Sui monti, nel cielo e nel mare/Cadorna

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Cadorna

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Sui monti, nel cielo e nel mare Problemi inattesi della guerra
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Cadorna.

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Gennaio 1916.


Nella residenza del Comando Supremo dell’Esercito vi è un uscio che, simile a quello fatato della leggenda indiana, restituisce gli uomini sempre diversi da come sono entrati. Nessuno lo riattraversa con la stessa anima di prima.

Esso s’inquadra sulla parete chiara di un ampio salone, arioso, profondo, inondato dalla luce che irrompe da grandi vetriate, oltre le quali si profila la grigia balaustra di un lungo balcone sulle nebulosità lontane di alberi nudi. Inoltrandosi nella nobile sala vien fatto istintivamente di abbassare la voce e di camminare con cautela per non fare rumore. Vi si respira la solenne atmosfera di rispetto e di raccoglimento di un luogo sacro. Varie porte in giro si aprono e si chiudono continuamente al passaggio rapido e discreto di ufficiali affaccendati, ma ad una sola gli sguardi e il pensiero dei presenti si volgono al minimo rumore con una fissità improvvisa che sembra densa di indefinibile attesa.

Dei capi dello Stato Maggiore, gravi, [p. 4 modifica] pensierosi, preoccupati, con fasci di rapporti sotto al braccio, dei generali che arrivano dai comandi sulla fronte, un po’ stanchi, accigliati, assorti, meditabondi, varcano ad uno ad uno quella soglia, rigidamente annunziati da un ufficiale d’ordinanza, e ricompaiono trasfigurati, armati di una non so quale forza nuova, con una certezza negli occhi, con una fermezza serena nel viso, la fronte alta e come schiarita. Il loro gesto in risposta al saluto degli ufficiali di servizio è pronto ed energico, quasi gioviale, e si allontanano con un passo fermo e urgente. Le loro preoccupazioni sono dissipate, i loro dubbi sono svaniti, si sente che ognuno di loro ha trovato oltre quella porta magica la soluzione del suo problema, l’indicazione della sua via, verso la quale s’incammina con la fretta di una decisione, e che una visione limpida, precisa, sicura del suo còmpito ora lo muove, lo anima, lo slancia.

Hanno parlato con Cadorna.

Cadorna è il mago vivificatore di tutte le energie. Prima ancora di arrivare a lui si ha il sentimento della sua presenza formidabile per quella espressione che è sui volti di chi lo ha ascoltato. Egli si annunzia, come una fiamma, dai riflessi. Sono riflessi della sua fede, della sua volontà, della sua scienza, che brillano negli occhi di coloro che il dovere ha condotto alla sua presenza.

La presenza di quest’uomo non è soltanto [p. 5 modifica]nella disciplina del comando; è nella convinzione di cui il comando si compenetra. Ogni ordine suo ha in sè una virtù di persuasione. La sua parola, sobria, esatta, viva, chiarisce, illumina, trascina, tutta accesa di verità, che è una sola. È una sola la verità ma pochi la vedono: Cadorna ne fa un’evidenza. Quello che egli dice ha la convincibilità assoluta di una dimostrazione matematica, ha la possanza delle certezze incontrastabili. In ogni questione la sua logica di ferro arriva subito al centro, trova senza esitazione la via del labirinto. Egli ha degli uomini e delle situazioni un concetto netto e definitivo.

Il suo sguardo va al fondo delle cose. Nessuno sa come lui trovare l’espressione sintetica di una realtà. Il suo linguaggio è sempre vigoroso perchè è preciso, perchè è l’espressione di un convincimento adamantino fatto di conoscenza. Egli è forte perchè è fermo. Non dubita, non esita, e intorno a lui nessuno dubita, nessuno esita. La sua forza passa, si comunica, agisce, cementa le volontà, così facili a divergere nel nostro paese, unifica, consolida, sospinge. La grande anima di Luigi Cadorna appare veramente come il cardine morale dell’esercito nostro.

