Sui monti, nel cielo e nel mare/La Montagna dalle folgori/Sul vertice del Monte Nero

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Sul vertice del Monte Nero

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La Montagna dalle folgori - Verso la vetta del Monte Nero La guerra nell’aria
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SUL VERTICE DEL MONTE NERO.

Aprile.

Ascendevamo verso l’estrema vetta del Monte Nero in un abbacinante fulgore di nevi soleggiate.

La spalla accessibile della immane guglia, tagliata a picco sugli altri lati, si presentava a piano inclinato, simile ad uno smisurato trampolino, tutta bianca, senza una macchia, senza rilievi.

Superate le erte pendici del massiccio, sulla convulsione gigantesca delle rocce dirupate, trovavamo alla fine la calma strana, la eguaglianza imponente di una gran tavola a declivio, pareggiata da enormi spessori di neve, con i bordi profilati nel cielo. Eravamo sul tetto ripido del Monte Nero.

Della montagna non vedevamo più che quella incontaminata mollezza, che faceva pensare al dorso di una nube. Gli speroni, le balze, il gran piedistallo della vetta, erano scomparsi. Ci sentivamo prodigiosamente in alto, sopra un tappeto di candore che saliva, teso nel sereno, al disopra del mondo. La vastità della visione stordiva. [p. 189 modifica]

Per solito l’alta montagna varia ad ogni passo, attorce e spezza il cammino in una infinità di piccole salite; e non la riconoscevamo più nello spazio senza limiti, nella distesa vertiginosa, aperta nel candore levigato, ampio, scosceso, che dall’ombra delle valli ci portava verso il cielo. Nulla indicava le distanze, lo spazio e il tempo divenivano incommensurabili, provavo l’impressione di aver cominciato a salire in un’epoca già lontana e di non potere mai arrivare alla fine. Non si allontanava forse il vertice maestoso sul quale sollevavamo ad ogni momento lo sguardo? Certo. L’estremo lembo del gran tappeto bianco si svolgeva con lentezza solenne verso altezze sempre più ardite.

Scalavamo lentamente, in silenzio. Appena qualche parola di avvertimento, dall’uno all’altro: «Tenetevi a destra! — Qui si affonda! — Su, attaccatevi a me!» — Ma nei momenti di sosta, per rallegrare gli spiriti, qualcuno pratico dei luoghi spiegava: «Questo è il punto più pericoloso. Se si cade si va a finire nel vallone di Kern, come è successo ad un alpino il mese scorso. Anche più avanti, sulla cornice, parecchi si sono perduti. Ora vi mostrerò....»

Si parla dei morti della montagna con serena indifferenza; pare che andare a finire nel vallone di Kern sia un incidente di viaggio. La vita umana costa più poco ora, e forse è [p. 190 modifica] tornata al suo giusto valore. Vi è una espressione burlesca o macabra per indicare la scomparsa nelle valanghe o giù per i valloni: «finire in conserva». Perchè i cadaveri che il monte nasconde emergeranno intatti al disgelo dalla loro sepoltura bianca.


Seguivamo le orme lasciate dalle squadre di portatori nella notte, mezzo cancellate. Il sentiero calpesto ha sempre un’infarinatura di neve fresca, portata dal vento anche nelle giornate serene. Il sole mattutino sfiorava la groppa del monte suscitando minuti scintillamenti di cristallo intorno a noi, e le nostre ombre azzurre, sottili, lunghissime, bizzarre, si distendevano parodiando i nostri movimenti.

Il pendìo in certi punti si ergeva così ripido, che gli arponi da ghiaccio legati alle scarpe non sempre facevano presa. Improvvisamente il piede scivolava indietro, e si rimaneva allora per un istante immobili, raccolti, appoggiati alla piccozza che un gesto istintivo e violento aveva affondato di fianco come un remo. In quei momenti di squilibrio e di incertezza, chi non ha confidenza con la montagna non dovrebbe mai guardare in basso.

