Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo II/Dissertazione preliminare

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Dissertazione preliminare

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[p. 1 modifica]DISSERTAZIONE PRELIMINARE

SULL’ORIGINE

DEL DECADIMENTO DELLE SCIENZE

La decadenza della romana letteratura, che debb’essere il principale argomento di questo volume, è un punto troppo interessante, perchè io debba contentarmi di riferirne semplicemente i successi, senza esaminarne l’origine e le cagioni. Nel decorso di questa Storia dovrem più volte vedere somiglianti vicende, cioè le lettere or più or meno coltivate; or tutta l’Italia, per così dire, rivolta ardentemente agli studj, ora quasi interamente sepolta in una vergognosa ignoranza. Vedremo ancora in una età un genere di scienza aver sopra gli altri stima ed applauso; un altro antiporsi a tutti in un’altra; diversi gusti in somma e di versa maniera di pensare in circostanze diverse. Egli è dunque necessario l’investigar qui sulle prime, onde soglian muovere tai cambiamenti; acciocchè, fissate in certo modo le leggi di queste rivoluzioni della letteratura, possiamo intenderne meglio gli effetti, e vedere come essi siano insieme concatenati e congiunti. Molto da molti si è scritto su questo argomento; e nondimeno vi sarà forse a cui sembri ch’esso non sia stato rischiarato abbastanza. Io certo non ho ancor

Tjraboscbi, Voi. II. i [p. 2 modifica]letto scrittore che parlando della decadenza degli studj, tali ragioni ne arrechi che corrispondano pienamente agli e (Tetti. Mi sia dunque lecito l’esaminare le altrui opinioni, e il proporre le mie; non perchè io mi reputi valevole a scoprire ciò che altri non hanno ancora scoperto, ma perchè spesso avviene che coll’osservare le vie tenute dagli altri per giùgnere a un termine, a cui essi non poterono pervenire, si arrivi finalmente a segnarne il sicuro sentiero.

I. E primieramente la munificenza de’ principi, e gli onori e i premj proposti a’ coltivatori delle arti e delle scienze, si reca comunemente per una delle principali ragioni del fiorir degli studj; la quale al contrario se venga meno, necessario è ancora che gli studi languiscano, e a poco a poco cadano in una total decadenza. E certo non può negarsi che da’ principi dipenda in gran parte la sorte della letteratura. Augusto ne’ tempi più addietro, i Medici e gli Estensi in Italia , Francesco I e Luigi XIV in Francia ne’ più recenti, ne sono una chiara riprova. Gli uomini si portano naturalmente a ciò che veggono dover loro riuscire onorevole e vantaggioso; e in un governo monarchico singolarmente, in cui ogni cosa dipenda dal voler del sovrano, se questi mostri di avere in pregio, e di accordar favore e mercede a’ poeti, a’ filosofi, agli oratori, si vedrà presto il regno pieno di oratori, di filosofi, di poeti. Ma potrem noi dire che questo basti o a far fiorire gli studi, o ad impedirne la decadenza? Riflettiamo più attentamente, e vedremo [p. 3 modifica]die benché sembri non esservi motivo più efficace di questo, troppo è lungi cionnonostante dal potersi arrecare per unica o principal cagione del fiorire, o del decadere della letteratura. Antonio e Marco Aurelio non furono meno splendidi di Augusto nell’onorare gli uomini dotti, e lo superarono ancora in ciò che appartiene all’avere in gran pregio i filosofi. E nondimeno qual differenza fra il secolo di Augusto e quel di Antonino e di Aurelio! In questo noi trovi am bene molti filosofi greci dimoranti in Roma; ma tra’ Romani troviamo assai pochi che coltivasser gli studj; e que’ medesimi che li coltivarono, e di cui ci sono rimaste le opere, possono essi paragonarsi cogli scrittori del secolo di Angusto? Qual protezione accordarono alle lettere Tiberio, Caligola, Nerone, Domiziano? uomini che sembrarono saliti sul trono a distruzione della umanità. E nondimeno quanti scrittori fiorirono a’ loro tempi, inferiori certo in eleganza di scrivere a que’ dei tempi di Augusto, ma migliori assai di que’ che vennero dopo! Io non penso certo che Francesco I cedesse in nulla a Lugi XIV nel proteggere e fomentare gli studj. Ma vorransi perciò mettere a confronto Rabelais, le Caron, Ronsard, Marot, con Cornelio, Racine , Boileau, Fontenelle, Bossuet, Bourdaloue, Fenelon, Rousseau? La munificenza de’ principi può dunque giovar certamente, ma non può bastare perchè lo stato della letteratura sia generalmente lieto e felice. II. L’indole e La natura del governo si vuole da altri che molto influisca sullo stato delle scienze e delle arti. In un governo tirannico e [p. 4 modifica]crudele, dicono essi, in cui i sudditi debbano continuamente temere o insidie, o violenze, come è possibile che coltivar si possan gli studj che richiedono animo tranquillo e lieto? Al contrario in un governo dolce e soave, in cui la saggia provvidenza del principe, o la con-J cordia do magistrati assicuri la felicità dello Stato e la tranquillità e la pace de’ cittadini! si volge volentieri il pensiero a’ begli studj che si possono agiatamente e con onor coltivare! E a questo comunemente si attribuisce la decadenza degli studj dopo il regno di Augusto. Poteva egli sperarsi che mentre ogni cosa in Roma era piena di timori e sospetti, mentre una parola pronunciata o scritta men cautamente bastava a render uno reo di morte , mentre in somma l’invidia, la prepotenza, la crudeltà era arbitra de’ beni e della vita de’ cittadini , si attendesse agli studj? Nè può negarsi che uno Stato felice e tranquillo sia a ciò più opportuno di assai che non uno Stato torbido, sedizioso e sconvolto. Ma i fatti qui ancora ci mostrano che non può questa recarsi per prin cipal ragione del diverso stato della letteratura. Egli è certo che il regno de’ primi Cesari che immediatamente succederono ad Augusto, fu più crudele assai di quello di molti de’ lor successori; alcuni de’ quali furono esempio di sovrana clemenza, e si mostrarono veri padri della pa tria e del popolo. E ciò non ostante le scienze assai minor tracollo soffersero sotto i primi che sotto i secondi. La nostra Italia fu certa mente assai più tranquilla e felice nel secolo! scorso che al fine del secolo xv e al principi [p. 5 modifica]del xvi: eppure qual diversità a questi due tempi nello stato dell’italiana letteratura! Quanti altri regni e quante repubbliche potrei io qui nominare, che mentre ancor godevano della più dolce tranquillità, pure a tutt’altro hanno pensato che a far fiorire le scienze! Non basta dunque la felicità dello stato perchè fioriscan le scienze: e queste son talvolta fiorite anche in uno Stato agitato e sconvolto; ed altre ragioni convien perciò ricercare di questa rivoluzione.