La sua persona, ossuta ma quadra, solida, piena di un vigore che sembra smentire l’età, rivela subito la energia e la semplicità. Nessun apparato di grandiosità soccorre il suo [p. 6 modifica]prestigio. Chi non ha mai veduto Cadorna e varca per la prima volta la soglia del suo ufficio, non immagina la modesta apparenza del vecchio gentiluomo guerriero che lo aspetta, eretto, vestito di una rude uniforme da soldato sulla quale scintillano le insegne del grado. La cordialità franca del suo saluto, il suo gesto affabile di invito, il suo sorriso aperto, l’espressione chiara del suo volto, fiero, magro, tormentato, geniale, dissipano immediatamente quel lieve turbamento di chi avvicina i potenti, e che non è forse che una istintiva messa in guardia. E prima di parlare voi sentite un non so quale ineffabile senso di fiducia che schiude la via alla vostra sincerità piena.

È raro trovarlo assiso alla sua massiccia scrivania. Come tutti gli uomini di azione, nella solitudine egli va e viene, la testa come raccolta fra le larghe spalle salienti, medita in piedi quasi per dominare meglio l’oggetto del suo pensiero in un atteggiamento più atto al comando.

Un lungo tavolo pieno di carte stende nel centro della camera luminosa tutto un biancheggiare di topografie, venato di linee rosse, azzurre, gialle, picchettato di numeri, costellato di nomi, sul quale il generale Cadorna si curva di tanto in tanto studiosamente. L’ogiva di una granata austriaca da 305, lucidata, sorretta da uno zoccolo di legno, scintilla sopra un mobile fra le due finestre, e pare uno [p. 7 modifica]strano bibelot, uno di quei bronzi giapponesi che rappresentano il Fuji-Yama, la montagna sacra striata d’argento. Dietro all’ogiva, una grande teca rinchiude due chiavi antiche, rozze ed enormi: sono le chiavi della fortezza di Monfalcone. La fortezza non c’è più, divorata dai secoli, ma la città ne custodiva gelosamente le chiavi, come certi nobili arabi marocchini conservano la chiave della loro casa di Siviglia sparita da quattrocento anni: perchè gli uomini non amano profondamente che il ricordo e aspettano che le cose scompaiano per adorarle. Questi oggetti singolari, la granata e le chiavi, unico adornamento della nitida sala, sembrano messi lì come un simbolo, per un memento, a ricordare la conquista e l’ostacolo, la mèta e il nemico, la vittoria dietro alla battaglia. È ad un angolo del tavolo delle carte, di fronte all’ogiva e alla teca, che ordinariamente il Generale si siede per conversare, il gomito appoggiato sui profili di qualche posizione.

Vi sorprende la gioventù del suo sguardo. I suoi baffi folti sono bianchi, i suoi capelli si levano sottili, radi, candidi, al sommo della fronte scavata dai solchi del pensiero, tutto il suo volto ha le pieghe che la fatica di vivere imprime, ma una giovinezza verde guarda dai suoi occhi chiari. Guarda per le sue pupille, e lampeggia, e ride, la freschezza del suo spirito, inalterabile perchè è forse la [p. 8 modifica]freschezza di tutta una stirpe soldatesca scesa in lui insieme alla confidenza atavica con la guerra, insieme all’istinto della battaglia, insieme alle virtù del comando. Esistono giovinezze che hanno forse delle lunghe esistenze umane come unità di misura. In Cadorna pare che viva un’anima atletica, e la voce profonda e robusta che sgorga dal suo ampio torace, il gestire lento ed espressivo della sua mano larga, sembrano l’espressione fisica di questa possanza interiore.