Non si può seguire senza turbamento la fuga del declivio, che si inabissa fino alle brume della lontananza in una continuità maestosa. Per un attimo si è sopraffatti da un senso di orrore, che non è altro che la immaginazione [p. 191 modifica] incosciente della caduta. Tutte le nostre paure nascono in fondo dal pensiero subitaneo, involontario, preciso, della catastrofe. Non è l’abisso che ci spaventa, è la sensazione di piombarvi. E l’atto spontaneo di portare le mani agli occhi è per comprimere e schiacciare appena nata la visione del nostro corpo precipitante con veemenza, agitato da divincolamenti convulsi che lasciano in solchi strani nella neve la scìa della nostra disperazione, la traccia solenne della nostra agonia. Si pensa che altri sono caduti così negli stessi luoghi, che basterebbe un attimo di sperdimento perchè la orrenda visione si avveri, che essa è forse la realtà ineluttabile del prossimo istante, e tutto ad un tratto l’angoscia ci invade.

La nevosa Sella Kozliak, dalla quale eravamo partiti, si era sprofondata a poco a poco, e sembrava assai più vicina al fondo della valle che a noi. Non ancora raggiunta dal sole, tutta velata da quell’ombra glauca delle grandi altitudini nella quale si raccoglie come un odore di serenità, essa appariva diafana, incorporea, simile ad un’onda. Spire sottili di fumo celestino salivano nella quiete dell’aria dai rifugi dove avevamo passato la notte. Quell’angolo ospitale del monte, nel quale ci aveva accolti la calda cordialità che lega gli uomini nelle solitudini, come lega la corda che fa un essere solo di tutta una squadra fra i pericoli delle scalate più ardite, ci pareva ora familiare, [p. 192 modifica] pieno di normalità come un paese qualunque del mondo, vicino alla vita sociale, desiderabile. In montagna, anche in prossimità della vetta, tutta la strada percorsa appare sempre più breve, più facile, più sicura di quella che ci aspetta, misteriosa e indefinita.


Si sale alla cima estrema del Monte Nero lungo il bordo occidentale della spalla, tagliato a picco. Si va su, per dir così, sull'orlo del tappeto bianco. Si ascende a zig-zag costeggiando la cornice di ghiaccio che sporge sulla cresta delle immani pareti, e che pare si affacci nel vuoto, turgida, spessa, strapiombante. Bisogna passare ogni momento a pochi metri dal margine, tondeggiante con una mollezza di stoffa. È qui che la tormenta fa più vittime.

Chi è sorpreso in cammino dalla bufera che sorge spesso improvvisa e inattesa, stordito, agghiacciato, sperduto nel caos di gelo, staffilato dai turbini di nevischio che non lasciano aprire gli occhi, appesantito dall'accumularsi della neve che il vento gli lancia addosso a masse che sembrano le palate di un affossatore gigante, qualche volta è condotto da un’illusione fatale a precipitare nel baratro. Con sforzo inaudito, con tutta la sua volontà tenebrata, egli volge il passo faticoso, lentissimo, pesante, verso la morte.

E pure la salvezza sembrerebbe facile. Ogni tre o quattrocento metri vi è un posto di [p. 193 modifica] collegamento; dei nuclei d’uomini vivono disseminali sul nevaio. Di tanto in tanto il sentiero devia, si sprofonda fra pareti di ghiaccio, e conduce a un piccolo rifugio, sepolto nella neve, una specie di abitazione esquimese, calda e oscura, nella quale arde un fuoco, bolle una pentola, e degli alpini si aggirano taciturni. La tormenta non può sorprendere mai lontano da uno di questi posti. E pure non vi si può far giungere neanche il proprio grido di aiuto, impercettibile stridore dell’insetto umano quando l’uragano sferra il suo urlo possente e mostruoso. Chi si disorienta è perduto. Se non incontra la voragine, gira penosamente intorno allo stesso punto, percorre e ripercorre lo stesso cerchio, finché si ferma per sempre come un automa spezzato.

