina S. Radegonda, e a Sigeberto re d’Austrasia, e a’ più celebri vescovi che allora fossero in Francia, e singolarmente a Gregorio di Tours. Credesi comunemente ch’egli morisse circa il principio del VII secolo. Paolo Diacono che ne vide il sepolcro, onorollo con un poetico epitafio ch’egli ha inserito nella sua Storia (ib.), ed è il seguente:

Ingenio clarus, senso celer, ore suavis,
     Cujus dolce melos pagina multa canit,
Fortunatus apex vatum, venerabilis actu,
     Ausonia natus hac tumulatur humo.
Cujus ab ore sacro Sanctorum gesta priorum
     Discimus, haec monstrant carpere lucis iter.
Felix, quae tantis decoraris Gallia gemmis,
     Lumine de quarum nox tibi tetra fugit!
Hos modicos feci plebejo carmine versus,
     Ne tuus in populis, sancte, lateret honor,
Redde vicem misero, ne judice spernar ab aequo,
     Eximiis meriti posce, beate, precor.


Gli undici libri di poesie, e altri quattro della Vita di S. Martino, e alcune Vite de’ Santi scritte in prosa, che son le opere a noi pervenute di Venanzio Fortunato, o che trovansi inserite ancora, parte, cioè le poesie, nella Biblioteca de’ Padri, e parte, cioè le Vite de’ Santi, presso i Bollandisti, il P. Mabillon, e altri raccoglitori de’ loro Atti, ci pruovano che questo elogio vuolsi intendere con una giusta moderazione, e che noi abbiamo a lodarne la pietà più che l’eleganza. Io non mi tratterrò a parlarne con più minutezza, poichè penso che nella Storia [p. 204 modifica]3°4 libro della Letteratura non sia cosa di grande importanza. Si può vedere ciò che di lui e delle opere da lui composte, alcune delle quali si sono smarrite, hanno scritto gli autori delle Biblioteche Ecclesiastiche, singolarmente il P. Ceillier (t. 17, p. 84), e i Maurini autori della Storia Letteraria di Francia, che assai lungamente ne hanno trattato (t. 3, p. 464)■ Essi delle poesie e dello stile di Fortunato parlano con assai più lode, ch’io non abbia fatto; e vi conoscono dolcezza, grazia, facilità ed altre doti che, a parlarne sinceramente, a me non pare di ravvisarvi. Qual sia il più fondato giudizio, io ne rimetto la decisione a’ leggitori delle stesse opere di Venanzio. Ma più diligentemente e più eruditamente di tutti ha ricercato ciò che a Venanzio appartiene, il ch. sig. Giangiuseppe Liruti, presso il quale si potran vedere raccolte ed esaminate tutte le più esatte notizie intorno alla Vita e all’Opere di questo celebre vescovo (Notiz. de’ Letter. del Friuli, t. 1, p. 132, ec.). « Veggasi ancora la recente edizione delle Opere di Venanzio fatta in Roma, e da me finor non veduta ». Se gli convenga il titol di Santo, si è lungamente e con calor disputato, non son molti anni, tra il sig. Bernardino Zannetti e il sig. Michele Lazzari (V. Confutaz. di alcuni errori del dott. D. Bernard. Zanne tti, ec. Rover. 1756). Nè io credo che alcuno da me si aspetti eli’ entri giudice in tal contesa. V. Or questi, come abbiam detto, è il solo poeta che ne’ due secoli da noi compresi in quest’epoca possiam rammentare, perciocchè il poema delle lodi di Bergamo pubblicato dopo [p. 205 modifica]SECONDO 3o5 altri dal Muratori (Script. Rer. ital. voi. 5), e che da alcuni credesi scritto neU’ vui secolo, vedremo a suo luogo che appartiene al secolo XII. A un altro veggiam dato il titolo di facondo poeta, ma non sappiamo con quali opere ei l’ottenesse. Questi è il celebre Giovannicio di Ravenna, di cui parla assai a lungo lo storico Agnello (l. Pontif, in Felice, ec.). Era questi uomo di segnalata pietà, e insieme assai versato nella greca non meno che nella latina favella. Quando verso l’anno 679 avendo l’esarco Teodoro perduto per morte il suo segretario, nè sapendo egli a cui confidare tal carica (sì grande era allor la scarsezza di chi sapesse scrivere con qualche eleganza), vennegli favellato di Giovannicio, di cui molto gli fu lodato il sapere e la probità. Fattosel dunque venire innanzi, poichè il vide picciolo di statura e spregevole della persona, gli parve poco opportuno a sostener la carica che gli destinava. Nondimeno a farne pur qualche pruova. fattasi recare una lettera scrittagli in greco dall’imperador Costantino Pogonato, gliela di è tra le mani perchè la leggesse; a cui Giovannicio modestamente: debbo io leggerla, disse, in greco, ovver in latino? Questa interrogazione ricolmò di maraviglia l’esarco, che ad accertarsi meglio del fatto, datagli una lettera latina, ordinogli che la leggesse in greco. Il che avendo fatto Giovannicio con singolare