Saggi critici/Il Farinata di Dante

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Il Farinata di Dante

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Settembrini e i suoi critici Machiavelli. Conferenze
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IL FARINATA DI DANTE


Innanzi a questa concezione colossale io mi arresto e mi dimando: — Cosa dunque c’era nell’anima di Dante, quando gli si presentò quell’immagine? quali sentimenti, quali opinioni operavano in lui e gli accendevano la fantasia? — .

La generazione che passa, scendendo nel sepolcro, lascia memorie ancor fresche che sono come il patrimonio delle famiglie, e i vecchi attori superstiti di un dramma il cui sipario è calato le vanno rimemorando a’ figliuoli e a’ nepoti coll’eterno intercalare: «io fui», e mescolano ne’ loro racconti passioni giá spente e rimase vive solo in loro con passioni ancor verdi, esagerando, alterando, lodando, vituperando, cioè a dire poetizzando il tutto. Questa è la prima storia, o piuttosto la prima poesia che lascia profondi vestigi nella nuova generazione. Cosí la Rivoluzione francese è giunta al nostro orecchio prima ancora che l’avessimo letta nelle storie; e Robespierre e i giacobini ne’ racconti fattici da’ padri nostri ci son parsi qualcosa di simile a que’ paurosi fantasmi di cui le nutrici popolano la nostra immaginaziohe puerile, e le avventure di Napoleone ci son parse una pagina delle Mille ed una notte. Esse sono le prime impressioni che ispirano la nostra giovanezza, e, per non citare che un esempio, il secreto incanto delle poesie del Béranger è in questo appunto, che Napoleone vi è rappresentato meno secondo la storica veritá che come si è serbato vivo nella tradizione presso i soldati e i contadini francesi. I tempi di Dante [p. 282 modifica]furono preceduti da un’epoca simile, illustrata dal trionfo e poi dalla caduta di parte ghibellina, e da alcuni grandi uomini chiari per valore e per consiglio, Farinata, Cavalcante Cavalcanti, Jacopo Rusticucci, il Tegghiajo e altri. L’impressione che questi grandi nomi, vivi ancora nella tradizione, produssero sopra Dante, si scorge fin da’ primordii del suo poema. A’ primi passi che fa nell’inferno, incontratosi in un uomo insignificante, in Ciacco, qual è la prima domanda che fa? Di aver notizie di costoro, di sapere ove sono...

                                    Farinata e il Tegghiajo, che fur sí degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e il Mosca,
E gli altri, che a ben far poser gl’ingegni,
     Dimmi, ove sono, e fa che io li conosca.
                         

Il primo di questa lista ed il più grande è Farinata, e Farinata è il primo nel quale c’incontriamo.

Chi legge la storia di Farinata e di que’ tempi, non si può difendere da un senso quasi di terrore; e innanzi a tanta violenza di passioni e perseveranza di odii gli parrá che quegli uomini vestiti di ferro fossero poco meno che belve. Ma la storia scritta a questo modo è una vera mutilazione, come quella che rappresenta un lato solo della vita. Se dalla piazza spingiamo l’occhio tra le pareti domestiche e nelle radunanze private, troveremo i Federichi, gli Enzi, i Manfredi, i Latini, i Cavalcanti, cosí ardenti nelle pubbliche lotte, disputare pacificamente di filosofia e tener corti d’amore e scriver sonetti e ballate certo rozze ancora, ma che pur rivelano un cuore schietto e gentile. In uno di questi convegni pacifici delle Muse, dove si disputava, si poetava, si scioglievano enimmi, si proponevano quistioni, fu letto un sonetto anonimo, indirizzato a’ quattro piú chiari poeti del tempo: Guido Guinicelli, Guido Cavalcanti, Dante da Majano e Cino da Pistoja. Il sonetto non usciva dal convenzionale, ovvero dal senso allegorico allora in voga, e conteneva un sogno enigmatico, del quale si chiedeva la spiegazione. [p. 283 modifica]Ecco il sonetto:

                                    A ciascun’alma presa e gentil core
Nel cui cospetto viene il dir presente,
A ciò che mi riscrivan suo parvente,
Salute in lor signor, cioè Amore.
     Giá eran quasi che atterzate l’ore
Del tempo che la stella è più lucente,
Quando m’apparve Amor subitamente,
Cui essenza membrar mi dá orrore.
     Allegro mi sembrava Amor, tenendo
Mio core in mano, e nelle braccia avea
Madonna, avvolta in un drappo dormendo.
     Poi la svegliava, e d’esto core ardendo
La paventosa umilmente pascea:
Appresso gir lo ne vedea piangendo.
                         

Questa specie di sciarada o di rebus piacque molto a quella radunanza, e parecchi non disdegnarono di farvi risposta, interpretando ciascuno il sogno a suo modo. Fra gli altri era Guido Cavalcanti, poeta giá celebre, e che, profondo filosofo e moralista, sforzavasi di alzare la poesia a qualche cosa di sostanziale, maritandola con la filosofia, e dispregiava le nude forme poetiche e con esse i poeti come Virgilio. A Guido non dové dunque dispiacere un sonetto immaginato secondo la sua scuola e la sua maniera, e non contento a farci la risposta, giudicando esser quello un lavoro di giovane tirone entrato pur allora nell’arringo poetico e che per modestia o timidezza celasse il suo nome, per uno di quei movimenti spontanei che rivelano un nobile core, sentí bisogno di conoscerlo e lo conobbe: l’autore era un giovane di diciannove anni e si chiamava Dante Alighieri. Da quel tempo cominciò fra Dante e Guido una comunanza di affetti che non si ruppe se non per morte. Amendue d’alto ingegno, amendue poeti, amendue innamorati: Dante parlava a Guido della sua Beatrice, e Guido parlava a Dante della sua Mandetta; e quando entrarono nella vita pubblica, amendue d’una parte, amendue esuli, amenduesventurati. Quando Dante perdette la sua Beatrice, cosí gli scriveva Guido:
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                                    Io vegno il giorno a te infinite volte,
E trovoti posar troppo vilmente:
Molto mi duol della gentil tua mente
E di assai sue virtù che ti son tolte.
                         
E a Guido cosí scriveva Dante, in uno de’ suoi momenti di fantasia e di maninconia:
                                    Guido, vorrei che tu e Lappo1 e io
Fossimo presi per incantamento,
E messi in un vascel, che ad ogni vento
Per mare andasse a voler vostro e mio;
     Sicché fortuna od altro tempo rio
Non ci potesse dare impedimento,
Anzi, vivendo sempre in un talento,
Di stare insieme crescesse il desio.
                         
Quest’ultimo verso è di una singolare energia. Forse non è alcuno che non abbia taluna volta fantasticato in questo modo, abbandonandosi a vane immaginazioni, volgendo le spalle al tristo mondo e riparando su qualche isola deserta, solo con l’amata, o co’ suoi piú cari. E tra’ più cari di Dante era Guido2 il più intimo e il primo de’ suoi amici, come dice nella Vita Nuova.