Così, in certe sinistre giornate invernali cominciate in un raggio di sole, della gente è partita dalla vetta o per la vetta del Monte Nero, ed è scomparsa nell'immensità e nell'eternità. Tornata la calma, la montagna appare rinnovata, splendente, intatta, senza un’orma, con le sue nevi vergini che sembrano dire: Nessuno è mai passato di qui!

«In inverno non si sa mai — spiegava l’ufficiale che mi precedeva porgendomi premurosamente la mano nei passi difficili presso alla cornice. — La tormenta può arrivare in pochi minuti, un cambiamento di vento....» [p. 194 modifica] Mi sono spiegato allora le parole del comandante gli alpini sulla Sella Kozliak, il quale ci aveva gridato mentre partivamo: «Tornate presto! C’è una nebbiaccia sotto al Pleca! Vi mando un uomo con la corda!»

Gli alpini non amano portare la corda, per superstizione. Siccome si adopera nel pericolo, l’accusano di attirare il pericolo. Odiano le precauzioni come segni di malo augurio. Bisogna forzarli a incatenarsi alla fune quando il vento si leva, e a mettere le cordicelle da valanga per attraversare le zone minacciate, delle cordicelle che si trascinano come code, legate per un capo alla cintura, lunghe una ventina di metri, tinte di rosso, serpeggianti sulla neve. Se la valanga investe, è difficile che qualche tratto della cordicella non affiori, o non sia rinvenuto smuovendo cautamente la neve alla superficie, sanguigno filo di salvezza.


Non ci siamo legati alla corda, ma la tenevamo tesa a mano, per avere l’illusione di un parapetto. Ad un certo momento gli austriaci dal Monte Rosso ci hanno visto, ed è passato in alto un ronzìo di pallottole. «Ah, finalmente!— ha esclamato qualcuno della comitiva. — Buon segno! Siamo quasi arrivati!» Aspettavamo le fucilate. Nell’ultimo tratto della salita si passa in vista del nemico. La distanza è troppa per un tiro accurato, ma il nemico è volonteroso. Nei giorni sereni, saluta così chi [p. 195 modifica]sta per giungere alla vetta del Monte Nero. Il bel tempo ha i suoi inconvenienti. Ci siamo distanziati per offrire meno bersaglio, perchè il cerimoniale vuole che dopo le prime fucilate arrivi una coppia di shrapnells. Ma il cerimoniale è rimasto incompleto.

Vedevamo il Monte Rosso più in basso, a levante, isolato, e sul suo rovescio nevoso scorgevamo il serpeggiare dei camminamenti, sui quali si aprivano oscuri, bassi e informi, i rifugi. Sui bordi dei sentieruoli bianchi e scoscesi stavano strane file di ometti immobili. Parevano in rango per una fantastica rivista, che lassù avrebbe dovuto esser passata da un generale in aeroplano. Gli austriaci li tempestavano assiduamente con grossi shrapnells che arrivavano ululando dalle posizioni dello Smogar, al di là del Monte Nero. Ma le schiere rimanevano imperterrite. Al dissiparsi del fumo rossastro dei colpi le rivedevamo ferme, erette, intatte. Possibile? Abbiamo guardato con i binoccoli: erano tante pellicce messe ad asciugare sulle piccozze piantate nella neve. Gli austriaci le hanno bombardate con fiera perseveranza, finché un grigiore filaccioso di nebbia è salito dalla parte del Rudecirob ed ha velato il monte.

Eravamo in cammino da oltre due ore. La vetta non pareva raggiunta; non si sa mai quanto possa essere lontano un candore deserto. Ma improvvisamente siamo entrati in [p. 196 modifica] un solco, e ci siamo trovati di fronte all’ingresso di una grotta scavata nel gelo. Incominciava un viaggio nell’inverosimile. Da quel momento non abbiamo più camminato sulla neve ma dentro la neve, in un dedalo di gallerie scavate nello spessore bianco, serpeggianti, scoscese, sterminate.