III L’invasione de’ popoli barbari che per tanto tempo desolaron l’Italia e quasi tutta l’Europa, si suole ancora arrecare per ragione del decadimento delle scienze. E certo vi dovett’essa concorrer molto. Uomini rozzi, e che in niun pregio avean le lettere, di cui per (fino ignoravano il nome, come potevan essi fomentare gli studj? E nondimeno in vano si recherebbe questa a bastevole prova. Noi vedremo che anche a que’ tempi vi furon uomini che coltivarono studiosamente le scienze, benchè i loro scritti siano guasti da una insofferibil rozzezza. E senza ciò, l’Italia nel secolo xvi avea condotte le arti e le lettere a gran perfezione. Nel secolo seguente decadder di nuovo in gran parte. E quai popoli furon mai quelli che allor l’invasero?

IV. Molto ancora influisce a condurre al dicadimento le scienze il libertinaggio e la dissolutezza de’ costumi, non perchè non possa uno esser al tempo medesimo uom guasto e colto; troppi esempi ce ne somministra la storia antica non meno che la moderna; ma perchè

III. Né la decadenza di essa si può attribuir solo alla invasione de’ Barbari.

IV. Nè al pubblico libertinaggio. [p. 6 modifica]in uno Stato o in una città in cui il vizio signoreggi liberamente, e gli uomini non abbiano per lo più altro pensiero che di secondare le ree loro inclinazioni, egli è difficile che si coltivin generalmente le scienze, quelle singolarmente che son più gravi e seriose. E questa è appunto la ragione che del misero stato in cui eran le scienze a’ suoi tempi, arreca il famoso Longino nel suo trattato del Sublime 1 (cap. 35). Il desiderio delle ricchezze, egli dice, I da cui noi siamo all’eccesso compresi, e 1 amor del piacere, son quelli che veramente ci | rendono schiavi, e, per meglio dire, ci trascinano al precipizio in cui tutti i nostri talenti sono come sepolti. Ma se porremo a diligente confronto la storia della letteratura colla storia de’ costumi, noi troverem certo che in una uguale costumatezza, o in una ugual corruttela diverso è stato il coltivamento degli studj. Egli è certo che il libertinaggio non fu mai forse portato a più sfacciata impudenza che al regno di Tiberio, di Caligola e di Nerone; quando ognuno riputava lecito e, direi quasi, glorioso seguire gli esempj che que’ brutali uomini lor davano pubblicamente; e nondimeno, come sii è detto di sopra, furono a’ que’ tempi le lettere più coltivate che sotto altri più severi e più costumati imperadori che venner dopo. Di- , rem noi forse che gl’Italiani fossero più scc sfumati nel decimosettimo che nel decimosesto secolo, o che orai siano più costumati che nel secolo scorso? E nondimeno può egli lo scorso secolo essere in letteratura paragonato al decimosesto secolo, o alpre-f presente? Innoltre quanti uomini vi sono stati nel [p. 7 modifica]tempi che cliciam barbari, eli’ eran certo di costumi incorrotti e santissimi, e amantissimi dello studio; e nondimeno hanno usato di uno stil rozzo ed incolto! V. Or poichè ciascheduna di queste ragioni non par bastante a cagionare il decadimento delle scienze, si è da alcuni pensato che l’unione di tutte insieme, o di alcune almeno tra esse dovesse dirsene la vera origine. Così ha pensato singolarmente M. Racine il figlio , che in una sua dissertazione, di cui si ha l’estratto nella Storia dell’Accademia delle Iscrizioni (t 8, p. 324), dopo aver mostrato, come noi pure abbiam fatto finora, che ciascheduna delle arrecate ragioni non son bastevoli a spiegare questo effetto, pensa che l’unione di molte favorevoli circostanze, le quali recano la gioia e la pubblica tranquillità, quali sono la pace dello Stato, la felicità dei successi, la dolcezza del governo congiunta alla liberalità de’ principi, ed altre somiglianti, debba riconoscersi per cagione del fiorir degli studj; ed all’incontro alla mancanza di essa si debba ascrivere il loro decadimento. Ed egli è certo che l’unione di tai motivi debbe avere più forza che non ciascheduno di essi per se medesimo. E nondimeno io penso che non possa questo ancora bastare al nostro intento. Ne’ regni di Antonino e di M!. Aurelio queste circostanze si trovarono assai più unite che non a’ tempi de’ successori di Augusto; eppure, come si è detto, in questi più che in quelli furon coltivate le scienze. Trovaronsi esse pure felicemente riunite a’ tempi di Carlo Magno, il quale usò di ogni arte per v. Ncppur tutte queste ragioni insieme. congiunte basi4110 4 formarne la vera ungi ut. [p. 8 modifica]far risorger gli stilili. Ma ottenne egli perciò l’effetto desiderato? VI. Prosiegue poi lo stesso autore, aggiugnendo che più d’ogni cosa conduce alla rovina degli studj il cattivo gusto, l’amore delle acutezze e f all’ettazion dello stile; e per recarne un esempio, il prende dalla storia della letteratura italiana; ma ha egli pur la sventura comune a molti oltramontani che appena si accingono scrivendo a porre il piede in Italia, che inciampano miseramente; perciocchè dice che il Tasso fu il primo a mettere tra gl’Italiani alla moda il cattivo gusto, e che d’allora in poi i gran genj sono scomparsi in Italia. Ma lasciam in disparte quest1 autorevole detto, che non è di questo luogo il trattarne; e riflettiam solo sulla nuova ragione che il Racine adduce della decadenza degli studj, cioè il cattivo gusto, ec. Certo, ove il gusto è cattivo non posson fiorire le belle arti; ma parmi che ciò sia lo stesso che dire, che ove non son valenti pittori non possono esservi pregevoli dipinture; perciocchè rimane ancora a cercare per qual ragione il cattivo gusto prevalga al buono, e la viziosa alla sincera eloquenza. VII. Le riflessioni che finora abbiam fatto a mostrare l’insufficienza di tutte queste cause morali a produrre il decadimento di cui trattiamo, ci potrebber per avventura condurre a ricevere come verisimile il sentimento del celebre ab. du Bos, il quale dopo aver confessato che le dette cause morali possono in qualche parte influir sulle scienze, osserva (Reflex,. sur la Poésie et sur la peinture, t. 2, sect. 12, ec.) [p. 9 modifica]che cionnonostante esse non bastano a spiegar le diverse vicende che in esse veggiamo. Quindi volendo pure ritrovar la ragione di tai cambiamenti , propone modestamente un suo pensiero, che le cause fisiche ancora vi possano aver parte, quali sono le diversità del clima, la diversa temperazione dell’aria, le diverse esalazioni che escono dalla terra, ed altre somiglianti. A questi tempi noi veggiamo le cagioni fisiche sollevate da alcuni filosofi a tal onore, a cui esse non pensaron certo di dover giugner giammai. Le inclinazioni e le passioni, i vizj e le virtù, la religione stessa non sono, secondo essi, che un affare di clima; anzi l’uomo non è diverso dalle bestie, se non perchè ha gli organi più sensitivi e più perfetti di esse. Così mentre credono di sollevarsi sul volgo co’ sublimi lor pensamenti, si abbassano fino allo stato di fiera, da cui appena si trova, seguendo il lor sistema, in che sian diversi. Da sì strana opinione io credo che ben fosse lontano l’ab. duBos, che non toglie già la forza delle cagioni morali, ma aggiugne loro ancora le fisiche; benchè, a dir vero, nel suo discorso ei conduca le cose a tal segno, che sembra che le cagioni morali quasi nulla abbian di forza in paragon delle fisiche. Prendiamo ad esaminar brevemente le prove ch’egli ne arreca.