Questi erano i sentimenti, queste le impressioni della giovanezza di Dante. La generazione passata gli era innanzi ne’ suoi grandi uomini, di cui parla con tanto affetto e ammirazione. Quando incontra il Tegghiajo e il Rusticucci, dice:

                                    Di vostra terra sono, e sempre mai
L’ovra di voi e gli onorati nomi
Con affezion ritrassi ed ascoltai.
                         
[p. 285 modifica]«Ascoltai»! Si sente qui fresca l’impressione del giovane, le prime volte che gli giungevano all’orecchio quei nomi e quei fatti. E con quale commovente semplicitá parla di ser Brunetto!
                                    Ché in la mente m’è fitta, ed or m’accora
La cara buona imagine paterna
Di voi, quando nel mondo ad ora ad ora
     M’insegnavate come l’uom s’eterna.
                         
Quanto alla generazione presente, era quasi una con quella, nelle opinioni, ne’ pregiudizi, ne’ sentimenti, ne’ partiti, negli amori e negli odi. Gl’illustri casati mantenevano il loro primato: gloriosi figli ricordavano la grandezza dei padri. Non ci era piú Farinata degli Uberti e Cavalcante Cavalcanti, ma ci era Lapo e Fazio degli Uberti, ci era Guido Cavalcanti. Le due generazioni erano una sola storia, tutta viva e presente nell’animo de’ contemporanei.

Piú tardi troviamo questi uomini involti nelle lotte politiche; e cosí accaniti come i padri loro: persecutori e perseguitati. Vien poi il tempo della sventura e del disinganno. Guido, appena ritornato a Firenze, muore della malattia contratta nell’insalubre soggiorno di Sarzana, luogo del suo esilio. Dante va errando di cittá in cittá, spentagli fin la speranza del ritorno in patria. In quegli anni di tristezza la vita dové apparirgli altra da quella che gli parve sí bella e sí interessante ne’ tempi andati. Fatto parte per sé stesso, alzatosi sopra amici e nemici, le ire e le ingiustizie partigiane sono in lui temperate da un sentimento più nobile: dall’amor della patria.

Allato a questa vita cosí piena di realtà, in mezzo a cui Dante si moveva e a cui partecipava con quella varietá ed energia di sentimenti, che sono il privilegio delle forti nature, ce n’era un’altra: la vita delle scuole e de’ libri. Lá si apprendeva un’imagine non pur diversa, anzi contraria del mondo e dell’uomo. Il grand’uomo, l’eroe, non era Farinata, ma san Francesco d’Assisi; la grandezza era posta nella povertá, nella astinenza, nell’ubbidienza, nell’umiltá; la vera azione era la [p. 286 modifica]preghiera e la contemplazione; la perfetta vita era estasi, aspirazione a sciogliersi dall’umano e attingere il divino. Lo stato umano o carnale dell’uomo, la sua purificazione e la sua glorificazione, questa «commedia spirituale» dell’anima3 è essa appunto il concetto dal quale è informata la Divina commedia, e che giace in fondo a tutte le opere didattiche e poetiche di quel tempo. Dante, come tutti sanno, è l’anima rappresentata in questi tre gradi della sua storia, e Beatrice è la Grazia o la Fede, che la conduce a salute. Questo concetto nella sua prima semplicitá era non un’opinione astratta o teologica, ma vita e azione; allora c’era la fede, e c’erano i miracoli e c’erano i santi. Al tempo di Dante giá non era più un semplice dato della fede, ma un dimostrato, un concetto teologico-filosofico, mescolato di elementi platonici e alessandrini, di tradizioni pagane, di sottigliezze scolastiche. Indi è che Dante, come Beatrice, è un personaggio non operante, ma contemplante, è un essere allegorico, l’uomo o l’anima nella storia della sua redenzione: è un’idea, non è un carattere. Ma in seno a questo Dante ascetico e teologo, venuto dalla scuola e da’ libri, è rimasto vivo l’altro Dante, quale la storia ce lo dipinge e quale lo abbiamo veduto dianzi: il partigiano, il patriota, l’esule, lo sdegnoso e vendicativo Dante, tutto umano e carnale, in flagrante contraddizione con quello. Onde nasce l’originalitá della Commedia, dove ciò che vi è di piú mistico ed ascetico si congiunge con ciò che vi è di piú terreno e umano, rappresentazione della vita di quel tempo in tutte le sue gradazioni e contraddizioni, dal piú intellettuale sino al piú grossolano, da’ più alti agl’infimi strati sociali, dalle astruserie della scuola alle lotte della vita pubblica ed a’ misteri della vita privata. Certo, questo mondo in tanta varietá di elementi posti l’uno fuori dell’altro non è ben fuso e concorde, e vi permane un fondo astratto e pedantesco, che resiste a tutti gli sforzi della fantasia. Sono in [p. 287 modifica]presenza due mondi irreconciliabili, un mondo teocratico-feudale, che ha per dogma l’annullamento della personalitá, ed il mondo del Comune libero, dove la personalitá è tutto. Lí hai un mondo lirico-didattico, dove l’uomo è il santo che prega e contempla; qui hai un mondo epico-drammatico, dove l’uomo è l’eroe che opera e lotta; nell’uno l’uomo è ancora involto nella oscura notte del mito, e ci sta come genere, anzi che come individuo perfetto; nell’altro l’uomo apparisce nel pieno possesso e nella piena coscienza di sé stesso; l’uno è il riflesso filosofico-artistico del passato; l’altro è il preludio della vita e dell’arte moderna.

E quale preludio! A questo mondo della libertá e della coscienza, ritratto dal vivo, da quel fondo vivace di realtá, in mezzo a cui Dante era non solo spettatore, ma attore principale e appassionato, appartengono le più originali e profonde concezioni della poesia italiana; qui, in questo mondo, allato a Ugolino, a Pier delle Vigne, a Brunetto Latini, a Capaneo, a Nicolò III, a Guido da Montefeltro; qui, in mezzo a questo corteggio di grandi figure, si drizza l’imagine di Farinata.

Come dal seno della mistica Beatrice è spuntata nella pienezza della vita reale la donna, Francesca da Rimini, cosí da entro a questo allegorico Dante, a questo protagonista della «commedia spirituale» nel viaggio teologico «da carne a spirito», a questo essere simbolico, umanitá o anima, non ancora l’uomo, piuttosto genere che individuo, piuttosto idea che carattere, esce in luce, puro da ogni elemento mistico e dottrinale, l’uomo libero, cosciente, volente e possente, la compiuta e reale persona poetica: Farinata.

In Dante ci era molto del Farinata: indi la sua grande ammirazione per questo illustre cittadino. Due cose Dante dispregiava sovranamente: ciò che è fiacco e ciò che è plebeo, papa Celestino e maestro Adamo. Il suo ideale, il suo «esser vivo», il suo esser uomo, il virile, l’eroico, è la Forza, non certo la forza materiale, ma la forza dell’animo, ciò che egli chiama «magnanimitá», grandezza d’animo: una forza invitta, che tiene alta la nostra personalità sulla natura e sullo stesso inferno e [p. 288 modifica]su tutti gli ostacoli e le vicissitudini. Questo concetto del virile è la Musa del sublime dantesco, nel suo lato negativo e positivo, come nei seguenti motti:

                          .     .     .     .     .     .     .     .     .     Guarda e passa.