Dove gli uomini si annidano e vivono, ogni traccia umana si sperde sulla faccia del monte. Il vertice abitato solleva nel cielo la sua bianchezza incontaminata, desolata, fredda, tagliente.

«Via Roma» — è scritto sopra un cartello all’ingresso della grotta bianca. Ogni galleria è la strada di una misteriosa città glaciale. Si sale per Via Roma, si volta per Via Trieste, si sbocca in Via Torino.... Vi sono bivî, crocicchî; si va per cunicoli da una parte all’altra della montagna, e il visitatore sbalordito si sperde; egli passa ogni tanto dall’ombra più cupa ad abbaglianti visioni di orizzonti sconfinati, e rientra nell’ombra come percorrendo i corridoi bui di un gigantesco diorama. Andare sulla vetta suprema del monte vuol dire penetrare in un sotterraneo favoloso, in una catacomba cristallina, tutta buchi, grotte, cripte, tagliata in diafanità opalescenti, meravigliosa e ossessionante.

«Ben arrivati! Avanti! Attenti alla testa! Tenetevi alla corda!» — Il telefono aveva annunziato il nostro arrivo, e degli ufficiali [p. 197 modifica] erano scesi a riceverci festosamente all’entrata del loro paese di ghiaccio.

Una delle cose più sorprendenti della nostra guerra di montagna è il buon umore, la contentezza, l’aria di «si sta bene così», che hanno gli uomini che la combattono. Isolati fra le nubi, nel furore degli elementi essi si costruiscono una vita attraverso sforzi inauditi, e questa vita la trovano bella, e la amano. La amano perchè è una vittoria perpetua, il trionfo di ogni giorno. Ci si aspetta un’atmosfera tragica sulle vette tormentate, divise dal mondo da tutti gli orrori e da tutti i pericoli delle altitudini, ed arrivando ci si sente in una calma lieta, che emana come un calore dagli animi di chi ci accoglie. Giunti quasi all’inaccessibile, in mezzo a quella forte serenità degli uomini che vi vivono, la montagna sembra meno minacciosa, meno terribile. La sentiamo comandata, dominata, vinta sotto a noi.

«Ben arrivati! Avanti!» — ed eccoci in una oscurità strana, soffusa di riflessi lievi, ora verdastri e ora perlacei, fra scabrose muraglie di vetro, sotto ad una vôlta irregolare e traslucida, mormorata da pallide trasparenze, salendo in processione gli alti gradini, stridenti e bianchi, di una scala favolosa. «Ci vedete? Tenetevi alla corda!»

Annodata a dei paletti di ferro da reticolato piantati nelle pareti, una corda incrostata e gonfia di ghiaccio offriva l’appoggio delle sue [p. 198 modifica]cèntine. «Avreste dovuto vedere l’altra sera che illuminazione qui dentro! — raccontavano strada facendo gli ufficiali che ci guidavano. — Ognuno di questi paletti aveva un pennacchio di fuoco. Un temporale memorabile!»


Era il temporale che mi aveva trattenuto giù a Drezenca. La folgore aveva dato agli ospiti della vetta una delle sue magiche feste con luminarie. Tutti gli oggetti di metallo mandavano faville violette e azzurre. Delle luci sprizzavano dai capelli delle persone, con un fruscìo sottile. Le armi erano state adunate lontano dagli uomini, e le scariche elettriche facevano esplodere cartucce nelle giberne attaccate alle pareti. I bossoli scoppiati hanno tutti un piccolo foro di fusione che pare fatto da una punta ardente. Anche delle cariche da cannone si infammavano. La saetta entrava nei ricoveri: uno schianto metallico, un barbaglio accecante, un odore di ozono. Non rimaneva altro segno che delle venature carbonizzate sulle travi. Passando per le gallerie si era rovesciati dalla scossa. Undici uomini sono rimasti scottati. Fuori l’uragano pareva volesse svellere la montagna.