VIII. Osserva egli dunque che’ vi ha de’ paesi in cui non si son veduti giammai nè pittori nè poeti illustri; e poteva aggiugnere ancora, che ve ne ha alcuni in cui non è giammai fiorita sorte alcuna di scienza. Nè alcun certamente potrà venir con lui a contrasto su questa [p. 10 modifica]IX. Qual parte possa in ciò avere il elio».

proposizione. Vi può essere certo un clima che renda talmente gli uomini pigri e torbidi e melensi , che non possa in essi accendersi scintilla alcuna di quel fuoco senza cui è inutile l’accingersi a coltivare le scienze. Chi si facesse a spiegare il sistema di Newton, o l’Iliade d’Omero a’ Samoiedi, a’ Lapponi, agli Ottentotti, gran frutto certo trarrebbe dalle sue fatiche. Vi può essere ancora tal clima che renda gli uomini opportuni a coltivare una scienza, inetti a un’altra, poichè diversa è la costituzion degli spiriti necessaria a un filosofo, diversa quella degli spiriti necessaria a un poeta; e benchè qualche esempio si abbia d’uomini che l’uno all’altro studio hanno felicemente congiunto, più sono nondimeno gli esempj in contrario. Ma non è ciò che qui si cerca. Noi veggiamo nello stesso paese, sotto il medesimo clima, ora essere in fiore gli studj d’ogni maniera, or decadere; e questo è di che ricercasi la cagione. IX. (Questa difficoltà dovette avvertirsi dallo stesso ab. du Bos; ed egli non che atterrirsene, se ne vale a prova della sua opinione. In certi tempi, egli dice, le cagioni morali non han potuto formare valorosi artigiani (e dicasi ancora valorosi oratori, poeti, filosofi, ec.) anche in quei paesi che in altri tempi ne hanno prodotti molti, per così dire, spontaneamente. Sembra che la natura capricciosa non li faccia nascere se non quando le piace. A provar ciò egli reca le prove stesse che noi già abbiam recate di sopra a mostrare che la magnificenza de’ principi non basta a far fiorire le scienze; e questa è appunto la sola conseguenza che [p. 11 modifica]da tai fatti si può dedurre. Ma egli ne trae che alle cagioni fisiche ciò deesi attribuire. A provare però che queste ne siano la ragione, non bastan certamente tai fatti. Egli pretende che come il diverso clima molto influisce sulla diversità dell’indole e dell’ingegno, nel che non troverà chi gli contradica, così nel paese medesimo per molte diverse circostanze possa in diversi tempi cambiarsi clima 5 e che quindi possa un secolo essere più d’un altro fecondo in uomini grandi e in grandi ingegni. Questo ancora è probabile. Ma basta egli ciò a spiegare la decadenza degli studj? Seneca, Lucano, Marziale son certamente scrittori inferiori a Cicerone, a Virgilio, a Catullo. Ma dirà egli l’ab. du Bos che avessero minor ingegno di quelli? Anzi noi leggendo le lor opere veggiamo con dispiacere che ingegni così preclari tanto declinassero dal buon sentiero. Dirà egli che il Marini fosse in ingegno inferiore ad alcun de’ poeti che l’aveano preceduto? E tanti di que’ sacri oratori dello scorso secolo, che co’ loro concetti, colle ardite metafore, e con altre sì fatte ridicolose stranezze ci muovono alle risa, non veggiam noi insieme che uomini essi erano di grande ingegno, e che se i migliori esemplari si fosser proposti a modello, divenuti sarebbono valentissimi oratori? Non sappiamo noi pure di molti che dopo aver per qualche tempo seguito il cattivo gusto del secolo precedente, fatti accorti del lor traviamento, divennero eccellenti scrittori? E lo stesso ab. du Bos non narra egli che l’Holbeins divenne pittor migliore di assai dopo aver veduti [p. 12 modifica]alcuni quadri di eccellente maestro; e che Rafaello fu assai diverso da se medesimo poichè ebbe vedute alcune pitture di Michelangiolo? Quegli uomini stessi adunque che furon poeti, oratori, dipintori eccellenti, non avrebbon superata la mediocrità, se non.avessero avuti innanzi agli occhi eccellenti modelli. Or qual parte possono in ciò avere le cagion fisiche? Sarà dunque effetto del clima diverso e delle diverse esalazioni, che or regni nello scrivere un fino e scelto gusto, or un guasto e corrotto? Che aria era mai quella che respiravano l’Achillini e il Preti, e tutti que’ freddissimi concettisti dello scorso secolo? e come insieme facevano a difendersi dalle cattive impressioni di essa il Galilei, il Torricelli, il Cavalieri, il Viviani, il Redi e tanti altri giustissimi spiriti e coltissimi scrittori dello stesso secolo? Ma andiamo innanzi, e veggiamo le altre ragioni che a prova del suo sistema si recano dal valoroso scrittor francese.