.     .     .     .     .     .     Sciaurati che mai non fur vivi.

.     .     .     .     .     .     Voler ciò udire è bassa voglia.

E per dolor non par lacrime spanda.

L’esilio che m’è dato, onor mi tegno.


.     .     .     .     .     .     .     .     Alma sdegnosa,

Benedetta colei che in te s’incinse.

E cortesia fu lui esser villano.
                    
Questo concetto lampeggia pure in quella meravigliosa rappresentazione del viaggio di Ulisse, presentimento di Colombo, lá dov’egli dice a’ suoi:
                                    Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.
                         
dove dice di Bruto:
                         

Vedi come si storce e non fa motto.

                         
E a questo concetto appartengono tre alte creazioni della Commedia, la Fortuna, il Capaneo e il Farinata. Nella Fortuna la forza non è ancora libertá, non è ancora uomo, ma è natura o necessitá vuota di passione e di lotta, perciò tra le imprecazioni degli uomini immutabilmente beata e serena:
                                    Ma ella s’è beata, e ciò non ode:
Con le altre prime creature lieta
Volve sua sfera e beata si gode.
                         
[p. 289 modifica]Nel Capaneo il concetto è colto al rovescio e in antitesi a papa Celestino. In questo papa e ne’ suoi simili ci è l’assenza della forza, il non esser vivo; nel Capaneo ci è la millanteria della forza, la vanagloria dell’esser vivo: «Qual io fui vivo, tal son morto». In questa profonda concezione di Dante la forza ci sta non per raggiungere alcuno degli alti ideali, a cui è fatta la nostra semenza, ma ci sta per sé stessa. Se mi è lecito di parlare un po’ alla tedesca, è una forza subbiettiva, vuota di contenuto, senza scopo e senza motivo, perciò arbitraria: la forza per la forza. Gli antichi rappresentarono questo concetto nella favola de’ Giganti che volevano scalare il cielo, e Giove che li fulmina è appunto la forza delle cose che si vendica e li gitta giú. Prometeo tace ed è tranquillo nel suo martirio, perché Prometeo è già l’uomo, forza conscia e libera, che ha le sue idee e i suoi fini, e anche vinto si sente maggiore della natura o di Giove. Capaneo non è ancora l’uomo, ma è il nato de’ giganti, la forza ancora bruta e naturale, di un’apparenza colossale al di fuori, ma vuota e fiacca dentro. In effetti, se guardiamo il di fuori, l’imagine della forza prende le piú grandi proporzioni. Capaneo, ucciso dal fulmine di Giove, non si confessa vinto, anzi dice con jattanza: — «Qual io fui vivo, tal son morto». — Né bastandogli, si studia mettere in maggior risalto la sua forza:
                                    Se Giove stanchi il suo fabbro, da cui
Crucciato prese la folgore acuta,
Onde l’ultimo dí percosso fui;
     E s’egli stanchi gli altri, a muta a muta,
In Mongibello alla fucina negra,
Gridando: Buon Vulcano, ajuta, ajuta,
     Sí com’ei fece alla pugna di Flegra;
E me saetti, di tutta sua forza,
Non ne potrebbe aver vendetta allegra.
                         
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Capaneo concepisce Giove a sua similitudine: si finge un Giove plebeo e grossolano, pura forza materiale, e senz’avvedersene fa il ritratto e la condanna di sé stesso. Codesto Giove è «crucciato» che Capaneo osi vantarsi uguale o superiore a lui; e perfarne «vendetta» lo percote con la «folgore acuta». Ma non perciò Giove ha potuto piegare l’orgoglio di Capaneo, rimasto morto «qual era vivo», né il potrá mai, che che faccia: e qui è l’impotenza di Giove, il suo cruccio perpetuo, la sua vendetta non allegra. Capaneo dal fondo dell’inferno lo sfida e lo ingiuria, come facea vivo, e, per meglio certificare l’impotenza del Dio nella sua lotta contro di lui, ti offre una successione di sforzi con un maraviglioso crescendo, fino a rappresentare il Dio nell’atto ridicolo di raccomandarsi al buon Vulcano, gridando: — «Ajuto, ajuto!» — , ricordando con amaro frizzo la pugna di Flegra, quando fu assalito de’ Giganti. E a questo Dio, circondato di tutta la sua potenza e armato di tutte le sue armi, che cosa Capaneo contrappone? Un semplice me:
                         

E me saetti di tutta sua forza.

                         
Rappresentazione maravigliosa di energia e di armonia, dove parola, frase, cadenza, periodo, colorito, il tono, lo stile e la forma esce tutto dalla profonda e immediata contemplazione del poeta.

Ma tutto questo non è che il di fuori, la simulazione e l’apparenza della forza, di rincontro a cui sembra impotente lo stesso Giove. La vera forza è al di dentro, nell’anima, ed è semplice e tranquilla, né per affermarsi e farsi credere le è mestieri tanto apparato e pompa esteriore. Capaneo, che sotto alla pioggia del fuoco giace «dispettoso e torto», sí che secondo l’apparenza la pioggia nol matura,

                         

Si che la pioggia non par che il maturi,

                         
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più mena vanto, piú si sforza di dimostrare la sua forza, e meno ci riesce: perché la vera forza si vede, non sì dimostra. Essendo la sua forza puramente materiale, quando fu percosso dalla folgore, entrò nella sua anima questa persuasione: che Giove materialmente è più forte di lui. Ma la sua fiacchezza morale gl’impedisce di fare ad altri e a sé stesso questa confessione e perciò nel suo linguaggio trovi l’ostentazione della forza, per renderla credibile agli altri e a sé e dare una mentita alla propria coscienza. Il sentimento che nasce da questa contraddizione tra l’essere e il parere, tra la fiacchezza interna o la coscienza della sconfitta e la simulazione della forza e della vittoria, è il dispetto o «la rabbia», che è la ribellione impotente de’ superbi, quando sono fiaccati e domi da piú forti di loro:
                               O Capaneo, in ciò che non s’immorza
     La tua superbia, se’ tu piú punito:
Nullo martirio, fuor che la tua rabbia,
Sarebbe al tuo furor dolor compito.
                         
La folgore di Giove avea colpito non pure il suo corpo, ma l’anima.

Fin qui non abbiamo ancora il virile, l’uomo, la forza libera e consapevole. In Farinata l’uomo comparisce per la prima volta sul moderno orizzonte poetico.

Farinata non solo non mena vanto della sua forza, ma ignora di esser forte. Questo concetto della pura forza, vuota di ogni contenuto, e intenta solo a soddisfare sé stessa, è estraneo al suo carattere. Non sa d’aver forza. Questo solo ei sa, che ama la sua parte con tutta l’energia e la possanza dell’anima. La forza in lui non è potenza astratta e vuota, come in Capaneo, ma è inseparabilmente congiunta con le idee, i motivi e i fini, di cui egli è consapevole e che lo movono all’opera. Questa non è necessariamente forza corporale, anzi può talora dimorare in corpo fiacco; ma è forza d’animo, ciò che Dante chiama «magnanimitá», quella grandezza morale che abbella la fisonomia e ingrandisce nell’immaginazione anche le proporzioni corporali, e che oggi noi chiamiamo tempra, o carattere.