La prima apparizione dei fuochi di Sant’Elmo avvenne lassù in una notte di estate, poco dopo la conquista. I soldati erano fuori al lavoro. Palpitava nel cielo coperto quel balenìo senza tuono delle nottate nuvolose e [p. 199 modifica] calde. Improvvisamente sulle punte delle baionette delle sentinelle comparvero delle aigretles di scintille. Creste di luce si formarono sui cappelli, dei vividi zampilli oscillarono sulle penne d’aquila. Un ufficiale levò una mano, e le punte delle sue dita si accesero. Vi fu nelle truppe un minuto di spavento. Ma le spiegazioni degli ufficiali persuasero e interessarono. Poco dopo tutti gli alpini erano con le mani in aria per vederle sfavillare. Poi il temporale si addensò, si scatenò, e cominciò la parte più fragorosa della festa. Da allora uomini e saette vivono in buona compagnia sul Monte Nero. Ma dopo il disgelo si esperimenteranno sui ricoveri delle reti metalliche studiate per la dispersione delle energie elettriche. Si metteranno dei reticolati contro il fulmine come contro il nemico.

Per lunghi tratti nelle gallerie che ascendevamo si addensavano le tenebre. Quei chiarori tenui che filtravano attraverso il ghiaccio e che sembravano una pallida fosforescenza delle pareti, si estinguevano. Passavamo nella opacità di strati enormi, sotto a spessori di decine di metri di neve, dove la pressione delle grandi masse gelate deforma e restringe lentamente i cunicoli. La vôlta, tutta bozze, scende un po’ più ogni giorno, senza scosse, gradatamente.

«Due giorni fa qui si passava in piedi!» — ci dicevano. E dovevamo invece curvarci, andar quasi carponi, strisciando col dorso e con i gomiti su frigide levigature, afferrati alla [p. 200 modifica] corda che intirizziva le dita, sentendo lo spazio diminuire ancora nel buio, imbarazzati ad ogni gesto dal contatto più serrato del gelo, presi come dall’assiderante angustia di un incubo. «Quando si esce dal nero?...» — «Ora, una cinquantina di gradini e poi ci si rivede!»

Infatti, lontano lontano appariva un barlume azzurro e nebuloso, e rientravamo a poco a poco in quella luce da acquario, più viva in certi risvolti della stretta spelonca, in fondo ai quali s’intuivano spiragli di sole.

Di quando in quando, dove l’altezza delle nevi non è eccessiva, vi sono aperture nella vôlta per lasciar penetrare l’aria e il giorno. Ma vi penetra anche il nevischio, polveroso e leggero, che al minimo vento si accumula, turbina nelle gallerie, le spessisce e le chiude. Tutte le sere, quando gli ufficiali lasciano la mensa che li riunisce e s’incanalano per i meandri del labirinto diretti ognuno alla sua sede, alla sua tana, trovano invariabilmente la strada murata da soffici ammassamenti.


Chiamare allora le squadre a lavorare di pala sarebbe troppo lungo. Ricorrono ad un sistema più sbrigativo. Chi deve passare si lega una corda alla cintura, e, mentre i compagni tengono la corda all’altro capo, egli si slancia sull’ostacolo a testa bassa, con tutto l’impeto; s’immerge nello sbarramento molle [p. 201 modifica] come un nuotatore che si tuffi, e sparisce. Dopo un po’, gli amici sentono la sua voce lontana che grida: «Buona notte!» — e ritirano la corda vuota. Se invece il silenzio si prolunga, traggono indietro il tuffatore rimasto incastrato, ansimante, acceso in volto, furibondo. E si ricomincia fra le risate. C’è un ufficiale che non manca mai il colpo; va giù come un trivello; lo chiamano «la perforatrice».

