Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano/58

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CAPITOLO LVIII

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CAPITOLO LVIII.

Origine della prima Crociata e numero de' Crociati. Indole de' Principi latini. Loro spedizione a Costantinopoli. Politica dell'Imperatore greco Alessio. Nicea, Antiochia e Gerusalemme conquistate dai Franchi. Liberazione del Santo Sepolcro. Goffredo di Buglione primo Re di Gerusalemme. Istituzione del regno franco o latino.

[A. D. 1095-1099] Circa vent’anni dopo che i Turchi si erano impadroniti di Gerusalemme, un Eremita per nome Piero, nativo di Amiens in Picardia1, visitò il Santo Sepolcro. Quanto ei vide sofferire ai Cristiani, quanto sofferse egli stesso, destò in lui commozione e risentimento; e mescolando le sue lagrime a quelle del Patriarca, lo supplicò additargli se vi fosse qualche speranza di soccorso per parte degl’Imperatori d’Oriente. Al qual proposito il Patriarca i vizj e la fiacchezza de’ successori di Costantino gli dipingea. „Io armerò per voi, sclamò Piero, le nazioni guerriere di tutta Europa„. (Chi avrebbe in quell’istante creduto che tutta l’Europa sarebbe stata docile alle [p. 269 modifica]voci dell’Eremita?) Attonito di una tal fidanza il Patriarca, rimise a Piero, mentre partivasi, lettere credenziali, ove i mali de’ Cristiani si descrivevano. Toccato appena il lido di Bari, l’Eremita senza perdere istanti, corse a gittarsi ai piedi del romano Pontefice. La statura piccola di Piero, e il suo portamento ignobile anzichè no, non pareano, per vero dire, atti a dar peso all’impresa che ei consigliava; ma vivace era ed acuto il suo sguardo, e possedea quella veemenza di dire, cui quasi sempre la persuasione va unita2. Uscito di una famiglia di gentiluomini (perchè ne giova ora del più moderno stile valerci), avea militato da prima sotto i Conti di Bologna marittima, feudatarj del suo vicinato, ed eroi della prima Crociata; ma ben tosto e l’armi, e il Mondo ebbe a schifo. E se egli è vero quanto raccontasi che la moglie di lui, quanto nobile, altrettanto era vecchia e difforme, non si stenta a comprendere, come senza molta ripugnanza la abbandonasse per ripararsi in un convento, e poco dopo in un romitaggio. L’austera penitenza, alla quale in questa solitudine si assoggettò, ne infiacchì il corpo, ma l’immaginazione gli accese. Avvezzatosi a credere quanto egli bramava, i suoi sogni, per lui rivelazioni, gli confermavano la realtà di quanto ei credea. Piero l’Eremita tornò da Gerusalemme più fanatico [p. 270 modifica]ancora che dianzi: ma poichè, per un eccesso di follìa venuta in rinomanza a que’ giorni, attraea sopra di sè i pubblici sguardi, Papa Urbano II, siccome un Profeta lo accolse, ne applaudì il glorioso divisamento, promise sostenerlo in un generale Concilio, lo incoraggiò a divenir banditore della liberazione di Terra Santa. Fatto forte dall’approvazione del Pontefice, lo zelante missionario attraversò le province dell’Italia e della Francia con tal buon successo, che alla celerità della sua corsa, poteva soltanto paragonarsi. Rigidissimo nell’austerità de’ suoi digiuni, assorto in lunghe e frequenti preghiere, distribuiva d’una mano le elemosine che riceveva coll’altra. Colla testa calva scoperta, e co’ piedi ignudi, avvolto in ruvida veste il magro suo corpo, tenea fra le mani un pesante crocifisso, che non si stancava di offrire agli sguardi de’ passeggieri: le turbe affollatesi ad ascoltarlo, rispettavano persino il giumento cavalcato dall’Eremita, riguardando in questo animale il servo dell’uom di Dio. Non cessava Piero dall’aringare le ciurme nelle chiese, nei trivj, e nelle strade maestre, mostrandosi con egual successo ne’ palagi de’ Grandi, e nelle capanne. La veemenza della sua voce traeva a suo grado gli animi della plebe, e tutti in quel momento plebe divennero. Piero all’armi e a penitenza fervorosamente eccitavali: e allorchè dipignea i patimenti degli abitanti e de’ pellegrini della Palestina, la compassione impadronivasi di tutti i cuori, trasformandosi poscia in ira, quand’egli intimava ai guerrieri del secolo il dovere di difendere i fratelli, e di liberare il lor Salvatore. Compensando tutto ciò che, quanto ad arte o ad eloquenza, mancavagli, con sospiri, la[p. 271 modifica]grime e slanci di santo entusiasmo, ei suppliva parimente alla debolezza de’ suoi argomenti con enfatiche e frequenti appellazioni a Cristo, alla Vergine madre di Cristo, ai Santi e a tutti gli Angeli del Paradiso, co’ quali erasi trovato in famigliari colloqui. I più famosi oratori della Grecia, avrebbero potuto invidiargli i buoni successi della sua eloquenza: onde non è maraviglia, se il rozzo entusiasmo che lo animava, passò rapidamente in altrui, e se gl’impazienti voti della Cristianità, non anelavano più altra cosa se non se il Concilio, e i decreti che il sommo Pontefice stava per promulgarvi.

Armar l’Europa contro l’Asia, era disegno già meditato dall’ardimentoso Pontefice Gregorio VII, e le lettere di lui attestano tuttavia l’ardore dello zelo e dell’ambizione che lo agitavano; che anzi pervenuto era ad arrolare sotto i vessilli di S. Pietro3, all’una e all’altra falda dell’Alpi, cinquantamila Cattolici, ardente egli stesso della brama di farsi lor condottiero, contra gli empj settarj di Maometto, segreto che il successore di Gregorio svelò. Ma la gloria, o il rimprovero di mandare a termine la santa impresa erano serbati ad Urbano II4, il più fedele fra i discepoli di Gregorio; benchè però la Crociata il nuovo Pontefice non comandasse in per[p. 272 modifica]sona. Urbano alla conquista dell’Oriente accigneasi, intanto che Giberto di Ravenna impadronitosi della maggior porzione di Roma, cui già stava fortificando, il titolo di Papa, e gli onori del pontificato gli contendea. E a far più arduo lo stato di Urbano, ei doveva riunire le Potenze occidentali in un tempo che i Principi, dalla Chiesa, i popoli, dai lor Principi erano disgiunti, a motivo delle scomuniche che i predecessori di lui, ed egli medesimo, contra il Re di Francia e l’Imperatore aveano fulminate. Il primo di questi, Filippo I, sopportava pazientemente anatemi, che collo scandalo di sua condotta, e con adultere nozze si procacciò. Enrico IV di Alemagna, fermo stavasi nel sostenere il diritto delle investiture, la prerogativa di confermare col pastorale e coll’anello le elezioni de’ Vescovi. Intanto nell’Italia, la fazione imperiale opprimeano l’armi de’ Normanni e della Contessa Matilde; lunga lotta, allora invelenita dalla ribellione di Corrado, figlio di Enrico, e dalla ignominia della moglie di questo Principe5, la quale ne’ Concilj di Costanza, e di Piacenza, rivelò le numerose prostituzioni, cui l’avea commessa uno sposo, poco sollecito dell’onor della moglie, come del proprio6. Ma l’opinione [p. 273 modifica]generale tanto ad Urbano dimostravasi favorevole, e tanto si era la prevalenza di questo Pontefice, che il Concilio da lui assembrato in Piacenza, si vide composto di dugento Vescovi Italiani, Francesi, Borgognoni, Svevi, Bavaresinota. Quattromila ecclesiastici e trentamila laici, si trasferirono a questa importante assemblea: nè essendovi cattedrale tanto ampia che capir la potesse, le adunanze, durate sette giorni, in uno spianato vicino a Piacenza si tennero. Ivi gli Ambasciatori di Alessio Comneno, Imperator greco, mostraronsi, narrando le sciagure del loro Sovrano, 7 [p. 274 modifica]e i pericoli imminenti a Costantinopoli, non più disgiunta che per un angusto braccio di mare dai Turchi, nemici implacabili di tutto quanto portava il nome cristiano. Destramente adulando colla loro supplica la vanità de’ Principi latini, mostravano ad essi, come la prudenza e la Religione del pari, li consigliassero a respingere i Barbari sui confini dell’Asia, innanzi che costoro penetrassero nel cuor dell’Europa. Al racconto della trista e perigliosa condizione de’ Cristiani dell’Oriente, tutta l’assemblea pianse a cald’occhi: i più zelanti della medesima si protestarano pronti a porsi in cammino, onde gli inviati d’Alessio portaron seco in partendo, la sicurezza di un sollecito e poderoso soccorso. Il disegno di liberare Costantinopoli non era che una parte di altro disegno più vasto, per la liberazione di Gerusalemme concetto; ma l’accorto Urbano protrasse le finali deliberazioni ad un secondo Sinodo di cui propose l’adunata in una città della Francia, durante l’autunno del medesimo anno: breve dilazione intesa ad accrescere il pubblico entusiasmo, oltrechè il Pontefice fondava le sue più salde speranze, sopra una nazione di guerrieri8, superba della preminenza del proprio nome, ed ambiziosa [p. 275 modifica]d’imitare il suo eroe Carlomagno9, al quale il romanzo popolare di Turpino10 attribuite avea le conquiste di Gerusalemme e di Terra Santa. Forse anche riguardi di patrio affetto, o fors’anche di vanità ebbero parte in questo avviso di Urbano. Anticamente monaco di Cluny, nato a Castiglione in riva alla Marna, città della Sciampagna, primo de’ Francesi che avesse occupato il trono pontificale, orgoglioso del lustro con ciò arrecato alla propria famiglia e alla patria, ei sentiva forse con ardore il diletto che da pochi diletti vien superato; quello di ricomparire in tutto lo splendore di altissima dignità, su quel teatro, ove nella oscurità e fra ignorate fatiche, la giovinezza è stata trascorsa.

[A. D. 1095] Taluno potrebbe sulle prime stupire alla vista di un Pontefice Romano che si avvisò di erigere nel cuor medesimo della Francia un tribunale, d’onde lanciare i suoi anatemi contra il Sovrano di quella contrada: ma la maraviglia sparisce affatto agli occhi di chi si faccia una giusta idea di un Re di Fran[p. 276 modifica]dell’undicesimo secolo11. Filippo I, pronipote di Ugo Capeto, e fondatore della famiglia regnante, che in mezzo allo scadimento della posterità di Carlomagno, avea instituiti in reame i suoi dominj ereditarj di Parigi e di Orleans, ben possedea in proprietà la giurisdizione e la rendita di questo picciolo Stato; ma quanto al rimanente della Francia, nè Ugo, nè i primi suoi discendenti, altra cosa erano che gli alti feudatarj di circa sessanta Ducati, o contee ereditarie o independenti12, i Capi de’ quali paesi, sdegnando le legali assemblee, poco obbedivano, così alle leggi come al Monarca; e il sol modo che questi avesse tal volta per vendicarsi della loro tracotanza, nella indocilità de’ Nobili di minor conto era posta. A Clermont dunque, e in tutta la signoria del conte di Alvernia13, il Papa potea disfidare impunemente la collera di Filippo, onde il Concilio adunatovi da Urbano, nè in numero, nè in ragguardevolezza, a quello di Piacenza cedè14. Oltre alla sua Corte, e al collegio [p. 277 modifica]de’ Cardinali Romani, il Pontefice vedeasi ivi fiancheggiato da tredici arcivescovi, da dugentoventicinque vescovi, e da quattrocento prelati di mitra insigniti. Le persone più rinomate per santità e dottrina in quel secolo vennero a rischiarare co’ lumi della loro scienza, e a soccorrere co’ proprj consigli, i Padri della Chiesa: intanto che immenso stuolo di possenti signori e di valorosi cavalieri accorrea da tutti i vicini reami al Concilio, e ne aspettava con impazienza i decreti15. Tanto era il fervore inspirato da zelo e curiosità ad un tempo, che migliaia di stranieri, non trovando più alloggio nella città, accampavano nella pianura, senza badare che già innoltrato era il novembre. Otto giorni di questa adunata partorirono per vero dire alcuni canoni edificanti, o giovevoli alla riforma de’ costumi. Portate severissime censure contra la licenza delle guerre fra particolari, venne confermata la tregua di Dio16, ossia la sospensione di ogni ostilità per quattro giorni della settimana. La Chiesa si chiarì proteggitrice de’ sacerdoti e del sesso femminile da essa presi sotto la sua salvaguardia; la qual tutela, durante tre anni fu estesa ai coltivatori e ai mercatanti, impotenti vittime della vessazion militare: ma [p. 278 modifica]comunque una legge sia rispettabile, l’autorità dalla quale deriva non perviene in un subito a cambiare l’indole di una generazione; e sappiamo men grado ad Urbano degli sforzi da esso fatti per sedare i litigi de’ privati, allorchè allo scopo di queste sue provvisioni consideriamo. Ei non pensava che ad agevolare a sè stesso le vie di dilatare l’incendio della guerra dalle rive dall’Atlantico, alle sponde dell’Eufrate. Dopo la convocazione del sinodo di Piacenza, la fama di un sì grande disegno sparsa erasi appo i diversi popoli. Gli ecclesiastici che da un paese e dall’altro tornavano, aveano già predicato in tutte le diocesi il merito e la gloria alla liberazione di Terra Santa congiunti: pel quale motivo, il Pontefice dall’alto della cattedra che nel mercato di Clermont gli era stata innalzata, non durò molta fatica a persuadere uditori, così ben preparati, e propensi avidamente a credere ad ogni suo detto. Chiari ne sembravano gli argomenti, veementi erano le sue esortazioni, e il buon successo non poteva mancare. Migliaia di voci, che in una sola si confondevano, interruppero l’oratore esclamando strepitosamente nel rozzo linguaggio di que’ tempi: „Deus lo volt, Deus lo volt17. [p. 279 modifica] „Dio vuole così certamente; il pietoso Pontefice replicò. Che questo accento memorabile Deus vult, dettato senza dubbio dallo Spirito Santo, sia d’ora in poi il vostro grido eccitatore della battaglia; esso animerà lo zelo e il coraggio de’ difensori di Gesù Cristo. La sua Croce è il simbolo della vostra salute. Portatene una rossa di color di sangue sul vostro petto, o sulle vostre spalle, e sia dessa il segno esteriore della irrevocabile obbligazione che avete assunta„. Giubilando ognuno obbedì, e molta mano di ecclesiastici e di laici attaccarono sulle lor vesti il segnal de’ Crociati18, supplicando Urbano a farsi lor condottiero. Il prudente successor di Gregorio ricusò quest’onore pericoloso, adducendo a scusa del suo rifiuto lo scisma della Chiesa e i doveri del Pontificato. Arringati poscia que’ fedeli, il cui zelo di partecipare alla santa impresa venia ritardato o dal sesso, o dalla lor professione, o dagli anni, o dalle infermità, raccomandò loro secondassero colle preghiere e colle elemosine il coraggio di coloro che aveano la bella sorte di potere militare in persona, conferì il titolo e la podestà di Legato appostolico ad Ademaro; vescovo di Puy, nel Velay, primo a ricever la Croce dalle mani del sommo Pontefice. Raimondo, conte di Tolosa, il più fervente fra i condottieri laici, assente trovavasi dal Concilio; [p. 280 modifica]ma gli ambasciatori di lui ne fecero la scusa, e pel loro padrone obbligaronsi. Tutti i ridotti campioni si confessarono, e ricevettero l’assoluzione, unitamente ad una esortazione, divenuta superflua, di sollecitare i loro compatrioti ed amici a seguirli. La partenza per Terra Santa venne deliberata pel giorno solenne dell’Assunzione, ossia quindicesimo di agosto del successivo anno19.

Gli atti violenti sono tanto famigliari agli uomini, che connaturali ai medesimi potrebbero quasi supporsi. Il più lieve pretesto, il più incerto fra i diritti ne sembrano bastanti motivi per armare una na[p. 281 modifica]contro d’un’altra. Ma il nome e l’indole d’una guerra santa vogliono un esame più rigoroso, nè dobbiamo credere sì alla presta che i servi di un Principe di pace abbiano sguainata la spada di distruzione senza motivi rispettabili, senza le apparenze di un diritto legittimo e di una indispensabile necessità. Alle tarde lezioni dell’esperienza per lo più è riserbato l’illuminare gli uomini sulla politica o buona, o cattiva di una qualunque impresa dai medesimi sostenuta; ma prima che a questa si accingano, gli è d’uopo almeno che la coscienza loro il motivo e lo scopo ne approvi. Nel secolo delle Crociate, i Cristiani dell’Oriente e dell’Occidente, erano con vero convincimento persuasi della giustizia e del merito della loro spedizione; e comunque gli argomenti che eglino adoperavano, si trovino il più delle volte annebbiati da un continuo abuso della Scrittura, e delle figure rettoriche; trapela però che particolarmente fondavansi sul diritto naturale e sacro di difendere la propria religione, sui titoli speciali che essi reputavano avere al possedimento di Terra Santa, sull’empietà de’ loro nemici o Maomettani, o Pagani che fossero20.

I. Il diritto di una giusta difesa comprende, non v’ha dubbio, anche quella de’ nostri collegati o spirituali, o civili; e si appoggia sull’esistenza reale del [p. 282 modifica]pericolo, più o meno incalzante a proporzione dell’odio e del poter de’ nemici. È stata imputata a dogma maomettano una massima perniciosa, il dovere cioè di estirpare tutte le altre religioni coll’armi: accusa portata contro essa dall’odio, o dalla ignoranza, e confutata abbondantemente dal Corano, dalla storia de’ conquistatori Musulmani, dalla tolleranza pubblica e legale al culto de’ Cristiani conceduta dall’Islamismo. Non può per altro negarsi che i Musulmani, sotto un ferreo giogo, assoggettano le chiese dell’Oriente; che così in pace come in guerra si attribuiscono, come per diritto divino e incontestabile, l’Impero dell’Universo: che le conseguenze necessarie della loro condotta minacciano ad ogni istante le nazioni, da essi nomate infedeli, di perdere la loro religione, o la loro libertà, doppia perdita, che appunto nell’undicesimo secolo, le vittorie de’ Turchi faceano a ragione temere. Essi aveano sottomessi in men di trent’anni tutti i reami dell’Asia fino a Gerusalemme e all’Ellesponto, e l’Impero greco già inclinar sembrava alla sua totale rovina. Oltre ad un sentimento naturale d’affetto pe’ loro fratelli, i Latini avevano un interesse proprio nel difendere Costantinopoli, il baluardo il più saldo dell’Occidente; nè può contrastarsi che il privilegio della difesa, tanto al prevenire quanto al respingere una invasione, legittimamente si estende. Però al buon successo di tale impresa così numerosi soccorsi non si voleano, nè la ragione umana potrà approvare giammai le spaventose migrazioni che, spopolando l’Europa, apersero inutilmente alle genti migrate una tomba nell’Asia.

II. L’acquisto della Palestina non avrebbe, in verun caso, contribuito alla possanza, o alla maggior sicu[p. 283 modifica]rezza de’ Latini; onde il fanatismo soltanto ha potuto accignersi a difendere questa impresa contra un picciolo paese tanto rimoto. Ma i Cristiani armavano i loro diritti sopra una terra, promessa ad essi in virtù d’un patto inalienabile, suggellato col Sangue di Gesù Cristo. Il lor dovere gli obbligava, dicevano, a scacciare dalla santa eredità che lor pertenea, una banda di ingiusti possessori che, profanando il sepolcro dell’Uomo Dio, la devozione de’ Pellegrini insultavano. – Come rispondere ad essi che la preminenza di Gerusalemme, e la santità della Palestina, colla legge di Mosè erano sparite? che il Dio de’ Cristiani non è una divinità locale: che il possedimento di Betlemme o del Calvario, l’acquisto della tomba, o della culla del Redentore non renderanno mai scusabile agli occhi di lui l’infrazione de’ precetti morali dell’Evangelio? Questi argomenti perderanno sempre ogni forza contra le pesanti armi della superstizione, nè è cosa sì agevole che anime timorate, spontaneamente i loro creduti diritti sulla Terra Sacra de’ misteri e de’ prodigi abbandonino.

III. Ma le guerre sante che hanno insanguinati tutti i climi del globo, dall’Egitto alla Livonia, dal Perù all’Indostan, ebbero d’uopo di cercare la loro legittimità, in massime più generali e più pieghevoli a cotal uopo. Si è soventi volte, e per più riprese, supposto e affermato che la differenza delle dottrine religiose, basta a giustificare qualsivoglia ostilità; che i campioni della Croce possono soggiogar santamente, od anche piamente immolare, tutti gl’increduli ostinati, e che la Grazia è l’unica origine, del potere sulla terra, della felicità nel regno de’ Cieli. Più di quattro secoli innanzi la prima Crociata, i Barbari [p. 284 modifica]dell’Arabia e della Germania, quasi nello stesso tempo, e nel modo medesimo, avevano invase le province orientali e occidentali dell’Impero romano. Il tempo, i negoziati, la conversione de’ Franchi al cristianesimo, le conquiste di questi aveano autenticate; ma i principi maomettani comparivano tuttavia, così agli occhi de’ sudditi, come a quelli de’ vicini, quai tirannici usurpatori, nè scorgeasi alcuna ingiustizia nel privarli, o per via di guerre, o per via di sommosse, di un illegittimo possedimento21.

Col corrompersi de’ costumi de’ Cristiani, più severo divenne il loro codice di penitenza22, e la moltitudine de’ peccati, partorì la moltiplicità dei rimedj. Ne’ tempi della Chiesa primitiva, i peccatori, con una pubblica e volontaria confessione, all’espiazione delle colpe si apparecchiavano. Nel medio evo, i vescovi e i preti, facendosi eglino stessi ad interrogare il colpevole, lo costrigneano a rendere un severo conto de’ suoi pensieri, delle sue parole e delle sue azioni, prescrivendogli indi, sotto quai patti dovea meritarsi la divina misericordia: ma poichè la tirannide e l’indulgenza, aveano un campo per [p. 285 modifica]abusare a vicenda di questo arbitrario potere, venne composta una regola di disciplina, che d’istruzione e di guida ai giudici spirituali servisse. Primi inventori di siffatta legislazione furono i Greci; la Chiesa latina, i lor precetti penitenziali23 tradusse, o imitò: e ne’ giorni di Carlomagno, il clero di ciascuna diocesi aveva un codice, che veniva prudentemente nascosto agli occhi del volgo. In sì dilicata valutazione delle offese e de’ gastighi, l’acume e l’esperienza de’ frati, tutti i casi, e tutte le distinzioni andavano prevedendo. Trovavansi nella lor lista peccati che parea non avesse potuto sospettare la stessa malizia, altri cui la ragione non sapea prestar fede. Le colpe più comuni di fornicazione, di adulterio, di spergiuro e di sacrilegio, di rapina e omicidio, venivano espiate con una penitenza, che, giusta le circostanze, dai quaranta giorni ai sette anni si prolungava. Durante questo corso di salutari mortificazioni, una pratica metodica di preghiere e digiuni ridonava la salute all’anima del peccatore, e l’assoluzione delle sue colpe ottenevagli. Il disordine delle sue vesti ne annunziava i rimorsi e la contrizione; astener doveasi da ogni affare, e sociale diletto. Ma il rigoroso adempimento di tali prescrizioni, avrebbe di leggieri convertiti in deserti i palagi, i campi e le intere città; i Barbari dell’Occidente non mancavano, per dir vero, di fiducia e di docilità al sacerdozio; ma la natura umana contra le mas[p. 286 modifica]sime si ribellava, e spesse volte le magistrature indarno adopravansi a far forte l’ecclesiastica giurisdizione; oltrechè, diveniva cosa impossibile l’eseguire esattamente una gran parte di penitenze. Il peccato di adulterio, per un giornaliero reiterarsi delle fralezze degli uomini, moltiplicavasi, e quello dell’omicidio talvolta comprendea la strage di una intera popolazione; ogni atto peccaminoso producea un conto a parte; onde in quella età di anarchia24 e di corruzione, non era difficile che un peccatore, anche fra i meno colpevoli, contraesse in penitenze un debito di trecent’anni. A questa sua impotenza di pagamento suppliva una commutazione, o indulgenza: ventisei solidi25 d’argento, quattro lire sterline all’incirca, pagavano la penitenza di un anno per l’uomo ricco, tre solidi, o nove scellini, all’indigente egual servigio prestavano. Cotali elemosine ven[p. 287 modifica]nero bentosto adoperate agli usi della Chiesa, che nella remission de’ peccati una sorgente inesausta di ricchezze e di potenza rinvenne26. Un debito di tre secoli (mille dugento lire sterline all’incirca) potea arrecar sommo danno ad uno splendidissimo patrimonio: la mancanza d’oro e d’argento fu ammendata colla alienazione delle terre; e Pipino, e Carlomagno, formalmente protestarono che le immense loro donazioni aveano per iscopo la guarigione delle proprie anime. Ella è massima delle leggi civili, che chiunque non può pagare con danaro, sconti col proprio corpo, onde i Monaci ammisero la pratica della flagellazione, doloroso ma economico supplimento27. Dopo una stima arbitraria, un anno di penitenza fu valutato tremila colpi di disciplina28, e tali erano la robustezza e la pazienza del famoso eremita S. Domenico l’Incuoiato29, che in sei [p. 288 modifica]giorni con una flagellazione di trecentomila battiture, il debito di un secolo intero pagava. Un grande numero di penitenti d’entrambi i sessi, cotesto esempio imitò. E poichè era permesso il trasportare in un altro il merito della sopportata flagellazione, un campion vigoroso potea sulle proprie spalle espiare i peccati di tutti i suoi benefattori30. Sì fatti compensi pecuniarj e personali introdussero, nell’undicesimo secolo, un genere di più onorevole soddisfazione. I predecessori di Urbano II, aveano concedute indulgenze a coloro che, contro i Saracini dell’Affrica e della Spagna, brandivano l’armi; estendendo l’esempio ricevuto da essi, questo Pontefice, nel Concilio di Clermont, compartì indulgenza plenaria a tutti quelli che sotto i vessilli della Croce si arrolerebbero: la quale indulgenza era posta nell’assoluzione di tutti i loro peccati, e nella remission generale di tutto il debito che in penitenze canoniche ai medesimi rimaneva31. La fredda filosofia del [p. 289 modifica]nostro secolo, durerà forse fatica a comprendere la viva impressione, che sopra anime colpevoli e fanatiche questa promessa operò. Alla voce del lor Pastore, i masnadieri, gli omicidi, gli incendiarj a migliaia accorrevano, impazienti di riscattare le proprie anime, col trasportare in mezzo agl’Infedeli il furore onde si erano fatti esecrabili nella lor patria. I peccatori di ogni grado e di ogni specie, questo nuovo metodo di espiazione avidamente abbracciarono. Niuno credeasi a bastanza puro, niuno esente da colpa e dal dovere di far penitenza; e quelli ancora che aveano minor motivo di paventare la giustizia di Dio e della Chiesa, si confortavano nell’idea di acquistare tanto maggiori diritti ad una ricompensa del lor pietoso coraggio, così in questo Mondo, come nell’altro. Il Clero latino non esitò a promettere la corona del martirio32 a chiunque fosse in così santa spedizione soggiaciuto; e chi alla conquista di Terra Santa sopravvivea, poteva aspettarsi con sicurezza un premio, che cogli anni della vita sua accumulavasi in Cielo. Di fatto, tutti questi Crociati offerivano il proprio sangue al figlio di Dio, che immolato erasi per la lor redenzione; prendeano la Croce; entravano con fiducia nella via del Signore; la Providenza di lui dovea vegliare sovr’essi, e forse anche la sua onnipotenza, con modi visibili e miracolosi, toglier di mezzo gli ostacoli che l’impresa [p. 290 modifica]loro impacciassero. La nube e la colonna di Jehova non erano marciate dinanzi agli Israeliti guidandoli fin nella Terra Promessa? a miglior diritto i Cristiani non poteano sperare che i fiumi si aprirebbero per dare ad essi passaggio, che le mura delle più forti città cadrebbero al suono delle loro trombe, che il sole arresterebbe il suo corso, per lasciare a questi campioni il tempo necessario a distruggere gli Infedeli?