Non è come Joffre un silenzioso, ma non spreca le parole. Le economizza come delle munizioni; le riserba per raggiungere uno scopo, al quale vanno dritte come un tiro di artiglieria. Spesso tace a lungo e pare distratto, ma ascolta, e se scopre nella conversazione un errore da distruggere, una verità da dimostrare, allora lancia qualche frase. È un fuoco di idee, una raffica breve, e tutto il reticolato di congetture, di raziocinii, di ipotesi, che si era intrecciato intorno a lui, è rotto, scompigliato, e la realtà appare. Si parli di guerra o di storia, di politica o di arte, egli ha l’espressione che definisce e che finisce.

Perchè Cadorna ha fatto del buon senso la legge fondamentale del pensiero. «L’arte della guerra — egli ha scritto — deve ispirarsi al puro e semplice buon senso». In questa massima è tutta la scienza della vita. Egli ha esercitato il buon senso come un matematico [p. 9 modifica] esercita la facoltà del calcolo e non può giudicare più niente che attraverso al «puro e semplice buon senso». Studiando così la guerra è arrivato ad una profonda conoscenza del mondo, perchè nella guerra c’è tutto, dalla geologia al cuore umano. Ed ha acquistato la virtù singolarissima di vedere le cose come sono. Ordinariamente ognuno le vede come vorrebbe che fossero o come ha paura che siano.

Si ritrova nelle sue parole quella chiarezza robusta e conquistatrice che è nei suoi scritti. Vi sono pagine sue, nelle circolari e nelle istruzioni, magnifiche di lucidità e di convincimento. Il suo famoso opuscolo sull’attacco frontale è un capolavoro di letteratura militare, che fa vedere e fa sentire l’azione. Prevede tutto, descrive tutto, addita gli errori possibili, mette in guardia contro le tendenze individualistiche della nostra razza, e arriva spesso ad una sobria bellezza d’arte come quando delinea schematicamente l’avanzata delle masse a scaglioni, «che non sono scaglioni di manovra destinati a compiere atti tattici successivi e slegati, ma sono serbatoi d’impulsione, che, pure impegnandosi successivamente, devono costituire come tanti atti del medesimo dramma».


È questo l’opuscolo che ha suscitato un sussurrìo di critiche in quelle scuole di guerra, frequentate da pacifici cittadini, che hanno per sede ogni pubblico caffè. I critici non hanno [p. 10 modifica]niente da ridire sulla materia dell’opuscolo, perchè non la conoscono. Ma a loro basta il titolo: «Attacco frontale». Ecco dunque perchè i progressi della guerra sono così lenti! Cadorna si ostina nell’attacco frontale, che è difficile, mentre si sa che l’attacco più efficace è sul fianco. Infatti Napoleone.... Il giudizio di qualche competente fuori rango è invocato a riprova. Il mormorio non si eleva, ma si allarga come una erbaccia.

Basterebbe, per estirparla, un po’ di quel puro e semplice buon senso che Cadorna venera. Si confonde la strategia con la tattica, semplicemente. Le istruzioni del Generalissimo sono tattiche. Insegnano come si sloggia il nemico da una posizione. Tatticamente ogni combattimento è frontale, a meno che non si immagini la possibilità di prendere a fucilate dei nemici voltati con la faccia dall’altra parte. Qualsiasi aggiramento strategico conduce ad un urto che è frontale per i combattenti. La battaglia della Marna s’iniziò con ravvolgimento della destra tedesca, ma l’armata avvolgente, arrivata a contatto con i tedeschi trincerati, condusse il più classico degli attacchi frontali, lasciando migliaia di cadaveri sulle rive dell’Ourq. La mormorazione stolida compie il solo aggiramento possibile senza attacco frontale: ma alle spalle del nostro esercito.

Non siamo i soli nella guerra delle nazioni ad essere costretti ad una forma difficile di [p. 11 modifica] lotta che limita le possibilità immediate, ma al valore delle truppe e alla chiaroveggenza e alla volontà del Comando Supremo dobbiamo di aver strappato alla situazione tutti i vantaggi che poteva darci.