X. Le arti, dic’egli, arrivano alla lor perfezione con un improvviso e subitaneo progresso. E qui ancora ne reca ad esempio la pittura; perciocchè, continua egli, poichè ella risorse, si mantenne per oltre a due secoli in quella rozzezza medesima che al sorgere aveva avuta; poscia verso il fine del secolo XV eccola improvvisamente, divenire perfetta, e pittori grandissimi sorgere, per così dire, da ogni parte. Io non voglio qui trattenermi ad esaminare e a confutare questa asserzione, che mi condurrebbe troppo oltre. Anzi per me concedasi pure all’ab. du Bos, che così fosse veramente; e [p. 13 modifica]alle la pittura, dopo essere stata rozza per oltre a due secoli, divenisse tutto ad un tempo perfetta , benchè le cause morali non vi aves sero più influenza di prima. Io dico che non: vi ha argomento più stringente di questo a provare che non sono le cause fisiche quelle che operano cotali rivoluzioni nelle scienze e nelle arti. Perciocchè supponiamo che il clima d’Italia innanzi al fine del secolo xv fosse tale che non permettesse agl1 Italiani il divenire, a cagion d’esempio, egregi dipintori. È egli possibile che lutto ali’ improvviso seguisse sì gran mutazione di clima, che gl’italiani di rozzi ed inesperti divenissero tosto fini ed eleganti pittori?! Questa mutazione è ella effetto per avventura di un turbine, o di una burrasca che in un momento si leva e passa; o non anzi di varie cagioni che lentamente operando, di gran tempo abbisognano per conseguire l’effetto? Noi abbiamo bensì esempi di climi insalubri prima e nocivi, poscia per nuove eslrini secbe circostanze a poco a poco divenuti più innocenti; ma di mutazione totale e improvvisa, sicchè un clima d’aria torpida e lenta divenga tutto ad un tempo di aria viva e sottile, dove troverassi mai esempio? Se dunque le arti arrivano con subitaneo progresso alla lor perfezione, non può essere ciò effetto di cagioni fisiche di clima, di esalazioni, e somiglianti, che non possono adoperare con sì improvvisa efficacia.

XI. Più convincente parer potrebbe un’altra ragione che dallo stesso autore si adduce su questo argomento medesimo. Le arti, die’egli, [p. 14 modifica]e le lettere si son perfezionate talvolta, quando le cause morali parevan congiurate ad opprimerle; ed all’incontro talvolta son decadute , quando queste eran più impegnate e congiunte a tenerle in fiore. Udiamo le sue parole me-, desime con cui svolge questo suo pensiero, traendone dalla nostra Italia l’esempio:Per tren» taquattro anni, die’ egli parlando del fine del secolo xv, e del principio del seguente, l’Italia, per valermi di una espressione familiare agli storici di quella nazione, fu calpestata co’ piedi dalle barbare nazioni. Il regno di Napoli fu conquistato quattro o cinque volte da diversi principi; e lo Stato di Milano cambiò padrone anche più spesso. Dalle torri di Venezia si vider più volte le armate nemiche; e Firenze fu quasi sempre in guerra, o contro i Medici che volevano assoggettarla, o contro i Pisani cui voleva essa render soggetti. Roma vide più volte truppe o nemiche o sospette entro le sue mura; e questa capitale delle belV arti fu saccheggiata dall’armi di Carlo V con tal barbarie, come il sarebbe una città presa per assalto dai Turchi. Or in questi trentaquattro anni appunto le lettere e le arti fecero in Italia tali progressi, che anche al presente sembrano prodigiosi. Fin qui egli a mostrare che la prosperità! degli Stati, la munificenza de’ principi, e somiglianti altre cagioni morali non son necessarie a far fiorire le arti o gli studj, e che il loro risorgimento è seguito allora appunto che esse avevano minor forza. Ma non potrei io forse de’ tempi medesimi formare un ben diverso quadro, e rappresentai li [p. 15 modifica]come i più felici che mai sorgessero all’Italia? Se io prendessi a favellare così: Se noi esaminiamo il secolo di Leon X, in cui le lettere e le arti sepolte per dieci secoli uscirono al fin dalla tomba, vedremo che sotto il suo pontificato V Italia era nella più grande opulenza in cui dopo V impero de’ Cesari fosse stata giammai. I piccioli tiranni rinchiusi co’ loro sgherri in infinite fortezze, e la cui concordia del pari che la discordia erano un terribil flagello alla società, erano finalmente stati snidati dalla prudenza e dal coraggio di Alessandro VI Le sedizioni erano sbandite dalle città, le quali, generalmente parlando, avean saputo formarsi al fin del secolo precedente un governo stabile e regolato. Si può dire che le guerre straniere, le quali cominciarono allora in Italia colla spedizione di Carlo VIII nel regno di Napoli, non furono così dannose alla società, come il timor perpetuo che si aveva di esser rapito, quando si andava in campagna, da’ sicarj dello scellerato padrone che vi si era annidato; o il timore di veder posto il fuoco alla sua casa in un popolare tumulto. Le guerre che allor si facevano somiglianti alla gragnuola, non venivano che a guisa di turbine, e non rovinavano che una lingua di paese. Si videro successivamente sul trono due papi desiderosi di lasciare monumenti illustri del loro pontificato, e in conseguenza obbligati a favorir gli artigiani e i letterati più illustri, che potevano rendergli immortali col rendere immortali se stessi. Perciò le lettere e le arti fecero meravigliosi progressi. Se, io dico, descrivessi così lo stato [p. 16 modifica]deli’ Italia al tempo del risorgimento delle lettere , e mostrassi in tal modo che le cagioni morali ne furon l’origine, potrebbe forse 1 ab. du Bos rimproverarmi che questo quadro fosse esagerato di troppo? Io nol credo; poichè quando egli volesse rimproverarmi di ciò, gli mostrerei che sono le sue precise parole quelle ch’io ho fin qui riferite (t. 2, p. i4$)> e die stesso ci ha così descritto il felice stato dell1 Italia a que1 tempi medesimi di cui ora parla in sì diversa maniera, perchè diverso era il fine ch’egli qui si era prefisso. XII. A provar poi che le arti e le lettere son decadute, quando le ragioni morali parevano più congiunte a sostenerle, reca egli in primo luogo il decadimento degli studj e delle arti in Italia al fin del secolo xvi, quando, dice egli, essa godeva di una continua dolcissima pace, nè mancavano splendidi protettori. Ma questo decadimento a che si riduce egli poi? Non certo alle scienze più serie, poichè la filosofia moderna e la matematica allora singolarmente cominciarono a fiorire in Italia; non a mancanza d’uomini che coltivassero anche gli ameni studj, poichè non vi fu mai forse copia sì grande di poeti come allora; non a indebolimento degl’ingegni, poichè si è detto, ed è evidente che molti de’ poeti ed altri scrittori d’allora sarebbero andati del pari coi più famosi , se non si fosser lasciati sedurre da un gusto guasto e corrotto. Tutto il decadimento adunque si ristringe a questo cattivo gusto che allor s’introdusse. Ma potrà egli l’ab. du Bos affermar seriamente che debbasi ciò attribuire [p. 17 modifica]alla mutazione di clima? Già si è mostrato di sopra, quanto ciò sia insussistente. Reca in secondo luogo il decadimento seguito dopo la morte di Augusto. Caligola., dice egli (p.212), Nerone, Domiziano non facevano cadere il lor crudele umore sopra uomini dotti. Lucano il solo letterato distinto, continua egli, che sia stato ucciso a quel tempo, fu ucciso come cospiratore, non come poeta; dal che egli trae che non può il decadimento degli studj ascriversi alla crudeltà e al furor di que’ mostri che a quei tempi regnarono. Ma è egli possibile che l’ab. du Bos scrivendo tal cosa non siasi almen ricordato di Cremuzio Cordo e di Seneca, costretti l’un da Tiberio, l’altro da Nerone, a darsi la morte? E Lucano stesso non gittossi , egli disperatamente tra’ congiurati, perchè Nerone vietato aveagli di pubblicare in avvenire le sue poesie? E non basta egli scorrere velocemente Svetonio, Tacito e Dione, per vedere quanti oratori, filosofi, storici e poeti ricevessero da Tiberio, da Caligola, da Nerone, da Domiziano ingiusta morte? Noi ancora dovrem tra poco vederlo. Ma essi non furono uccisi perchè fossero dotti, ma perchè rei di qualche delitto. E qual tiranno vi è stato mai che abbia condannato a morte alcuno perchè uom dotto? Ma se ogni parola che da un oratore si proferisca, ogni verso che scrivasi da un poeta, si travolge a senso sedizioso e reo, come facevasi da’ mentovati imperadori, è egli possibile che gli studj siano con piacere e con ardor coltivati? TiRABoscm, Voi. 11. ot [p. 18 modifica]XIII. Nè il veder le stesse vicende comuni ad ogni genere di belle arti.