Fra i condottieri e i soldati che al Santo Sepolcro affrettavansi, oserei assicurare non essersene trovato un solo che lo spirito di entusiasmo, la fiducia nel merito dell’impresa, la speranza del guiderdone e del patrocinio celeste, non animassero. Ma mi persuado parimente che, per la maggior parte di essi, tali motivi non fossero i soli; e che per alcuni anzi, non formassero il principal fomite di tanto fervore. La preponderanza, o l’abuso, della religione, difficilmente arrestano il torrente de’ costumi dei popoli, bensì quando voglion affrettarne il corso, l’impulso loro non trova più resistenza. I Papi e i Sinodi indarno tuonavano contro le guerre de’ privati, i sanguinosi tornei, gli amori licenziosi, i duelli giudiziarj. Più agevolmente riuscivano ad eccitare disputazioni metafisiche fra i Greci, a trar ne’ chiostri le vittime del dispotismo e dell’anarchia, a santificare la pazienza de’ vili e degli schiavi, o in appresso, a farsi merito dell’umanità e della benevolenza che fra i moderni Cristiani ravvisansi. Gli esercizj della persona, e la guerra, erano le passioni favorite de’ Franchi e de’ Latini; veniva lor comandato di abbandonarsi alle medesime per ispirito di [p. 291 modifica]penitenza, di trasportarsi in lontani paesi, e sguainare le loro spade contra le nazioni dell’Oriente; il buon successo, o solamente l’aver cercato di meritarlo, bastavano a fare immortali i nomi degli eroi della Croce; anche una pietà la più pura da una sì luminosa prospettiva di gloria militare allettata esser poteva. Nelle picciole lor guerre europee, questi campioni versavano il sangue de’ loro amici, o compatriotti, per l’acquisto forse unicamente di un villaggio, o di un castello: quale esser doveva la loro esultanza nel correre ad affrontare stranieri nemici, vittime al ferro lor consacrate! già colla loro immaginazione afferravano le corone ricche dell’Asia; e i trofei riportati dai Normanni nella Puglia, e nella Sicilia, parean mallevadori d’un trono al più oscuro fra i venturieri. Le contrade abitate dai Cristiani in quel secolo di barbarie, e per clima, e per coltivazione al suolo de’ Maomettani cedevano: oltrechè, i vantaggi, di cui natura ed arte largheggiavano all’Asia, erano stati fuor di misura esagerati dallo zelo, o dall’entusiasmo de’ pellegrini, e dalle idee che avea concepita l’Europa in veggendo i frutti di un commercio ancor nell’infanzia; il volgo di tutte le classi bevea con avidità i racconti delle maraviglie, che presentava una contrada innaffiata da fonti di mele, e da ruscelli di latte, abbondante di miniere d’oro e di diamanti, coperta di palagi di marmo e di diaspro, adombrata da boschetti olezzanti di cinnamomo e d’incenso. Ciascun Capo di guerrieri si ripromettea dalla sua spada un ricco ed onorevole possedimento, cui assegnava per solo confine l’ampiezza de’ proprj desiderj in questo paradiso terre[p. 292 modifica]stre33. I vassalli, i soldati poneano la propria fortuna nelle mani di Dio e del loro Signore. Le spoglie di un Emiro turco, bastar doveano ad arricchire l’infimo tra i fantaccini: la squisitezza de’ vini della Grecia, l’avvenenza delle donne di quel paese, nella immaginazione di que’ campioni della Croce, destavano commozioni più conformi alla natura umana, che alla lor professione34. Nel medesimo tempo, l’amore della libertà accendea gli animi di tutti coloro che della tirannide feudale ed ecclesiastica erano vittime. Col divenire Crociati, i borghigiani, e i contadini, soggetti alla servitù della gleba, sottrar si poteano al giogo di un superbo padrone, e trapiantarsi colle loro famiglie in una terra di libertà. Il frate vedeva un modo di sciogliersi dalla rigida disciplina del suo convento; il debitore di sospendere gl’interessi dell’usura e le persecuzioni de’ creditori; gli assassini, e i malfattori d’ogni genere, di sfuggire la punizione de’ loro delitti, e di disfidare impunemente le leggi35.

Potenti e numerosi erano questi motivi; ma dopo [p. 293 modifica]avere calcolata la forza de’ medesimi sopra ciascun individuo particolare, gli è d’uopo aggiugnere ancora la autorità indefinita, e sempre crescente, dell’esempio, e di ciò che chiamasi moda. I primi proseliti, divenuti i più zelanti e i più utili missionarj della Croce, predicavano ai loro amici e compatriotti, l’obbligazione, il merito, la ricompensa della santa impresa, e gli uditori, anche a ciò meno propensi, trovavansi, a mano, a mano, trascinati dal turbine della autorità o della persuasione. Quella gioventù guerriera al menomo rimproccio, o sospetto di viltà di cui si credesse scopo, infiammavasi; tale occasione di poter visitare protetti da un formidabile esercito, il Santo Sepolcro, seducea vecchi ed infermi, donne e fanciulli, che il fervore non le forze lor consultavano: e se taluno eravi che, il dì innanzi, avesse accusati di poco senno i compagni, il dì appresso della follia loro ardentemente partecipava. Quella medesima ignoranza che i vantaggi dell’impresa ingrandiva, ne facea parer minori i pericoli. Per la conquista de’ Turchi, essendo stati una serie d’anni interrotti i pellegrinaggi, gli stessi condottieri non aveano che nozioni imperfette su la lunghezza del cammino e lo stato di forze degl’inimici. Tale era anzi la stupidezza degli uomini del volgo, che alla prima città, alla prima rocca oltre i limiti conosciuti, in cui si scontravano, stavan per chiedere se quella fosse Gerusalemme, la meta del loro viaggio e lo scopo delle intraprese fatiche. Ciò nulla ostante i più prudenti fra i Crociati, non a bastanza sicuri di essere nudriti lungo la via da una pioggia di quaglie o di manna celeste36, [p. 294 modifica]pensarono a provvedersi di que’ preziosi metalli che, per consenso d’ogni paese, sono il simbolo degli agi di nostra vita. Laonde per aver di che sostenere, giusta il loro grado, le spese del viaggio, i Principi diedero in pegno i proprj allodj, ed anche le loro province, i Nobili vendettero terre e castella, i contadini il bestiame e gli strumenti d’agricoltura. Il numero e la fretta de’ venditori, inviliva il prezzo delle proprietà, intanto che i bisogni e l’ampiezza dei compratori faceano salire ad esorbitante valore l’armi e i cavalli. In questo mezzo, quelli che rimasero alle case loro, e possedeano qualche danaro e l’accorgimento necessario a farlo fruttare, nell’epidemia generale arricchirono37. I Sovrani acquistarono a buon patto i dominj de’ lor vassalli, e i compratori ecclesiastici, mettendo a conto di pagamento la promessa di lor preghiere, minor danaro sborsavano38. Alcuni zelanti Crociati, valendosi di un ferro caldo, o di un liquor corrosivo che ne rendesse l’impronta indelebile, stampavano sul proprio corpo la Croce che gli altri di portar sull’abito si contentavano; e fuvvi uno scaltro frate, il quale, dando a credere che un miracolo divino gli avesse impresso il santo marchio sul petto, la venerazione dei popoli e i più ricchi [p. 295 modifica]benefizj della Palestina con questa frode si procacciò39.

[A. D. 1096] Il Concilio di Clermont, come dicemmo, avea posto pel giorno della partenza de’ Crociati il 15 di Agosto; ma costrinse ad anticiparla il numero e la straordinaria impazienza di pezzenti plebei a questa spedizione raccoltisi. Racconterò brevemente e quanto costoro soffersero, e quanto di malvagio operarono, prima d’incominciare il racconto dell’impresa più rilevante e più felice de’ lor condottieri. Al comparire di primavera, oltre sessantamila persone di entrambi i sessi e della feccia del popolo, dai confini della Francia e della Lorena sen vennero, tutti accerchiando il primo missionario della Crociata, e sollecitandolo con grida, e con ogni modo di importunità, perchè presto al Santo Sepolcro li conducesse. Piero, trovatosi Generale, senza averne o il sapere, o l’autorità, guidò, o piuttosto seguì i suoi ardenti proseliti lungo le rive del Reno e del Danubio. Il numero e il bisogno li costrinsero ben tosto a sbandarsi. Gualtieri Senza Sostanze, luogotenente dell’Eremita, e soldato coraggioso, comunque oppresso dall’indigenza, comandava l’antiguardo de’ Crociati. Ci formeremo facilmente un’idea di questo esercito di ciurmaglia osservando che per ogni quindicimila pedoni vi si contavano appena otto uomini a cavallo. Godescallo, altro frate fanatico, le cui prediche aveano arrolati quindici o ventimila contadini de’ villaggi dell’Alemagna, l’esempio e le traccie di Piero eremita d’appresso seguì; e a tutti costoro ancora si [p. 296 modifica]unirono dugentomila mascalzoni, la feccia più ributtante della plebaglia di tutti i paesi, che delle pratiche di pietà, del ladroneccio, dell’ubbriachezza, e d’ogni ribalderia, un orrendo miscuglio faceano. Alcuni Conti o gentiluomini, condottieri di tremila soldati a cavallo, trovarono espediente l’adattarsi alle costoro voglie per partecipar con essi alle prede. Ma i veri comandanti, almeno da questa bruzzaglia riconosciuti per tali (chi crederà oggimai ad un eccesso tal di demenza?) erano un’oca e una capra, che costoro si teneano a capo di tutte le squadre, e alle quali bestie questi spettabili Cristiani attribuivano una ispirazione divina40. Contra gli Ebrei, carnefici di Gesù Cristo, vennero adoperate le prime e men difficili imprese di codeste bande fanatiche, e di quelli che le secondavano. Le ricche e numerose colonie di tal nazione, stanziatesi nelle città mercantili del Reno e della Mosella, ivi sotto la protezione dell’Imperatore e de’ Vescovi, di un libero esercizio del loro culto godeano41. A Verdun, a Treveri, a Ma[p. 297 modifica]gonza, a Spira, a Worms più migliaia di questi infelici furono spogliati e trucidati42, nè dopo la persecuzione di Adriano, altra più sanguinolenta ne aveano sofferta. Ben la fermezza de’ Vescovi salvò alcuni di essi che momentaneamente finsero di abbracciare il Cristianesimo; ma gli Ebrei più ostinati, fanatismo opposero a fanatismo, e sbarrate le proprie case, e lanciandosi entro il fiume, o in mezzo alle fiamme, colle proprie famiglie e co’ proprj tesori la rabbia, o almen l’avarizia, de’ furibondi lor nemici delusero.

[A. D. 1096] Tra i confini dell’Austria e la capitale dell’Impero d’Oriente i Crociati dovettero attraversare, per un intervallo di seicento miglia, i selvaggi deserti della Ungheria e della Bulgaria43. Fertile oggidì, e frastagliato da fiumi è quel suolo; ma in quella età non vi si incontravano che paludi, e quelle vastità di foreste, la cui estensione non conosce più limiti, allorchè l’uomo è schifo di assoggettare alla propria solerzia la terra. Avendo entrambe le nazioni ricevuti i principj del Cristianesimo, gli Ungari obbedivano ad un principe nato fra essi; un luogotenente del greco Imperatore i Bulgari governava. Ma la feroce indole di queste genti, al più lieve pretesto di scontento, [p. 298 modifica]destavasi, nè lievi pretesti i ladronecci de’ Crociati ad essi fornirono. Queste ignoranti popolazioni, presso le quali, come si è veduto, l’agricoltura mal regolata languìa, abbandonavano nella state le lor città, fabbricate di legno e di canne, per portarsi sotto le tende, più consuete abitazioni di popoli pastori e cacciatori. I Pellegrini crociati dopo aver chieste con arroganza alcune vettovaglie di cui mancavano, se ne impadronirono colla forza, voracemente le dissiparono, e dopo il primo contrasto che ebbero, a tutto l’impeto della vendetta e della indignazione si diedero. Ma l’assoluta ignoranza del paese ove trovavansi, e dell’arte della guerra e della disciplina a cadere in tutti gli agguati gli avventurava. Il prefetto di Bulgaria avea truppe regolari sotto i suoi ordini, e allo squillar primo della tromba guerriera, l’ottava, o decima parte degli Ungaresi corse all’armi, e in un corpo formidabile di cavalleria si ordinò; le quali truppe ai pietosi masnadieri tendendo insidie, sovr’essi ottennero una sanguinosa e memorabil vendetta44. Un terzo all’incirca di questa masnada, spogliata di tutto ed ignuda, ebbe a ventura il potersi riparar nella Tracia: Piero l’Eremita fu tra quelli che si salvarono. Il Greco imperatore che rispettava i motivi del viaggio impresosi dai Latini, e desideroso inoltre de’ loro [p. 299 modifica]soccorsi, fece scortar questi avanzi per una strada sicura e facile infino alla sua Capitale, ove li consigliò stessero ad aspettare l’arrivo de’ lor compatriotti. La ricordanza delle commesse irregolarità, e dei danni che ne erano ad essi avvenuti, li tenne in dovere, sin tantochè incoraggiati della liberale accoglienza che a costoro fecero i Greci, la solita cupidigia tornò a dominarli, nè risparmiarono gli stessi benefattori; e giardini e palagi e chiese divennero scopo alle loro devastazioni. Alessio, che per la propria sicurezza incominciò a paventare, tanto fece che li persuase a trasferirsi sulla sponda asiatica del Bosforo; ma spinti da cieco impeto, abbandonarono ben tosto il campo che il Principe greco aveva ad essi additato come il migliore, e senza pensare alle conseguenze, si precipitarono addosso ai Turchi che la via di Gerusalemme tenevano. L’Eremita, vergognandosi di far sì trista comparsa, dal campo de’ Crociati a Costantinopoli si trasferì, e il luogotenente del medesimo Gualtieri, ben degno di comandare a migliori truppe, si adoperò, ma indarno, per introdurre qualche poco di ordine e di disciplina in mezzo a questi selvaggi. Tornati a sbandarsi per avidità di saccheggio, caddero facilmente negli agguati che apparecchiò loro il sultano Solimano. Questi fece spargere destramente la voce, che una parte di Crociati marciata innanzi, della capitale de’ Turchi erasi impadronita. Tutti gli altri corsero allora sullo spianato di Nicea, impazienti di raggiugnere i compagni, e star con essi a parte di preda; ma caduti vittime de’ turchi dardi, cumuli d’ossa annunziarono la sconfitta de’ primi a quelli che vennero dopo45; e già trecentomila Crociati avean [p. 300 modifica]trovato il lor sepolcro nell’Asia, prima che una sola città agl’Infedeli si fosse tolta, prima che i Capi e i Nobili della Cristianità, gli apparecchi della santa impresa avesser compiti46.

La prima Crociata non contò alcun monarca europeo che vi marciasse in persona. L’imperatore Enrico IV avea tutt’altra voglia che di obbedire alle prescrizioni del Papa. Filippo I, re di Francia, pensava a ricrearsi, Guglielmo il Rosso, re d’Inghilterra, a conservare una recente conquista; bastanti brighe offeriva ai re di Spagna la guerra guerreggiata nell’interno del lor paese co’ Mori; i Sovrani settentrionali della Scozia e della Danimarca47, della Svezia e della Polonia, manteneansi tuttavia indifferenti agli interessi e alle passioni de’ popoli del Mezzogiorno. Il fervor religioso si fece con più efficacia sentire ai principi di secondo ordine, che nel sistema feudale una rilevante sede occupavano; e fu una tal circostanza che, come naturalmente, sotto quattro principali condottieri, i Crociati raccolse. Nel dipingere i caratteri di ognuno di questi duci molte inutili ripetizioni [p. 301 modifica]

crociati capi viaggio a costanti-
nopoli
alessio nicea e asia min. edessa antiochia battaglia santa lancia conquista di gerusalemme
I. Gesta Francorum p. 1, 2 p. 2 p. 2, 3 p. 4, 5 p. 5-7 .......... p. 9-15 p. 15-22 p. 18-20 p. 26-29
II. Roberto il Monaco p. 33, 34 p. 35 p. 36, 37 p. 37, 38 p. 39-45 .......... p. 45, 55 p. 56-66 p. 61-62 p. 74-81
III. Baldricus p. 89 .......... p. 91, 93 p. 91-94 p. 94-101 .......... p. 101-111 p. 111-122 p. 116-119 p. 130, 138
IV. Raimondo d'Agiles .......... .......... p. 139, 140 p. 140-141 p. 142 .......... p. 142-149 p. 149-155 p. 151, 152, 156 p. 173-183
V. Alberto d'Aix l. i, c. 7, 31 .......... l. ii, c. 1-8 l. ii c. 9, 19 l. ii, c. 20-43; l. iii, c. 1-4 l. iii, c. 5-32; l. iv, 9, 12; l. v, 15-22 l. iii, c. 33-66; l.iv, 1-26 l. iv, c. 7-56 l. iv, c. 43 l. v, c. 45, 46; l. vi, c. 1-50
VI. Foulcher di Chartres p. 384 .......... p. 385, 396 p. 386 p. 387, 389 p. 389, 390 p. 390-392 p. 392-395 p. 392 p. 396-400
VII. Giberto p. 482, 485 .......... p. 485, 489 p. 485-490 p. 491-493, 498 p. 496, 497 p. 498, 506, 512 p. 512-523 p. 520, 530, 533 p. 523-537
VIII. Guglielmo di Tiro l. i, c. 18, 30 l. i, c. 17 l. ii, c. 1, 4, 13, 17, 22 l. ii, c. 5-23 l. iii, c. 1-12; l. iv. c. 13-25 l. iv, c. 1-6 l. iv, 9-24; l. v, 1-23 l. vi, c. 1-23 l. vi, c. 14 l. vii, c. 1-25; l. viii c. 1-24
IX. Radulphus Cadomensis .......... c. 1, 3, 15 c. 4-7, 17 c. 8-13, 18, 19 c. 14-16, 21-47 .......... c. 48-71 c. 72-91 c. 100, 109 c. 111-138
X. Bernardo Thesaurarius c. 7, 11 .......... c. 11-20 c. 11-20 c. 21-25 c. 26 c. 27-38 c. 39-52 c. 45 c. 54-77
[p. 302 modifica]potrò evitare, osservando che il coraggio e le consuetudini dell’armi, attributi generali erano di tutti i venturieri cristiani.

I. Goffredo di Buglione, e nella guerra, e ne’ consigli, meritò il primo grado, e felici i Crociati se la condotta generale della impresa fosse stata unicamente affidata a questo eroe, degno di rappresentar Carlomagno, da cui per linea femminile scendea. Il padre di lui apparteneva alla nobile schiatta de’ Conti di Bologna marittima. La madre era erede del Brabante, ossia Bassa Lorena48, l’investitura del qual paese, l’Imperatore conferì a Goffredo con titolo di Ducato, applicato poi impropriamente a Buglione nelle Ardenne, patrimonio primitivo dei Signori di Buglione49. Militando sotto Enrico IV e portando egli il grande stendardo dell’Impero, il cuore di Rodolfo il Ribelle, colla lancia sua trapassò. Stato egli il primo a scalar le mura di Roma, una infermità sopraggiuntagli, un voto fatto nel durare della medesima, o fors’anche il rimorso di avere portate l’armi contra il sommo Pontefice, lo confermarono nella risoluzione, più antica in esso, di visitare, non a guisa di pellegrino, ma di liberatore, il Santo Sepolcro. Il valor suo temperavano la pruden[p. 303 modifica]za e la moderazione; e comunque cieca la sua pietà, era però verace, e in mezzo al tumulto de’ campi, tutte le virtù reali ed immaginarie di un cenobita in lui si scorgevano. Superiore alle fazioni che fra gli altri duci spargean la discordia, ai soli nemici di Cristo i suoi sdegni serbava50; e benchè cotale impresa gli fruttasse un regno, non evvi alcuno fra i medesimi suoi rivali che alla purezza del suo zelo, o al suo disinteresse non abbia fatta giustizia. Due fratelli in questa spedizione lo accompagnarono: Eustachio il primogenito, erede della contea di Bologna, e Baldovino il minore, le cui virtù da contrarj sospetti non andarono immuni. Ad entrambe le rive del Reno ripettavasi il Duca di Lorena; e la nascita e l’educazione, le lingue francese e teutonica gli rendeano famigliari egualmente. Allor quando i Baroni di Francia, di Alemagna e di Lorena i lor vassalli assembrarono, l’esercito confederato che militò sotto la bandiera di Goffredo ad ottantamila fantaccini, e a diecimila uomini a cavallo sommò.

II. Fra i principi che si chiarirono campioni della Croce al parlamento tenutosi alla presenza del Re di Francia, circa due mesi dopo il Concilio di Clermont, può riguardarsi come il più illustre, Ugo, conte di Vermandois; ma più che il merito, o i possedimenti comunque sotto entrambi questi riguardi ei meritasse venir distinto, gli ottenne il soprannome di Grande, la [p. 304 modifica]sua qualità di fratello del francese Monarca51. Roberto duca di Normandia, e figlio primogenito di Guglielmo il Conquistatore, per propria indolenza, e per altrettanta solerzia del fratello del medesimo Guglielmo il Rosso, avea perduto, alla morte del padre, il trono dell’Inghilterra. Indole leggiera e animo debole, molt’altre prerogative di Roberto offuscavano. Per umore naturalmente gioviale, abbandonavasi di soverchio ai piaceri: le sue profusioni rovinavano lui come i popoli: per una mal intesa clemenza, incoraggiava i delitti, onde le virtù amabili di un privato, funesti vizj divenivano in un sovrano. Risoluto di partirsi per la Palestina, diede in pegno, per la picciola somma di diecimila marchi, il Ducato di Normandia all’usurpatore dell’Inghilterra52: ma la sua spedizione a Terra Santa, e il contegno da esso tenutosi durante la guerra, tutt’altro uomo in lui dimostrarono, e in qualche modo l’opinione pubblica gli rendettero. – Eravi un altro Roberto, conte di Fiandra, regale [p. 305 modifica]provincia che diede in quel secolo tre regine ai troni di Francia, d’Inghilterra, e di Danimarca. Veniva soprannomato la Lancia o la Spada de’ Cristiani: ma abbandonandosi all’impeto di un soldato, gli obblighi di un generale talvolta dimenticava. – Stefano, conte di Chartres, di Blois e Trojes, uno de’ più ricchi principi del suo secolo, talchè il numero de’ suoi castelli, co’ trecento sessantacinque giorni dell’anno solea confrontarsi; avea, mediante lo studio delle Lettere, la mente sua ingentilita, onde nel consiglio dei duci, l’eloquente Stefano elessero a presidente53. Erano questi i quattro principali Capi che i Franchi, i Normanni e i pellegrini delle isole Britanniche conducevano; ma un registro di tutti i Baroni crociati che tre o quattro città sol possedeano, oltrepasserebbe, dice un autore contemporaneo, il catalogo de’ comandanti della spedizione troiana54.

III. Nel mezzodì della Francia si spartirono fra loro il comando Ademaro, vescovo di Puy, Legato pontificio, e Raimondo conte di San-Gille e di Tolosa, che a questi titoli i più luminosi di Duca di Narbona, e di Marchese di Provenza aggiugnea. Il primo d’essi, rispettabile prelato, le virtù necessarie alla felicità temporale ed eterna in sè stesso accoglieva; il secondo, guerriero veterano, dopo avere già combattuti i Saracini di Spagna, gli ultimi suoi giorni alla libe[p. 306 modifica]razione e alla difesa del Santo Sepolcro fe’ sacri. Perizia del pari e ricchezze, gli acquistarono somma prevalenza nel campo de’ Cristiani che spesso di soccorsi da esso abbisognarono, e qualche volta gli ottennero; ma più agevole cosa riusciva a Raimondo il costringere gli Infedeli ad ammirarne il valore, che serbarsi l’affetto de’ suoi vassalli e de’ suoi compagni d’armi: l’indole di lui arrogante, invidiosa, ostinata oscurava l’altre prerogative dell’animo suo; onde a malgrado di avere egli abbandonato per la causa di Dio un ricco patrimonio, la pietà sua, nell’opinione pubblica, apparve non disgiunta dai sentimenti dell’avarizia e dell’ambizione55. I Provenzali hanno fama di essere più mercatanti assai che guerrieri, e sotto nome di Provenzali56, gli abitanti dell’Alvernia e della Linguadoca57, e i vassalli del regno di Borgogna e di Arles venivan compresi. Raimondo trasse dalle frontiere della Spagna una banda d’intrepidi venturieri, [p. 307 modifica]e passando per la Lombardia, una folla d’Italiani, che sotto le sue bandiere arrolaronsi; onde a centomila combattenti, di fanteria e cavalleria, le forze del medesimo in tutto sommavano. Se Raimondo, primo ad assumere il vessillo della Croce, fu l’ultimo a mettersi in cammino, la grandezza degli apparecchi da esso fatti, e il disegno di dire eterno addio alla sua patria, possono riguardarsi come una scusa legittima di tale tardanza.