Senza la ferma, tenace, indomita e illuminata volontà di Cadorna, coadiuvata dall’opera intensa di Porro, che guida così mirabilmente il meccanismo dell’esercito, forse ora questa guerra si combatterebbe sullo Iudrio invece che sull’Isonzo. Parve naturale al Paese, il primo giorno delle ostilità, che le nostre truppe varcassero su tutti i punti la frontiera, poichè si era dichiarata la guerra. Ma in quel momento non disponevamo alle frontiere che delle truppe di copertura, con servizi appena sufficienti nella immobilità, con basi in formazione. Il vero esercito si stava mobilizzando. E slanciarsi con forze limitate all’invasione di un paese mobilizzato e agguerrito, che negli ultimi cinque giorni — sui quali mancavano informazioni precise — poteva aver concentrato tre o quattro corpi di armata completi in un settore, slanciarsi con i soli viveri di riserva e le sole munizioni delle giberne e degli avantreni, pareva una terribile imprudenza a più di un generale.

Cadorna comprese che aspettare voleva dire lasciarsi cogliere dalla guerra di trincea sulla nostra terra; sentì la necessità assoluta di adoperare subito tutti i mezzi disponibili per uno [p. 12 modifica]sforzo audace, anche rischioso, pur di portare di un colpo la lotta fuori di Italia, pur di spingere la fronte a radicarsi più lontano che fosse possibile, correggendo le debolezze più pericolose dei confini, strappando al nemico i passi che più ci minacciavano. Egli volle, e quando Cadorna vuole è inflessibile, perchè non cerca nei consensi altrui la forza della sua ragione. È sicuro. Ha in sè stesso tutti gli elementi della certezza. Nessuna obbiezione lo smuoverebbe, perchè egli se le è fatte già tutte. La sua volontà trascina appunto per la intuizione che ognuno ha della sua logica. Quando non trascina travolge.

Così le esili truppe di copertura sconfinarono e divennero a poco a poco esercito, si integrarono durante l’azione offensiva, allargandosi gradatamente per l’affluenza delle forze mobilizzate che arrivavano dalle arterie del Paese. Fu un prodigio tecnico.

Dietro alle operazioni di guerra, ardite e tangibili, si è svolto ancora per molto tempo un lavorìo intenso di creazione, di formazione, di irrobustimento, oscuro, vasto, meraviglioso. Non dimentichiamo che quando l’Italia sentì il bisogno del suo esercito, l’esercito non c’era. La mala politica lo aveva ridotto ad un’apparenza. In nove mesi fu fatto sorgere dal niente. In quella lunga vigilia di attesa, mentre l’Europa divampava, Cadorna ha improvvisato il lavoro di decenni, con un’attività che [p. 13 modifica] sembrerebbe sovrumana se non si conoscesse la ferrea calma di quest’uomo che sa sempre con precisione e con ordine quel che si deve fare, e lo sa senza fatica. Meriterebbe il nome di Padre dell’Esercito. Ma anche compiendo miracoli, la preparazione non poteva mantenersi che con uno sforzo costante all’altezza degli eventi. La necessità domandava sempre di più. Lo strumento della lotta doveva continuare a plasmarsi durante la lotta. Questa opera di Cadorna, necessariamente la meno nota, non è la meno splendida. Bisognava far sempre fronte al pericolo di una sproporzione fra i bisogni e i mezzi. Tutti gli organismi erano portati all’estremo della efficienza, erano sollevati al massimo del rendimento, da una vera ondata di energia e di volontà, di entusiasmo e di fede, che scendeva dal Comando Supremo.