Il carattere nel senso estetico non è questa o quella parte dell’anima, ma è la personalitá tutta intera, tutto l’uomo; non è volontá e potenza in astratto, ma volontá e potenza vivente, manifestata nelle idee, ne’ sentimenti, nelle azioni, co’ suoi [p. 292 modifica]motivi e i suoi fini: ciò che Dante chiama «esser vivo», e ciò che costituisce l’individuo, la persona libera e consapevole. In papa Celestino ci è assenza di carattere. Nella Fortuna il carattere è cristallizzato, come nella natura. Nel Capaneo è pura forza, è in potenza, non è in atto. Nel Farinata la forza non è qualche cosa che stia da sé, ma è già un divenuto, e la senti vivere nell’energia delle convinzioni e de’ sentimenti e delle azioni. E questo è il carattere, questo è la persona, nella ricchezza delle sue determinazioni, nella libertá de’ suoi movimenti vita e azione. Cosí l’uomo esce dall’indeterminato del simbolo e del puro ideale, e diviene reale, diviene un personaggio drammatico: l’attore.

Ma questo non è fin qui che il nudo e magro concetto dell’uomo, del virile. Ora noi vogliamo assistere al più magnifico spettacolo a cui l’umanitá possa essere invitata: vogliamo vedere questo concetto moversi, animarsi, prender carne, divenire una forma. E quando lo vedremo lí, dirimpetto a noi, compiutamente realizzato, potremo dire: — Ecco l’uomo! — .

Farinata, il grand’uomo della generazione passata, vive giá da molto tempo nell’immaginazione di Dante, è un personaggio lungamente covato e ammirato. Giá dicemmo che Dante, incontrando Ciacco, dimandò: — Dov’è Farinata? fa che io lo conosca — . Come giunge nel cerchio degli eretici, volge lo sguardo intorno: sapea Farinata seguace di Epicuro, e spera trovarlo colá, ma rimane deluso: nessun uomo, solo tombe scoperchiate.

                                    La gente, che per li sepolcri giace,
Potrebbesi veder?
                         
chiede a Virgilio: domanda in apparenza generale, la cui sostanza è non in quello che è espresso, ma in quello che è sottinteso, che tace il labbro ed hanno già espresso gli occhi; e Virgilio lo guarda e l’indovina:


                               .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   satisfatto sarai tosto,
Ed al desio ancor che tu mi taci.
                         
[p. 293 modifica]E mentre Dante pronunzia una risposta mezza tra la scusa e l’ossequio, ecco una voce uscire improvviso da un sepolcro, e Dante per naturale istinto accostarsi quasi temendo a Virgilio, e Virgilio gridare:
                               .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   Volgiti, che fai?
Ecco lá Farinata che s’è dritto:
Dalla cintola in su tutto il vedrai.
                         

L’inattesa comparsa di Farinata sulla scena è apparecchiata in modo, ch’egli è giá grande nella nostra immaginazione e non l’abbiamo ancora né veduto né udito. Farinata è giá grande per l’importanza che gli ha dato il poeta e per l’alto posto che occupa nel suo pensiero. E noi non lo vediamo ancora, e giá ce lo figuriamo colossale dalle parole di Virgilio:

                         

Dalla cintola in su tutto il vedrai.

                         
— Volevi vederlo: eccolo tutto innanzi a te. — «Tutto»! Il Tasso, rappresentando Clorinda posta su di una collina e contemplata dall’amante, dice:
                         

Tutto quant’ella è grande era scoperta.

                         
«Tutto» qui non esprime grandezza e niente aggiunge alle proporzioni naturali di Clorinda. Il suo significato bisogna cercarlo nella fantasia dell’amante, innanzi al quale ella si presenta in «tutta» la sua bellezza, senza che nessuna delle elette forme gli rimanga celata, ed egli vi si affisa, vi s’incanta ed obblia Argante che lo sfida a battaglia. Di altro valore è il «tutto» di Virgilio: altra è la situazione. Il significato di questo «tutto» è nell’opinione che Dante ha preconcetta di Farinata, e vuol dire: — Lo vedrai in tutta la sua grandezza — , tenendo cosí l’ufficio di quel che nelle arti plastiche si chiama rilievo, servendo cioè a trasfigurare il reale e dargli le proporzioni che gli attribuisce la fantasia. Siccome l’immaginazione non può concepire l’astratto e l’intellettuale che dandogli corpo e figura, la grandezza morale m’ingrandisce anche quel corpo, non altrimenti che fa il volgo, poeta nato, il quale, quando gli si parla di conquistatori, se li rappresenta in forma di giganti. Come in pittura, cosí in poesia lo studio dell’illusione è uno de’ piú importanti. L’artista vi giunge naturalmente, quando abbia l’immaginazione chiara e calda, sí che la figura le stia innanzi tutta intera, e non come semplice esterioritá, ma come espressione di ciò che è dentro, come carattere. Di tal natura è l’attitudine in che il poeta rappresenta Farinata:
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                               Ed ei s’ergea col petto e colla fronte,
Come avesse l’inferno in gran despitto.
                         

Farinata sta con mezza la persona nascosta nell’arca; rimane solo di fuori il petto e la fronte; e nondimeno egli ci apparisce come torreggiante sugli oggetti circostanti. È un’altra illusione, un altro rilievo prodotto da una parola: «s’ergea». E qual è il significato di questo «s’ergea»? Quando io mi trovo la prima volta di rincontro ad un grand’uomo, poniamo pure ch’io sia un gigante e quegli un pigmeo, io mi sento quasi per istinto far piccolo piccolo, e piú mi par grande, piú mi rimpiccolisco. E al contrario ci hanno uomini abbietti che vanno per le vie pettoruti, e a testa alta, e possono stirarsi quanto vogliono, che saranno sempre piccoli: perché la grandezza è posta non nella realtà delle proporzioni, ma nella nostra immaginazione. Quando Kléber, rapito nell’entusiasmo della vittoria, diceva a Napoleone: — Generale, voi siete grande; — la nostra immaginazione colloca Napoleone sul piedistallo e il gigantesco Kléber a’ suoi piedi col capo inchino. Kléber che aveva tanto potere sull’esercito s’ecclissava innanzi a Napoleone, perché Kléber imponeva con la statura e Napoleone comandava con l’occhio; l’uno parlava a’ sensi, l’altro ammaliava le immaginazioni. Quel «s’ergea» preso solo materialmente è ridicolo; diviene sublime, perché non ti dà la semplice figura, ma ti dá il carattere:

                         

Come avesse l’inferno in gran despitto.

                         
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Quell’ergersi ti dá il concetto di una grandezza tanto piú evidente quanto meno misurabile; è l’ergersi, l’innalzarsi dell’animadi Farinata sopra tutto l’inferno. Cosi con un colpo solo di scalpello Dante ha abbozzata la statua dell’eroe, e ti ha gittata nell’anima l’impressione di una forza e di una grandezza quasi infinita.