IV. Una doppia vittoria, sul greco imperator riportata, avea già fatto celebre il nome di Boemondo, figliuolo di Roberto Guiscardo; ma il testamento paterno al principato di Taranto, e alla sola ricordanza de’ trofei orientali lo avea ridotto, allorchè la fama eccitata dalla santa impresa, e il passaggio de’ Pellegrini franchi il destarono. È meritevole di attenzione il carattere di questo Duca normanno, in cui più che in altri ravviseremo grande ambizione, congiunta a fredda politica, nè però affatto scevra di religioso fanatismo. La condotta da lui tenutasi dà luogo a credere, ch’egli avesse regolati di nascosto i disegni del Sommo Pontefice, e finto in appresso di venirli a saper con sorpresa, e di secondarli con zelo. Nell’assedio di Amalfi, co’ discorsi e coll’esempio, il fervore de’ confederati maggiormente infiammò; si lacerava le vesti per presentar di Croci coloro che al suo esercito si ascrivevano, e già comandava diecimila uomini a cavallo, e ventimila fanti, quando a visitar Costantinopoli e l’Asia s’apparecchiò. Molti Principi normanni seguirono ansiosamente l’antico lor Generale; ma il cugino di esso, Tancredi58, più di suo [p. 308 modifica]compagno che di soggetto ai suoi ordini in questa impresa le parti sostenne. Il carattere di Tancredi, nobile sotto ogni aspetto alle virtù che ad eccellente cavaliere si addicono59, univa quel vero spirito di cavalleria, che inspira al guerriero sentimenti di Buobe- [p. 309 modifica]e di generosità, ben da preferirsi alla spregevole larva di filosofia, ed alla divozione ancor più spregevole di que’ tempi. Nel tempo trascorso fra il secolo di Carlomagno e le Crociate, fatto erasi presso gli Spagnuoli, i Normanni, i Franchi, un cambiamento che per tutta l’Europa rapidamente si dilatò e fu quello di commettere ai soli plebei il servigio dell’infanteria. Divenuta nerbo degli eserciti la sola cavalleria, il nome onorevole di miles fu riserbato ai gentiluomini60 che combatteano a cavallo, dopo essere stati insigniti del carattere di cavaliere. I Duchi e i Conti, dopo essersi arrogati i diritti della sovranità, coi fedeli loro Baroni le province si scompartivano: e i Baroni a lor volta, distribuirono ai proprj vassalli i feudi e i benefizi della giurisdizione da essi goduta. Di questi vassalli militari, riguardati pari l’uno a petto dell’altro, e persino pari al Signore, da cui la primitiva autorità derivava, era composto l’Ordine equestre, ossia l’Ordine de’ Nobili, che avrebbero arrossito di ravvisare nel contadino o nel borghese un ente della loro spezie. Manteneano la dignità de’ natali con una scrupolosa sollecitudine di non contrar parentadi fuori del loro ceto; e i figli de’ medesimi non poteano venire ammessi nell’Ordine de’ cavalieri, se quat[p. 310 modifica]tro quarti, o generazioni immuni da taccia, o rimprovero non provavano. Ciò nullameno un valoroso plebeo poteva arricchirsi, nobilitarsi nell’armi, divenire ceppo d’una nuova prosapia. Un semplice cavaliere avea diritto di istituirne un altro, cui di questo onore militare credesse degno; e i bellicosi monarchi dell’Europa, più di questa distinzion personale che dello splendor del diadema, invanirono. Una tal cerimonia, di cui troviamo le tracce nelle opere di Tacito e nei boschi della Germania61, fu semplice nella sua origine, e dalle idee religiose disgiunta. Dopo alcune prove d’uso, venivano adattati alla gamba del candidato gli speroni, e cintagli la spada, dopo di che ricevea una lieve percossa sulla spalla, o sulla guancia, come per avvertirlo essere questo l’ultimo affronto che ei non potea sopportare senza volerne vendetta; ma la superstizione, ben tosto, in tutti gli atti della vita privata, o pubblica si frammise. Dalle guerre sante consacrata la professione dell’armi, i diritti e i privilegi degli Ordini Sacri del sacerdozio, all’Ordine cavalleresco divenner comuni. Il bagno, e la tonaca bianca di cui vestito era il novizio, una sconvenevole imitazione della rigenerazion battesimale divennero. I ministri della Chiesa benedivano la spada, che sull’altare, il cavaliere nuovamente creato posava. Preghiere e digiuni precedevano la cerimonia, e armato era cavaliere a nome di Dio, di S. Giorgio e dell’Arcangelo S. Michele. Ei profferiva il voto di adempire i doveri della sua professione; della qual promessa l’educazione, l’esempio, l’opi[p. 311 modifica]nion pubblica si facevano mallevadori. Come campione di Dio e delle donne (arrossisco nel collegare insieme queste due idee così disparate) egli obbligavasi a non mai tradire la verità, a mantenere la giustizia, a proteggere gli infelici, ad usare la cortesia, (virtù agli antichi men famigliare) a combattere gli Infedeli, a sprezzare le lusinghe di una vita molle e pacifica, a difendere, in tutte le occasioni pericolose, l’onore della cavalleria, l’abuso della quale, il disprezzo dell’arti, della pace e dell’industria ben tosto fra i cavalieri introdusse. Riguardatisi questi, come i soli giudici, e vendicatori competenti delle proprie ingiurie, le leggi della società civile e della militar disciplina rifiutarono parimente; ciò non ostante sonosi provati spesse volte, e ravvisati con molta evidenza, i felici effetti che una tale istituzione operò, nell’ammansare l’indole feroce de’ barbari, e nell’inspirare ai medesimi i principj della buona fede, dell’umanità e della giustizia. Dileguatesi a poco le ingiuste nimistà prodotte da differenza di patria, la fraternità d’armi, o di religione, introdusse uniformità di massime, e gara di virtù fra i Cristiani. I guerrieri di ogni nazione aveano ad ogni istante motivi di assembrarsi, per pellegrinaggi al di fuori, per imprese, o esercizj militari nelle interne parti d’Europa; e un giudice imparziale, ai Giuochi olimpici, tanto nell’Antichità rinomati62, i tornei de’ Goti cer[p. 312 modifica]tamente preferirà. Negli spettacoli del primo genere che corrompeano i costumi de’ Greci anzichè no, la modestia bandiva necessariamente dallo stadio le vergini e le matrone; ne’ secondi in vece, nobili ed avvenenti donne accresceano co’ vezzi di lor presenza la pomposa decorazione della lizza, e il vincitore ricevea il premio dell’agilità e del coraggio dalle lor mani medesime. La forza e la destrezza che nella lotta e nel pugillato voleansi, hanno corrispondenze sol lontane ed incerte, co’ pregi ad un soldato essenziali: ma i tornei, siccome inventati vennero in Francia, e nell’Oriente e nell’Occidente imitati, una vera immagine delle militari fazioni presentano. I particolari certami, le generali scaramucce, le difese di un passo o di un castello, nel modo medesimo che alla guerra vi si eseguivano, e in entrambe le circostanze dall’abilità del guerriero nel regolare il suo corridore, e nell’adoperare la sua lancia, i buoni successi pendeano. Quasi sempre della lancia il cavaliere valeasi. E nel momento del maggior pericolo, cavalcava un grande ed impetuoso corridore, che nel tempo rimanente della giostra veniva condotto a mano; ed intanto un palafreno, avvezzo a più mite andatura, il suo ufizio al combattente prestava. Superflua cosa or sarebbe il descrivere la foggia degli elmi, delle spade, de’ cosciali, degli scudi, e mi basterà a tal proposito annotare che invece di pesanti corazze, i giacchi, o saj da guerra, il petto de’ combattenti coprirono. Dopo aver messa in resta la lunga lancia, e spronato violentemente il suo cavallo di battaglia, il cavaliere faceva impeto sull’avversario, impeto tanto forte ed immediato, che rade volte la cavalleria de’ Turchi e degli Arabi il potea sostenere. Ciascun cavaliere veniva nel campo [p. 313 modifica]di battaglia accompagnato dal suo fedele scudiero, giovine, per lo più, eguale di nascita al proprio Capo, e che faceva a canto di lui il noviziato della milizia. I suoi arcieri ed armigeri gli venivano dopo, nè men di quattro o cinque soldati erano necessarj a formare una lancia compiuta. I patti del servigio feudale, alle spedizioni straniere, o di Terra Santa, non obbligavano. In tali guerre, l’opera de’ cavalieri e del lor seguito ottenevasi unicamente dal loro zelo e dalla loro affezione alla causa che doveasi difendere, ovvero per via di ricompense e promesse. Il numero de’ combattenti era proporzionato alla possanza, alle ricchezze, alla celebrità di ciascuno de’ Capi independenti, i quali gli uni degli altri si discerneano allo stendardo, alle imprese, al grido di guerra; onde le più antiche famiglie d’Europa, fra questi segnali, l’origine e le prove della vetusta loro nobiltà van rintracciando. Questa compendiosa descrizione della cavalleria mi ha fatto portare indugio alla storia delle Crociate che di una tale istituzione furono effetti e cagioni ad un tempo63.

[A. D. 1097] Tali furono le milizie, e tali i duci che assunsero l’impresa della Croce per correre a liberare il Santo Sepolcro. Era già partita la flotta de’ vagabondi, descritti dianzi, allorchè quelli mutuamente s’incoraggiarono, per via di lettere e parlamenti, ad adempiere i giurati voti, e ad affrettar la partenza. Le mo[p. 314 modifica]gli, le sorelle di questi campioni entrar vollero a parte del merito e de’ rischi del santo pellegrinaggio. Tutte le preziose suppellettili in verghe d’oro e d’argento vennero convertite; i principi e baroni si condussero dietro e cani, e falchi, per non perdere lungo la strada il piacere della caccia, e per essere certi di tener provvedute le proprie mense. La difficoltà di procurar nudrimento a sì grande numero d’uomini e di cavalli, a separare le loro forze costrinsegli; l’elezione loro, o le circostanze di sito, additarono il compartimento delle strade, e rimasero d’accordo di convenir tutti nelle vicinanze di Costantinopoli, e colà incominciar tosto le fazioni belliche contra i Turchi. Dalle rive della Mosella, Goffredo di Buglione attraversò in linea retta l’Alemagna, l’Ungheria, e il paese de’ Bulgari, e sintantochè egli comandò solo, il suo esercito non fece passo, che non comprovasse la prudenza e le virtù del condottiero. Ai confini dell’Ungheria, lo arrestò per tre settimane, una popolazione di Cristiani, che il nome della Croce, o piuttosto, nè in ciò avean torto, l’abuso che di cotal nome erasi fatto, abborrivano. Recenti essendo le ingiurie che dai primi pellegrini ricevettero gli Ungaresi, questi che a lor volta oltre ogni confine spinta avevano la vendetta, temeano a ragione un eroe da sdegno di patria congiunto co’ loro offensori, e con essi ad un’impresa medesima accinto; ma dopo l’esame de’ motivi e degli avvenimenti, il virtuoso Goffredo, limitandosi a deplorare i delitti e le sciagure de’ suoi indegni compatriotti, dodici deputati, quai messaggeri di pace inviò, onde a nome di esso, domandassero libero il passaggio, e a moderato prezzo le vettovaglie. Che anzi per togliere ogni argomento d’inquietezza, o sospetto a queste genti, Goffredo [p. 315 modifica]diede in ostaggio sè, indi il proprio fratello a Carlomanno, principe di Bulgaria, che con modi semplici, ma amichevoli, co’ medesimi usò. Sul Vangelo, in cui gli uni e gli altri credevano, giurarono scambievolmente di mantenere i patti, intantochè un bando, che pronunziava contra chi il violasse la morte, e la licenza e l’audacia de’ latini soldati frenò. Dall’Austria fino a Belgrado, senza commettere, o ricevere la menoma ingiuria, attraversarono le pianure dell’Ungheria, e la presenza di Carlomanno, che con numerosa cavalleria a fianco di questi armati veniva, alla sicurezza loro in uno, e a quella de’ suoi Stati giovò. Così pervennero i Crociati sino alle sponde della Sava, il qual fiume varcato, Carlomanno gli ostaggi restituì, e gli accompagnò nel separarsi da essi con sinceri voti pel buon esito della loro spedizione. Nel modo medesimo, e serbando egual disciplina, Goffredo trascorse le foreste della Bulgaria, e i confini della Tracia, potendo congratularsi con sè medesimo di essere quasi aggiunto al termine del suo pellegrinaggio senza l’uopo di sguainare contra un Cristiano la spada. Intanto Raimondo, co’ suoi Provenzali, dopo aver seguìte da Torino ad Aquilea le strade dilettevoli e facili della Lombardia, camminò quaranta giorni per le inospite contrade della Dalmazia64 e della Schiavonia, ove ai disgusti che offeriva un paese sterile e montagnoso, quelli di un cielo sempre annuvolato si aggiunsero. Gli abitanti [p. 316 modifica]davansi alla fuga, o quai nemici si dimostravano; poco frenati dalla lor religione, o dal lor governo, ricusavano viveri e scorte a que’ passaggieri, e se scontravansi in soldati sbandati gli uccideano; talchè, nè giorno, nè notte, ebbe pausa la vigilanza del Conte, il quale più profitto ritrasse dal far giustiziare alcuni di cotesti ospiti scorridori, che da un parlamento e da un negoziato convenuto col Principe di Scodra65. Innoltre nel suo cammino fra Durazzo e Costantinopoli, lo tribolarono, senza però arrestarne il viaggio, i soldati e i contadini del greco Imperatore; i quali, con alcune equivoche ostilità, s’accigneano parimente a turbare il passaggio degli altri Capi che sulla costa d’Italia per valicare l’Adriatico mare imbarcavansi. Boemondo, ben provveduto d’armi e di navi, era di più previdente, sollecito di mantenere la militar disciplina, nè le province dell’Epiro e della Tessaglia doveano per anche aver dimenticato il nome di questo guerriero; onde il suo saper militare e il valore di Tancredi tutti gli ostacoli superavano. Benchè il Principe normanno molto riguardo inverso i Greci ostentasse, permise il saccheggio del castello d’un eretico a’ suoi soldati66. I nobili [p. 317 modifica]Franchi affrettarono il lor cammino con quell’ardore cieco e presuntuoso che alla nazion loro viene sì spesso rimproverato. Dall’alpi fino alla Puglia, la corsa di Ugo il Grande, de’ due Roberti e di Stefano di Chartres, per mezzo ad un florido paese, e fra le acclamazioni de’ Cattolici, ad una processione trionfale paragonar si potea. Baciarono i piedi del Pontefice Romano, dalle cui mani il fratello del Re di Francia ricevè lo stendardo dorato del Principe degli Appostoli67; ma per questa visita di divozione e diporto trascurarono di calcolar le stagioni e di procacciarsi quanto era necessario all’imbarco. Perduto inutilmente il verno, i soldati Franchi dispersi per le città dell’Italia corruppersi. Per più riprese si veleggiò senza avere la debita cura alla sicurezza della flotta, e alla dignità de’ condottieri. Nove mesi dopo la festa dell’Assunzione, assegnata dal Papa qual giorno della partenza, tutti i Principi latini ne’ dintorni di Bisanzo convennero; ma il Conte di Vermandois vi comparve in forma di prigioniero, perchè la tempesta avendo separate le prime navi della sua flotta, i luogotenenti di Alessio, tutte le leggi delle nazioni infrangendo, [p. 318 modifica]della persona del principe francese si erano impadroniti. Intanto ventiquattro cavalieri in armadura d’oro splendenti, aveano annunziato l’arrivo di Ugo, e intimato all’Imperatore di rispettare il Generale dei cristiani latini, e il fratello del Re dei Re68.

[A. D. 1096-1097] Ho letta in una novelletta orientale, la favola di un pastore, che per avere appunto veduto pago un suo voto, ogni cosa perdè. Questo meschino chiedeva acqua, e il Gange, innondandogli il podere, la mandria e la capanna del supplicante, seco si trascinò. Una sorte non molto diversa, sovrastò ad Alessio Comneno, che non per la prima volta in questa Storia è nominato, e la condotta del quale viene in così diverso modo dipinta da Anna Comnena, figlia del medesimo69, e dagli scrittori latini70. [p. 319 modifica]Gli Ambasciatori di questo Sovrano, nel Concilio di Piacenza, aveano pregato per ottenere un mediocre sussidio, forse non maggiore di diecimila uomini; ma all’arrivo di tanti poderosi Capi, e di tante nazioni fanatiche in armi, atterrito rimase. Fra la speranza e il timore, fra il coraggio e la pusillanimità, l’Imperatore ondeggiava; pure non giungerò mai a persuadermi, nè veggo alcuna ragione di credere, che nella sua tortuosa politica, da lui ravvisata siccome prudenza, egli abbia mai cospirato contro la vita, o l’onore de’ Francesi. Le bande, condotte da Piero Eremita, un miscuglio di selvagge fiere, anzi che d’uomini ragionevoli, presentavano, onde Alessio non potè nè prevenirne, nè deplorarne la perdita. Le truppe comandate da Goffredo, e dai compagni di esso, meritevoli di maggior rispetto, non di maggior fiducia, sembrarongli. Comunque pietosi e puri riguardar si potessero i fini che li guidavano, l’Imperator greco paventava del pari l’ambizione conosciuta di Boemondo, e la mal cognita indole degli altri Capi. Cieco ed impetuoso era il coraggio de’ Franchi; le ricchezze della Grecia potevan sedurli; fiancheggiati da eserciti numerosi, il convincimento delle lor forze, trarli in maggiore orgoglio, e incoraggiarne la cupidigia; in somma, non sarebbe stato strano che per Costantinopoli, Gerusalemme avessero dimenticata. Dopo un lungo cammino e una penosa astinenza, le soldatesche di [p. 320 modifica]Goffredo nelle pianure della Tracia accamparono, ove intesero la cattività del Conte di Vermandois, colla massima indignazione; indignazione cui lo stesso Generale non potè impedire qualche sfogo di rappresaglie e rapine. Ma gli ammansò la sommessione di Alessio, che promise vettovagliare il lor campo; e poichè i soldati negavano tragittare il Bosforo fra i rigori del verno, vennero assegnate stanze ai medesimi per mezzo ai giardini e ai palagi, che questo braccio di mare coprivano. Intanto durava sempre un germe inestinguibile di nimistà fra le due nazioni, che i predicati di schiavi e di barbari, mutuamente si compartivano. Della ignoranza è figlio il sospetto; dal sospetto alle provocazioni giornaliere, è breve il tragitto; le preoccupazioni dell’animo sono cieche; la fame non ascolta ragioni. Venne apposta ad Alessio l’accusa di aver divisato affamare i Latini, in un posto pericoloso, cinto per ogni lato dall’acque71. Goffredo ordinò si sonasse a raccolta, forzò una trincea, coperse col suo esercito la pianura, ai sobborghi di Costantinopoli fece oltraggio; ma sì agevole cosa non era il rompere le porte della città, o dar la scalata a baluardi, guerniti di soldatesche. Dopo una pugna d’esito incerto, le voci della pace e della ragione, entrambe le parti ascoltarono. I do[p. 321 modifica]nativi e le promesse del Principe greco, a mano, a mano i violenti animi degli Occidentali ammollirono, e, guerriero cristiano egli pure, Alessio studiossi rianimare l’ardore per la santa impresa, promettendo le sue milizie e i suoi tesori per secondarla. Giunta la primavera, condiscese Goffredo ad occupare un adatto e ben provveduto campo nell’Asia, e varcato ch’egli ebbe il Bosforo, i legni greci alla riva opposta tornarono; greca politica che fu successivamente adoperata cogli altri Capi venuti da poi, i quali assicurati dall’esempio de’ loro predecessori, e stremati dalle fatiche del viaggio, usarono egual compiacenza ad Alessio, che con accorgimento e solerzia, evitò sempre l’unione di due eserciti sotto le mura di Costantinopoli; onde dopo la festa della Pentecoste, un sol Crociato sulla riva d’Europa non rimaneva.

Certamente questi eserciti cotanto formidabili, avrebbero potuto liberar l’Asia, e rispingere i Turchi dalle vicinanze del Bosforo e dell’Ellesponto; recentissima viveva ancora la rimembranza delle fertili province che da Nicea ad Antiochia, erano state tolte al Principe greco, il quale in sè trasfusi sentiva gli antichi diritti, che il romano Impero sulla Siria e sull’Egitto avea conquistati. Compreso da questo entusiasmo Alessio si abbandonò, o finse abbandonarsi all’ambiziosa speranza di vedere rovesciati i troni dell’Asia, dai suoi novelli confederati; ma dopo alcune meditazioni, la ragione in parte, in parte la sua indole al sospettare propensa, il distolsero dal confidare la sicurezza della sua persona nelle mani di Barbari sconosciuti, o che freno di disciplina non rispettavano. Si limitò quindi ad esi[p. 322 modifica]gere, fosse per prudenza o per orgoglio, dai pellegrini Franchi un vano omaggio, o giuramento di fedeltà, e la promessa di restituirgli quanto nell’Asia conquisterebbero, oppure di protestarsi, in ciò che a tali possedimenti spettavasi, umili e fedeli vassalli del greco Impero. L’alterezza de’ Crociati si mostrò sulle prime irritata dalla proposta di una volontaria servitù; ma ai seducenti artifizj dell’adulazione e della liberalità a grado a grado cedettero, e quei primi che ad umiliazione soggiacquero ad insinuarla ai proprj compagni cooperarono. L’orgoglio di Ugo di Vermandois, fu men forte nell’animo suo degli onori che durante la cattività ricevette, e l’esempio d’un fratello del re di Francia, tutti gli altri a sommessione eccitò. Quanto a Goffredo, tutte le considerazioni semplicemente umane, a quella che ei credeva gloria divina, e al buon successo dell’armi sue posponeva, laonde costantemente respinse le sollecitazioni di Raimondo e di Boemondo, che con ardore gli consigliavano il tentare la conquista di Costantinopoli. Da siffatta virtù il greco Imperatore commosso, nominò, e giustamente, Goffredo il campion dell’Impero, e nobilitonne il titolo di vassallo coll’altro di figlio adottivo, che con tutte le solenni cerimonie gli conferì72. Boemondo contro cui da prima tutto l’odio di Alessio si rivolgea, venne accolto come un antico e fedele confederato da questo Principe, [p. 323 modifica]il quale, se gli ricordò le antiche ostilità, il fece soltanto per encomiare il valore e la gloria, che nelle pianure di Durazzo e di Larissa, questo figlio di Guiscardo si procacciò. Venne quindi Boemondo alloggiato, mantenuto e servito con reale magnificenza; ma un dì, mentre questi attraversava una loggia del palagio, una porta, come a caso rimastane aperta, gli lasciò vedere un cumulo d’oro e d’argento, di suppellettili e arredi preziosi, ammucchiati con apparente disordine e d’un’altezza, che tenea lo spazio frapposto tra il pavimento e la soffitta. „Quai conquiste, meditò fra sè stesso l’avaro ambizioso, potrebbero farsi col soccorso di questo tesoro! — È vostro, si affrettò a dire un Greco che gli leggea negli occhi, i sentimenti dell’animo:„ Boemondo, dopo avere titubato un istante, si degnò accettare un così magnifico donativo; e gli si fece inoltre sperare un principato independente: ma Alessio senza profferire un assoluto rifiuto, evitò di rispondere all’inchiesta audace, fattasi dal Normanno per divenire Gran Domestico, ossia Generale dell’Oriente. Anche i due Roberti, uno figlio del re d’Inghilterra, l’altro parente di tre Regine, inchinarono a lor volta il trono d’Alessio73. Una lettera di Stefano di Chartres attesta i sentimenti d’ammirazione, che questo Principe studiavasi di manifestare all’Imperator greco, da lui chiamato il migliore e il più liberale degli uomini; e si persuadeva esserne il favorito, tanto più per la promessa ottenutane, di vedere innalzato, e presentato di possedi[p. 324 modifica]menti, il più giovine de’ proprj figli. Il Conte di S. Gille e di Tolosa, che nella sua provincia meridionale, quasi straniero di lingua e nazione al re di Francia, di questo riconosceva appena la supremazia, annunziò superbamente alla presenza de’ suoi centomila uomini, di non voler essere che servitore e soldato di Cristo, e che il Principe greco potea ben contentarsi d’un negoziato di amicizia e di lega, come fra Principi eguali si usa; colla quale ostinata resistenza rendè maggiore, agli occhi almeno de’ Greci, il merito della sommessione, a cui in appresso si uniformò. „Ei splendea fra i Barbari„, dice la principessa Comnena, „come il Sole fra le stelle del Firmamento„. L’Imperatore si disacerbò col suo fedele Raimondo, narrandogli l’avversione che nel suo animo aveano destata, la fama e l’audacia dei guerrieri francesi, e i sospetti che sui disegni di Boemondo avea concepiti. Istrutto per lunga esperienza ne’ politici accorgimenti, il conte di Tolosa non durò fatica ad accorgersi, che menzognera esser potea l’amicizia di Alessio, ma che costui nell’odiare almeno era sincero74. Lo spirito di cavalleria nella persona di Tancredi, fu l’ultimo a cedere, nè eravi chi potesse arrossire nel seguir gli esempj d’un cavaliere sì valoroso. Sdegnati parimente l’oro e gli encomj del Principe greco, castigò alla presenza di lui la tracotanza di un patrizio; indi sotto le spoglie di semplice soldato fuggì nell’Asia, cedendo, comunque il sagrifizio fosse penoso al suo orgoglio, alla autorità di Boemondo e all’interesse della causa [p. 325 modifica]comune. La ragion migliore e più concludente di tanta sommessione de’ Crociati, si era che non poteano attraversare lo stretto, nè compiere quindi il lor voto senza la permissione e le navi di Alessio. Ma in segreto speravano che giunti sul continente dell’Asia, i loro acciari cancellerebbero tanta vergogna, e romperebbero una obbligazione, della quale potea sperarsi che lo stesso Principe di Bisanzo, non avrebbe troppo religiosamente serbati i patti. Intanto la formalità del prestato omaggio fe’ prestigio agli occhi di un popolo, presso il quale da lungo tempo tenea vece di possanza l’orgoglio. Sedutosi sull’alto suo trono l’Imperatore, rimase muto ed immobile intanto che i Principi latini lo adoravano, e si sottomettevano a baciargli i piedi o le ginocchia. Gli stessi storici de’ Crociati, vergognando di confessare tanta viltà, non ardiscono però di negarla75.