Certe severità verso qualche capo, che possono essere sembrate eccessive alla ingenua indulgenza del nostro paese, si connettono a quest’opera immane di consolidamento morale dell’esercito. La Francia repubblicana ha visto centoventi dei suoi generali privati del comando e li ha condannati senza appello al silenzio, pubblico e privato. «Non è possibile conseguire il buon successo in guerra se alla salda disciplina degli animi non si accompagna bene armonica e ferma la: disciplina delle intelligenze» — ha scritto Cadorna in una sua [p. 14 modifica]istruzione. Ma se si improvvisa un esercito non si improvvisa la sua mentalità. La disciplina degli animi è più facile di quella delle intelligenze, che ha bisogno di anni ed anni per formarsi, che nasce dalla unità della scuola, dalla lunga pratica, dalla familiarità alla manovra vera. È sul terreno che veramente il pensiero dei comandanti si uniforma, alla prova dell’esperienza. La teoria può dividere, ma la realtà conduce inevitabilmente a identiche convinzioni. Nel nostro esercito la disciplina degli animi è venuta spontanea, ma la disciplina delle intelligenze ha dovuto foggiarsi alla guerra stessa. È la guerra che opera le selezioni.</noinclude> istruzione. Ma se si improvvisa un esercito non si improvvisa la sua mentalità. La disciplina degli animi è più facile di quella delle intelligenze, che ha bisogno di anni ed anni per formarsi, che nasce dalla unità della scuola, dalla lunga pratica, dalla familiarità alla manovra vera. È sul terreno che veramente il pensiero dei comandanti si uniforma, alla prova dell’esperienza. La teoria può dividere, ma la realtà conduce inevitabilmente a identiche convinzioni. Nel nostro esercito la disciplina degli animi è venuta spontanea, ma la disciplina delle intelligenze ha dovuto foggiarsi alla guerra stessa. È la guerra che opera le selezioni.

Cadorna è come un agente fatale della necessità, e non guarda chi è l’uomo che’ la guerra elimina o che la guerra innalza. Considera le capacità impersonalmente, per i loro effetti. Si sentirebbe tentato di fare un generale di un sergente, se trovasse un sergente capace di essere generale. E lo dice: «Con gli uomini che abbiamo noi, dopo otto mesi di guerra debbono essere sorti dei valori di comando nella massa, e bisognerebbe trovarli!»

Un giorno gli presentarono sulle posizioni un soldato che, arrivato ai galloni di sottufficiale per meriti di guerra, era proposto per tre medaglie al valore, e aveva queste note caratteristiche: «Ha sempre eroicamente disimpegnato con pieno successo le più ardite [p. 15 modifica]missioni, suscitando ammirazione e fiducia nei sottoposti, nei compagni e nei capi». Cadorna lo encomiò, e dopo averlo rimandato nei ranghi chiese: «Perchè non è proposto per il grado di sottotenente?» — «Impossibile, Eccellenza, non sa scrivere» — fu risposto con convinzione. «E chi ha bisogno che scriva? — esclamò il Generalissimo alzando le spalle — Basta che sappia prendere una trincea!». Cadorna applica in tutto quella «praticità semplice» che egli raccomanda nei suoi ordini.

Senonchè la praticità semplice, come il buon senso, è la virtù più rara, perchè ogni persona, essendo profondamente persuasa di averla già, non la cerca. Ognuno ha un punto di vista diverso che gli sembra pratico, al quale mette in rapporto tutti gli atti della vita. Chi ha quello della propria gloria personale, chi ha quello del proprio riposo morale, chi si sente in regola quando un regolamento gli dà ragione. Tutto ciò è umano, avviene negli eserciti come nelle società. Il meraviglioso è come Cadorna riesca a polarizzare tante inevitabili forze divergenti, a farne un fascio sempre più compatto di energie nel quale nulla si sperde. Egli ha fissato una mèta: la Vittoria, e verso di essa volge tutte le possibilità, senza deviazioni, con fede intensa.