XIII. L’ultiina ragione che a pruova del suo sistema si adduce dall’ab. du Bos, si è che i grandi uomini sono fioriti al medesimo tempo, e che le stesse età che han prodotto oratori, filosofi, poeti illustri, han prodotto ancora pittori, scultori ed architetti eccellenti. Questa proposizione soffre molte difficoltà, come ha osservato ancora il conte. Algarotti in un suo Ragionamento (Opere t. 3, p. 101, ediz. di Li~ vorno). L’eloquenza decadde al tempo di Augusto, come abbiam veduto, quando la poesia giugneva alla sua perfezione; e al tempo stesso, come pur si è dimostrato, cominciò ancora a decadere l’architettura colle altre arti. Il secolo scorso fu in Italia fecondo di filosofi e di matematici insigni, ma non già di oratori e di poeti illustri. E il secol nostro può ben vantarsi di aver condotta a gran perfezione l’eloquenza e la poesia; ma si può egli dir lo stesso della pittura e della scultura? Ma concedasi ancora che sia così, come l’ab. du Bos afferma. Vorrà egli perciò persuaderci che le cause fisiche più che le morali influiscono sullo stato della letteratura e delle arti? Anzi a me pare che questo argomento ancora si possa contro di esso rivolgere. Perciocchè, se le cause morali sono le operatrici di questo effetto, io intenderò facilmente come in uno stato lieto e fiorente un principe magnanimo e liberale possa colla sua munificenza condurre alla perfezione le arti insieme e gli studj tutti. Ma se ciò vogliasi attribuire alle cagioni fisiche, e il clima, l’aria, le esalazioni si reputino la principal sorgente del lieto, o infelice stato della letteratura. [p. 19 modifica]come è certo che diverso temperamento richiedesi a formare, a cagion d’esempio, un filosofo, e diverso a formare uno scultore; così lo stesso clima e l’aria e l’esalazioni medesime difficilmente potranno formare a un tempo stesso e filosofi e scultori eccellenti. XIV. Or poichè le cause morali comunemente addotte dagli scrittori, e molto meno le fisiche, non possono, generalmente parlando, recarsi a sufficiente e universale ragione del decadimento degli studj, dovrem noi credere che sia impossibile l’assegnarne una vera ragione? Io penso veramente che non si potrà mai determinare la vera origine delle vicende della letteratura, finchè diligentemente non si separin le cose, e non si esamini in che consista il decadimento degli studj, e i diversi generi e le circostanze diverse si osservino del medesimo decadimento. Questo si considera comunemente come un solo effetto di una sola cagione, ovvero di più cagioni, ma insieme unite e cospiranti al medesimo fine. Or io penso che finchè si terrà di ciò ragionamento così in generale, non si potrà mai accertare la vera ragione di tal decadenza. Convien dunque entrar più addentro in questo difficile argomento, e vedere in quante maniere possano decadere gli studj e le arti. E a me pare che in tre diverse maniere possa ciò avvenire. In primo luogo, se gli ingegni e i talenti degli uomini siano in un tempo men penetranti e vivaci che in altri; in secondo luogo, se gli uomini , benchè forniti di acuto ingegno, e dalla natura disposti a divenire nelle lettere e nelle arti eccellenti, nondimeno e in » [p. 20 modifica]minor numero e con minore impegno si volgano a coltivarle; interzo luogo, se gli uomini, benché e rii ingegno forniti e con impegno rivolti allo studio, non abbiano però in esso il buon gusto, ma traviino dal diritto sentiero segnato lor da’ maggiori. Le quali diverse maniere di decadenza sono ugualmente propie e della total decadenza delle scienze e delle arti tutte , e della particolar decadenza di alcuna tra esse. Perciocchè questo ancora vuolsi esaminare, se allor quando si dicon le scienze a una tale età decadute, vogliasi ciò intendere di tutte le scienze, o di alcuna sola tra esse. Questa divisione de’ diversi generi di decadenza basta, a mio parere, a far tosto conoscere che non può una. cagione bastare a produrre effetti così diversi. Facciamoci a parlare di ciascheduna parte, e col diligente confronto de’ fatti comproviamo la realtà di questa divisione medesima, e apriamoci la via a conoscere, se sia possibile, tutto il sistema di queste sì varie rivoluzioni. XV. E quanto al primo, già abbiamo osservato non potersi rivocare in dubbio che un clima sia più che un altro favorevole alle lettere ed alle arti. Ma non è ciò di che a questo luogo si tratta; ma sì delle vicende che la letteratura soffre in diversi tempi sotto il medesimo clima. Or queste possono esse attribuirsi all’indebolimento, per così dire, degli ingegni? Se ciò fosse, allora certo converrebbe ammettere il sistema dell’ab. du Bos, e le cause fisiche, non le morali, dovrebbon credersi arbitre delle letterarie rivoluzioni. Io non voglio qui « [p. 21 modifica]entrare nella quistione, su cui in Francia tanto si è già disputato e scritto, intorno alla preferenza tra gli antichi e i moderni; questione, come leggiadramente dice M. de Fontenelle (Digression sur les Anciens et les Modernes), che si riduce finalmente ad esaminare e a decidere se gli alberi de’ nostri tempi sian più grandi, o più piccoli di que’ de’ tempi passati. Perciocchè se la natura o per esaurimento di forze , come alcuni moderni filosofi hanno pi eleso di dimostrare, o per cambiamento sopravvenuto al clima, ha sofferta notabile alterazione, ed è più languida e più spossata di prima, allora certo anche gl’ingegni de’ nostri giorni saranno più lenti e più tardi di que’ degli antichi. Ma se le forze della natura sono ancora le stesse, e se in tutte le altre cose ella adopera tuttavia coll’antica sua vivacità e robustezza, non si vede per qual ragione debbano i soli ingegni averne sofferto danno, e perchè abbiamo a dolerci di esser nati più tardi de’ nostri padri. Che dobbiam dunque noi crederne? Chiediamone alla stessa natura, e interroghiamola se ella trovisi ora indebolita, o cangiata. Ella ci mostrerà gli alberi, le frutta, le biade avere ora la stessa altezza, la forma , le proprietà medesime che avevano una volta. I buoi, i cavalli e gli altri animali tutti non son certo ora diversi da que’ di prima. Avravvi dunque diversità sol negli uomini? Ma questi nè son più piccioli, nè son meno fecondi, nè hanno men lunga vita