L’interesse pubblico, o particolare, rattenea i Duchi e i Conti da clamorose querele; ma fuvvi un Barone francese, Roberto di Parigi, a quanto viene supposto76, il quale ardì salire sul trono, e mettersi a [p. 326 modifica]fianco di Alessio. Sul quale atto avendolo prudentemente rimproverato Baldovino, costui si fece con impeto a rispondere nel suo barbaro idioma: „chi è egli finalmente questo screanzato che si prende la libertà di star seduto sul proprio scanno, mentre tanti valorosi capitani rimangono in piedi dintorno a lui?„ Tacque l’Imperatore, e dissimulò la sua indignazione, chiedendo soltanto all’interprete la spiegazione di que’ detti di Roberto, benchè ai gesti e al contegno, onde furono pronunziati, avesse potuto indovinarli egli stesso. Prima che i Crociati partissero, Alessio mostrò curiosità di sapere chi fosse questo ardimentoso Barone. Egli medesimo gliel rispose: „Io sono Franco, e vanto nobiltà purissima, antichissima del mio paese. Posso dirvi che nelle mie vicinanze è posto un oratorio77, ove si trasferiscono quelli che bramano provare in particolar combattimento il proprio valore; colà volgono le lor preci a Dio e ai Santi suoi, sintanto che vedano [p. 327 modifica]comparire un nemico. Ci sono stato più d’una volta, e non ho per anche ritrovato un avversario che ardisca accettare una mia disfida„. Alessio congedò questo prode, dandogli alcuni saggi consigli sulla condotta da tenersi nel far la guerra co’ Turchi; e gli storici francesi narrarono con compiacenza un tal singolare esempio de’ costumi del loro secolo e del lor paese.

[A. D. 1097] Alessandro intraprese e ridusse a termine la conquista dell’Asia con trentacinquemila Greci o Macedoni78, fondando soprattutto la propria fiducia sul valore e sulla disciplina della sua falange d’infanteria. Il precipuo nerbo de’ Crociati si stava nella loro cavalleria, onde allor quando negli spianati di Bitinia, vennero passati in rassegna, i cavalieri e i sergenti a cavallo di seguito, sommavano a centomila combattenti compiutamente armati d’elmo e di giaco. Una tal sorte di soldati ben meritava ne fosse fatta una enumerazione scrupolosa ed autentica; nè per vero è cosa da maravigliarne che in un primo sforzo il fiore della cavalleria di tutta l’Europa abbia potuto somministrare questa formidabile unione di armati a cavallo. Avvi luogo a credere che i fanti venissero serbati alle fazioni degli arcieri, de’ guastatori, degli esploratori. Ma il disordinamento che fra coteste turbe regnava, non permise alcuna certa congettura sul numero di coloro che le formavano, nè a determinarlo abbiamo altra guida che l’opinione, o la fantasia di [p. 328 modifica]un cappellano del conte Baldovino79, la cui testimonianza nè sopra un esame oculare, nè sopra avverate nozioni si fonda: ei conta seicentomila pellegrini atti a portar l’armi, non comprendendo fra questi i preti, i frati, le donne, e i fanciulli che il campo de’ Latini seguivano. Senza dubbio griderà all’esagerazione il lettore; ma prima che egli si riabbia dalla sua sorpresa, stimo opportuno l’aggiugnere, seguendo sempre la medesima autorità, che, se tutti coloro i quali ricevettero la divisa della Croce, il proprio voto avessero adempiuto, più di sei milioni d’Europei per la spedizione d’Asia sarebber partiti. Sopraffatto io medesimo da quanto il narratore dianzi citato mi vorrebbe far credere, trovo qualche conforto dal parere profferito a tale proposito da uno Storico più giudizioso e assennato80, il quale convenendo in quella parte di calcolo che si riferisce alla cavalleria, quanto al rimanente taccia di credula dabbenaggine il prete di Chartres, dubitando per fino se le contrade cisalpine (così dee chiamarle un Francese) possano somministrar uomini che a sì sterminate migrazioni col loro numero corrispondano. Lo storico scettico, più tranquillo ancora nelle sue meditazioni, rammenterà che [p. 329 modifica]molta mano di questi pietosi volontarj, nè anco videro Nicea, o Costantinopoli. Capriccioso e di breve durata è il predominio dell’entusiasmo: laonde una parte di que’ pellegrini, la ponderazione, o la paura, la debolezza o la indigenza rattennero: altri tornarono addietro spaventati dagli ostacoli del cammino, tanto meno superabili, che que’ fanatici ignoranti non gli aveano preveduti. Le ossa di una gran parte di costoro copersero i paesi inospiti dell’Ungheria e della Bulgaria. Il loro antiguardo dal Sultano de’ Turchi fu fatto in pezzi; e già la perdita della prima spedizione è stata calcolata di trecentomila uomini uccisi, o morti di stento, e per l’influenza del clima. Ciò nullameno ne rimaneva ancora, e giugnevano di continuo truppe sì numerose, che lo stupor de’ Greci parimente eccitarono. La faconda energia della greca lingua sembra non bastare allo studio postosi dalla principessa Comnena nell’amplificare il numero di queste genti81. „Tutti gli sciami delle locuste, tutte le foglie e tutti i fiori della terra, le arene del mare, e le stelle del cielo„ non sono che imperfette immagini di quanto ella ha veduto o inteso dire. Talchè finalmente esclama che „l’Europa smossa dalle sue fondamenta è precipitata contro dell’Asia„. Regna tuttavia la stessa incertezza sul numero a cui gli antichi eserciti di [p. 330 modifica]Dario e di Serse sommavano; nondimeno propendo a credere che fino allora, entro il recinto di un solo campo, non si fossero mai trovate raccolte tante soldatesche, quante se ne adunarono all’assedio di Nicea, prima azione campale de’ Principi latini. Sono or noti i motivi che li spinsero, l’indole loro, il genere d’armi che da questi si adoperava. La più grossa parte di loro truppe andava composta di Franchi: poderosi rinforzi aveano ricevuti dalla Puglia e dalle rive del Reno: bande di venturieri dalla Spagna, dalla Lombardia e dall’Inghilterra82 erano accorse: oltre ad alcuni selvaggi fanatici, pressochè ignudi, feroci nelle case loro, nell’esterne guerre paurosi, che dalle montagne della Scozia e dalle paludi dell’Irlanda sbucarono83. Se la superstizione non avesse riguardata come sacrilega un’antiveggenza per cui sarebbero stati privi [p. 331 modifica]del merito del pellegrinaggio i deboli e gl’indigenti, la folla di coloro che consumavano le vettovaglie senza guadagnarsele col proprio valore, avrebbe potuto fermarsi negli Stati del greco Imperatore, sintantochè i lor compagni più atti a tale spedizione, le avessero aperto e assicurato il cammino del Santo Sepolcro. Ma venne permesso di affrettarsi a visitarlo, chè non era ancora liberato, a quante ciurme, o valorose, o non valorose passarono il Bosforo. Avvezze ai climi settentrionali, le esalazioni e i cocenti raggi del sole, ne’ deserti della Sorìa non poterono sopportare. Con insensata prodigalità consumarono gli adunamenti d’acque e di viveri; per la copia loro le interne parti del paese estenuavano affatto; già lontano avevano il mare, e i Greci mal contenti de’ Cristiani di tutte le Sette, dal ladroneccio e dalla voracità de’ latini confratelli lungi fuggivano. Pervenuti a sì orribile necessità, la fame per fin li costrinse a cibarsi delle carni de’ lor prigionieri, e adulti, e fanciulli; con che procacciatisi il nome e la riputazione di cannibali, si accrebbe ne’ Saracini l’orrore che contra gli europei idolatri nudrivano84. A certi esploratori introdottisi nella cucina di Boemondo vennero mostrati alcuni corpi umani posti allo spiedo, e i Normanni credettero atto accorto l’accreditare una vociferazione che, se maggior terrore incutea negli Infedeli, il loro odio parimente contra i Cristiani aumentava85. [p. 332 modifica]

[A. D. 1097] Volentieri io mi son diffuso nel narrare i primi atti de’ Crociati, che dipingono parimente i costumi e l’indole degli Europei di que’ giorni. Ma restringerò il molesto e uniforme racconto di tante oscure imprese che la forza eseguì, e l’ignoranza descrisse. Dal loro primo campo situato ne’ dintorni di Nicomedia, innoltratisi per più riprese, e uscendo fuori degli angusti limiti del greco Impero, si apersero per mezzo alle montagne una strada, e la pietosa lor guerra contra il Sultano de’ Turchi incominciarono, assediandone la capitale. Dall’Ellesponto sino alle frontiere della Sorìa, gli Stati di Rum, reame del ridetto Principe, si estendevano, vietando così ai pellegrini la strada di Gerusalemme. Ivi regnava Kilidge-Arslan, o Solimano86, come dicemmo, uscito della schiatta di Selgiuk, e figlio del primo conquistatore. Nel difendere un paese, che i Turchi riguardavano come loro legittima proprietà, Solimano meritò gli encomj de’ suoi nemici medesimi, che soli ai posteri lo hanno dato a conoscere. [p. 333 modifica]Cedendo al primo impeto di quel torrente, la sua famiglia, i tesori entro Nicea pose in salvo, ritirandosi nelle montagne, ove cinquantamila uomini a cavallo il seguirono; e due volte ne scese per affrontar gli assedianti, il campo de’ quali offeriva un cerchio imperfetto di sei miglia all’incirca. Alte e saldissime mura, fiancheggiate da trecentosettanta torri, e da profonda fossa difese, la città di Nicea circondavano; e le facea presidio il fiore de’ Musulmani che guardavano i confini, per cui gli Stati turchi dalla Cristianità eran disgiunti; gente valorosa, ben addestrata alla guerra, e del culto suo zelantissima. Innanzi alla indicata città i Principi Franchi accamparonsi; ma le loro fazioni, nè si comunicavano scambievolmente, nè ad una massima generale sottomettevano. L’emulazione animava il valor de’ medesimi; poi questo valore contaminavano le crudeltà, e l’emulazione tralignava in invidia e in discordie. I Latini adoperarono, all’assedio di Nicea, tutte le macchine da guerra dall’Antichità conosciute. Mine, arieti, testuggini, torri sulle ruote, (belfredi), baliste, fuochi artifiziali, catapulte, fionde, e balestre che pietre e dardi lanciavano87. Durante cinque settimane di fatiche e di pugne, molto sangue fu sparso; e gli assedianti, sopra tutti il conte Raimondo, fecero alcuni progressi; ma i Turchi durar potevano nel resistere e assicurarsi la ritirata, fintantochè domi[p. 334 modifica]navano il lago Ascanio88, che al ponente di Nicea per parecchie miglia si estende. La prudenza e l’industria di Alessio, un tale ostacolo superarono; sua mercè, vennero trasportati dal mare in sul lago, molti battelli carichi di abili arcieri, che alla fuga della Sultana si opposero. Già Nicea era stretta da tutte le bande, quando un messo dell’Imperator greco, avvertì gli abitanti di sottrarsi, finchè ne erano in tempo, al furore de’ Selvaggi d’Europa, accettando la protezione del suo Signore. Laonde nel momento della vittoria, o certamente allorchè vi era ogni ragion di sperarla, i Crociati, avidi di sangue e di strage, furono costretti fermarsi alla vista dello stendardo imperiale, che sventolava sulle mura della rocca; ed una sì importante conquista, Alessio con grande cura a sè medesimo riserbò. La voce dell’onore e dell’interesse, al bisbigliar dei Capi impose silenzio. Dopo un riposo di nove giorni, s’incamminarono verso la Frigia, condotti da un Generale greco, che inteso però sospettavano col Sultano. La Sultana e i primarj servi di Solimano, ottennero senza riscatto la loro libertà: e questa generosità dall’Imperatore usata ai miscredenti89, per una prova di perfidia ebbesi dai Latini. [p. 335 modifica]

[A. D. 1097] Più irritato che avvilito si mostrò Solimano della perdita della sua capitale. Fatta nota con manifesti ai suoi sudditi e confederati, la straordinaria invasione de’ Barbari di Occidente, gli Emiri turchi alla voce del Principe e della religione obbedirono. Molte bande di Turcomanni alle bandiere del Sultano si affrettarono; onde le forze congiunte del medesimo, con un calcolo vago, si fecero dai Cristiani ascendere a dugento ed anche trecento sessantamila uomini di cavalleria. Ciò nullameno Solimano aspettò con pazienza, che i Cristiani si fossero allontanati dal mare, e dalle frontiere della Grecia, e volteggiando ai lor fianchi, li seguitò. Pieni questi d’una imprudente fiducia, marciarono in due corpi separati, e posti fuor d’abilità di vedersi l’un l’altro; onde poche miglia di qua da Dorilea nella Frigia, il corpo di sinistra, il men numeroso, fu sorpreso da Solimano che lo assalì, e quasi sconfisse90. Il caldo della stagione, il nembo di frecce, le grida degli Ottomani avendo sparso per ogni dove il terrore e la confusione, i Crociati, perduta ogni speranza, si sbaragliarono, e se la inegual pugna si resse, fu dovuto anzi che all’abilità, al valor personale di [p. 336 modifica]do, di Tancredi e di Roberto di Normandia. La vista delle bandiere di Goffredo, che col Conte di Vermandois e con sessantamila uomini di cavalleria, in soccorso de’ suoi accorreva, rianimò lo stremato coraggio delle soldatesche. Raimondo di Tolosa, e il Vescovo di Puy, ben tosto arrivarono col rimanente dell’esercito, e senza riposarsi un istante, si schierarono in ordine di battaglia, e la pugna rincominciò. Intrepidi la sostennero gli Ottomani, ed uno sprezzo eguale, con cui venivano riguardati i popoli della Grecia e dell’Asia, fece confessare ad entrambe le parti, che i soli Turchi ed i Franchi il nome di soldati si meritavano91. Variati furono gli assalti, e li contrabbilanciò la differenza delle armi e della disciplina; da una banda si faceva impeto immediato, rapidi moti dall’altra operavansi; con lancia inclinata i Cristiani affrontavano, opponeano i Turchi le lor chiaverine; oltre alle differenze della pesante e larga spada de’ primi, della ricurva sciabola che gli altri portavano, delle vesti leggiere e ondeggianti e della greve armadura, dell’arco de’ Tartari e della balestra; sino a quei giorni sconosciuta agli Orientali92. Sintanto che i cavalli [p. 337 modifica]mantennero il loro vigore, e ne’ maomettani turcassi frecce rimasero, Solimano sempre superiore, a quattromila Cristiani fe’ morder la polvere; ma sull’imbrunir della sera all’agilità prevalse la forza: d’ambo le parti eguale era il numero; o almeno trovavansi in ogni luogo tante aste, quante lo spazio ne potea contenere, e i Generali far movere; ma gli ultimi manipoli de’ Provenzali di Raimondo, girando attorno alle colline, e senza forse averlo divisato, presero alle spalle il nemico già stanco, e così decisero d’un esito per sì lungo tempo sospeso: oltre alla moltitudine de’ morti di minor conto che niuno si degnò numerare, tremila cavalieri pagani, quali nella battaglia, quali inseguiti perirono. Saccheggiato il campo di Solimano, oltre al prezioso bottino, offerse anche pascolo alla curiosità de’ Latini, che contemplarono da presso tutte quell’armi e quegli attrezzi stranieri, e i cammelli e i dromedarj, affatto nuovi per essi. Quanto fosse importante quella vittoria, lo provò la precipitosa fuga del Sultano; il quale seguìto da diecimila guardie, avanzi del suo esercito, sgombrò il territorio di Rum, correndo ad implorare i soccorsi, e a riaccendere l’astio de’ suoi compatriotti dell’Oriente. In un cammino di cinquecento miglia, i Crociati trascorsero le devastate campagne, e le deserte città dell’Asia Minore, senza scontrarsi nè in amici, nè in avversarj. Il Geografo93 può delineare [p. 338 modifica]i siti di Dorilea, di Antiochia, di Pisidia, di Iconium, di Archelaide, di Germanicia, confrontando queste antiche denominazioni, co’ moderni nomi di Eskishehr (la Vecchia Città), Akshehr (la Città Bianca), Cogni, Erekli e Marash. I pellegrini attraversarono un deserto, ove un bicchier d’acqua a prezzo d’argento vendeasi; e al tormento d’una intollerabile sete, ne succedè un maggiore, allorchè il primo ruscello scopersero; tanto furono ad essi fatali e l’impazienza di estinguer la sete, e l’intemperanza nello sbramarla. Con paura, e a stento, superarono le discoscese e sdrucciolevoli pendici del monte Tauro; nel qual varco un grande numero di soldati, per minorare i pericoli della salita, si spacciò delle proprie armi, onde se il terrore non avesse preceduto il loro antiguardo, bastava una mano di nemici risoluti, a gettare nel profondo di orridi precipizj, quelle torme da spavento comprese. I due più rispettabili Capi de’ Crociati, il Duca di Lorena e il Conte di Tolosa, venivano portati entro lettighe. Raimondo era salvo, diceasi, per miracolo, da una malattia pericolosa, che non lasciava luogo a speranza; Goffredo aveva sofferto grave strazio da un orso, che ci stava nelle montagne di Pisidia cacciando.

[A. D. 1097-1151] Perchè nulla mancasse alla generale costernazione, il cugino di Boemondo e il fratello di Goffredo, disuniti eransi dall’esercito, ciascuno co’ suoi squadroni, composti di sei o settecento uomini a cavallo. [p. 339 modifica]Dopo avere attraversate rapidamente le montagne e le coste marittime della Cilicia, da Cogni sino alle frontiere della Sorìa, il Normanno piantò per il primo i suoi stendardi sopra le mura di Tarso e di Malmistra; ma l’orgoglio ingiusto di Baldovino stancata avendo la pazienza del generoso Italiano, in singolare certame la lor disputa definirono. Solo motivo delle azioni di Tancredi era l’onore, nè ad altra ricompensa fuorchè alla gloria aspirava; ma le imprese men generose del suo rivale la fortuna favoreggiò. Un tiranno greco od armeno, al quale i Turchi permetteano dominare sopra i Cristiani di Edessa94, chiamò Baldovino in soccorso, dandogli il titolo di suo figlio e campione, che l’altro non ricusò: ma appena introdotto nella città, eccitò il popolo a trucidar questo padre, s’impadronì dei tesori e del trono, ed estendendo le sue conquiste nelle montagne dell’Armenia, e nelle pianure della Mesopotamia, fondò al di là dell’Eufrate la prima sovranità de’ Franchi, o Latini, sovranità che cinquantaquattro anni durò95.

[A. D. 1097-1098] Trascorsero affatto la state e l’autunno, prima che i Franchi penetrassero nella Sorìa. Se dovesse im[p. 340 modifica]prendersi tosto l’assedio di Antiochia, o ripartire qua e là l’esercito per lasciarlo in riposo, durante il verno fu argomento di forti discussioni ne’ lor consigli. L’ardor di combattere e la brama di liberare il Santo Sepolcro, vinsero il partito, risoluzione forse anche consentanea alla prudenza, essendo cosa certissima che ogni istante d’indugio scema il vigore di un’invasione, e il terrore che ne deriva; migliora la condizione di chi si difende. La capitale della Sorìa difendevano l’Oronte e il ponte di Ferro, ponte di nove archi che questo nome traea dalle sue porte massicce, e da due torri costrutte a ciascuna delle estremità del medesimo. Ma queste al valore del Duca di Normandia non avendo potuto resistere, la vittoria di lui aperse a trecentomila Crociati il cammino; il qual calcolo, ammettendo anche molte perdite e diserzioni, dimostra evidentemente esagerato l’altro della rassegna di Nicea. Per chi si accigne a descrivere la città di Antiochia96, non è sì agevole cosa il trovare un termine medio, fra l’antica magnificenza per cui sotto i successori di Alessandro e di Augusto splendea, e l’aspetto sotto il quale mostrasi oggidì nello stato d’invilimento, cui l’hanno ridotta i Turchi. La Tetrapoli o le quattro città, se pure il loro nome e sito serbavano, doveano lasciare grandi [p. 341 modifica]vuoti in un circuito di dodici miglia, la quale estensione, guernita di quattrocento torri, non collima gran che colle cinque porte che si vedono citate sì di frequente nella storia di quell’assedio. Ciò nullameno, ogni apparenza dimostra, che Antiochia fosse tuttavia e vasta, e popolosa, e fiorente. Baghisiano, vecchio generale, difendeva a capo degli Emiri la piazza, comandando un presidio d’uomini a cavallo, fra i sei e i settemila, e di fanti fra i quindici e i ventimila. Si pretende che vi perirono sotto i colpi delle spade centomila Musulmani, e giusta i verisimili calcoli, il numero di questi era inferiore a quel de’ Greci, degli Armeni, di que’ di Sorìa, soggiogati, non erano più di quattordici anni, dai Selgiucidi. Ricigneano questa città alte e salde mura che, giudicandone dai loro avanzi, s’innalzavano sessanta piedi sopra le valli. E le parti di questo ricinto, ove era stato adoperato men d’arte e fatica a munirle, venian supposte difese a bastanza dalle montagne, dalla palude e dal fiume. A malgrado però delle sue fortificazioni, la città è stata presa successivamente dai Persiani, dagli Arabi, da’ Greci e dai Turchi; perchè era difficile che una sì vasta circonferenza, qualche punto debole non offerisse. Nell’assedio che, a mezzo ottobre, i Cristiani ne impresero, il solo vigore posto nell’eseguirlo, potea scusar l’ardimento di averlo tentato. Quanti prodigi possono aspettarsi dalla forza e dal valore, per parte dei campioni della Croce si videro. Costretti sì di frequente a battersi, or dalle sortite degli assediati, or dalla necessità di foraggiare, or da quella di difendere le proprie vettovaglie, e di assalire quelle dell’inimico, ottennero spesse vittorie, e sol dobbiamo [p. 342 modifica]lamentarci dall’esagerazione di chi, raccontando le prodezze de’ Franchi, ogni probabilità oltrepassò. Col fendente della sua spada97, Goffredo spaccò in due parti dalla spalla all’anca un Turco, del cui cadavere cadde una metà, l’altra il corridore del Franco fino alle porte di Antiochia si trasportò. Roberto di Normandia, galoppando allo scontro dell’avversario, pietosamente esclamò: „consacro la tua testa ai demonj dell’inferno„, e col primo colpo di sciabola gli fendè il capo insino al petto: ma la realtà o la fama di tali gigantesche avventure98, avrà certamente persuasi i Musulmani, a trincearsi entro le loro mura, e contro mura di mattoni e di terra, sono armi impossenti la lancia e la spada. L’ignoranza e la negligenza de’ Crociati, li rendea mal atti a regolare le lunghe e successive fazioni di un assedio; oltrechè, mancavano e d’intelligenza per [p. 343 modifica]inventare le macchine che le possono agevolare, e di danaro per provvederle, e d’industria per prevalersene. Nella conquista di Nicea, eransi maravigliosamente giovati dell’erario e del sapere dell’Imperatore Alessio, e di questo possente soccorso mal teneano luogo nel secondo assedio, alcuni legni pisani e genovesi, che il commercio, o la religione traevano sulle coste della Sorìa. Penuriavasi di vettovaglie, incerti i modi di provvederle, difficili e pericolose le comunicazioni. Fosse trascuratezza, o impotenza, i Cristiani non aveano stretta per ogni lato la città, e due porte di essa, rimaste libere, assicuravano continuamente nuovi rinforzi e viveri alla guernigione. In sette mesi d’assedio, i Crociati videro pressochè distrutta la loro cavalleria, oltre ad uno sterminato numero di soldati, che le fatiche, la fame e le diffalte lor tolsero; nè intanto alcun considerabile progresso avevano fatto. E forse più lungo tempo incerto sarebbe stato l’esito di loro impresa, se lo scaltrito e ambizioso Boemondo, l’Ulisse de’ Latini, le armi dell’inganno e del tradimento non avesse operate. Antiochia racchiudeva molta mano di malcontenti Cristiani: fra quali Firuz, rinnegato della Sorìa, godendo il favor dell’Emiro aveva il comando di tre torri. Costui col farsi merito di un nuovo pentimento, nascose forse ai Latini, e a sè medesimo, l’obbrobrio della propria perfidia. Ragione di mutuo interesse avendo pertanto posti in segreta corrispondenza Firuz e il Principe di Taranto, Boemondo manifestò ai Duci assembrati in consiglio, come dipendesse da lui il farli entrare nella città, ma per prezzo del servigio, richiese la sovranità di Antiochia. Erano quelli a sì dure estremità che dovettero accettare [p. 344 modifica]un partito, da cui sulle prime per gelosia rifuggirono. I Principi francesi e normanni mandarono ad effetto questa sorpresa, salendo eglino stessi le scale di corda che venivano lor gettate fuor delle mura. Il contrito proselito de’ Cristiani, colle mani ancora grondanti del sangue d’un suo fratello, che avea, agli occhi di lui, troppi scrupoli, abbracciò i servi di Dio e nella città gl’introdusse. Apertesi all’esercito le porte, i Musulmani sperimentarono che, se era inutile il sottomettersi, il resistere diveniva impossibile; ma le Fortezze avendo ricusato di arrendersi, i vincitori si trovarono ben tosto circondati e assediati dall’esercito innumerevole di Kerboga, Principe di Mosul, che, accompagnato da vent’otto Emiri, in soccorso d’Antiochia accorreva. Per venticinque giorni, i Cristiani rimasero in tale stato che speranza di salvamento non offeriva, e già l’orgoglioso luogotenente del Califfo, sola alternativa per la morte o la schiavitù, ad essi lasciava99.