L’inferno qui ci sta non per sé stesso, nel suo significato diretto e morale, perché ciò che qui ti colpisce non è certo Farinata peccatore, Farinata in quanto è eretico. Il peccato è menzionato unicamente a dare spiegazione, perché in questo cerchio si trovino Farinata e Cavalcanti. Dinanzi alla grandezza morale di Farinata, al suo ergersi, tutte le figure diventano secondarie, e lo stesso inferno ci sta per dar rilievo alla sua grandezza. Nella nostra immaginazione l’inferno è la base e il piedistallo su cui si erge Farinata. E come l’inferno è scomparso, cosí è del pari scomparso il Dante simbolico. Dante non è qui l’anima umana peregrina per i tre stadi! della vita, ma è un Dante di carne e ossa, il cittadino di Firenze, che ammira il gran cittadino della passata generazione, e rimane come annichilito innanzi a tanta straordinaria grandezza. Eccolo li, innanzi all’uomo che ha desiderato tanto di vedere: il suo viso rimane «fitto» in quel viso: egli è lá, estatico, turbato, e non sa quel che si faccia, ed è necessario che Virgilio lo scuota e lo pinga con le mani verso di lui: — Desideravi tanto di veder Farinata e di parlargli; accostati, ch’egli ti possa udire: «le parole tue sien conte» — .

                                    Io avea giá il mio viso nel suo fitto:
Ed ei s’ergea col petto e con la fronte,
Come avesse l’inferno in gran despitto:
     E l’animose man del duca e pronte.
Mi pinser tra le sepolture a lui.
Dicendo: Le parole tue sien conte
                         
Il gruppo è perfetto di armonia e di disegno. Si vede Farinata torreggiante sopra l’inferno, e Dante a distanza, immobile, attonito, il volto nel volto di lui.

Se questa magnifica messa in iscena desta nell’anima il sentimento della grandezza e della forza, le prime parole di [p. 296 modifica]Farinata ispirano simpatia e affetto. Sul suo letto di foco, chiuso nella tomba, gli giunge all’orecchio il parlare toscano, e di uomo vivo, e balza in piè:

                              

Ecco lá Farinata che si è dritto.

                              
Un cittadino toscano, la loquela del suo paese, la sua Firenze, le piú care memorie gli si affollano nell’anima, e rammorbidiscono la sua fiera natura e danno al suo accento non so che gentile, l’accento della preghiera. In questa onda di dolci sentimenti si lava e si purifica ciò che è duro ed eccessivo nell’anima appassionata dal partigiano, e sente rimorso, quasi rimorso di aver potuto come capoparte esser molesto alla sua patria, alla sua « nobil patria»:
                                    O Tosco che per la cittá del foco
Vivo ten vai, cosí parlando onesto,
Piacciati di ristare in questo loco.
     La tua loquela ti fa manifesto
Di quella nobil patria natio.
Alla qual forse fui troppo molesto.
                         
«Forse»! sono le sfumature e le delicatezze dell’anima, che balzan fuori in modo spontaneo e irriflesso, evocate da fatti inaspettati e cosí ingegnosamente inventati. L’improvviso è espresso fino in quel subito erompere delle parole, prima ancor che noi sappiamo onde vengano e da chi. Se Farinata dicesse: — Io fui molesto alla mia patria, — sarebbe un giudizio giá fatto e vagliato e determinato. Ma questo concetto gli si presenta ora la prima volta innanzi, colto all’ improvviso da una di quelle gagliarde impressioni che mettono l’anima a nudo, e sotto la pressione di dolci sentimenti gli esce dalla bocca una confessione in quella prima forma provvisoria di un giudizio nuovo e improvviso che non si è avuto il tempo di esaminare. Il Leopardi diceva che niente è piú poetico del «forse». Ed io aggiungerò: e niente piú profondo; riferendosi alle gradazioni piú fuggevoli e piú delicate dell’anima. «Fui molesto», ti dá un giudizio assoluto e astratto; «forse fui molesto », te lo dá presente, ora appunto, fra tali impressioni, in tali condizioni: te lo dá non nella generalitá dell’idea, ma nell’atto della vita.
[p. 297 modifica]

Le passioni di un’anima nobile, quando anche sieno eccessive, non l’occupano in modo che non resti intatto nel piú profondo ed imo alcun che di puro e di grande che vien fuori subitamente in qualche straordinaria impressione, diffondendo la sua luce e la sua simpatia su tutta la persona. Questo alto sentimento che purifica e abbella Farinata nella violenza della sua passione. Dante qui ha fatto scattar fuori con la sua profonda intuizione de’ secreti del cuore. Il gran cittadino nobilita e assolve il partigiano.

Ma non è che un momento. E quando Farinata si vede presso quell’uomo e lo ha squadrato e non lo ha conosciuto, diviene quasi sdegnoso, sospettando non forse appartenesse al partito contrario al suo. Lui, che poco innanzi sentia rimorso di essere stato « forse molesto » alla patria con le sue passioni, è pur lui che un momento appresso si sente invadere da quelle passioni. La natura ripiglia il suo posto; il partigiano si presenta nella sua cruditá. Non basta a Dante esser toscano; per trovar grazia appresso a Farinata bisogna ch’egli sia ghibellino. «Chi fur li maggior tui? » In quei tempi di tanta energia il partito non era solo legame di opinione, ma ereditá di famiglia: tale il padre, tale il figliuolo:

                                    Poscia che al pié della sua tomba fui,
Guardommi un poco, e poi quasi sdegnoso
Mi dimandò: Chi fur li maggior tui?
     Io ch’era di ubbidir desideroso,
Non gliel celai, ma tutto gliel’apersi;
Ed ei levò le ciglia un poco in soso,
     Poi disse: Fieramente furo avversi
A me, ed a’ miei primi, ed a mia parte;
Ond’io per due fiate gli dispersi.
                         

L’impressione di queste fiere parole accompagnate da gesti cosí risoluti è irresistibile. E in che è posto dunque tale incanto [p. 298 modifica]che spieghi questa impressione? Forse in quel brusco: «chi tur li maggior tui»? o in quell’atto cosí significativo di altero corruccio: levar le ciglia in su? o forse in quell’unificare ch’ei fa sé e i suoi « primi » e sua parte, come fosse una sola anima e una sola passione? o in quel verbo, piantato li in ultimo, solitario e staccato, che nella sua sprezzante rapiditá ricorda il «veni, vidi, vici» di Cesare? In tutto questo, o piuttosto nel fondo stesso della concezione saputa afferrare di un getto da cui scaturisce tanta maraviglia ed evidenza di stile, in quel misto di passione e di forza in che è posto il carattere di Farinata. Di qui tanta concordanza di gesti e di parole che si cementano a vicenda: i gesti brevi e precisi; il dire rotto, brusco, imperativo, di un uomo d’opera e di comando; è la forza che si manifesta nella veemenza della passione, senza moti incomposti o esagerati, senza jattanza, con quella sicurezza che ha l’uomo serio quando parla di sé. Troviamo ora nelle parole e riconosciamo quel Farinata, che ci parve nella figura si grande, superiore all’inferno.