di quel che avessero gli uomini di diciotto o venti secoli addietro. Dico di diciotto o venti secoli [p. 22 modifica]addietro, perchè se alcuno ci volesse richiamare a que’ tempi in cui ci si vorrebbe far credere che gli uomini eran tutti giganti, o all’età precedenti al diluvio, in cui si campava sì lungamente, noi cogli scrittori più saggi rigetterem tra le favole ciò che si narra de’ primi; e quanto a’ secondi rifletteremo solo (che al nostro intento ciò basta) che noi parliamo dei tempi in cui furon coltivate le scienze, e perciò posteriori di molto al diluvio. E se dicesi con ragione che più languide sono ora le complessioni e più spossate di prima, egli è evidente che alla educazione ciò devesi attribuire, e non alla natura; perciocchè tal languidezza già non si vede ove l’educazione è ancor virile, e, per così dire, spartana. È ella dunque solo nelle persone agiate indebolita la natura; e alla campagna e sui monti si è ella ancor conservata forte e robusta come prima? Ovvero diremo noi forse che la natura fosse spossata per dieci secoli in circa, quanti furono barbari e quasi di ogni letteratura nimici; e che poi improvvisamente invece di indebolirsi sempre più, siasi essa rinforzata e rinvigorita per produrre i sublimi genj che in questi ultimi secoli ci sono nati? XVI. Ma non è tanto all’indebolimento della natura, quanto alla varietà che il clima soffre in diversi tempi ne’ paesi medesimi, che da alcuni, e singolarmente dall’ab. du Bos, si attribuiscono le vicende della letteratura. Noi veggiam pure, egli dice, che un albero stesso or è più abbondante, or più scarso di frutta; che uno stesso terreno non ha sempre la stessa [p. 23 modifica]fecondità; che in un anno il freddo è maggiore assai, la pioggia più copiosa che in un altro. Qual maraviglia dunque che in una stagione siano gli ingegni e più scarsi e più lenti che in un’altra; poichè quella stessa diversa temperie d’aria, que’ venti medesimi, quelle medesime esalazioni che producono queste vicende ne’ corpi, debbon produrle ancora negli animi. Io concederò volentieri tutto questo ragionamento all’ab. du Bos; ma io credo di poter qui ancora rivolgere contro di lui le sue proprie arme. Avvi certamente questa varietà e incostanza nella naturaj ma, come è osservazione costante degli esatti calcolatori, benchè le piogge, le nevi, le raccolte siano in diversi anni diverse, se nondimeno si uniscano insieme tutte quelle di un secolo, ed anche solo di 50 anni, e si confrontin con quelle di un altro spazio somigliante di tempo, appena si vedrà tra esse notabile diversità. Dunque ancor negli ingegni, se essi dipendessero da queste stesse cagioni, appena si vedrebbe differenza di conto alcuno tra gli ingegni d’un secolo e quei dell’altro; e se da queste cagioni dipendesse il coltivarsi più o meno le scienze, nascerebbero in alcuni anni coltivatori maggiori in numero ed in valore che in altri; ma in un secolo ne sarebbe a un di presso uguale la somma. E nondimeno veggiamo sì grande diversità tra’ secoli e secoli; e una lunga serie di essi giacersi abbandonata e dimenticata ne’ fasti della letteratura; altri ricordarsi come gloriosi ad essa e degni di immortale memoria. [p. 24 modifica]XVII. Nè forza punto maggiore ha l’altro argomento che si arreca dallo stesso autore a provare la sua opinione; cioè la diversità de’ costumi, che in diversi secoli si vede in un popolo solo. Sia vero quanto egli ne apporta in prova. Ma chi non sa quanta forza in ciò abbiano le cagioni morali? L’esempio della corte non basta talvolta a renderne imitatore tutto quasi un regno? Una rea passione secondata non basta ella a cambiare in un brutal mostro un uom ragionevole? Un uomo eloquente, autorevole, liberale non basta egli a condurre un popolo intero a qualunque risoluzione? Non erano gli stessi Romani que’ che con sì gran coraggio combattevano contro i nemici della lor patria, e que’ che con tal furore nelle guerre civili si rivolgevano contro di essa? Mutossi per avventura il clima allor quando ne’ primi tempi del cristianesimo si vider uomini dissoluti prima, empj, superstiziosi, cambiar totalmente costume, e menare una vita innocente, austera e religiosa? Il clima può certo influir molto sulla indole e su’ costumi: e que’ che vivono sotto un ciel riarso e cocente, avranno naturalmente inclinazioni diverse da que’ che vivono sotto un clima agghiacciato. Ma noi non veggiamo che sia mai seguita mutazion grande di clima, e veggiamo insieme che nello stesso paese vi è stata spesso gran mutazion di costumi. Dico non esser seguita gran mutazione di clima, perchè il cambiamento che a qualche piccola parte di terra possa aver recato il disseccamento di uua [p. 25 modifica]palude, il taglio di un monte, l’allagamento di un fiume, ed altre somiglianti cose, troppo picciole cagioni son queste, perchè possano produrre sì grande effetto. Come adunque non puossi attribuire alla mutazion del clima la mutazion de’ costumi, così non si possono somigliantemente a ciò attribuire le vicende della letteratura. XVIII. Quindi l’influenza del clima sulla letteratura si può ridurre a questi capi. i.° Un clima può essere più che un altro opportuno a produrre ingegni pronti, vivaci e profondi. 2.0 Un clima può essere più opportuno a formare, a cagion d’esempio, grandi filosofi, che grandi poeti; e così dicasi delle altre scienze. 3.