[A. D. 1098] A tale eccesso di sciagure condotti, raccolsero quante forze lor rimanevano, e usciti della città, con una vittoria delle più memorande, distrassero e spersero in un sol giorno tanta copia di Turchi e d’Arabi, che i vincitori poterono, senza tema di essere contradetti, calcolare a seicentomila uomini100 il numero. [p. 345 modifica]Porterò fra poco le mie indagini su quella parte di tal vittoria che al soccorso di confederati soprannaturali venne attribuita; ma l’intrepida disperazione de’ Franchi fu la cagione naturale della vittoria di Antiochia, e aggiungasi ancora, la sorpresa, la discordia, e forse gli abbagli degl’ignoranti e presuntuosi loro avversarj. La confusione di quella giornata si è frammessa ne’ racconti di chi l’ha descritta: non passeremo nullameno sotto silenzio quanto vi si narra intorno alla tenda di Kerboga, vasto palagio ambulante, ricco di tutto il fasto dell’Asia, ed atto a contenere oltre duemila persone. Dalle stesse descrizioni udiamo ancora che le guardie di Kerboga, in numero di tremila, andavano, non meno de’ lor cavalli, tutte coperte di un’armadura di acciaio.

Finchè durarono l’assedio e la difesa di Antiochia, i Crociati, or mostraronsi inorgogliti per la vittoria, ora oppressi dalla disperazione, or notavano nell’abbondanza, or la fame e gli stenti stremavanli. Un filosofo contemplativo avrebbe ragione d’immaginarsi che la fede de’ Crociati grandemente sugli atti loro operasse, e che i soldati del vessillo della Redenzione, i liberatori del Santo Sepolcro, con una vita sobria e virtuosa, si apparecchiassero alla palma del martirio, ognor presente ai lor guardi. Ma la pia [p. 346 modifica]illusione vien dissipata dalla esperienza: onde rade volte la storia delle guerre profane offre scene di dissolutezza e di prostituzione da paragonarsi con quelle che sotto le mura di Antiochia avvenivano. Il boschetto di Dafne non era più, ma, tuttavia infetto delle antiche corruttele l’aere della Sorìa, i Cristiani non resistettero nè alle tentazioni inspirate dalla natura, nè a quelle che la natura respinge101; sprezzando essi l’autorità de’ lor Capi, e sermoni ed editti nulla poteano contra disordini che alla disciplina militare, e alla purezza evangelica parimente opponeansi. Così ne’ primi giorni dell’assedio, come ne’ primi di Antiochia occupata, i Franchi dissiparono con tutta la prodigalità della spensieratezza quelle vettovaglie, che una frugale economia avrebbe fatto durare per molte settimane e per molti mesi; que’ devastati dintorni non poteano più somministrar loro alcuna cosa, nè andò guari che l’esercito de’ Turchi dal quale erano circondati, li privò d’ogni comunicazione coll’interno del paese. Le infermità, compagne inseparabili della fame, acquistarono maggiori gradi di malignità dalle piogge del verno, dai calori della state, dal mal sano nudrimento, dall’affollamento stesso della moltitudine. Le schifose pitture della peste e della fame essendo sempre le medesime, la nostra immaginazione può facilmente additarci, quai fossero i patimenti di questi sciagurati, quali le misere provvisioni per cui si studiavano di alleviarli. Quanto rimanea de’ tesori e delle prede veniva da [p. 347 modifica]essi con larga mano adoperato a procacciarsi i più vili alimenti. Quali saranno state le angosce del povero, se il conte di Fiandra e Goffredo, dopo avere pagato quindici marchi d’argento per una capra, e altri quindici per un cammello etico102, si videro costretti l’uno a mendicare un pranzo, l’altro a cercare in prestito un cavallo! Sessantamila cavalli passati dianzi in rassegna nel campo, trovavansi prima del terminar dell’assedio, ridotti a soli duemila. L’infiacchimento del corpo, e i terrori dell’immaginazione, avendo ammorzato l’entusiasmo de’ pellegrini, l’amor della vita103 divenne più forte de’ sentimenti dell’onore e della religione. Fra que’ Capi nullameno possono annoverarsi tre eroi, da tema e demerito serbatisi immuni. Goffredo di Buglione che la sua pietà magnanima sostenea; Boemondo per impulso d’ambizione e di personale interesse; e Tancredi, il quale, siccome verace Cavaliere, protestò che sintantochè gli sarebbero rimasti quaranta compagni per seguirlo, non avrebbe abbandonata la spedizione della Palestina. Ma il conte di Tolosa e di Provenza infermò, e finta ne fu sospettata la malattia; le censure della [p. 348 modifica]Chiesa richiamarono dalle coste marittime il Duca di Normandia. Ugo il Grande, benchè comandasse l’antiguardo dell’esercito, si valse di un pretesto equivoco per ritornarsene in Francia: Stefano di Chartres abbandonò obbrobriosamente lo stendardo nelle sue mani affidato e il Consiglio cui presedeva; i soldati ogni coraggio perdettero in veggendo partire Guglielmo Visconte di Melun, che i colpi vigorosi della sua azza da guerra avean fatto soprannomare il Carradore; i devoti rimasero scandalezzati della caduta di Piero l’Eremita, che dopo avere armata tutta l’Europa contro dell’Asia, alle molestie d’un forzato digiuno tentò sottrarsi. I nomi di tant’altri guerrieri che mancarono di coraggio, vennero cancellati, come si esprime uno storico, dal libro di vita; e coll’epiteto ignominioso di ballerini da corda furono qualificati que’ tanti che, per fuggire da Antiochia, ne scalarono di notte tempo le mura. L’Imperatore Alessio che pareva movesse in soccorso de’ Latini104, atterrì in udendo come ad estremo caso fosser ridotti. Tutti in preda ad una tetra disperazione, quasi aspettavano omai con tranquillità il loro destino. Vane tornarono le prove de’ giuramenti e delle punizioni, talchè per costringerli i soldati a difender le mura, fu di mestieri metter fuoco alle case ove stanziavano.

Eppure quello stesso fanatismo, che a quasi inevitabile distruzione gli aveva condotti, li fece uscire [p. 349 modifica]vittoriosi di un tal pericolo. In una tale spedizione, in mezzo ad un esercito di simil natura, frequenti e famigliari esser doveano le visioni, le profezie ed i miracoli. Questi, nel durare de’ patimenti che i Cristiani soffersero in Antiochia, si ripeterono con maggior forza e con istraordinario buon successo. Ora sant’Ambrogio aveva assicurato un pio Ecclesiastico che il momento della grazia e della liberazione esser dovea preceduto da due anni di prova. Or narravasi di alcuni disertori arrestati da Cristo comparso in persona per rampognarli; i morti si erano obbligati ad uscire fuor dalle tombe per combattere a fianco de’ proprj fratelli. La Vergine aveva ottenuto ai Franchi il perdono de’ lor peccati, e la confidenza di ognuno fu invigorita dalla fausta e luminosa scoperta della Santa Lancia105. In tali estremità, molto lodata venne la politica di que’ duci, e certamente almeno meritevole era di scusa. Ma di rado, una pia frode in mezzo ad un numeroso consiglio può concertarsi; bensì un impostore volontario avea di che fondarsi sull’appoggio degli uomini istrutti e sulla credulità popolare. Un prete, nomato Pietro Bartolommeo, della diocesi di Marsiglia, fornito di un ingegno rozzamente artificioso, e de’ cui costumi era sospetta la fama, si mostrò alla sala del Consiglio per rivelare ivi, come Sant’Andrea gli fosse apparso per tre volte durante il sonno, e dopo minacciategli terribili punizioni, se ai comandi del Cielo osava resistere, così gli avesse parlato: „In [p. 350 modifica]Antiochia, nella chiesa di mio fratello, San Pietro, vicino all’Altar Maggiore, si troverà, scavando sotterra, il ferro che percosse il costato del nostro Redentore. Fra tre giorni, questo strumento dell’eterna salute verrà manifestato ai suoi discepoli, e la liberazione de’ medesimi opererà. Cercate, e troverete. Sollevate questo mistico ferro in mezzo all’esercito, e andrà a ferire fino nell’anima i miscredenti„. Il vescovo di Puy, Legato del Papa, mostrò di ascoltare, con indifferenza e poca fiducia, la rivelazione del prete marsigliese; ma avidamente l’accolse il Conte Raimondo, che questo suo fedele suddito aveva prescelto, a nome dell’appostolo, per essere guardiano della Santa Lancia. Deliberatosi di tentare l’esperimento, nel terzo giorno indicato dalla profezia, il messo di S. Andrea, dopo essersi, com’era convenevole, a ciò preparato col digiuno e colla preghiera, introdusse nel tempio dodici spettatori di sua confidenza, nel cui novero il Conte Raimondo e il Cappellano di lui computavansi; sbarrate vennero le porte per evitare l’affoltamento delle turbe impazienti di verificare il prodigio. Si cominciò lo scavamento nel luogo che era stato accennato; ma gli operai che si davano la muta, dopo essere scesi co’ loro ordigni fino alla profondità di dodici piedi, non quindi rinvenivano quanto cercavasi. Solamente la sera, allorchè il Conte si fu ritirato alle sue stanze, e quando gli spettatori, stanchi incominciavano a bisbigliare, Bartolommeo in camicia, e dopo essersi levate le scarpe, si calò coraggiosamente entro la fossa. L’oscurità dell’ora e del luogo, gli agevolò l’artifizio di celare in quella cavità il ferro di una lancia che a qualche Saracino avea appartenuto. [p. 351 modifica]Al primo suono, al primo scricchiolar dell’acciaro, venne salutato fra acclamazioni di divozione e di gioia. Toltala quindi dal luogo ov’era stata nascosta, la Santa Lancia venne avvolta in un velo di seta ricamato, ed esposta alla venerazione de’ Crociati. Da quel momento le angosce loro in grida di giubilo e di entusiasmo si convertirono, e il rinato entusiasmo restituì alle scoraggiate truppe l’antico valore. Qualunque sia stata la parte che a tale avvenimento ebbero i Capi, e che che si pensassero della cosa, certamente un sì felice cambiamento, per tutte le vie suggerite dalla disciplina e dalla Religione, protessero. Rimandati vennero ai loro alloggiamenti i soldati, raccomandatosi ai medesimi di affortificare il corpo e l’anima per essere in tutto apparecchiati al prossimo combattimento; consumassero senza tema le ultime vettovaglie e i foraggi, aspettando allo schiarire del nuovo giorno il segnale della vittoria. Ricorrendo alla domane la festa de’ SS. Pietro e Paolo, le porte di Antiochia si apersero, ed una processione di preti e monaci uscì cantando il salmo di guerra.

La battaglia fu ordinata in dodici corpi ad onore de’ dodici Appostoli; il cappellano di Raimondo ebbe, a nome e vece del suo Signore, l’incarico di portare la Santa Lancia. La possa di questa reliquia, o trofeo, si fece sentir fortemente non solo ai servi di Cristo, ma forse anche a quelli che nemici ne erano106. E ad invi[p. 352 modifica]gorirla contribuì il caso, o uno stratagemma, o la voce sparsasi di un nuovo miracolo. Tre cavalieri vestiti di bianco e di splendenti armadure coperti, furono veduti uscire delle montagne. Ademaro, Legato pontifizio esclamò essere eglino i martiri San Giorgio, San Teodoro e San Maurizio. Il tumulto delle pugne non avendo lasciato il tempo nè di dubitare, nè di avverare le cose, favorevole si fu la creduta apparizione ad abbagliare gli occhi e la fantasia, di un esercito di fanatici. Così ne’ momenti del pericolo, come ne’ primi della vittoria, non vi fu chi sulla veracità della rivelazione di Bartolommeo Marsigliese mostrasse dubbio; ma in mezzo alla calma che venne dopo, gli onori e le copiose elemosine che la dignità di guardiano della Santa Lancia al Conte di Tolosa produsse, nel moverli ad invidia, risvegliarono la ragione nelle menti de’ suoi rivali. Un Cherco normanno osò esaminare con occhio filosofico le credibilità della leggenda, le circostanze della scoperta, la riputazione del Profeta: per lo che il pio Boemondo meramente ai meriti e all’intercessione di Gesù Cristo attribuì la liberazione dei Crociati. I clamori e l’armi de’ Provenzali, per qualche tempo, questo Palladio di lor nazione difesero; e nuove visioni annunziavano la morte e la dannazione degli empj che con scettica esitanza si facessero solamente lecito di movere indagini sul merito, o sulla realtà della scoperta. Ma l’incredulità prevalse, e costrinse Bartolommeo ad assoggettare ad un [p. 353 modifica]Giudizio di Dio la verità delle cose che avea rivelate e la propria vita. Innalzatasi in mezzo al campo una catasta di fascine secche, alta quattro piedi e lunga quattordici, e mentre l’impeto delle fiamme a quattordici cubiti le sollevava, il prete marsigliese venne obbligato ad attraversare un sentiero non più largo d’un piede che in mezzo alla fornace lasciato erasi aperto. A malgrado di sua destrezza ed agilità, lo sciagurato ne riportò il ventre e le coscie arrostite, onde in termine di ventiquattro ore spirò, sempre protestandosi e veritiero, e innocente, le quali proteste saranno forse di qualche peso appo le menti, a credere molto inclinate. Indarno i Provenzali si adoperarono a sostituire una croce, o un anello, o un tabernacolo alla Santa Lancia, la cui sola ricordanza fatta erasi argomento a dileggio107. Pur chi il crederebbe? Gli storici de’ secoli successivi hanno con gravità attestata la rivelazione di Antiochia, e tali progressi può fare la credulità, che miracoli de’ quali fu dubitato ne’ tempi, e nelle contrade ove nacquero, dalle età più lontane, e in luoghi da queste contrade remoti, con implicita fede vengono accolti.

La prudenza o la buona sorte de’ Franchi fatto avea che differissero la loro spedizione sino al mo[p. 354 modifica]mento che l’Impero de’ Turchi declinava108. Sotto il vigoroso governo de’ tre primi sultani la pace e la giustizia tenea i reami dell’Asia congiunti. Gli inumerabili eserciti che quei principi conduceano in persona, pareggiavano in valore quelli de’ Barbari dell’Occidente, in disciplina li superavano; ma ne’ giorni delle Crociate, quattro figli di Malek-Sà, se ne disputavano scambievolmente il retaggio. Intesi affatto alle cure di personale ambizione, poco il rischio pubblico li commovea: e la variabilità de’ successi di questi pretendenti, rendea incerti, e non curanti i principi lor vassalli sulla parte cui serbar dovevano fedeltà. I vent’otto Emiri che sotto gli stendardi di Kerboga pugnarono, o suoi rivali erano, o suoi nemici. Quell’esercito vedeasi composto di soldatesche raunate affrettatamente nelle città, e nelle tende della Sorìa e della Mesopotamia, intanto che le vecchie bande interteneansi di là dal Tigri in civili guerre struggendosi. Tal momento di debolezza e discordia sembrò opportuno al Califfo d’Egitto per ricuperare gli antichi possedimenti. Il suo sultano Afdal, dopo avere assediate Tiro e Gerusalemme, scacciati i figli di Ortok, restaurò nella Palestina l’autorità civile ed ecclesiastica de’ Fatimiti109. Intesero con sorpresa come [p. 355 modifica]numerosi eserciti di Cristiani fossero passati d’Europa in Asia, e si allegrarono di assedj e combattimenti, atti a distruggere la possanza de’ Turchi, persecutori della lor setta, avversi alla lor monarchia: ma questi Cristiani medesimi erano nemici giurati del Profeta, e dopo avere conquistata Nicea ed Antiochia, doveano per lo scopo di loro impresa, i cui motivi già cominciavano ad essere palesi, trasferirsi sulle rive del Giordano, e su quelle forse del Nilo. La Corte del Gran Cairo entrò co’ Latini in corrispondenza di lettere e messaggi, il cui stile, giusta le variate vicende della guerra mansueto, o superbo mostravasi, e lo scambievole orgoglio di questi negoziatori, dall’ignoranza e dall’entusiasmo degli uni e degli altri, prendeva origine. I ministri del sultano d’Egitto, or con tuono imperioso chiarivano, or con più cortesi modi rimostravano, che il lor monarca, vero e legittimo comandante de’ Credenti, avea dalla tirannide de’ Turchi liberata Gerusalemme, e poter liberamente i pellegrini visitare il Sepolcro di Gesù Cristo, ove con modi oltre ogni dire amichevoli verrebbero accolti, purchè disarmati, e in successivi drappelli, vi sì trasportassero. Vi fu un istante, che il Califfo Mostali, credendoli inevitabilmente perduti, ne sprezzò l’armi, e fece imprigionare i loro messaggieri; ma la conquista e la vittoria di Antiochia la costui alterigia repressero, onde reputò espediente cosa il procurare di affezionarsi questi formidabili campioni, presentandoli di cavalli, di vesti di seta, di vasellami, e di borse d’oro e d’argento. Giusta l’idea che il ridetto Califfo erasi fatta del merito e della autorità de’ medesimi, Boemondo teneva la prima sede, Goffredo la seconda. Non cambiando cuore per va[p. 356 modifica]rietà di vicissitudini, i Crociati stettero fermi in rispondere, che alieni dall’esaminare i diritti particolari di ciascun settario di Maometto, l’usurpatore di Gerusalemme, qualunque ne fosse il nome, o il paese, aveano per nemico; quindi lo consigliavano, che invece di additar loro i modi, o i patti del pellegrinaggio, si attenesse al più prudente partito di consegnare, come lor sacro e legittimo retaggio, ai Crociati la città e la provincia: e aggiungevano non aver egli altra via per serbarseli amici, e sottrarsi alla rovina che lo minacciava110.

Ciò nulla meno, mentre questa meta gloriosa della loro impresa vedean sì vicina, che toccarla quasi pareano, non assalirono la città di Gerusalemme, che dieci mesi dopo sconfitto Kerboga. Nel momento della vittoria si affievolirono lo zelo e l’ardor de’ Crociati, i quali, anzichè profittare, col maggiormente innoltrarsi, del terrore che aveano per ogni dove diffuso, solleciti apparvero di sbandarsi per godere meglio le molli delizie della Sorìa. Forse un sì inconcepibile indugio, non meno a mancanza di subordinazione, che ad estenuata forza, vuol essere attribuito. Nelle penose e variate fazioni dell’assedio di Antiochia, avean perduta tutta la loro cavalleria, e migliaia di guerrieri d’ogni grado, o disertori, o rimasti vittime della penuria e delle infermità. L’abuso stesso che fecero dell’abbondanza, una terza carestia generò; [p. 357 modifica]onde l’avvicendarsi della fame e degli effetti della dissolutezza, portò nel campo un morbo pestilenziale, cui cinquantamila pellegrini soggiacquero. Pochi in istato di comandare, tutti ricusavano d’obbedire. Le private querele, in mezzo al comune rischio sopite, con maggior impeto, o certamente colla stessa acerbità di astio, rinnovellaronsi: i buoni successi di Baldovino e di Boemondo, la gelosia de’ lor colleghi aizzavano: i più valenti cavalieri arrolavansi per correre in difesa de’ nuovi acquisti: il conte Raimondo, inteso ad una spedizione inutile nelle parti interne della Sorìa, le sue genti e i suoi tesori stremava. Così il verno tra le discordie e la confusione trascorse: alcune scintille d’onore e di religione si ridestarono in primavera, perchè i semplici soldati meno scossi dalle passioni dell’ambizione e della invidia, mandando grida d’indignazione, scossero i duci dall’indolenza in cui si giacevano. [A. D. 1099] Nel mese di Maggio, gli avanzi di questo esercito poderoso, ridotti a quarantamila uomini (e fra questi, sol ventimila di fanteria, e mille cinquecento a cavallo, in istato erano di servire) s’innoltrarono da Antiochia a Laodicea, senza incontrare ostacoli nel cammino, che tennero tra la costa marittima e il monte Libano. Abbondantemente li fornirono di vettovaglie i legni di commercio genovesi e pisani che, lungo il mare, li secondavano, oltre alle forti contribuzioni che ritrassero dagli Emiri di Tripoli, Tiro, Sidone, Acri e Cesarea, da’ quali ottennero il passaggio e la promessa di uniformarsi al destino che avrebbe corso Gerusalemme. Da Cesarea si portarono fino in mezzo al paese, ove i cherci riconobbero le tracce della geografia sacra di Lidda, Ramla, Emaus, e Betlemme; ma non sì tosto [p. 358 modifica]scoperta ebbero la Santa Città, i Crociati, tutt’altra cura dimenticando, pensarono a chiedere la ricompensa delle loro fatiche111.

[A. D. 1099] Dal numero e dalla difficoltà de’ suoi memorabili assedj, Gerusalemme un qualche lustro ha ottenuto. Sol dopo lunghi e sanguinosi combattimenti, Babilonia e Roma trionfarono un giorno dell’ostinatezza del popolo, e degli ostacoli che opponea loro un terreno sì discosceso, da rendere inutile ogni altra fortificazione; e aggiungasi che le mura erano munite di torri, valide a difendere la più accessibil pianura112. Però nel secolo delle Crociate, una parte di questi ostacoli non incontravasi. La rovina assoluta di quei baloardi, mal emendarono le nuove restaurazioni. Certamente, la dominazione de’ Giudei, e del loro culto, era sbandita da Gerusalemme per sempre, ma la natura non cambia cogli uomini, e il sito di quella città, benchè spianati alquanto ne fossero gli ingressi, potea tuttavia dar lungo indugio agli sforzi di un assalitore. La esperienza di un assedio recente, e tre anni di possedimento, aveano fatti accorti i Saracini d’Egitto sui difetti di una Fortezza, che l’onore e la religione, vietavano ad essi di abbandonare, e sui modi più giovevoli ad assi[p. 359 modifica]curarsela. Aladino, o Istikar luogotenente del Califfo, comandante di Gerusalemme, adoperavasi a tenere in freno i Cristiani, che entro quelle mura abitavano, col minacciare distruzione ad essi e al Santo Sepolcro; il valore de’ Musulmani eccitava colla speranza della ricompensa che in questo, e in un miglior Mondo, aspettavanli. Viene assicurato, che la guernigione era composta di quarantamila Turchi, o Arabi, e se fosse vero che il comandante potè armare inoltre più di ventimila abitanti, certamente l’esercito degli assediati avrebbe superato in numero quello degli assalitori113. Supposto ancora che i Latini fossero stati tanti, da potere circondare la città, che avea quattromila verghe (circa due miglia inglesi e mezzo) di circonferenza114, a qual pro sarebbero essi discesi nella [p. 360 modifica]valle di Ben-Himmon, e verso il torrente di Cedron115? A qual pro guardare i precipizj di ostro e di levante, d’onde non aveano cosa da temere o sperare? Si attennero al partito di fare scopo principale d’assedio, le parti settentrionali e occidentali della città. Goffredo collocò il suo stendardo sulla prima eminenza del monte Calvario. Verso sinistra, e sino alla porta di S. Stefano, la linea degli assalitori prolungavano i due Roberti e Tancredi: nell’intervallo posto fra la rocca e il monte Sion, non più parte interna della città, il Conte Raimondo accampò. Nel quinto giorno i Franchi diedero assalto generale, mossi dalla fanatica speranza di rovesciare le mura, senza il ministerio di macchine, e di scalarle, privi di scale. L’impeto degli operati sforzi li fe’ padroni del primo steccato, ma poi respinti vennero con perdita fino al loro campo. Il troppo frequente abuso de’ pii stratagemmi avendo distrutta la possanza delle visioni e delle profezie, ognun si persuase che il valore, le fatiche e la perseveranza, erano le sole vie per conseguir la vittoria. L’assedio non durò più di quaranta giorni, ma furono quaranta giorni di stenti e di calamità. Per vero dire [p. 361 modifica]l’appetito vorace ed improvvido dei Latini, avrà avuta parte nelle lamentanze di penuria, così spesso rinnovellate; ma gli è anche certo che il suolo sassoso di Gerusalemme non somministra acqua, pressochè di sorta alcuna, e le tenui sorgenti e i rivi che vi sono, l’ardor della state avea disseccati: nè poteano a questo inconveniente rimediar gli assedianti con acquidotti o cisterne, vantaggio di cui godeano gli assediati. Que’ dintorni mancavano parimente d’alberi per ripararsi dal Sole, o fabbricare capanne; i Crociati, nondimeno, scopersero in una caverna alcuni pezzi di legno di una considerabile dimensione. Venne inoltre tagliato presso a Sichem, un bosco che è la foresta incantata del Tasso116. Tancredi, continuo nel dar prove di coraggio e di abilità, giunse a far trasportare nel campo, i materiali opportuni; e artefici genovesi, trovatisi per ventura nel porto di Giaffa, costrussero le macchine per condurre a fine l’assedio. Il Duca di Lorena e il Conte di Tolosa, fecero innalzare a proprie spese, e ne’ loro campi, due torri sulle ruote, che condotte furono, non ai luoghi i più accessibili delle fortificazioni, ma verso quelli che erano i più trascurati. Il fuoco degli assediati incenerì la torre di Raimondo; ma il collega di lui fu ad un tempo più vigilante e felice. Giunti i suoi arcieri a fare sgombri di nemici i baloardi, i Latini abbassarono il ponte levatoio, e in un venerdì, a tre ore pome[p. 362 modifica]ridiane, giorno e tempo della morte del Redentore, Goffredo Buglione, si mostrò vincitore sulle mura di Gerusalemme. Da ogni banda i Crociati cui si facea sprone il valore del duce, l’esempio di lui imitarono, e quattrocento sessant’anni dopo la conquista di Omar, i Cristiani tolsero al maomettano giogo la Santa Città. Patteggiato aveano gli assedianti, che nel saccheggio della città e delle ricchezze di privati, avrebbero rispettato il diritto di possesso del primo occupante; e le spoglie della grande Moschea, settanta lampade, e molta copia de’ vasellami d’oro e d’argento, divenute compenso alle gloriose fatiche di Tancredi, diedero campo di segnalarsi alla generosità dell’eroe. I servi del Dio de’ Cristiani, essendosi nel loro accecamento avvisati, che sanguinosi sagrifizj gli sarebbero accetti, il loro furore implacabile e dalla resistenza irritato, non perdonò a debolezza, di sesso e di età. Durata per tre giorni la strage117, l’infezione de’ cadaveri un morbo epidemico generò. Dopo avere passati a fil di spada settantamila Musulmani, e arsi vivi nelle lor sinagoghe gli Ebrei, i Cristiani conservarono ancora un grande numero di prigionieri, che l’avarizia o la stanchezza di tanto macello, persuase loro di risparmiare. Fra questi feroci eroi della Croce, Tancredi fu il solo che desse a divedere alcun sentimento di compassione: benchè non possiamo negare qualche encomio alla interessata clemenza di Raimondo, che con[p. 363 modifica]cedè una capitolazione e un salvocondotto, alla guernigion della rocca118. Così liberato finalmente il Santo Sepolcro, i vincitori, tinti ancora di sangue, a sciogliere il voto si prepararono. Con capo e piedi ignudi, col cuor contrito e in umil postura, ascesero il Calvario in mezzo alle antifone, intonate ad alta voce dal Clero; nè potendo staccare le labbra dalla pietra che avea coperto il Salvatore del Mondo, questo monumento della lor redenzione, di lagrime di gioia e di penitenza innondarono. Due filosofi hanno riguardato sotto aspetti diversi, questa stravagante mescolanza di passioni, le più feroci e le più tenere; l’un d’essi, facile e naturale la trova119, l’altro assurda e incredibile120, e ciò forse dipende dall’averla questo secondo, attribuita ai medesimi individui, nè distinti i momenti. La pietà del virtuoso Goffredo, destò quella de’ suoi compagni, che purificando i corpi, le proprie anime ancora purificarono; ma duro fatica a credere, che quelli fra essi più feroci nell’ora del saccheggio e della strage, si mostrassero poi i più esemplari nella processione al Santo Sepolcro. [p. 364 modifica]