Ogni suo ordine è un tònico nell’organismo militare. «La disciplina è la fiamma spirituale della vittoria. Vincono le truppe più [p. 16 modifica]disciplinate. Vince chi ha nel cuore ostinata la volontà di vincere. Prima di essere materializzata nel fatto la vittoria deve vampeggiare di assoluta certezza nel cuore degli ufficiali e da esso irradiare irresistibile con palpiti di gioia nel cuore dei gregari. Una ferrea disciplina è indispensabile per conseguire quella vittoria che il paese aspetta fidente e che il suo esercito deve dargli».... Sono sue espressioni, queste, piene del suo stesso penetrante fervore; sono tanti colpi di martello sul ferro incandescente di un’arma che si forgia. Non una frase retorica; tutto è vivo, tutto è vero, veemente di convinzione.

I particolari delle sue istruzioni sono tessuti di evidenza, indicano una conoscenza perfetta di ogni minuta necessità, materiale e morale. Se i suoi ordini avessero trovato ovunque e sempre una esecuzione illuminata e precisa, ben altri vantaggi avremmo strappati alla sorte. Egli sa che cosa bisogna fare e che cosa occorre per fare. In altri tempi egli avrebbe già trionfato. Ma nella guerra moderna, guerra di industrie, guerra di attività nazionali, tutte le più straordinarie qualità di un condottiero di masse non bastano a garantire il raggiungimento della vittoria finale. Egli non può che impiegare nel modo più razionale ed efficace i mezzi di cui dispone, ed indicare quelli indispensabili al successo. Li calcola, li chiede, li adopera: non li crea. [p. 17 modifica]

Essi vengono dal Paese, si formano per il lavoro di organizzazioni che l’autorità e la volontà del Comando Supremo non possono dominare, che sono fuori della disciplina attiva che anima gli ambienti della guerra. Il popolo offre sangue e miliardi, l’esercito domanda uomini, cannoni e munizioni: chi è fra queste due forze gigantesche, quale intermediario, deve sentire la responsabilità immensa del suo còmpito.

Ogni lentezza, ogni ritardo, ogni incertezza, ogni pigrizia morale, è un delitto. La nazione ha capacità industriali e energie produttive che vanno meglio sfruttate. La guerra non è una pratica da ufficio, non è materia burocratica. Essa reclama nella parte amministrativa quella stessa energia, quella stessa rapidità, direi quasi quella stessa violenza che reclama nella parte militare. La «praticità semplice» di Cadorna non può essere invocata più a proposito. Bisogna andar dritti allo scopo, con ogni mezzo. Si deve aver presente che la guerra è la crisi suprema del paese, e che tutto il resto è secondario. La febbre e il vigore di cui palpita la vita dei combattenti devono propagarsi alla preparazione delle armi.

Sarebbe inammissibile qualsiasi lentezza a rispondere alle ponderate richieste di Cadorna, come qualsiasi tentativo per diminuirle o rimandarle. L’apprestamento degli uomini e degli armamenti necessari deve uscire dalle [p. 18 modifica]routines, dalle consuetudini, dalle abitudini, deve costituire la preoccupazione più viva e l’occupazione più alacre del Governo. Essa è urgente come la preparazione di una medicina quando ne va della vita o della morte.

Se vi fossero delle incompetenze, si sopprimano inesorabilmente; se vi fossero conflitti di poteri, si eliminino i conflitti, e magari i poteri — ce ne resteranno sempre abbastanza — ma si semplifichi, si arrivi alla produzione nel modo più diretto e efficace. Non si risparmi denaro, si risparmi il tempo. Perchè questo tempo è prezioso e fatale e chiude in ogni sua ora il seme di secoli di storia.

L’avvenire nostro si plasma in queste ore di attesa quanto e più che nella battaglia. Chi ha il còmpito di fornire all’esercito i suoi mezzi, fa la guerra non meno di Cadorna che ne assume tutta la gigantesca responsabilità. Fa la guerra ed è necessario che se ne accorga.