° Le diverse vicende dell’aria, de’ venti, delle esalazioni possono esser cagione che in certi tempi più rari nascano gli uomini di grande ingegno; ma come queste vicende non sono che passeggere, e in dato numero di anni vi è a un di presso la stessa somma di piogge, di gragnuole, di nevi, ec.; così in un dato numero di anni vi sarà a un di presso la quantità medesima d’uomini che dalla natura sortiscano felice disposizione alle scienze. Dalle quali riflessioni discende e confermasi ciò che già abbiam di sopra provato, che anche ne’ tempi in cui si dice a ragione che giacevano dimenticate le scienze, e che non vi era buon gusto nel coltivarle, vi erano nondimeno uomini di eccellente ingegno che gran nome si sarebbono acquistato co’ loro studj, se fosser vissuti in tempi meno infelici. [p. 26 modifica]XIX. Or poiché la prima mauiera di decadenza della letteratura non è possibile; uè si può, come abbiam dimostrato, affermare che illanguidiscan gli studj per indebolimento degli ingegni, passiamo a ragionare della seconda maniera in cui può un tal decadimento avvenire, cioè quando gli uomini, benchè forniti d1 ingegno a coltivare le scienze, ciò non ostante in poco numero e con poco fervore si volgono a coltivarle; e veggiamo quali ne possano essere le cagioni. Qui certo le cause fisiche non possono aver parte; poichè se l’uomo ha sortito dalla natura vivace e penetrante ingegno, l’applicarsi a coltivare le scienze dipende dal suo volere; e quando vogliasi dire che il clima abbia influenza ancor sull’arbitrio, un clima che renda gli uomini disposti agli studj, dee rendergli ancora ad essi inclinati, ove le cagioni morali non li distolgano. Or quali posson essere queste cagioni che ritardino e distolgan gli uomini dal coltivare le scienze? Quelle che al principio di questa Dissertazione abbiamo accennate, che si recano comunemente per generali motivi del decadimento degli studj, appartengono a questo luogo, perchè ne son veramente l’origine, quando si parli di quel decadimento che consiste nella mancanza di applicazione agli studj, non di quel che consiste nel cattivo gusto in coltivarli. Queste due cose si confondono molte volte insieme, che pur vogliono essere separate, come da ciò che già di sopra si è detto, è manifesto. Per lungo tempo dopo la [p. 27 modifica]morte d’Augusto vi ebbe ancora fervor nello studio tra’ Romani; e nondimeno dicadder gli studj, perchè s’introdusse il cattivo gusto. Non vi furono mai tanti poeti, quanti nello scorso secolo; ma il cattivo gusto regnava, e furon perciò poeti degni d’essere dimenticati. In ogni età vi sono stati uomini che avrebbon potuto rendersi illustri tra’ primi nel coltivare le scienze; ma le circostanze de’ tempi lor nol permisero. Posson dunque talvolta coltivarsi gli studj, ma senza buon gusto; si può talvolta lasciare affatto, o quasi affatto di coltivarli; e in amendue i casi si dice giustamente che dicadono le scienze, benchè in diversa maniera e per diversi motivi. Noi qui parliamo solo del dicadimento che avviene per la cessazion dello studio; e di questo dobbiamo esaminar le ragioni. XX. Il favore e la munificenza de’ principi e de’ magistrati, gli onori conceduti a’ dotti, i premj proposti, hanno certamente gran forza a risvegliare l’impegno e l’emulazione. Può bensì avvenire che trovisi alcuno che solo per soddisfare al suo genio si volga agli studi; ma non sarà questo un fuoco che si stenda ampiamente e si comunichi alla moltitudine, se non è dall’onore e dal favor pubblico avvivato. Può avvenire ancora che alcuno coltivi le scienze e le arti anche in mezzo alle traversie ed alle persecuzioni. Il celebre M. de Voltaire ne annovera parecchi (Vie de P. Corneille), Poussin e Rameau, Cornelio, Omero, Tasso , Camoens, Milton; ma egli ne trae una troppo ampia e general conseguenza, cioè [p. 28 modifica]die tutti gli uomini di genio sono stati perseguitati. Non manca certo giammai chi cerchi di oscurare la fama de’ più grandi uomini; ma ciò nasce appunto dalla gloria medesima a cui si veggon saliti. E queste guerre che contro di lor si sollevano, giovano per lo più ad accenderli maggiormente per assicurarsi quella pubblica stima di cui conoscono di godere. Questo è certamente uno de’ più possenti stimoli a coltivar quegli studj a cui essa soglia accordarsi. Atene aveva in gran pregio le azioni teatrali: e vi sorser perciò gli Eschili, i Sofocli, gli Euripidi L’eloquenza apriva in Roma libero il varco alle dignità, agli onori; e Roma libera ebbe tanti e sì valenti oratori. Augusto e Mecenate amavano i poeti; e il secolo di Mecenate e di Augusto vide un Virgilio, un Orazio, un Tibullo, un Properzio, un Ovidio, e tanti illustri poeti. Ma se questi stimoli vengano a mancare, cesseranno tosto e illanguidiranno gli studj. Questi non si coltivano senza fatica, ed appena è mai che l’uomo si sottoponga a una fatica da cui non isperi mercede, e onore. Vero è nondimeno che al cessare di queste cagioni fomentatrici degli studj non si vedran tosto cessare gli effetti ancora; come, ancorchè cessi la fiamma che riscaldava qualche siasi corpo, non perciò il corpo raffredderassi subitamente. Veggiamolo nel primo decadimento degli studj italiani, cioè in quello che avvenne dopo la morte di Augusto. Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone non furon certo imperadori che fomentasser punto gli studj, e della lor protezione onorassero gli studiosi, come fra [p. 29 modifica]poco vedremo. Se se ne tragga Seneca che parve levato più in alto, perchè poi cadesse più rovinosamente, appena veggiamo a que’ tempi un uomo a cui il sapere aprisse la via a grandi onori; e molti al contrario ne ritroviamo, i quali non ostante il lor sapere furono sotto falsi pretesti dannati a morte. Ciò non ostante e oratori e poeti e storici e filosofi vi ebbe a quel tempo in Roma in gran numero, e la decadenza degli studj non fu che per riguardo al gusto e allo stile che cominciò allora a corrompersi Il regno d’Augusto avea per così dire risvegliato l1 entusiasmo de’ Romani: in mezzo a tanti uomini dotti sembrava cosa disonorevole l’essere incolto: si vedevano tanti saliti per mezzo della letteratura a felice e onorevole stato; e ognuno sperava di poter premere le lor vestigia. Il fuoco in somma era acceso, e non poteva estinguersi così facilmente. Molti di quei che visser sotto i primi successori di Augusto, eran nati ne’ più bei tempi della romana letteratura, erano stati allevati da quei grand’uomini che allor fiorivano, imbevuti delle loro idee, e avviatisi sul Sentiero medesimo da essi segnato: in una parola, l’esser uom colto era divenuto, per così dire, alla moda. Ancorchè dunque mancassero quegli stimoli che avevano eccitato ne’ Romani l’amor degli studj, questo amor nondimeno non così presto si estinse; come appunto un corpo che sia stato spinto una volta, prosiegue per alcun tempo a muoversi, benchè la man che lo spinse, più non lo sforzi al moto. Alcuni imperadori che sorsero a quando a quando, amanti [p. 30 modifica]xxr. La quale però talvolta •si ili-mlr soJo a «|ualrkr rumo di letti rat uru.