[A. D. 1099] Otto giorni dopo questo memorabile avvenimento, cui andò innanzi la notizia della morte di Papa Urbano, i duci Latini procedettero all’elezione di un Re, che difendesse e governasse le conquiste della Palestina. Ugo il Grande e Stefano di Chartres, per la loro ritirata molto scapitarono di rinomanza, e vi volle in appresso una seconda Crociata, e la illustre morte alla quale soggiacquero, perchè la lor gloria riguadagnassero. Baldovino avea posta in Edessa, Boemondo in Antiochia la sua residenza; i due Roberti, il Duca di Normandia e il Conte di Fiandra121, ad incerte pretensioni e a troni mal saldi, i loro Stati ereditarj dell’Occidente anteposero. Per sua ambizione e gelosia fu biasimato dai compagni Raimondo; per lo che l’esercito, con una scelta libera, giusta e necessaria acclamò Goffredo di Buglione, il primo e il più degno campione della Cristianità. L’eroe accettò un deposito, cui pericoli non minori della gloria si univano; ma in una città, ove il Salvatore dell’uman genere, era stato coronato di spine, ricusò il titolo e gli onori della monarchia; e fondatore di un regno, si contentò del modesto nome di difensore e barone del Santo Sepolcro. Il regno del medesimo che per mala ventura de’ sudditi suoi, non durò oltre un anno122, corse gravi pericoli, quindici [p. 365 modifica]giorni dopo fondato, per l’avvicinarsi del Visir o Sultano d’Egitto, che, non avendo potuto giugnere in tempo per impedire la caduta di Gerusalemme, affrettavasi coll’ansietà di trarne vendetta. [A. D. 1099] Ma nella giornata di Ascalon, egli ebbe tal rotta, che fe’ più salda la dominazione de’ Latini nella Sorìa, e apportò nuovo lustro al valore de’ duci Franchi, i quali, dopo questa azione campale, per lungo tempo dalla Palestina e dalle sante guerre si congedarono. Nella battaglia di Ascalon, poterono i Crociati gloriarsi parimente della sterminata sproporzione di numero, che fra le due parti combattenti osservavasi. Nè mi arresterò a noverare le migliaia di soldati, così di cavalleria come di fanteria, che formavano l’esercito de’ Fatimiti; perchè, eccetto tremila Etiopi, o Negri armati di staffili di ferro, i Barbari meridionali, dopo il primo impeto, datisi alla fuga, dimostrarono quanto immensa differenza vi fosse, fra l’intrepido valore de’ Turchi, e l’effeminata viltà de’ nativi Egiziani. Dopo avere appesa dinanzi al Santo Sepolcro, la bandiera e la spada del Sultano, il nuovo Re (o almeno l’eroe ben meritevole di questo titolo), abbracciò per l’ultima volta i compagni delle sue fatiche, e il solo d’essi ch’ei potè serbarsi appresso per difendere la Palestina, fu il prode Tancredi con trecento uomini a cavallo, e duemila fanti. Ma si vide ben tosto assalito da quel solo nemico, contro il quale mancasse di coraggio, Goffredo. Morto per l’ultima peste di Antiochia Ademaro, uomo rilevantissimo nelle azioni e nei [p. 366 modifica]consigli, gli altri Ecclesiastici non serbarono della propria indole che l’avarizia e l’orgoglio, talchè per via di sediziosi clamori, avean fatto valere le lor pretensioni, affinchè prima d’un Re un vescovo si eleggesse. Avendo il Clero latino usurpate le rendite e la giurisdizione del Patriarca, le accuse di eresia e di scisma mosse a danno de’ Greci, e degli abitanti della Sorìa, valsero ad escludere questi dal concorso123; per lo che, oppressi dal ferreo giogo de’ loro liberatori, i Cristiani orientali la tolleranza de’ Califfi arabi si augurarono. Damberto, Arcivescovo di Pisa, da lungo tempo iniziato ne’ segreti della romana politica, avendo condotta in soccorso de’ Crociati una flotta di suoi concittadini, fu nominato, senza trovare opposizione, Capo temporale e spirituale della Chiesa124. Cotesto nuovo Patriarca non tardò ad impadronirsi dello scettro, che era prezzo del sangue e delle fatiche de’ pellegrini guerrieri; e Goffredo, e Boemondo, si sommisero a ricevere dalle mani di costui l’investitura dei loro possedimenti. Questo omaggio ancora sembrò poco a Damberto, che la proprietà immediata di Giaffa e di Gerusalemme voleva per sè. Invece di opporre all’ingiusta pretensione un franco e assoluto rifiuto, il guerriero negoziò col Sacerdote; la Chiesa ottenne una quarta parte delle due città, il modesto Prelato, riserbò a sè il diritto contingibile sul rimanente, ogni qual [p. 367 modifica]volta o Goffredo morisse privo di figli, o la conquista del Cairo o di Damasco un nuovo regno gli assicurasse.

Che se il Pisano non usavagli almeno la condiscendenza di lasciargli questo precario usufrutto, il conquistatore vedeasi spogliato quasi per intero del nascente suo regno, che Gerusalemme e Giaffa, e una ventina di piccole città e villaggi di que’ dintorni sol racchiudea125. Si arroge che, in uno spazio sì poco esteso, i Maomettani possedevano diverse inespugnabili Fortezze; onde e agricoltori, e mercadanti, e pellegrini vedeansi continuamente ad ostilità avventurati. Gli sforzi di Goffredo, de’ due Baldovini, che succedettero al trono, maggior tranquillità procacciarono appresso ai Latini; gli Stati de’ quali finalmente, mercè molte fatiche e pugne, trovaronsi adeguati, in estensione però, non nel numero degli abitanti, agli antichi regni d’Israele e di Giuda126. Dopo che [p. 368 modifica]le città marittime di Laodicea, Tripoli, Tiro e Ascalon127 a suggezione furon ridotte, e molto in ciò operarono le flotte di Venezia, di Pisa, di Genova, e pur di Fiandra e di Norvegia128, i pellegrini di Occidente da Scanderoon sino alle frontiere dell’Egitto tutta quella costa marittima possedettero. Il principe di Antiochia non volle riconoscere la supremazia del re di Gerusalemme, ma vassalli a questo si protestarono i conti di Edessa e di Tripoli. Così esteso avendo i Latini il loro regno oltre l’Eufrate, i Musulmani, delle conquiste fatte in Sorìa129, non conservarono che le sole quattro città; Hems, Hamah, Aleppo e Damasco. Le leggi, la lingua, i costumi e i titoli della nazione francese e della Chiesa latina vennero in queste colonie di oltremare adottati. Giusta le norme della giurisprudenza feudale, i principali Stati e le baronie a questi soggette, passavano agli eredi, così in linea maschile come femminina130; [p. 369 modifica]ma il lusso e il clima dell’Asia la discendenza mescolata e tralignata de’ primi conquistatori distrussero131; e l’arrivo di nuovi Crociati dall’Europa era un avvenimento incerto, sul quale non potea farsi conto. Il numero de’ vassalli obbligati al militare servigio a seicentosessantasei cavalieri ascendea132, che poteano sperare un soccorso d’altri dugento capitanati dal conte di Tripoli. Ciascun cavaliere marciava armato alla pugna, e quattro scudieri, o arcieri a cavallo il seguivano133; le chiese e le città somministravano [p. 370 modifica]cinquemila settantacinque sergenti, probabilmente soldati di fanteria; laonde, calcolata ogni cosa, le forze regolari di questo reame non oltrepassavano di numero gli undicimila uomini, meschina difesa contra le innumerevoli truppe di Turchi e di Saracini134. Ma d’altra sicurezza la città di Gerusalemme godea, e fondavasi su i Cavalieri135 dell’Ospitale di S. Giovanni, e del Tempio di Salomone136; stravagante collegamento delle vite, monastica e militare, che, suggerito, non v’ha dubbio, dal fanatismo, la politica dovette approvare. Il fiore della Nobiltà europea aspirava a portar la Croce e a profferire i voti di questi ragguardevoli Ordini, che quanto a disciplina e valore in veruna occasione non si dismentirono. La donazione di ventottomila Signorie, di cui si videro ben [p. 371 modifica]tosto arricchiti137, diede ad essi abilità di mantenere truppe regolari di cavalleria e fanteria che difendessero la Palestina. Ma presto fra l’armi l’austerità monastica si dileguò; e per avarizia, orgoglio, corruttela di costumi, questi frati guerrieri tutto il Mondo cattolico scandalezzarono, armando pretensioni di immunità e giurisdizione: turbato venne per essi il buon accordo della Chiesa e dello Stato, e le loro gare mosse da scambievole gelosia, minacciavano ad ogn’istante la pubblica tranquillità. Pure sino allorquando più forti erano le costoro sregolatezze, i Cavalieri ospitalieri e templarj serbarono il lor carattere di fanatismo e d’intrepidezza; trascurando di vivere sotto le leggi di Gesù Cristo, pronti in ciascun’ora mostravansi a morire in difesa delle sue bandiere; e fu questa Instituzione, che dal Santo Sepolcro all’isola di Malta trasportò quello spirito di cavalleria da cui le Crociate ebbero origine, e che le Crociate mantennero138.

[A. D. 1369] Lo spirito di libertà che in mezzo alle istituzioni feudali trapela, parlava con tutta la sua forza ai cam[p. 372 modifica]pioni volontarj della Croce, che fra tanti Capi, elessero per comandar loro il più degno: onde un modello di politica libertà si stanziò fra gli schiavi dell’Asia, incapaci di apprezzarlo, o di seguirne l’esempio. Le leggi di questo reame francese dalle sorgenti le più pure della giustizia e della eguaglianza derivano. La prima, e più indispensabile condizione delle medesime, è il consenso di coloro dai quali obbedienza pretendono, e per la cui felicità sono fatte. Non appena Goffredo di Buglione ebbe accettata la suprema carica del Governo, si mostrò e pubblicamente, e privatamente sollecito di consultare quelli fra i pellegrini, che delle leggi e delle costumanze d’Europa meglio erano istrutti. Col soccorso di tali nozioni, e munito de’ consigli e dell’approvazione del Patriarca e de’ Baroni, del Clero e del Popolo, Goffredo compose le Assise di Gerusalemme139, prezioso monumento di feudale giurisprudenza. Questo nuovo codice contrassegnato dal sigillo del Re, del Patriarca, e del Visconte di Gerusalemme, venne deposto nel Santo Sepolcro, perfezionato a mano a mano, e rispettosamente consultato, ogni qualvolta nasceano casi dubbiosi ne’ tribunali della Palestina. Comunque i Franchi di Palestina, allorchè perdettero la città, ed il Regno, tutto perdessero140; una gelosa tradizione serbò i [p. 373 modifica]fragmenti della Legge Scritta141, e una incerta pratica di quegli Statuti fino alla metà del secolo decimoterzo. Giovanni d’Ibelin, Conte di Giaffa, uno de’ principali feudataj, scrisse di bel nuovo il Codice142, e nell’anno 1369, ebbe terminato di rivederlo ad uso del reame latino di Cipro143.

Due tribunali d’impari dignità, instituiti da Goffredo di Buglione dopo la conquista di [p. 374 modifica]Gerusalemmwme, manteneano la giustizia e la libertà della Costituzione. Il Re presedeva in persona la Corte suprema o Consiglio de’ Baroni, i quattro primarj de’ quali erano: il Principe di Galilea, il Signore di Sidone e di Cesarea, i Conti di Giaffa e di Tripoli, e a questi s’aggiugnea forse il Contestabile o il Maresciallo144, tutti pari e giudici gli uni degli altri. I Nobili che ricevevano immediatemente l’investitura delle proprie terre dalla Corona, aveano potere ed obbligo di sedersi alla Corte del Re, e di giurisdizione, simile alla regia, usavano nell’assemblea dei feudatarj che ad essi erano subordinati. La dependenza del vassallo verso il suo signore, per volontaria ed onorevole aveasi: l’uno dovea rispetto al suo protettore: l’altro protezione al suo inferiore, e mutuamente impegnavano la lor fede, talchè, da entrambi i lati, l’obbligazione potea rimanere sospesa per incuria, per oltraggio annullata. Il clero erasi arrogata la giurisdizione su i matrimonj ed i testamenti, siccome cosa che alla Religion pertenea; ma la Corte suprema giudicava ella sola tutti gli affari civili e criminali de’ Nobili, i diritti di successione, le trasmissioni de’ Feudi. Ciascun individuo di essa era giudice e custode del diritto pubblico, e avea l’obbligo di servire, colla voce e colla spada, il suo supremo signore; ma ogni qualvolta un ingiusto feudatario attentava alla libertà, o alle proprietà del vassallo, i pari di questo doveano sostenerne colle [p. 375 modifica]rimostranze e coll’armi i diritti; e divulgando coraggiosamente l’innocenza dell’oppresso e le ingiurie che aveva sofferte, chiedeano gli fossero restituiti i beni e la libertà; in caso di negata giustizia, il servigio lor ricusavano, liberavano dal carcere il proprio fratello; infine, per difenderlo, adoperavano tutte le vie di forza, che però in diretto modo non offendessero la persona del signore immediato, sempre sacro ai medesimi145. Gli avvocati della Corte pompeggiavano di destrezza e facondia nelle aringhe, o comparissero siccome attori, o si difendessero; ma l’uso del duello giudiziario, il più delle volte, veniva in luogo di argomenti e di prove. In molte occasioni le Assise di Gerusalemme ammetteano questa barbara costumanza, che sol lentamente le leggi e le nuove consuetudini dell’Europa hanno abolita.

Al combattimento giudiziario si facea luogo in tutte quelle cause criminali, ove della perdita della vita, di un membro, o dell’onore decider doveasi, e in tutte quelle pretensioni civili allor quando la cosa contrastata pareggiava, o oltrepassava il valore di un marco d’argento. Sembra che nelle cause criminali l’inchiesta del combattimento appartenesse al[p. 376 modifica]l’accusatore; il quale, tranne le accuse per delitti di Stato, vendicava egli stesso o l’ingiuria personale di cui querelavasi, o la morte della persona da esso rappresentata. Però in tutte quelle accuse che prova ammettevano, gli era d’uopo offerire testimonj di fatto. Nelle cause civili non si concedea il combattimento, come, prova che giustificasse i diritti di chi il richiedeva, ammenochè prima non desse testimonj, i quali avessero conoscenza del fatto, o affermassero averla. Allora il combattimento diveniva privilegio del difensore, che accusava i testimoni di spergiuro profferito a suo danno, e trovavasi quindi nella stessa circostanza di chi chiedea per cause criminali la pugna. In tal circostanza, il combattimento non provava nè per l’affermativa, nè per la negativa come il Montesquieu lo ha supposto146. Ma il diritto di presentarlo fondavasi sulla facoltà di ottenere coll’armi il risarcimento di un affronto; tal che la pugna giudiziaria non riconosceva origine diversa da quella per cui oggidì accadono i nostri duelli. Il campione non concedeasi che alle donne, e agli uomini privi di qualche membro, o l’età de’ quali oltrepassasse i sessant’anni. La sconfitta decidea della morte o dell’accusato, o dell’accusatore, ovvero del campione, o testimonio che questo erasi assunto. Nelle cause civili però chi chiedeva il duello, rimanendo vinto, [p. 377 modifica]non veniva punito che coll’infamia e colla perdita della causa; bensì il suo campione, o testimonio, ad obbrobriosa morte andava soggetto. In molti casi, il diritto di permettere, o proibire la pugna riserbavasi ai giudici; ma in due circostanze diveniva conseguenza inevitabile della disfida. Erano queste, se un fedele vassallo avesse data mentita a un de’ suoi pari sopra qualche ingiusta pretensione da questo armatasi sopra una parte de’ dominj del comune Signore; o se un litigante, mal contento della sentenza ardiva tacciare l’onore e l’equità de’ giudici della Corte. Gli era lecito il farlo, ma sotto la clausola severa, quanto pericolosa, di battersi nel medesimo giorno con tutti i Membri del tribunale, e sin con quelli che trovati eransi assenti all’atto della condanna, bastando che ei fosse vinto da un solo per soggiacere alla morte, e alla infamia. Ella è cosa probabile assai che niuno si avvisasse di tentare un tale esperimento, ove niuna speranza vedeasi di vittoria. Il Conte di Giaffa merita encomj per l’accortezza, con cui nelle Assise di Gerusalemme, anzichè cercare di agevolarli, s’adoperò a tor di mezzo i combattimenti giudiziarj. Ei li riguardava piuttosto fondati sui principj dell’onore che su quelli della superstizione147. [p. 378 modifica]

L’instituzione de’ Corpi civili e delle Comunità municipali, fu una delle precipue cagioni per cui i plebei alla feudale tirannide si sottrassero; e se la fondazione di tali corporazioni nella Palestina ha per epoca la prima Crociata, possono riguardarsi come le più antiche del Mondo latino. Grande era il numero degli uomini postisi in pellegrinaggio a solo fine di procacciarsi sotto le bandiere della Croce un rifugio contra gli immediati loro signori; la politica indusse i principi Francesi, come espediente di impedire tal migrazione, ad assicurar loro i diritti e i privilegi de’ liberi cittadini. L’Assisa di Gerusalemme ne dà in aperti termini a divedere, come Goffredo, dopo avere instituita pei Cavalieri e Baroni, una Corte di Pari, alla quale egli medesimo presedeva, creasse un secondo tribunale, ove il Visconte dello stesso Goffredo ne teneva le veci. Su di tutta la cittadinanza del regno la giurisdizione di cotesta Corte estendeasi: ed era composta di un numero di cittadini, scelti fra i più ragguardevoli ed assennati, i quali si obbligavano con giuramento a giudicare secondo le leggi tutti gli affari che si riferivano alle azioni, o alle sostanze de’ loro eguali148. I re, e i loro grandi vassalli fermandosi a mano a mano di residenza nei luoghi nuovamente conquistati seguirono l’esempio di Gerusalemme, onde prima della perdita [p. 379 modifica]di Terra Santa, più di trenta delle ridette corporazioni vi si trovarono. Le cure del Governo si estesero sopra un’altra classe di sudditi, i Cristiani della Sorìa, o orientali149 che sotto la tirannide del Clero gemeano. Avendo questi domandato di essere giudicati giusta le loro leggi nazionali, Goffredo ben accolse l’istanza; e a favor d’essi, venne instituita una terza Corte, la cui giurisdizione agli scambievoli affari di questi ricorrenti si limitava. Doveano i giudici scelti a tal uopo, essere nati in Sorìa, parlarne la lingua, e professarne la religione. Ma il Visconte della città vi adempia talvolta gli ufizj di presidente (Rais in lingua araba). Le Assise di Gerusalemme si presero ancora qualche pensiero degli uomini posti ad una incommensurabile distanza dai Nobili, degli stranieri, de’ villici, e degli schiavi o di gleba, o fatti in guerra, che indistintamente venivano riguardati siccome altrettante proprietà. La cura di sollevare, o proteggere questi infelici, quasi men degna di un legislatore venia reputata; però nel menzionato codice si tratta dei modi di assicurare il ritorno de’ fuggiaschi, senza pronunziar contr’essi pene afflittive. Coloro che gli aveano perduti, potevano fare istanza per riaverli, come se stati fossero cani o falconi. Di fatto il valore d’uno schiavo e d’un falcone era il medesimo: ma si chiedeano tre schiavi, o dodici buoi per compensare un cavallo di battaglia: e nel suolo della cavalleria, il prezzo di que[p. 380 modifica]sto animale, tanto agli altri due superiore venne valutato trecento piastre d’oro150.