Dante, abbiamo detto, avea in sé del Farinata. Questo uomo, tutto rimpicciolito innanzi a quella grande figura, estatico, ubbidiente, quando ode oltraggiare la sua famiglia, sia pure quegli che parla un Farinata, sente ribollirsi nelle vene il sangue de’ padri suoi, e ci apparisce anch’egli colossale e sta a paro con Farinata. Abbiamo tanta miseria di comentatori che qui si sentono impacciati, e disputano se Dante era guelfo o ghibellino quando Farinata gli parlava, e come, essendo i suoi antenati guelfi e lui un ghibellino, possa qui farsi difensore della causa guelfa. O i comentatori politici! Dante è qui né guelfo, né ghibellino; Dante è figlio, né ci è cosa tanto commovente quanto questo Dante che, innanzi al nemico della sua famiglia e che la sta sopra col piede, obblia il suo partito e sé stesso, e diviene il padre suo e risponde:

                                    S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogni parte
.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  l’una e l’altra fiata;
Ma i vostri non appreser ben quell’arte.
                         
[p. 299 modifica]Qui si sente che il foco dell’ ira è montato sul viso di Dante, e che per la sua bocca parlano i suoi antenati. Farinata avea detto: — Li dispersi « per due fiate », — appoggiandovi sopra la voce; e Dante gli ritorna quel plurale distinto in due singolari, « l’una e l’altra fiata »; e qual sarcasmo nell’ultimo verso, dove in quell’«arte mal appresa» di ritornare in patria si sente un comico serio, che presuppone in chi parla un riso, ma un riso amaro!

«Arte mal appresa» è uno di quei motti che restano inchiodati nella mente e non si dimenticano piú. Il motto è lanciato, e Farinata l’ha raccolto.

Ma in questo rapido cambio di parole, tra botta e risposta, ecco sorgere dalla tomba il Cavalcanti, il padre di Guido, l’amico e il compagno di Dante.

Farinata avea chiesto: — «Chi fur li maggior tui?» — Dante risponde esser egli Dante degli Alighieri. Questo nome, che avea destata l’ira di Farinata, sveglia ben altra impressione in colui che gli giaceva accanto, nel padre di Guido. Egli pensa: — Dante e Guido sono amici, compagni, amendue di alto ingegno. Se Dante è qui e vivo, forse anche qui è Guido, il figlio mio — ; e si leva in ginocchione a guardare:

                                    D’ intorno mi guardò, come talento
Avesse di veder s’altri era meco;
Ma poi che il sospecciar fu in tutto spento,
     Piangendo disse: Se per questo cieco
Carcere vai per altezza d’ ingegno,
Mio figlio ov’ è? e perché non è teco?
                         

Ai contemporanei che aveano innanzi la storia di Guido e di Dante, questi versi dovettero suscitare molti sentimenti e idee e memorie per noi perdute: Dante stesso dovè scriverli con grande commozione, perché, se al mille trecento, epoca del suo viaggio allegorico, Guido era ancor vivo, quando scriveva, era morto. E dovè pensare che per suo consiglio Guido fu mandato in bando; che se potè farlo rivenire a Firenze, fu troppo tardi, perché morí pochi giorni dopo della malattia contratta [p. 300 modifica]nell’esilio; e che egli medesimo, chi glielo avrebbe detto quando priore sbandeggiava il suo Guido?, egli medesimo era esule, e disperato del ritorno. Di tutti questi sentimenti e ricordanze non c’ è qui vestigio; tutto questo che pe’ contemporanei era vivo e presente, per noi è morto; perché ne’ lavori d’arte non rimane della storia se non quello solo che è appreso e fissato nella forma; tutto l’altro perisce irrimediabilmente; i comenti storici possono spiegare, chiarire, risuscitare fatti e circostanze e date; ma non i sentimenti e le impressioni e tante sfumature e gradazioni fuggevoli e intime in che è il fine dell’arte. Non c’è poesia che giunga a’ posteri intera: una parte muore, né può disseppellirla la storia. E qual maraviglia? Potete voi disseppellirmi il vostro jeri? Quante impressioni e sentimenti, e non è scorso che un giorno, sono giá fuggiti dalla vostra memoria; e non torneranno mai piú! Il poeta è uomo e vive nella storia in mezzo all’ incidente, né concepisce l’eterno se non insieme con quello che muore. Quanta parte di poesia è morta nella Divina Commedia, quante parole hanno perduta la loro freschezza, e quante frasi il loro colore, e quante allusioni il loro significato! La parola non può come lo scarpello o il pennello rappresentare tutta la figura; essa non s’ indirizza a’ sensi, ma alla immaginazione, e riesce allo stesso effetto spesso con un tratto solo, con un «tutto», con un «si ergea». Questo tratto è prosaico, quando lascia inerte e vuota l’immaginazione; ed è poesia, quando molte idee accessorie tumultuarono nella mente dell’artista che lo ha concepito, e quando esso ha virtú di svegliare nella mente del lettore altrettali idee accessorie. Ma, se queste idee sono personali, la comunanza di sentimenti tra il poeta e il lettore è interrotta, perché le idee personali sono intransitive, non passano, non si trasmettono, restano nella persona e muoiono con la persona.

                              

Mio figlio ov’è? e perché non è teco?

                              
[p. 301 modifica]

Questo verso che ha il suo interesse in molte idee personali, legate con que’ tempi e con quegli uomini, ha potuto commovere i contemporanei; noi lascia freddi e muti. E nondimeno tutta questa poesia ha traversato i secoli con costante ammirazione; perché le idee personali sono qui i contorni e gli antecedenti del fatto poetico, occasione e ispirazione, ma non materia e sostanza di ima poesia che ha il suo valore e il suo interesse e le sue idee accessorie nella immortale e sempre giovine umana natura, e perciò conserva la sua freschezza, anche quando le impressioni e i fatti e i sentimenti che ispirarono il poeta sieno spenti. In effetti, l’interesse è qui posto ne’ vani affetti e sentimenti da cui è travagliata l’anima di un padre, sia Cavalcante, sia altri. Certo non è indifferente, che il padre sia Cavalcante, che il figlio sia Guido e che il poeta sia Dante, e neppure che guida di Dante sia Virgilio, da Guido avuto «a disdegno»: la realtá storica concorre all’effetto generale, ed è l’accidente, l’accessorio, l’accompagnamento obbligato che dá alla creazione artistica l’ultima finitezza, l’apparenza compiuta del vero: oltreché è qui causa occasionale e ispiratrice, che ha commosso il poeta e gli ha svegliato l’estro. Ma ciò che è uscito dalla fantasia, è una creazione indipendente da ogni idea personale e da ogni accessorio storico, radicata nel fondo vivace del cuore umano; perciò riman fresca e giovane, ancorché quelle idee e quegli accessorii sieno morti. Che è in effetti questa poesia? È una pagina del cuore umano nelle sue piú delicate gradazioni. E queste gradazioni sono espresse sensibilmente da tre movimenti istantanei e irriflessi che il poeta attribuisce a Cavalcante, al padre. Dapprima si leva inginocchione; poi si drizza in piè; da ultimo ricade supino; che risponde a tre stati del suo animo: un desiderio misto d’ incredulitá; poi una dolorosa ansietá; indi un dolore senza nome.