felicità, l’esarco il ritenne a suo segretario. Le lettere ch’egli scrisse in nome del suo signore, piacquer talmente alla corte , che dopo tre anni l’esarco ebbe ordine di mandare il suo segretario [p. 206 modifica]JloG libro a Costantinopoli. Giuntovi Giovannicio vi fè conoscere ed ammirare i suoi talenti per modo, che salì alle prime cariche nel ministero: finchè circa l’anno 691 da Giustiniano II ottenne di far ritorno alla sua patria, ove, dice Agnello, ch’ei si rendette sì celebre, che in tutta l’Italia se ne esaltava il sapere. In questo frattempo attese Giovannicio agli amati suoi studj, e ne fece uso a vantaggio della sua chiesa; perciocchè, come dice lo stesso Agnello, essendo egli valentissimo oratore nella greca e nella latina lingua, nell’una e nell’altra espose le antifone e le preci sacre che nella chiesa di Ravenna si usavano. Ma l’anno 709 nella funesta spedizione che per ordine di Giustiniano II si fece contro Ravenna, fra molti prigionieri che condotti vennero a Costantinopoli, fu ancor Giovannicio. Sembra però che Giustiniano avesse rispetto a un uom sì illustre; perciocchè uccisi, o acciecati gli altri, egli solo fu intatto. Ma l’anno 711 contro di lui ancora infierì Giustiniano, e comandonne la morte, volendo insieme che mentre era condotto al supplì ciò, cioè ad esser chiuso tra due muraglie, un banditore ad alta voce gridasse: Giovannicio di Ravenna, quell1 eloquente poeta, perchè è stato contrario all’invitto Augusto, a guisa di un sorcio rinchiuso fra due muraglie, muoia. Il nuovo sdegno di Giustiniano contro di Giovannicio sembra che nascesse dalla sollevazione che in quell’anno medesimo seguì in Ravenna, di cui fu eletto capo Giorgio figliuolo del medesimo Giovannicio. Dicesi che innanzi morte ei predicesse che il dì vegnente Giustiniano [p. 207 modifica]SECONDO 207 ancora sarebbe stato ucciso, e che così di fatto avvenisse. Certo ei morì in quest’anno medesimo 711. Le cose che finora abbiam dette di Giovannicio, cel mostrano uomo assai dotto pei tempi suoi. Come nondimeno l’unico testimonio di sì grandi pregi è lo storico Agnello pronipote di Agnese figliuola di Giovannicio, può nascere qualche sospetto che egli abbia per avventura esagerate alquanto le lodi di questo suo antenato. VI. A questi tempi medesimi, cioè verso la fine del vii secolo, fu celebre in Pavia un gramatico detto per nome Felice. Altro però di lui non sappiamo se non ciò che ne racconta Paolo Diacono (Hist Lang. l. 6, c. 7), cioè che a que’ tempi fu illustre nell arte, gramatica Felice zio di Flaviano maestro dello stesso Paolo, e che il re Cuniberto lo amò per modo, che fra altri magnifici doni gli fè presente di un bastone ornato A argento e A oro. Ed ecco il sol monumento che della liberalità de’ re longobardi verso gli uomini dotti ci sia rimasto; un bel bastone donato ad un valoroso gramatico; ed ecco insieme il sol monumento che abbiamo degli studj che fiorivano in Pavia capitale del regno de’ Longobardi: due gramatici, Felice e Flaviano; de’ quali ancor non sappiamo quanto fosser valenti nella lor arte; perciocchè il vedere a questi tempi un uomo divenuto celebre per sapere non basta, come per più esempi abbiamo osservato, a conchiudere ch’ei fosse veramente uom dotto ed elegante scrittore. VII. Che direm noi della storia? Se se ne traggan quei pochi che scrissero o le V ite di [p. 208 modifica]alcuni Santi, o la Cronaca di qualche monastero, de’ quali abbiamo parlato nel precedente capo, non ne troviamo a quest’epoca scrittore alcuno. E al più possiamo, se pur cel permetteranno i fede se hi, far menzion di Secondo abate di un monastero in Trento, morto l’anno 61 a, il quale oltre qualche operetta composta in difesa de’ tre Capitoli, avea anche scritta una breve Storia de’ Longobardi, che vien mentovata da Paolo Diacono (Hist. Long. l. 3, c. 29; l 4 > c- 4-2), ma che ora è smarrita. Egli era assai caro alla regina Teodolinda, e fu da lei scelto pel solenne battesimo del suo figliuolo Adaloaldo, che da lui gli fu dato in Monza l’anno 603 (id. I. c. 28). Alcuni fissano a quest’età l’Anonimo di Ravenna, scrittore di una assai barbara Geografia. Ma come le ragioni di quelli che il pongono nei secoli posteriori, mi sembrano assai probabili, riserverommi a trattarne nel libro seguente. Così tutti gli ameni studi erano non solo in un misero decadimento, ma in un totale abbandono. Ma più infelice era ancora la sorte de’ gravi studi, come da ciò che dirassi nel capo seguente, sarà manifesto.