Note

  1. L’origine del vocabolo Picard, e per conseguenza di Picardie, non più remota del duodicesimo secolo, è affatto singolare, e deriva da un scherno, meramente accademico, sugli studenti dell’università di Parigi, venuti dalle frontiere della Francia, o della Fiandra, ai quali a motivo della indole loro litigiosa fu attribuito l’epiteto di Picards. (Valois, Notitia Galliarum, pag. 447; Longuerue, Descript. de la France, pag. 54).
  2. Guglielmo di Tiro (l. I, c. 11, p.637, 638) descrive così l’Eremita: Pusillus, personna contemplibilis, vivacis ingenii, et oculum habens perspicacem gratumque, et sponte fluens ei non deerat eloquium. (V. Alberto d’Aix, p. 185; Giberto, p. 482; Anna Comnena in Alex., l. X, p. 284 ec., e le Note del Ducange, p. 349).
  3. Ultra quinquaginta millia, si me possunt in expeditione pro duce et pontifice habere, armata manu volunt in inimicos Dei insurgere, et ad sepulchrum Domini ipso ducente pervenire. (Greg. VII, epist. 2, 31, t. XII, p. 322, Concil.).
  4. V. le vite originali di Urbano II, scritte da Pandolfo Pisano, e da Bernardo Guido nel Muratori (Rerum ital. script., t. III, part. I, 352, 353).
  5. Cotesta donna è conosciuta sotto i nomi di Prasse, Euprecia, Eufrasia e Adelaide. Ella era figlia di un principe russo, e vedova di un Margravio di Brandeburgo (Struw, Corp. Hist. german. p. 340).
  6. Henricus odio eam coepit habere: ideo incarceravit eam, et concessit ut plerique vim ei inferrent; imo filium hortans ut eam subagitaret (Dodechin, Continuat. Marian. Scot., apud Baron., A. D. 1092 n. 4), e nel Concilio di Costanza, da Bertoldo, rerum inspector viene indicata: quae se tantas et tam inauditas fornicationum spurcitias, et a tantis passam fuisse conquesta est, etc. e indi a Piacenza: satis misericorditer suscepit, eo quod ipsam tantas spurcitias non tam commisisse, quam invitam pertulisse, pro certo cognoverit papa cum sancta synodo (Ap. Baron. A. D. 1093, n. 4, 1094, 3)(*). Bizzarro argomento alle infallibili decisioni di un Pontefice e di un Concilio!. Cotali abbominazioni ripugnano a tutti i sentimenti della natura umana, cui non può alterare una contesa che alla mitra e all’anello si riferisca. Sembra ciò nullameno che questa femmina sciagurata si lasciasse indurre dai preti a raccontare, o ad attestare colla propria sottoscrizione alcuni fatti obbrobriosi per essa e per suo marito ad un tempo.
    (*)I cattivissimi costumi di quel tempo davano tali sospetti ai Concilj, che per mancanza di buone leggi, di saggia politica, d’illuminati magistrati, e in somma d’incivilimento, dovevano udire tali cose, e rimediarvi, e giudicarne: di que’ secoli di mezzo, disse dottamente il Sabellico, ed abbiam noi maggior diritto di dirlo, giacchè di molto andarono innanzi le scienze, da Sabellico a noi: stupor et amentia quaedam oblivioque morum invaserant hominum animos. (Nota di N. N.).
  7. V. la Descrizione e gli Atti del Sinodo di Piacenza (Concil. t. XII, p. 821 ec.).
  8. Giberto, nato in Francia tesse egli stesso l’elogio del valore e della pietà di sua nazione, la quale co’ detti e coll’esempio predicò la Crociata: Gens nobilis, prudens, bellicosa, dapsilis et nitida.... Quos enim Britones, Anglos, Ligures, si bonis eos moribus videamus, non illico Francos homines appellemus? (pag. 478). Egli medesimo per altro confessa che la vivacità de’ suoi compatriotti degenera in vane millanterie (pag. 502), e in petulanza verso gli estranei (p. 483).
  9. Per viam quam jamdudum Carolus magnus, mirificus rex Francorum, aptari fecit usque C. P. (Gesta Franc., p. 1, Roberto Monaco, Hist. Hieros., l. I, p. 33 ec.).
  10. Giovanni Tilpino, o Turpino fu arcivescovo di Reims nell’anno di Cristo 773. Dopo il 1000, un frate delle frontiere della Spagna compose il romanzo che porta in fronte il nome di questo prelato, e ove questo Monsignore vien tratto a dipingersi da sè medesimo, com’uomo al vino e alle risse propenso. Ciò nullameno, tanta era in que’ tempi l’opinione del merito degli ecclesiastici, il pontefice Calisto II, A. D. 1122, riconobbe un tale apocrifo libro, siccome autentico, e l’Abate Sugger lo ha citato rispettosamente nelle grandi Cronache di S. Dionigi (Fabric. Biblioth. latin. medii aevi, ediz. Mansi, t. IV, pag. 161).
  11. V. Etat de la France, del Conte di Boulainvilliers, t. I, p. 180, 182, e il secondo volume delle Observations sur l’Histoire de France dell’abate Mably.
  12. Nelle province australi della Loira, i primi Capeti godeano appena della supremazia feudale; d’ogni lato la Normandia, la Brettagna, l’Aquitania, la Borgogna, la Lorena e la Fiandra, restrigneano i limiti della Francia, così propriamente detta. V. Adr. Valois, Notitia Galliarum.
  13. Questi Conti, usciti d’un ramo secondogenito de’ duchi di Aquitania, vennero finalmente da Filippo Augusto spogliati della massima parte de’ loro dominj; e i vescovi di Clermont insensibilmente diventarono i sovrani della città (Mélanges tirés d’une grande Biblioth., t. XXXVI, p. 288 ec.).
  14. V. gli Atti del Concilio di Clermont (Concil., t. XII, p. 829, ec.).
  15. Confluxerunt ad concilium e multis regionibus, viri potentes et honorati innumeri, quamvis cingulo laicalis militiae superbi (Baldric, testimonio occulare, p. 86-88; Roberto monaco, p. 31-32; Gugl. di Tiro, 1, 14-15, p. 639-641; Giberto, p. 478-480; Foulcher di Chartres, p. 382.
  16. La tregua di Dio (Treva o treuga Dei) ebbe la sua prima origine in Aquitania, nel 1032; biasimata da alcuni vescovi, come occasione prossima di spergiuro, rifiutata dai Normanni che in contraddizione co’ lor privilegi la riguardarono (V. Ducange, Gloss. lat. t. VI, 682-685).
  17. Deus vult! Deus vult! era il grido del Clero che intendeva il latino (Robert. Monach, l. I, p. 32). I Laici che parlavano il dialetto provenzale, o di Limoges lo corrompevano esclamando: Deus lo volt o Die el volt! V. Chron. Cassinense, l. IV, c. II, p. 497, nel Muratori, Script. rerum ital., t. IV, e Ducange, Diss. XI, p. 207, sopra Joinville, e Gloss. lat., t. II, p. 690. Quest’ultimo autore offre nella sua Prefazione un saggio difficile anzichè no del dialetto di Rouergue nel 1100; e le circostanze di luogo e di tempo, si avvicinano assai a quelle in cui il Concilio di Clermont fu tenuto (p. 15, 16).
  18. Essi la portavano per lo più sull’omero, ricamata in oro o in seta, ovvero fatta di due pezzi di drappo cuciti sull’abito. Nella prima spedizione di tal genere tutte queste Croci erano rosse; nella terza i soli Francesi aveano serbato questo colore. I Fiamminghi preferirono croci verdi, bianche gl’Inglesi (Ducange, t. II, p. 651). Pure il rosso sembra il color favorito del popolo inglese, e in tal qual modo nazionale, se abbiasi riguardo ai loro stendardi e alle loro vesti militari.
  19. Il Bongars che ha pubblicate le relazioni originali delle Crociate, adotta con compiacenza il titolo fanatico prescelto da Giberto, Gesta Dei per Francos. Alcuni critici proposero l’ammenda Gesta diaboli per Francos (Hannau 1611, 2 vol. in-fol.). Offrirò qui brevemente la nota degli autori da me consultati per la storia della prima Crociata collocandoli nell’ordine in cui si trovano nella raccolta, 1. Gesta Francorum; 2. Roberto il monaco; 3. Balderico; 4. Raimondo d’Agiles; 5. Alberto d’Aix; 6. Foulcher di Chartres; 7. Giberto; 8. Guglielmo di Tiro; 9. Radolfo Cadomense de gestis Tancredi (Script. rer. ital. t. V, p. 285-333), e 10. Bernardo Tesoriere, De acquisitione Terrae Sanctae (tom. VII, pag. 664-848). Quest’ultimo fu ignoto ad un autore francese moderno che ha composto un lungo registro critico degli storici delle Crociate (Esprit des Croisades, tom. I, p. 13-141), e i cui giudizj credo nella massima parte poter confermare. Non mi è riuscito il procacciarmi che tardi la raccolta degli Storici francesi del Duchesne. 1. Petri Tudebodi sacerdotis Sivracensis Historia de Hierosolymitano Itinere (t. IV, p. 773-815), è stata rifusa nelle opere del primo scrittore anonimo, del Bongars. 2. La storia in versi della prima Crociata, in sette libri divisa (p. 890-912), oltre all’essere assai sospetta, è ben poco istruttiva.
  20. Se il lettore si farà ad esaminare la prima scena della prima parte dell’Enrico IV, troverà nel testo del Shakespeare gli slanci naturali dell’entusiasmo, e nelle note del dottore Johnson gli sforzi di uno spirito vigoroso, ma ad un tempo pregiudicato, che avidamente afferra tutti i pretesti per odiare e perseguitare chiunque nelle opinioni religiose da lui differisca.
  21. Il sesto discorso del Fleury intorno alla Hist. ecclesiast. (p. 223-261) contiene un esame filosofico sulla cagione e su gli effetti delle Crociate.
  22. Muratori (Antiq. ital. medii aevi, t. V, Dissert. 68, p. 709-768) e il sig. Chais (Lettres sur les jubilées et sur les indulgences, t. II, Lettres 21 e 22, p. 478-556) discutono ampiamente il soggetto della penitenza e delle indulgenze del Medio evo. Avvi però fra essi questa diversità che il dotto Italiano dipinge con moderazione, e forse con troppo deboli tinte, gli abusi della superstizione, mentre il ministro olandese gli esagera con eccesso di acerbità.
  23. Lo Schmidt (Ist. degli Alemanni, t. II, p. 211-220, 452-462) offre uno scritto del Codice penitenziale di Regino nel nono secolo e di Burcardo nel decimo. A Worms in uno stesso anno furono commessi cinquantacinque assassinj.
  24. Il male di que’ tempi, nel quale erano involti i laici del pari, che gli ecclesiastici, ed i difetti delle discipline stesse colle quali pretendevasi porvi rimedio, sono già descritti lungamente dagli Storici. I progressi della civiltà, l’ordinamento delle leggi, la cognizione del vero ben pubblico, la buona filosofia, nata, a cresciuta lentamente, ma sodamente, dopo il coltivamento della lettere, e delle arti che a lei disposa, ed elevò gli animi, ci condussero ad uno stato oltremodo migliore, onde noi riguardiamo con compassione quei passati secoli, ne’ quali si aveva una falsa idea dell’indulgenze. (Nota di N. N.)
  25. Si può provare all’evidenza che fino al dodicesimo secolo il solidus d’argento, o lo scellino, valea dodici danari o soldi, e che venti solidi equivaleano al peso di una libbra d’argento, una lira sterlina in circa. La moneta inglese si trova ridotta ad un terzo del suo valore primitivo, e la francese ad un quinto.
  26. Una qualche parte di queste grandi somme era impiegata a benefizio de’ poveri; ma questa disposizione, per sè stessa pia, non faceva, non altrimenti, che quella simile de’ ricchissimi monasteri, che alimentare l’infingardaggine, ed impedire il movimento dell’industria, una delle vere sorgenti della prosperità di un popolo. (Nota di N. N.)
  27. È noto che v’erano cattive costumanze intorno la remissione de’ peccati, e intorno al genere di penitenza, onde cancellarli. (Nota di N. N.)
  28. Ad ogni centinaio di battiture, il penitente si purificava recitando un salmo; e tutto il Salterio accompagnato da quindicimila staffilate scontava cinque anni di penitenza canonica.
  29. La vita e le imprese di san Domenico l’Incuoiato si trovano riferite da Pier Damiano, ammiratore ed amico di questo Santo. V. Fleury (Hist. ecclés., t. XIII, p. 96-104). Il Baronio (A. D. 1056, n. 7) osserva, sulle tracce di Damiano, quanto fosse venuto in usanza un tal modo di espiazione (Purgatorii genus), ed anche fra le più ragguardevoli matrone (sublimis generis).
  30. A un quarto di reale, o anche ad un mezzo reale per battitura. Sancio Pansa non mettea tanto cara l’opera sua; nè forse era più mariuolo.... Mi ricordo aver veduto ne’ Voyages d’Italie del padre Labat (t. VII, p. 16-29) una pittura ammirabile della destrezza d’uno di cotesti giornalieri.
  31. Quicumque pro sola devotione, non pro honoris vel pecuniae adeptione, ad liberandam ecclesiam Dei Jerusalem profectus fuerit, iter illud pro omni paenitentia reputetur. (Canon., Concilio di Clermont, II, p. 829). Giberto chiama novum salutis genus questo pellegrinaggio (p. 471), e tratta, quasi da filosofo, un tale argomento.
  32. Tali erano almeno la fiducia de’ Crociati, e l’opinione unanime degli Storici d’allora (Esprit des Croisades, t. III, p. 477); giusta la teologia ortodossa però, le preghiere pel riposo dell’anime dovrebbero essere incompatibili coi meriti del martirio.
  33. I venturieri scriveano lettere intese a confermare tutte queste belle speranze, ad animandos qui in Francia residerant. Ugo di Reiteste vantavasi di avere in sua porzione una abbazia e dieci castella, pretendendo che la conquista di Aleppo altre cento glie ne frutterebbe. (Guibert, p. 554, 555).
  34. Nella sua lettera, o vera, o falsa, al conte di Fiandra, Alessio fa un miscuglio de’ rischi della Chiesa, delle reliquie de’ Santi e dello amor auri et argenti et pulcherrimarum faeminarum voluptas (p. 476): come se, montando in collera, osserva Giberto, le donne greche fossero più belle delle francesi.
  35. V. i privilegi de’ Crucesignati, immunità da’ debiti, usure, ingiurie, braccio secolare ec. Essi erano sotto la perpetua salvaguardia del Papa (Ducange, t. II, p. 651, 652).
  36. Facevano bene a procacciarsi denari, perchè non dobbiam sempre attendere miracoli. (Nota di N. N.)
  37. Giberto (p. 481) offre una pittura vivacissima di questa frenesia generale. Egli era nel picciol numero di que’ suoi contemporanei, capaci di esaminare e apprezzare con freddezza di mente la scena straordinaria che innanzi agli occhi accadeagli: Erat itaque videre miraculum caro omnes emere, atque vili vendere, ec.
  38. Per quanto grande fosse il fanatismo, e la cecità degli uomini in quel tempo, bisognava che l’Autore non solamente citasse cotesta specie di pagamento, ma lo provasse con qualche esempio particolare. (Nota di N. N.)
  39. Trovansi nell’opera (Esprit des Croisades, t. III, p. 169, ec.) intorno a questi stigmi alcune particolarità tolte da autori ch’io non ho confrontati.
  40. Fuit et aliud scelus detestabile in hac congregatione pedestris populi, stulti et vesanae levitatis, anserem quemdam divino spiritu asserebant afflatum, et capellam non minus eodem repletam; et hos sibi duces secundae viae fecerant, ec. (Alberto d’Aix, l. I, c. 31, p. 169). Se cotesti contadini fossero stati fondatori di un impero, vi avrebbero potuto introdurre, come in Egitto, il culto degli animali che la filosofia de’ lor discendenti avrebbe giustificato sotto il velo di qualche sottile e speciosa allegoria.
  41. Beniamino di Tudela descrive lo stato de’ suoi confratelli ebrei, dimoranti sulle rive del Reno, partendosi da Colonia; questi erano ricchi, generosi, istrutti, benefici, e l’arrivo del Messia con impazienza aspettavano (Viaggi t. I, p. 243-245, di Baratier). Ebbero d’uopo di un periodo di settanta anni (egli scrivea verso l’anno 1170) per rilevarsi dopo le perdite e le stragi sofferte.
  42. Lo spogliamento e le strage degli Ebrei che per ogni Crociata rinnovellavansi, vengono dipinti come cose indifferenti dagli storici di quella età. Vero è che S. Bernardo (epist. 363, t. I, p. 329) avverte i Francesi orientali che non sunt Judaei persequendi, non sunt trucidandi. Ma un frate, rivale di S. Bernardo, predicava un’affatto opposta dottrina.
  43. V. la Descrizione contemporanea dell’Ungheria in Ottone di Freysingen (l. II, c. 31) e nel Muratori (Script. rerum ital., t. VI, p. 665, 666.).
  44. Gli antichi Ungaresi, senza eccettuarne Turotzio, sono male istrutti della prima Crociata, che, secondo essi, si ridusse a passar tutta per un sol luogo. Il Katona, costretto, come noi, a citare gli scrittori francesi confronta però con cognizione de’ luoghi l’antica e la moderna geografia. Ante portam Cyperon est Sopron o Poson, Mallevilla, Zemlim, Fluvius Maroe, Sava; Lintax, Leith; Mesebroche vel Merseburg, Onar, o Moson; Tollemburg, Praga (De regibus Hungar., t. III, p. 19-93).
  45. Anna Comnena (Alexias, l. X, p. 287) descrive questo οσων κολωνος, monte d’ossa, υψηλον και βαθος και πλατος και πλατος αξιολογωτατον, alto e scosceso e largo, degnissimo di memoria; i Franchi medesimi, all’assedio di Nicea, se ne prevalsero per fabbricare un muro.
  46. Trovansi alla successiva p. 301 in un picciolo specchio i rimandi particolari agli Storici che scrissero i grandi avvenimenti della prima Crociata.
  47. L’autore dello Esprit des Croisades ha poste in dubbio, e avrebbe anche potuto negare a suo grado, la crociata e la tragica morte del Principe Svenone, e de’ suoi mille cinquecento, o quindicimila Danesi trucidati in Cappadocia dal sultan Solimano; ne ha conservata a bastanza la memoria il Tasso nell’ottavo suo canto.
  48. Gli avanzi del regno di Lotharingia, o Lorena, vennero divisi in due Ducati, della Mosella, e della Mosa; il primo ha conservato il suo nome; l’altro ha acquistato quello di Ducato del Brabante. (Valois, Notit. Gall., p. 283-288).
  49. V. nella Descrizione della Francia, dell’abate di Longuerue gli articoli intorno a Bologna (part. I, p. 47, 48, Bouillon; p. 134). Nell’atto di sua partenza Goffredo diede in pegno alla Chiesa il Ducato di Buglione, ottenendone tredicimila marchi.
  50. V. in Guglielmo di Tiro (l. IX, c. 5-8), il carattere di Buglione; il suo antico divisamento, in Giberto (p. 485); l’infermità, e il voto ch’ei fece, in Bernardo il Tesoriere (c. 78).
  51. Anna Comnena suppone che Ugo ostentasse nascita, potenza e ricchezze (l. X, p. 288); i due ultimi articoli potevano forse a qualche contestazione esser soggetti, ma una ευγενεια, nobiltà celebre, più di settecent’anni addietro nella reggia di Costantinopoli, attestava come antica fosse in Francia la dignità de’ Capeti.
  52. I. Guglielmo Gometicense (l. VII, c. 7, p. 672, 673, in Camdem Normannicis). Roberto impegnò il Ducato di Normandia per un centesimo di quanto ne è rendita annuale a’ dì nostri. Diecimila marchi possono valutarsi un mezzo milione di lire, e la Normandia oggigiorno paga ogn’anno al Re cinquantasette milioni (Necker, Administ. des finances, t. I, p. 287).
  53. La lettera che Stefano scrisse a sua moglie trovasi, inserita nello Spicilegium di Dom Luc d’Acheri (t. IV), e citata nello Esprit des Croisades (t. I, p. 65).
  54. Unius enim, duum, trium seu quatuor oppidorum dominos quis numeret? Quorum tanta fuit copia, ut non vix totidem Trojana obsidio coegisse putetur. Così esprimesi Giberto colla sua sempre dilettevole vivacità. (p. 486).
  55. È cosa straordinaria che Raimondo di San Gille, personaggio secondario nella Storia delle Crociate, sia dagli scrittori greci ed arabi collocato a capo degli eroi di questa spedizione (Anna Comnena, Alex. l. X, XI, e Longuerue, p. 129).
  56. Omnes de Burgundia et Alvernia, et Vescovania et Gothi (di Linguadoca) provinciales appellabantur, coeteri vero Francigenae et hoc in exercitu; inter hostes autem Franci dicebantur. (Raimondo d’Agiles, p. 144.)
  57. La città natalizia, ossia il primo appannaggio di questo Raimondo, era dedicata a sant’Egidio, il nome del qual Santo, ai giorni della prima Crociata, i Francesi convertirono nell’altro di Saint-Gilles o Saint-Giles (san Gille). Situata nella Bassa Linguadoca, fra Nimes e il Rodano, questa città, vanta una Collegiata di cui lo stesso Raimondo è stato il fondatore (Mélanges tirés d’une grande Bibliothèque, t. XXXVII, p. 51).
  58. Erano genitori di Tancredi il marchese Odone il Buono, ed Emma, sorella del gran Roberto Guiscardo. Fa maraviglia che la patria di un tanto illustre personaggio sia sconosciuta. Il Muratori, con molta probabilità, lo presume italiano, e forse della stirpe de’ marchesi di Monferrato nel Piemonte (Script., t. V, p. 281, 282).
  59. Per compiacere la puerile vanità della Casa d’Este(*) il Tasso ha inserito nel suo poema, e nella prima Crociata un eroe favoloso, il valente e innamorato Rinaldo. Forse ei prese ad imprestito questo nome da un Rinaldo decorato dell'Aquila bianca estense, che vinse l’Imperatore Federico I (Storia imperiale di Ricobaldo, nel Muratori, Script. Ital., t. X, p. 360; Ariosto, Orlando furioso); ma primieramente la distanza di sessant’anni fra la gioventù de’ due Rinaldi, distrugge la loro identità; in secondo luogo, la Storia imperiale è una invenzione del Conte Boiardo, architettata sul finire del secolo XV (Muratori, p. 281-289). Per ultimo questo secondo Rinaldo e le sue imprese, non sono men favolose di quelle dell’altro Rinaldo cantato dal Tasso (Muratori, Antichità estensi, t. I, p. 350).
    (*): Più antica di Virgilio, il quale assegna per antenati ad Augusto i pronipoti di Venere, figlia di Giove, è la compiacenza dei potenti nel veder immortalate le loro prosapie dal canto de’ sommi poeti; e meglio che puerile potremmo chiamarla, una vanità ingenita nella natura umana. Nel caso particolare poi, chi conosce la vita e le sfortune del Tasso, potrà facilmente persuadersi che la finzione da esso inventata ad onore di una famiglia, la quale non manca d’uomini illustri, anche senza ricorrere a finzioni, gli fu suggerita da desiderio di rendersi accetto ai suoi padroni, anzichè da una brama da essi spiegata di voler essere onorati in tal guisa (Nota dell’Editore).
  60. Due etimologie vengono assegnate alla parola gentilis, gentiluomo. L’una deriva dai Barbari del quinto secolo prima arrolatisi come soldati, divenuti indi conquistatori dell’Impero Romano, i quali dalla loro straniera origine traevano vanità. L’altra dall’opinione de’ giureconsulti che hanno per sinonimi i vocaboli gentilis ingenuus. Alla prima etimologia inclina il Selden; la seconda più spontanea, è anche la più probabile.
  61. Framea scutoque juvenem ornant. Tacito, Germania, c. 13.
  62. Gli esercizj degli atleti, soprattutto il cesto e il pancrazio, vennero biasimati da Licurgo, da Filoppemene e da Galeno, vale a dire da un legislatore, da un Generale e da un medico. Contro la censura di questi il lettore può leggere la difesa che ne ha fatto Luciano nell’elogio di Solone (V. West, sui Giuochi olimpici nel suo Pindaro, v. II, p. 86-96, 245-248).
  63. Nelle opere del Selden (t. III, part. I. I Titoli di onore: part. II, c. 1-3, 5-8) trovansi molto estese descrizioni intorno la cavalleria, il servigio dei cavalieri, la nobiltà, il grido di guerra, gli stendardi e i tornei. V. anche il Ducange (Gloss. lat. t. IV, p. 398-412 ec.) Diss. intorno al Joinville, l. VI, al XII, pag. 127-142, 165-222), e Mémoires de M. de Sainte-Palaye sur la Chevalerie.
  64. L’opera Familiae dalmaticae del Ducange è arida ed imperfetta; gli storici nazionali troppo moderni e favolosi: troppo lontani e trascurati gli storici greci. Nell’anno 1004, Colomano diede per confini al paese marittimo Salona e Trau (Katona, Hist. crit. t. III, p. 195-207).
  65. Scodra, presso Tito Livio, sembra essere stata la capitale o la Fortezza di Genzio, re degl’Illirici, arx munitissima, indi non colonia romana (Cellarius, t. I, p. 393-394), che ha preso poi il nome di Iscodar, o Scutari (D’Anville, Géogr. ancien., t. I, p. 164). Il Sangiacco, oggidì Pascià di Scutari, o Sceindeire, era l’ottavo sotto il Beglierbeg di Romania, e somministrava seicento soldati sopra una rendita di settantottomila settecento ottantassette risdaleri. (Marsigli, Stato militare dell’Impero Ottomano p. 128.)
  66. In Pelagonia castrum haereticum... spoliatum cum suis habitatoribus igne combussere. Nec id eis injuria contigit: quia illorum detestabilis sermo et cancer serpebat, jamque circumjacentes regiones suo pravo dogmate faedaverat (Roberto Mon., p. 36, 37). Dopo avere freddamente raccontato il fatto, l’arcivescovo Baldricco aggiugne come un elogio: Omnes, siquidem illi viatores, Judaeos, haereticos, Saracenos aequaliter habent exosos; quos omnes appellant inimicos Dei (p. 92).
  67. Αναλαβομενος απο Ρωμης την χρυσην του΄ Αγιου Πετρου σημαιαν, levando da Roma tutto l’oro monetato di S. Pietro (Alexiad., l. X, p. 288).
  68. Ο Βασιλευς των Βασιλεων, και αρχηγος του Φραγγικου στρατεματος απαντος, Re dei Re, e generalissimo di tutto l’esercito Franco: pompa orientale, che è ridicola in un conte di Normandia; ma il Ducange, compreso da patrio zelo (Not. ad Alexiad., p. 352, 353; Dissert. sopra Joinville p. 315) ripete con compiacenza i passi di Mattia Paris (A. D. 1254), e di Froiss (vol. IV, pag. 201) che attribuiscono al re di Francia i titoli di rex regum, o di chef de tous les rois chrétiens.
  69. Anna Comnena, nata nel dì 1 dicembre, A. D. 1083, ind. VIII (Alexiad., l. VI, p. 166. 167) avea tredici anni all’epoca della prima Crociata. Già atta alle nozze, o forse sposatasi al giovine Niceforo, ella lo chiama con tenerezza τον εμαν Καισαρα, il mio Cesare (l. X, pag. 295, 296). Alcuni moderni hanno attribuita a dispetto amoroso l’avversione in cui ebbe Boemondo. Quanto alle cose accadute a Costantinopoli e a Nicea (Alex., l. X, XI, p. 283-517) la parzialità de’ suoi racconti può contrabbilanciare quella degli storici latini; ma si ferma poco sugli avvenimenti che dalle stesse cose seguirono, ed è inoltre a tal proposito male istrutta.
  70. Nel modo di dipingere il carattere e la politica di Alessio, il Maimbourg ha favoriti i Franchi cattolici, il Voltaire si è mostrato di soverchio parziale ai Greci scismatici. I pregiudizj di un filosofo sono meno scusabili che quelli di un Gesuita.
  71. Fra il mar Nero ed il Bosforo sta il fiume Barbyses, profondissimo nella state, e che scorre per uno spazio di quindici miglia in mezzo ad una prateria uniforme e scoperta. La sua comunicazione con Costantinopoli e coll’Europa, è assicurata dal ponte di pietra di Blachernae che fu rifabbricato da Giustiniano e da Basilio (Gillio De Bosphoro Thracio, lib. II, c. 3, Ducange C. P. Christiana, lib. IV, cap. 2, pag. 179).
  72. Due sorta v’erano di adozioni; quella dell’armi, e l’altra, la cerimonia della quale si stava nel far passare il figlio adottivo tra la pelle e la camicia del padre. Il Ducange, Dissert. XXII p. 270, suppone che Goffredo sia stato adottato nel secondo di tali modi.