Dapprima si leva in ginocchione; il padre non crede quello che la ragione gli dice strano, eppur lo crede, perché il suo cuore lo desidera : il primo suo atto è un forse, un credere e discredere, è un «sospettare», un volger l’occhio intorno; e quando cerca e non trova Guido, il padre piange, visto cadere in terra tanta speranza. La situazione è fin qui tenera, ma tranquilla; una parola equivoca di Dante l’alza fino all’angoscia ed allo strazio. Gli equivoci sono facili a nascere, quando [p. 302 modifica]chi parla e chi ode sono in diversa situazione d’animo. Quando Dante nomina Virgilio e accenna al « disdegno » di Guido per il gran poeta, suo duce e suo maestro, la sua immaginazione è tutta in quei tempi giovanili, in quelle prime gare della scuola e de’ convegni letterarii, e può molto bene adoperare un verbo di tempo passato, dire «ebbe a disdegno»; ma quel passato giunge all’orecchio del padre senza le idee accessorie che lo spiegano, e significa: — Tuo figlio è morto — . Alla improvvisa notizia succede un movimento istantaneo di ansietá nel suo animo, a cui risponde un movimento parimente istantaneo del corpo:

                              

Di subito drizzato gridò:   .   .   .   .

                              

dove il drizzarsi e il gridare è espresso come un’azione quasi unica e contemporanea, e quell’accento straordinario nella nona sillaba, quell’ «ò» di «gridò» risuona alcun tempo all’orecchio, come corda musicale, che dopo toccata segue il suo tintinnio, e rappresenta e dipinge lo strazio e l’affetto della voce. Questi versi, straordinarii per la giacitura dell’accento nella settima o nona sillaba, si chiamano per l’appunto danteschi, e, fatti a disegno, sono di grand’effetto. Tale è il noto verso del Tasso, che fa riscontro a questo:
                              

La vide, e la conobbe e restò   .   .   .

                              

I grandi piaceri e i grandi dolori non acquistano fede a prima giunta; si vorrebbe non avere udito, non aver compreso; e si ripetono le parole e si vuole replicata la notizia : si desidera di frantendere, si discrede all’orecchio:
                                    .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  Come
Dicesti: egli ebbe? non viv’egli ancora?
Non fere gli occhi suoi lo dolce lome?
                         

Questo non è una figura rettorica, come ne’ versi del Tasso:
                               Io vivo? io spiro ancora? e gli odiosi
Rai miro ancor di questo infausto die?
                         
[p. 303 modifica]Tancredi sapeva benissimo di esser vivo, né ci era bisogno che per tre volte se lo domandasse. Ma in Cavalcante ci è vero strazio, innanzi a una parola equivoca e al silenzio di Dante, che stava come distratto e non rispondeva. Indi il suo insistere e il dir lo stesso, trovando forme sempre piú vive, finché all’ultimo tocca il piú alto dell’affetto. Cosa è la vita per Cavalcante, giacente « nel cieco carcere » della tomba? È la luce, la dolce luce, toltagli per sempre:
                              

Non fere gli occhi suoi lo dolce lome?

                              

A ciascuna domanda del padre, Dante rimane in silenzio e come assorto : diresti che un altro pensiero gli si attraversi pel capo. Pensava: — Poi che i dannati conoscono l’avvenire, o come ignorano il presente? come Cavalcante ignora che Guido è ancor vivo? — . Ma il silenzio di Dante avea per Cavalcante un terribile significato. Quel silenzio voleva dire: — Tuo figlio è morto! — . Vi sono momenti ne’ quali una parola è un colpo di pugnale, e nessun osa profferirla, e si tace: quel silenzio è eloquente piú di un discorso. Quando Achille domandò di Patroclo, e vide tutti intorno silenziosi, esclamò : — Patroclo è morto! — Tuo figlio è morto! — , e come percosso da fulmine, il ritto in piè cade supino:

                              

Supin ricadde, e piú non parve fuora.

                              

Il dolore è sublime, quando all’ improvvisa notizia i diversi sentimenti si aggruppano e si affollano tutt’ad un tratto e in confuso innanzi all’aniina e la soverchiano e la prostrano. Dire questo dolore inesprimibile, ineffabile, indicibile, dire che agli occhi mancarono le lacrime, alla bocca le parole, è usar modi consueti, di nessuna efficacia piú. L’inesprimibile, se volete rendermelo sublime, datemegli una espressione. Volete rendere sublime la grandezza, mostratemi una piramide. Volete rendere sublime il dolore, copritemi di un velo il capo di Agamennone innanzi al sacrifizio d’Ifigenia, o fatemi cadere un uomo e come corpo morto», e soprattutto rubatemelo alla vista: meno veggo e piú immagino. Di tal natura è la caduta istantanea di Cavalcante, e dopo, silenzio e tomba, «e piú non parve fuora».
[p. 304 modifica]

E qui, nuove miserie de’ comentatori. Perché Dante ha interrotto il racconto di Farinata? Perché ci ha ficcato in mezzo quest’episodio che non ci ha nulla a fare? Perché Farinata si mostra insensibile a tanta pietá? Per dirne una, ecco la risposta di Foscolo. Rifrugando le antiche cronache, trova che il figlio di Cavalcante era genero di Farinata : indi la parentela tra il fatto principale e l’episodio. E se Dante fa rimaner Farinata impassibile alla notizia della morte del genero, gli è per mostrare come l’uomo pubblico non dee sentire gli affetti privati. Eccoci caduti in un miserabile «fabula docet». E da quando in qua è disdetto all’uomo pubblico di versare una lacrima sulle sue private sventure? Ed anche quando ti è richiesto il sacrificio degli affetti privati, non è viltá il sentire, ma cedere al sentimento. Il sacrificio tanto è piú nobile, quanto costa piú lacrime, e se volete rappresentarmi Bruto che danna a morte i figliuoli, sta bene : ma se volete eh’ io m’interessi per lui, fatemelo veder piangere. Farinata innanzi a uno spettacolo tanto pietoso, « non muta aspetto, non move il collo, non piega sua costa ». Perché? Vedete lá nel tempio la Giulia di Berchet, in mezzo a popolo variamente atteggiato lei sola immobile, non ode, non vede, «non guarda che in cielo». Perché ella sembra estranea a tanto movimento di cose e di uomini? Perché Giulia è una madre; perché il suo pensiero è tutto raccolto nel figlio ch’ella teme di veder sortire dall’urna soldato austriaco con l’aquila in fronte, perché in quel punto il figlio è il suo universo. E perché Farinata, il «magnanimo», rimane immobile come una statua? Perché egli non vede e non ode, perché le parole di Cavalcante giungono al suo orecchio senza andare sino all’anima, perché la sua anima è tutta in un pensiero unico, rimasole infisso come uno strale, «l’arte male appresa», e tutto quello che avviene fuori di sé, è come non avvenuto per lei. E cosí, quando Cavalcante sparisce, quali sono le prime parole di Farinata? [p. 305 modifica]

                                    E se, continuando al primo detto.
Egli han, disse, quell’arte male appresa,
Ciò mi tormenta piú che questo letto.
                         