Le gallerie arretano la vetta e immettono nelle posizioni da una parte, e nei rifugi dall’altra. C’è il lato guerra e il lato pace, il versante delle cannonate e il versante del riposo. Il versante del riposo è la roccia a picco. È una muraglia alta più di un chilometro, solcata da spaccature, ineguale, tormentata, fantastica, presso le cui cornici, sul precipizio vertiginoso, l’uomo si è annidato come l’aquila.

Si sono costruiti i baraccamenti su delle scabrosità della parete immane, sopra sporgenze minuscole che il piccone ha pareggiato. I lavoratori erano calati dall’alto, legati alle corde. Preparate le "mensole di sostegno, essi hanno poi tagliato sui rilievi di pietra le scale per scendervi. Sorsero le baracche, fissate alla roccia, simili a minuscole scatole inchiodate in un gran muro. Strette e lunghe, hanno l’aria di vagoni ferroviari, con tutti i loro finestrini in fila aperti sull’abisso. All’interno, delle lettiere a due ripiani, come nell’angusta stiva di una nave d’emigranti, e uno stretto passaggio lungo [p. 202 modifica] la parete finestrata. Nel breve spazio, seduti al bordo delle lettiere e vaganti nel passaggio, i soldati conversano, leggono, cantano, vivono, in un affollamento da alveare, sotto a fasci appesi di fucili, di zaini, di sacchi.

Quand’è venuta la neve, tutto è stato sepolto. Non soltanto essa s’è ammassata sulla spalla e sul vertice della vetta, ma lanciata con veemenza dall’impeto degli uragani si è attaccata alle rocce a piombo, ha coperto le pareti verticali del monte, vi ha formato spessori inauditi, duri e lucenti; ha preso nella sua massa i rifugi e le scale, chiudendoli in una crosta enorme di gelo. E dei baraccamenti pieni di uomini non v’è altra traccia sulla bianca eguaglianza della favolosa muraglia che dei piccoli buchi profondi e fumosi, che corrispondono alle finestre.

Ci si muove dunque sotto alla corteccia di ghiaccio come dei tarli dentro alla scorza di un albero. I cunicoli che vanno ai rifugi seguono approssimativamente gli antichi sentieri, ma quando essi saranno scomparsi col disgelo non si saprà più precisamente dove erano. Si dirà: Passavamo di lì! — e si additerà nell’aria. Il Monte Nero presenta ora aspetti che svaniranno come un sogno.

Per raggiungere certi baraccamenti, ad un tratto, per pochi metri si passa all’ aperto. Uscendo alla luce, per un attimo un soffio freddo di sgomento vi investe e vi ferma. Si [p. 203 modifica] è sopra un pianerottolo nevoso largo due palmi che bisogna percorrere da un’imboccatura di galleria all’altra, fra la parete candida, sulla quale sporge minacciosa una cornice di neve, creatrice di valanghe, gonfia, sospesa come un traboccare di spuma, e il vuoto. Sotto a noi è l’azzurro delle grandi lontananze. La vetta sembra che voli. Le balze si immergono in luminose e velate profondità. Una visione magnifica e spaventosa.

Altrove le gallerie di neve immettono in gallerie di pietra. Anche la roccia è bucata, traversata in ogni senso da corridoi, travati come gl’intestini di una miniera. Si arriva alle posizioni delle artiglierie, presso a cannoni accovacciati nell’ombra, puntati sulle posizioni nemiche. Da quella parte, anche nella valle, la primavera non affiora. Nella conca rocciosa del Potoce, sotto alla vetta del Monte Nero, vi è tanta neve accumulata sugli scogli e sui macigni che essa vi forma lievi ondulazioni vaporose, eguali, vaste, e dà l’illusione di una nebbia folta e bianca.