  73. Dopo il suo ritorno dalle Crociate, Roberto si fece affatto ligio al re d’Inghilterra. V. il primo atto dei Foedera del Rymer.
  74. Sensit vetus regnandi, falsos in amore, odia non fingere; Tacito VI, 44.
  75. La vanità degli storici delle Crociate accenna leggiermente e con imbarazzo questa circostanza umiliante; nondimeno è cosa molto naturale, che se questi eroi s’inginocchiarono per salutar l’Imperatore, che rimaneva immobile sul proprio trono, gli baciarono i piedi o le ginocchia. Solamente fa maraviglia che Anna non abbia ampiamente supplito al silenzio e all’oscurità dei Latini; l’umiliazione dei loro principi avrebbe aggiunto un capitolo, rilevante per questa donna, al Coeremoniale aulae Byzantinae.
  76. Questo Crociato si diede il nome di φραγγος καθαρος ευγενων, Franco puro fra i Nobili (Alexiad., l. X, p. 301). Bel titolo di nobiltà, ascendente all’undicesimo secolo per chi potesse ai dì nostri provarsi derivato da questo Roberto! Anna racconta, con segnalata compiacenza, che questo arrogante Barbaro Λακινος τετυφωμενος, Latino pien di fumo, fu in appresso ucciso e sconfitto, combattendo alla prima linea dell’esercito nella battaglia di Dorilea, l. XI, p. 317; circostanza che può giustificare quanto il Ducange ha supposto intorno all’audace Barone; cioè essere questi Roberto di Parigi, del distretto chiamato il ducato o l’Isola di Francia.
  77. Con eguale accorgimento il Ducange scopre che la chiesa di cui favellava il Barone, è S. Drauso o Drosino di Soissons. Quem duello dimicaturi solent invocare: pugiles qui ad memoriam ejus (alla tomba), pernoctant invictos reddit, ut de Italia et Burgundia tali necessitate confugiatur ad eum. Joan. Sariberiensis epist. 139.
  78. Varie sono le opinioni sul numero d’uomini che questo esercito componeano; ma non avvi autorità paragonabile a quella di Tolomeo che lo determina di cinquemila uomini a cavallo, e trentamila fanti (V. gli Annales di Usher, p. 152).
  79. V. Foulcher di Chartres p. 587. Egli annovera diciannove nazioni di nome e lingue diverse (p. 389). Io però non comprendo con molta chiarezza qual differenza ei ponga tra Franci e Galli, fra Itali e Apuli. Altrove (p. 385) parla col massimo disprezzo dei disertori.
  80. V. Giberto, pag. 556. Però la modesta opposizione di questo istorico lascia tuttavia luogo ad ammettere un numero d’uomini considerabilissimo. Urbano II, nel fervor del suo zelo, conta sino a trecentomila i pellegrini (Epist. 16, Concil. t. XII, p. 731).
  81. V. Alexias, l. X, p. 283-505. La ridicola schifiltà di questa principessa, la trae a lamentarsi della bizzarria di certi nomi alla pronunzia difficilissimi; e di fatto son pochi i nomi latini che ella non siasi studiata di sformare con quella orgogliosa ignoranza sì comune e tanto prediletta ai popoli ingentiliti. Ne citerò un solo esempio; ella trasforma il nome di S. Gille in Sangeles.
  82. Guglielmo di Malmsbury che scrisse verso l’anno 1130, ha inserito nella sua Storia (l. IV, p. 130-154) il racconto della prima Crociata; ma avrei bramato che invece di prestare orecchio a voci di lieve conto, raccolte attraversando l’Oceano (p. 143), si fosse limitato a narrare quanto riferivasi al numero, alle famiglie, e alle avventure de’ suoi compatriotti. Trovo in Dugdale che un Normanno inglese, Stefano conte di Albermarle e di Holdernesse, comandava alla battaglia d’Antiochia l’antiguardo in compagnia del Duca Roberto (Baronage, part. I, p. 61).
  83. Videres Scotorum apud se ferocium, alias imbellium cuneos (Guibert, p. 471). Il crus intectum, e la hispida chlamys, possono riferirsi ai montanari scozzesi: ma il finibus uliginosis è applicabile con più naturalezza alle paludi della Irlanda. Il Malmsbury parlando degli abitanti di Galles e degli Scozzesi (l. IV, p. 133), dice che i primi abbandonarono venationem saltuum, i secondi familiaritatem pulicum.
  84. Qui l’Autore a torto allude di nuovo al culto renduto da’ Cattolici alle immagini. (Nota di N. N.)
  85. Questa fame da cannibali, talvolta reale, e più sovente menzognera e artifiziosa, viene affermata da Anna Comnena (Alex., l. X, p. 288), da Giberto (p. 546), da Radolfo Cadom. (capo 97). L’autore dell’opera Gesta Francorum, il monaco Roberto, Baldricco e Raimondo di Agyle, riferiscono questo stratagemma all’assedio e alla carestia di Antiochia.
  86. I Latini lo additano col nome di Solimano, nome che pur gli davano i Musulmani: il carattere e l’indole di questo Sultano è stata di molto sublimata dal Tasso. I Turchi il nomavano Kilidge-Arslan (A. E. 485-500, A. D. 1092-1107. V. le Tavole del De Guignes, t. I, p. 245). Gli Orientali si valeano di questo nome; parimente l’adoperavano, benchè corrotto alcun poco, i Greci, ma non trovasi che un nome solo nelle storie de’ Maomettani, i cui scrittori si dimostrano molto aridi e laconici in tutto quanto si aspetta alla prima Crociata (De Guignes t. III, part. II, p. 10-30).
  87. Su tutto ciò che riguarda fortificazioni, macchine e assedj del Medio Evo, si consulti il Muratori (Antiq. Ital., t. II, Dissert. 26, p. 452-524). Il belfredus, d’onde è venuta la più moderna voce beffroi, era la torre sulle ruote degli Antichi (Ducange t. I, p. 608).
  88. Non posso starmi dall’osservare la somiglianza tra le fazioni operate dai Crociati nell’assedio di Nicea dal suo lago protetta, e quelle di Fernando Cortez dinanzi alla capitale del Messico. (V. Robertson, Storia dell’America t. I, p. 608.)
  89. Miscredenti, voce inventata dai Crociati francesi, e adoperata oggidì solamente nel significato ch’essa offre. Sembra però che i nostri antichi, nell’ardore della lor divozione, riguardassero come sinonimi i vocaboli miscredente, e uomo spregevole; questa pregiudicata opinione cova tuttavia nelle anime di alcuni che si pretendono essere veri cristiani.
  90. Il Baronio ha tratta in campo una lettera molto apocrifa, e scritta al mio fratello Ruggero (A. D. 1098 n. 15). Giusta la medesima l’esercito nemico era composto di Medi, di Persiani e di Caldei: sia! il primo assalto fu a danno dei nostri; è vero anche questo: ma per qual motivo Goffredo di Buglione e Ugo si danno il titolo di fratelli? osservo inoltre che vien dato a Tancredi il nome di filius. Figlio di chi? Non certamente di Ruggero o di Boemondo.
  91. Verum tamen dicunt se esse de Francorum generatione; et quia nullus homo naturaliter debet esse miles nisi Turci et Franci (Gesta Francorum, p. 7). Tal comune origine ed eguaglianza di valore nelle due genti viene parimente riconosciuta e attestata dall’Arcivescovo Baldricco, (p. 99).
  92. Balista, balestra, arbalete, V. Muratori, Antiquit., t. II, p. 517-524: Ducange, Gloss. lat., t. I, p. 531, 532. Ai giorni di Anna Comnena, una tal arme, descritta dalla medesima sotto il nome di tzangra, era sconosciuta nell’Oriente. (l. X, pag. 291). Per un sentimento d’umanità che mal coll’altre cose accordavasi, il Papa si adoperò ad impedire nelle guerre de’ Cristiani l’uso delle balestre.
  93. Il leggitore curioso può far confronto tra la erudizione classica del Cellario, e la scienza geografica del d’Anville. Guglielmo di Tiro è il solo storico delle Crociate che conosca alcun poco l’antichità. Il Sig. Otter ha presso che passo a passo seguìti i Franchi da Costantinopoli fino ad Antiochia (Voyage en Turquie et en Perse, t. I, p. 35-88.)
  94. Quanto avvi di meglio intorno a questa particolare conquista di Edessa, è il racconto fattone da Foulcher di Chartres, il valoroso Cappellano del Conte Baldovino, racconto che trovasi nelle compilazioni di Bongars, Duchesne e Martenne (Esprit des Croisades, t. I, p. 13, 14). E in ciò che spetta alle risse accadute fra questo Principe e Tancredi, la parzialità del ridetto Foulcher può contrapporsi a quella dimostrata da Randolfo Cadomense, soldato e storico del prode Marchese di Puglia.
  95. V. de Guignes, Hist. des Huns, t. I, p. 456.
  96. Quanto ad Antiochia, V. la Descrizione del Levante composta dal Pocock, vol. 2, part. 1, p. 188-193; Voyage d’Otter en Turquie, ec. t. I, p. 81, ec.; il Geografo turco nelle Note fatte al predetto viaggio; l’Indice geografico di Schultens (ad calcem Bohadin., vit. Saladini), ed Abulfeda (Tabula Syriae, p. 115, 116, vers. Reiske).
  97. Ensem elevat, eumque a sinistra parte scapularum, tanta virtute intorsit ut quod pectus medium disjunxit, spinam et vitalia interrupit, et sic lubricus ensis super crus dextrum integer exivit, sicque caput integrum cum dextera parte corporis immersit gurgite, partemque quae equo praesidebat remisit civitati (Robert. Mon. p. 50). Cujus ense trajectus Turcus duo factus est Turci; ut inferior alter in urbem equitaret, alter arcitenens in flumine nataret (Radulph. Cadom., c. 53, p. 54). Questo autore ciò null’ostante si sforza a giustificare il fatto, deducendolo dalle stupendis viribus, o più che naturali di Goffredo. Guglielmo di Tiro cerca salvare la verisimiglianza colla seguente espressione obstupuit populus facti novitate: però un tal fatto ai cavalieri di quel secolo non dovea sembrare incredibile.
  98. V. le geste di Roberto, di Raimondo, e del modesto Tancredi che imponea silenzio al proprio scudiere (Radulp. Cadom., c. 53).
  99. Dopo avere raccontato a qual cattivo partito ridotti fossero i Franchi, e l’umile proposta che fecero al nemico, Abulfaragio aggiugne la superba risposta di Codbuka o Kerboga: Non evasuri estis nisi per gladium (Dynast., p. 242).
  100. La maggior parte degli Storici latini (l’Autore delle Gesta, p. 17; il monaco Roberto, p. 56; Baldric. p. 111; Foulcher di Chartres, p. 392; Giberto, p. 512; Guglielmo di Tiro, l. VI, c. 3, pag. 714; Bernardo il Tesoriere, c. 39, p. 695) nel descrivere l’esercito di Kerboga si limitano alle espressioni vaghe di infinita multitudo, immensum agmen, innumerae copiae o gentes, che combinano coll’altre μετα ανοριθμητων χιλιαδων, innumerabili migliaia di migliaia, di Anna Comnena (Alexias, l. XI, p. 318-320) Alberto d’Aix fa sommare il numero de’ Turchi a dugentomila uomini di cavalleria (l. IV, c. 10, p. 242), e Radolfo a quattrocentomila (c. 72, p. 309).
  101. V. la fine tragica e scandalosa di un arcidiacono di stirpe reale, ucciso dai Turchi, mentre stavasi in un verziere giocando ai dadi con una concubina della Sorìa.
  102. Il prezzo di un bue da cinque solidi (quindici scellini) salì a due marchi (quattro lire sterline), indi anche di più; un capretto, o un agnello da uno scellino a quindici o diciotto lire tornesi all’incirca. Nella seconda carestia, una pagnotta, o una testa d’animale, vendeansi una piastra d’oro. Molti altri esempj si potrebbero citare; ma sono i prezzi ordinarj non gli straordinarj che meritano l’attenzione del filosofo.
  103. Alii multi, quorum omnia non tenemus, quia deleta de libro vitae, praesenti operi non sunt inserenda (Guglielmo di Tiro, l. VI, c. 5, p. 715). Giberto, pag. 518-523, cerca di scusare Ugo il Grande ed anche Stefano di Chartres.
  104. V. il seguito della Crociata, la ritirata di Alessio, la vittoria di Antiochia, e la conquista di Gerusalemme nell’Alessiade, l. II, pag. 317-327. La Principessa greca era tanto propensa alla esagerazione, che neppure narrando le geste dei Latini, ha potuto farne di meno.
  105. Non è da maravigliarsi, che in quei tempi, ed in quelle circostanze sia ciò avvenuto: ciò nulla ha relazione colla sostanza della religione cristiana. (Nota di N. N.).
  106. Nel raccontare le cose che alla Santa Lancia si riferiscono, il maomettano Abulmahasen (V. de Guignes, t. II, parte 2, p. 95) è più esatto de’ due storici Cristiani, Anna Comnena e Abulfaragio. La Principessa greca confonde la Lancia con un Chiodo della Croce, (l. XI, p. 366); e un primate giacobita col pastoral di S. Pietro (p. 242).
  107. I due antagonisti che si mostrano meglio istrutti, e più fortemente convinti, l’un del miracolo l’altro della frode, sono Raimondo d’Agiles e Randolfo di Caen, il primo appartenente al seguito del Conte di Tolosa, il secondo al Principe normanno. Foulcher di Chartres osa dire: Audite fraudem et non fraudem! indi invenit lanceam, fallaciter occultatam forsitan: il rimanente della turba sostenea con fermezza e forza la veracità del miracolo.
  108. V. De Guignes (t. II, part. 2, p. 223 ec.) e gli articoli di Barkiarok, Mohammed, Sangiar, nel d’Herbelot.
  109. L’Emiro, o sultano Afdal ricuperò Gerusalemme e Tiro nell’anno dell’Egira 489 (V. Renaudot, Hist. patriarch. Alexand., p. 478, de Guignes, t. I, p. 249, indi Abulfeda e Ben-Schounah). Jerusalem ante adventum vestrum recuperavimus, Turcos ejecimus, diceano gli ambasciatori dei Fatimiti.
  110. V. le transazioni tra il califfo d’Egitto e i Crociati in Guglielmo di Tiro (l. IV, c. 24; l. VI, c. 19) e in Alberto d’Aix (l. III, c. 39), i quali scrittori, a quanto apparisce, meglio de’ contemporanei, valutavano l’importanza delle medesime.
  111. La maggior parte del cammino trascorso dai Franchi trovasi con esattezza descritta nel Viaggio di Maundrell da Aleppo a Gerusalemme (p. 11-67, uno, senza dubbio, dei migliori documenti che abbiasi su tale soggetto (D’Anville, Mémoire sur Jerusaleme, p. 27).
  112. V. l’ammirabile descrizione di Tacito (Hist. V, 11, 12, 13), il quale pretende che i legislatori degli Ebrei si fossero prefissi di mettere il loro popolo in istato di ostilità perpetua col rimanente del genere umano.
  113. Il senno e l’erudizione dell’autore francese dell’opera Esprit des Croisades, contrabbilanciano fortemente l’ingegnoso scetticismo del Voltaire. Il predetto scrittore osserva (t. IV, p. 386-388) che, giusta i calcoli degli Arabi, gli abitanti di Gerusalemme oltrepassavano i dugentomila; che nel tempo di Gerusalemme assediata da Tito, Giuseppe li faceva ascendere ad un milione trecentomila; che Tacito stesso tenea per fermo sommassero a seicentomila, onde fatta anche la massima sottrazione, atta a giustificare l’accepimus di questo Storico, ad ogni modo superavano in numero l’esercito dei Romani.
  114. Maudrell, che fece esattamente il giro delle mura, calcolò una circonferenza di seicentotrenta passi, o quattromila cento sessantasette verghe inglesi (pag. 109-110). Fondatosi sopra una pianta autentica, il d’Anville, nel suo breve e prezioso Trattato, ammette un’estensione di circa mille novecento sessanta tese francesi (p. 23-29). Quanto alla topografia di Gerusalemme, V. Reland (Palestina, t. II, p. 832-860).
  115. Gerusalemme non trae le sue acque che dal torrente di Cedron, asciutto durante la state, e dal picciolo ruscello di Siloè (Reland, t. I, p. 294-300). E nativi e stranieri, parimente lagnavansi dalla scarsezza di acque, incomodo che in tempo di guerra, i nemici si studiavano accrescere. Secondo Tacito, erano entro la città una fontana, che non inaridiva in veruna stagione, un acquidotto, e cisterne per raccogliere le acque che venivan dal cielo; l’acquidotto le ricevea dal ruscello Tekoe, o Etham, di cui parla anche Boadino nella vita di Saladino (p. 238).
  116. Gerusalemme liberata, Cant. XIII e XVIII. Non possiamo qui dispensarci dall’osservare con quanta cura il Tasso abbia conservate ed abbellite le più piccole particolarità di questo assedio.
  117. Oltre agli storici Latini che di narrare questo macello non si vergognano. V. Elmacin (Hist. Saracen., pag. 363), Abulfaragio (Dynast., pag. 243), e il de Guignes (t. II, part. II, p. 9) fondato sulle testimonianze di Abul-Mahasen.
  118. L’antica torre di Psefina, detta Neblosa nel Medio Evo, incominciò a chiamarsi Castellum Pisanum dopo che Damberto fu nominato patriarca. Essa è tuttavia residenza e rocca di un Agà turco. Da questa torre si scoprono il mar Morto, una parte della Giudea e dell’Arabia (d’Anville, p. 19-23). Venne chiamata parimente πυργος παμμεγεθεςατος, torre di David.
  119. Hume, Storia dell’Inghilterra, vol. I, p. 311, 312, ediz. in 8.
  120. Voltaire, Essai sur l’Histoire générale; t. II, c. 54, p. 345, 346.
  121. Gl’Inglesi attribuiscono a Roberto di Normandia, i Provenzali a Raimondo di Tolosa, la gloria di avere ricusata la corona di Gerusalemme; ma la voce sincera della tradizione ha conservata la ricordanza dell’ambizione e della vendetta del Conte di San-Gille (Villehardouin, n. 136). Morì all’assedio di Tripoli, città posseduta dai successori di questo Conte.
  122. V. l’elezione di Goffredo e la battaglia di Ascalon in Guglielmo di Tiro, l. IX, c. 1-12, e nella conclusione delle Storie Latine della prima Crociata.
  123. Renaudot, Hist. patr. Alexand., p. 479.
  124. V. le rimostranze del patriarca Damberto in Guglielmo di Tiro (l. IX, c. 15-18, l. X, c. 4, 7, 9), il quale scrittore con maravigliosa buona fede sostiene l’independenza dei conquistatori e de’ re di Gerusalemme.
  125. Guglielmo di Tiro (l. X, p. 19), la Historia Hierosolymitana di Giacomo di Vitry (l. I; c. 21, 50), e l’Opera Secreta fidelium Crucis, di Marino Sanuto (l. III, p. 1) offrono le opportune nozioni sullo Stato e sulle conquiste del regno latino di Gerusalemme.
  126. Nell’instituire il censo de’ sudditi, David si accorse di aver sotto i proprj ordini, non comprendendo le tribù di Levi e di Beniamino, un milione trecentomila di soli combattenti, o un milione cinquecento settantaquattromila; dal quale calcolo, aggiugnendo i vecchi, le donne, i fanciulli e gli schiavi, sarebbe risultato che un paese lungo sessanta leghe, largo trenta, contenesse una popolazione di circa tredici milioni. Il Le Clerc (Comment. XXIV, Chron., XXI), aestuat angusto in limite, e dà a divedere qualche sospetto di un error di copista; pericoloso sospetto!
  127. Il racconto di tali assedj collocato ciascun d’essi al luogo che gli appartiene, trovasi nella grande storia di Guglielmo di Tiro, incominciando dal libro nono, e venendo fino al decimo ottavo. Leggonsi pure più in epilogo nell’opere di Bernardo il Tesoriere De acquisitione Terrae Sanctae (c. 89, 98, p. 732-740). Le Cronache di Pisa, Genova e Venezia, narrano alcuni fatti particolari che a queste repubbliche si riferiscono, ed altre particolarità pur si raccolgono dai tomi sesto, nono e duodecimo del Muratori.
  128. Quidam populus de insulis Occidentis egressus et maxime de ea parte quae Norvegia dicitur. Guglielmo di Tiro (l. XI, c. 14, p. 804) descrive la loro corsa per Britannicum mare et Calpen, all’assedio di Sidone.
  129. Benelathir parla certamente dell’interno del paese. V. de Guignes (Histoire des Huns p. 150, 151, A. D. 1127).
  130. Il Sanato biasima, nè a torto, il diritto della succession femminile usato in una terra, hostibus circumdata, ubi cuncta virilia et virtuosa esse deberent. È però da osservarsi che ogni donna, erede di nobil feudo, veniva obbligata, per ordine e con approvazione del signore da cui le veniva l’investitura, a scegliersi un marito, o un campione (Assises de Jerusalem, c. 242 ec.) V. De Guignes (t. I, p. 441-471). Le tavole di questa dinastia esatte, e che possono essere utili, son tolte dall’opera Lignages d’outre-mer.
  131. I figli nati da tali mescolanze chiamavansi per derisione pullani, e il loro nome non pronunziavasi che con disprezzo (Ducange, Gloss. lat. t. V, p. 535, Observations sur Joinville, p. 84, 85; Giacomo di Vitry, Hist. Hierosol., l. I, c. 67, 72) Illustrium virorum qui ad Terrae Sanctae .... liberationem, in ipsa manserunt, degeneres filli .... in deliciis enutriti, molles et effeminati (V. Sanuto, l. III, part. VIII, c. 2, p. 182).
  132. Questo autentico ragguaglio è tolto dalle Assise di Gerusalemme (c. 324-326-331). Sanuto (l. III, c. I, p. 174) non conta che cinquecento diciotto uomini a cavallo, e cinquemila settecentosettantacinque armigeri.
  133. Le prescrizioni che determinavano il contingente di tre grandi baronie, metteano l’obbligo di soli cento cavalieri. Forse i quattro uomini a cavallo che seguivano il Cavaliere possono dar ragione del testo delle Assise che porta a cinquecento il numero degli uomini a cavallo.
  134. Nondimeno ne’ grandi pericoli dello Stato, dice il Sanuto, i Cavalieri conduceano spontaneamente un seguito più numeroso, decentem comitivam militum juxta statum suum.
  135. Guglielmo di Tiro (l. XVIII, c. 3, 4, 5) narra l’origine ignobile e la precoce tracotanza degli Ospitalieri, che abbandonarono ben presto il lor più modesto avvocato s. Giovanni l’Elemosiniere, per ostentarne uno più augusto in san Giovanni Battista. Vedansi a tal proposito gl’inutili sforzi del Pagi (Critica, A. D. 1099, n. 14-18). Abbracciarono la professione dell’armi verso l’anno 1120. L’Ospitale era mater; il Tempio filia; la fondazione dell’Ordine Teutonico si riporta all’anno di Cristo 1190, epoca dell’assedio di Acri (Mosh. Instit. p. 389, 390).
  136. V. S. Bernardo, De laude novae militiae Templi, Opera composta A. D. 1132-1136 in Opp. t. I, parte 2, p. 547-563; ediz. Mabillon, Venezia 1730. Un tale elogio degli antichi Templarj sarebbe grandemente apprezzato dagli storici di Malta.
  137. V. Mattia Paris, (Hist. Major., p. 544). Egli assegna agli Ospitalieri diciannovemila, ai Templarj novemila maneriu, vocabolo il cui significato, come il Ducange ha giudiziosamente osservato, è più esteso nella lingua inglese che nella francese. Il manor degl’Inglesi equivale a signoria, il francese manoir non è che una abitazione.
  138. Ne’ primi libri della Storia de’ cavalieri di Malta, composta dall’abate di Vertot, i nostri leggitori potranno trovare una descrizione luminosa, e talvolta adulatrice, dell’Ordine dei Templarj, sintanto che rimasero a difendere la Palestina. I successivi libri trattano della lor migrazione alle isole di Rodi e di Malta.
  139. Le Assise di Gerusalemme, scritte in antico francese, vennero, insieme alle Costumanze del Beauvoisis, impresse da Beaumanoir (Bourges et Paris, 1690 in folio), e commentate da Gasp.-Th. de La Thaumassière. Se ne pubblicò una traduzione italiana a Venezia, ad uso del regno di Cipro.
  140. A la terre perdue, tout fut perdu; tale è l’ espressione energica delle Assise (c. 281); ciò nonostante Gerusalemme capitolò con Saladino; la regina e i principali Cristiani ebbero la libertà di ritirarsi, nè questo codice prezioso e portatile adescar potea l’avarizia de’ conquistatori. Più di una volta mi son condotto a dubitare sulla esistenza di questo Originale deposto nel Santo Sepolcro, e che ben potrebbe essere stato inventato per santificare quanto sulle costumanze dei Francesi nella Palestina fosse venuto meramente per tradizione.
  141. Un nobile giureconsulto, Raoul di Tabarie, A. D. 1195-1205, richiesto dal re Amauri di pubblicare per iscritto le nozioni che aveva acquistate a tale proposito, rifiutò di prestarsi a ciò, protestando in chiari termini que de ce qu’il savait, ne ferait-il ja nul borjois son pareil, ne nul sage homme lettré (c. 281).
  142. Il compilatore di quest’Opera, Giovanni d’Ibelin, era Conte di Giaffa e di Ascalon, signore di Barut (Berite) e di Rames; morì nell’anno di Cristo 1266 (Sanuto, l. III, part. 2, c. 5-8). La famiglia d’Ibelin che derivava da un ramo cadetto de’ Conti di Chartres in Francia, occupò per lungo tempo un grado distinto nella Palestina e nel regno di Cipro. V. l’opera Lignages de decà mer o d’outre-mer (c. 6), alla fine delle Assise di Gerusalemme. Questo libro originale contiene tutta la genealogia de’ venturieri francesi.
  143. Sedici commissarj scelti negli Stati dell’isola, terminarono l’opera nel giorno 3 di novembre 1369; e questo codice suggellato con quattro sigilli venne deposto nella Cattedrale di Nicosia. V. la Prefazione delle Assise.
  144. Il circospetto Giovanni d’Ibelin conchiude, anzichè affermare essere Tripoli la quarta Baronia, e manifesta alcuni dubbj su i diritti o le pretensioni del Contestabile o maresciallo (c. 323).
  145. Entre seignor et homme ne n’a que la foi .... mais tant que l’homme doit à son seignor révérence en toutes choses (c. 206), tous les hommes du dit royaume sont, par ladite Assise, tenus les uns aux autres ....: et en celle manière que le seignor mette main, ou fasse mettre au corps ou au fié d’aucun d’yaux sans esgard et sans connoissance de court, que tous les autres doivent venir devant le seignor, etc. (cap. 212). Le lor rimostranze scritte in uno stile nobile e semplice, offrono le forme caratteristiche della libertà.
  146. V. Esprit des Lois, lib. XXVIII. Per un corso di quarant’anni dopo la pubblicazione della citata Opera, niun’altra fu maggiormente letta, e a maggiori critiche assoggettata; l’ardore delle ricerche per essa destatosi, non è la minore delle obbligazioni che all’autor della medesima protestiamo.
  147. A meglio intendere quest’antica ed oscura giurisprudenza mi è stata d’un possente soccorso l’amicizia di un dotto Lord, che ha esaminata con pari accuratezza e sapere la storia filosofica delle leggi. I lavori di cotest’uomo potranno un giorno arricchire la posterità; ma i meriti del Giudice e dell’Oratore non possono essere apprezzati siccome si dee che dai soli contemporanei.
  148. Il regno di Luigi il Grosso, riguardato come autore di tale instituzione negli Stati di Francia, non incominciò che nove anni dopo il regno di Goffredo (A. D. 1108), Assises (c. 2-324). V. intorno all’origine e agli effetti della instituzione medesima le osservazioni giudiziose del Robertson (St. di Carlo V, vol. 1).
  149. Tutti i lettori che hanno famigliarità colla storia, intenderanno per popolo di Sorìa i Cristiani orientali, Melchiti, Giacobiti e Nestoriani, i quali tutti avean adottato l’uso della lingua araba.
  150. V. le Assise di Gerusalemme (310, 311, 312). Queste leggi furono in vigore fino al 1350 nel regno di Cipro. Nello stesso secolo, sotto il regno di Odoardo I (e lo scorgo dal suo libro de’ conti di recente pubblicato), il prezzo di un cavallo non era meno esorbitante nell’Inghilterra.