Quest’uomo in tutto questo spazio non pensava che a quel detto di Dante: dalle parole di costui fino alla sua risposta corre un qualche intervallo, riempito da Cavalcante, che è interruzione per il lettore, ma per il «magnanimo» continuazione dello stesso pensiero, prolungamento dello stesso dolore: un dolore che vuol dominar solo, che non patisce compagnia, che lo rende estraneo alla morte del genero, che dico io? che lo rende estraneo al foco dell’ inferno; il dolore morale gli fa obbliare la pena materiale, o, per dir meglio, glie la fa ricordare, solo per trovare il suo dolore piú grande al paragone:


                              

Ciò mi tormenta piú che questo letto.

                              

Chi vuol sentire quanta distanza è tra la vanitá millantatrice di Capaneo e la severa grandezza di Farinata, vegga qui. Capaneo parla con jattanza, per dissimulare a sé e agli altri la coscienza della sua sconfitta. Farinata non ha nulla a nascondere : mente è nelle sue parole che non sia dentro nell’anima; e innanzi a Dante che gli ha infisso lo strale, esprime la grandezza infinita del suo dolore. Ma quello strale il fiero uomo lo rigitta la ond’è partito. — Tu dici che i miei hanno male appresa l’arte di ritornare in patria: ma anche tu saprai per tua esperienza quanto è difficile imparare quell’arte. — È lo stesso strale lanciato da Dante che colpisce Dante nel cuore:
                                    Ma non cinquanta volte fia raccesa
La faccia di colei che quaggiú regge.
Che tu saprai quanto quell’arte pesa.
                         

Ma, aprendo la ferita nel cuore di Dante, non perciò Farinata sente lenire la sua, e non si può consolare che il popolo sia cosí «empio», senza pietá, verso i suoi. Dante gli ricorda, non senza una cert’aria d’ironia, la battaglia dell’Arbia, dov’egli disperse i Guelfi:
[p. 306 modifica]
                                    .   .   .   Lo strazio e il grande scempio,
Che fece l’Arbia colorata in rosso,
Tale orazion fa far nel nostro tempio.
                         

E qui balza fuori un altro tratto di questo carattere cosí pieno e ricco. Guardate nel suo insieme una battaglia, e vi rapirá in ammirazione; guardate questo o quel morente, e voi piangete. Quando Farinata ha detto: — Io «per due fiate gli dispersi», — quel motto ci par sublime, perché ci mostra un grand’uomo, che quasi con un solo sguardo mette in fuga gli avversari. Ma quando Dante gli gitta sul viso il sangue cittadino e gli mostra l’Arbia «colorata in rosso», il fiero uomo sospira, egli che aveva detto testé «io», e non soffre ora di regger sulle spalle egli solo il peso di quel rimprovero, e va cercando compagni; ma rileva tosto il capo, trovando nella sua vita la piú bella delle sue azioni, di cui la gloria è tutta sua, di lui solo; la scena si rischiara e si abbella; al cruento vincitore di Arbia succede il salvatore di Firenze, ultima immagine che è la purificazione e la trasfigurazione del partigiano:


                                    Poi che ebbe sospirando il capo scosso,
A ciò non fu’ io sol, disse; né certo
Senza ragion sarei con gli altri mosso:
     Ma fui io sol colá, dove sofferto
Fu per ciascun di torre via Fiorenza,
Colui che la difesi a viso aperto.
                         

Quest’ultimo verso è un’epigrafe, l’apoteosi. Ed è rimasto ne’ secoli il motto caratteristico in cui si chiude e si epiloga la vita dell’eroe.

Certo, il tipo del Farinata è ancora troppo semplice per l’uomo moderno. C’è lí dentro la stoffa ancora epica dell’uomo, non ancora drammatica. Manca l’eloquenza, manca la vita interna dell’anima. Lá è una grande natura, ma che, come la statua di Mennone, ha bisogno di esser percossa da [p. 307 modifica]impressioni esterne per rendere un suono. Le impressioni sono trovate con grande felicita e originalitá, e producono meravigliosi effetti drammatici, ciò che oggi si direbbe «colpi di scena»; il suono è una sola e rapida espressione, ma che lascia intravvedere tutte le profonditá del sentimento, di un sentimento non sviluppato, non analizzato. È l’uomo ancora primitivo e spontaneo nella sua semplicitá, che vive tutto di fuori, e non si raccoglie e non si esamina, di una vita interiore sintetica, che attende l’impressione per raggiare. Per ciò l’espressione è spesso tutta intera in un tratto solo, e quando vai appresso, giá non è lo stesso sentimento graduato e riprodotto che ti è innanzi, ma una nuova impressione e un nuovo sentimento. Ciò che è proprio della maniera di concepire e di esprimere del nostro poeta, i cui tratti sono schizzi, anzi che compiute e ricche rappresentazioni. Quello che è piú sviluppato e graduato in una rappresentazione unica, è l’Ugolino, poesia perciò piú moderna e piú popolare.

Qui mancano i contorni; hai i lineamenti sostanziali; sono guizzi di luce che illuminano a un tratto tutto l’orizzonte, mi si passi la metafora, della vita interna. E tutti i lineamenti presi insieme ti offrono in ciò che ha di piú profondo e intimo il tipo del virile, come Dante l’ha concepito, l’uomo del Comune libero, scioltosi dal simbolismo de’ tempi teocratici e feudali, formato dalle lotte della vita pubblica, e giunto al piú alto segno della forza e della grandezza morale, divenuto un carattere.

È tristo a pensarlo, ma è facile a concepirlo, chi sa la nostra storia: l’uomo di Dante, il tipo del Farinata, la stoffa da cui sono usciti i grandi personaggi di Shakespeare, è rimasto unico e solo esempio nella nostra poesia! Dante stesso ne’ suoi tratti essenziali sembra un poeta estraneo all’arte italiana! Bene abbiamo per lui un’ammirazione rettorica, ma siamo fuori del suo spirito.

Dopo il lungo obblio della servitú risensati, Dante fu rimesso sugli altari, e poeti e prosatori tentarono d’instillare nelle vene del popolo un po’ di quel sangue e di quella vita. [p. 308 modifica]All’uomo del Metastasio, l’uomo rettorico, cantante, ballerino, sonetteggiante e accademico, all’uomo arcade, si volle sostituire l’uomo di Dante, e parecchi Diogeni ne andarono in cerca. Era un parlar continuo di forza e grandezza e dignitá e virilitá. Ma l’uomo di Dante, appunto perché cercato non si fé vedere; e appare invece l’uomo arido e astratto di Alfieri, non trovato nel vivo della societá, ma nell’alterezza dell’anima solitaria. Cosi uscirono in luce i Bruti, i Timoleoni, gli Agidi, gl’ Icilii, che sono tanto distanti dal Farinata, quanto l’Italia viva e presente di Dante dista da un’ Italia foggiata dal pensiero individuale, e battezzata «l’Italia futura».

[Nella «Nuova Antologia», maggio i869.]

  1. Lapo Gianni, altro poeta.
  2. Testo della nota assente.
  3. Titolo di una rappresentazione allegorica del Medio evo, che è una storia dell’anima, concepita secondo queste idee. Lo scopo è mostrare come, sopraggiunta alla natura la grazia, alla ragione la fede, venga l’uomo nell’interezza e perfezione dell’esser suo: che è il concetto della Divina Commedia.