Lì la neve resiste nei greti tutto l’anno; ve n’era quando prendemmo prigioniero un battaglione austriaco nella dantesca convulsione dei dirupi ora sepolta, il giorno della conquista, mentre due compagnie di alpini scalzi, inerpicatisi silenziosamente alla notte sulla vetta estrema del Monte Nero, la espugnavano con un assalto che ha del soprannaturale. Quasi [p. 204 modifica] tutte le forze nemiche che difendevano il settore caddero nelle nostre mani quel giorno, e fino alla Sava tutte le vette parvero offrirsi alla nostra vittoria. Più tardi si fortificarono e quando ci muovemmo ci respinsero. Ora sono tutte bucate da cannoniere, tagliate da camminamenti.


In fondo alla valle nevosa, un piccolo specchio, il laghetto gelato di Jezero, traversato da reticolati nemici, tutto rigato dalle siepi di acciaio. La zona del Potoce è percorsa da gallerie nostre e nemiche, quella nebbia bianca è forata. Si combatte una guerra stravagante da animaletti artici, da talpe polari. Gli uomini compaiono di tanto in tanto alla superficie, vanno in fila, si rimbucano nei loro formicai. Non soltanto sul Monte Nero, ma su tutte le nostre montagne, dallo Stelvio al Merzli, per creste e per vette innumerevoli, la vita e la lotta assumono forme fantastiche. Per tutto gli stessi prodigi.

Nelle nostre trincee, oltre le quali i reticolati coperti di gelo sollevavano trine bizzarre, dietro ai parapetti di neve vedevamo le vedette infagottate di pellicce mirare lungamente su cose invisibili a noi sparando un colpo di fucile ogni tanto. In molti reparti questo esercizio si chiama «fare il cocchiere», perchè le fucilate nel silenzio prodigioso della montagna risuonano come scocchi di una frusta [p. 205 modifica] gigantesca. Improvvisamente la cresta dello Smogar, avanti a noi, è scomparsa in una nube.

Un odore allettevole di cucina ha riempilo le gallerie più basse del Monte Nero. Ci chiamava; e uno dietro all’altro, come i frati per i corridoi di un convento, siamo scesi alla mensa, in una specie di interno di vecchio veliero navigante fra le nuvole. L’allegria condiva le vivande. La scena ricordava il pasto degli esploratori nelle illustrazioni dei viaggi al polo. Una luce lattiginosa penetrava dalle finestrine mezzo otturate dalla neve. A poco a poco la luce scemava. Qualcuno ha guardato fuori: «Perbacco, nevica!»

Una neve minuta e granulosa finiva di chiudere le finestre. «In marcia chi parte, prima che la tormenta ingrossi!» Sotto ai pozzi aperti nelle vôlte delle gallerie, il cadere del nevischio illuminato formava colonne di chiarore striate e tremule. Quando siamo sboccati sulla spalla del monte ci siamo trovati in un grigiore nebuloso. Il sentiero cominciava a sparire cancellato dai nuovi fiocchi. Non si vedeva più nulla a venti passi.

Appena ci siamo mossi, il primo della cordata ha scivolato ed è caduto sul dorso. Io che lo seguivo l’ho involontariamente imitato. Gli uomini della vetta, scesi a salutarci, ridevano divertiti. «Restate così! — ci hanno gridato. — Si va giù meglio seduti!» E siamo andati giù modestamente seduti, remando con [p. 206 modifica] la piccozza come dei vogatori di sandolino, frenati da quelli che venivano dietro, che tiravano sulla corda. Dovevamo avere l’aria di cani al guinzaglio. È stato un immenso slittamento da montagna russa. La Sella Kozliak è venuta su in breve dalla nebbia e ci ha accolti. All’arrivo, un voluminoso Francesco Giuseppe plasmato con la neve dai soldati durante la nostra assenza, comico e severo, ci ha guardati con tutta la sorpresa possibile dei suoi rotondi occhi imperiali, costituiti da due fette di limone.

La vetta del Monte Nero era scomparsa nelle nubi, e non l’ho vista più.