delle lettere e de’ letterati , Vespasiano, Traiano, Antonino, Marco Aurelio, ed altri, concorsero a fare che questa fiamma di tanto in tanto si raccendesse. Ma poscia mancati essi ancora, e succeduti altri imperadori la più parte barbari per nascita, rozzi per educazione, e avvolti ancor quasi sempre in guerre o civili, o straniere, questo fuoco si estinse quasi interamente; nè per lungo tempo potè più ravvivarsi, anche perchè altre ragioni che vi si aggiunsero, e che esamineremo fra poco, non lo permisero. XXI. In tal maniera la munificenza de’ principi fomenta gli studj, e la mancanza di essa li fa decadere. Intorno a che vuolsi ancora riflettere che talvolta questa munificenza si volge a un genere più che ad un altro di studj; e questo allora si vede sopra gli altri essere coltivato. Finchè Roma fu libera, l’eloquenza più che la poesia era onorata; e l’eloquenza prima che la poesia giunse alla sua perfezione. Gli ameni studj più che i serj piacevano a Mecenate e ad Augusto, e quelli più assai che questi furono in fiore a’ lor tempi. Antonino e Marco Aurelio eran filosofi, e Roma fu piena allor di filosofi singolarmente greci. Quasi tutti gli impcradori de’ primi tre secoli furon seguaci dell’astrologia giudicaria, e gli astrologi impostori correvano da ogni parte a Roma. Leon decimo era amantissimo dei professori delle bell’arti e della poesia, e le bell’arti e la poesia furono a quel tempo in fiore. Il gran duca di Toscana Ferdinando II, e il card. Leopoldo de’ Medici erano amantissimi delle osservazioni [p. 31 modifica]di filosofia naturale; e allora vissero i primi famosi; membri della celebre Accademia del Cimento. Così dicasi di mille altri esempj che si potrebbono arrecare, e che si vedranno nel decorso di questa Storia. XXII. Ma benchè il favore e la liberalità de’ principi sì grande influenza abbia sullo stato della letteratura, è a confessar nondimeno che essa non basta, non solo perchè essa può star insieme col cattivo gusto che allora regni, di che non è qui luogo di ragionare, ma perchè l’effetto che produr dovrebbe questa munificenza , può essere da altre ragioni ritardato e impedito. E quali sono elleno queste ragioni? Tre a mio parere singolarmente. i.° 11 libertinaggio uni versai de’ costumi e la viziosa educazion de’ fanciulli. 2.0 Le calamità de’ tempi. 3.° La mancanza de’ mezzi necessarj al coltivamento delle lettere. Tratteniamoci brevemente su ciascheduna. XXIII. Dico in primo luogo il libertinaggio universal! de’ costumi e la viziosa educazion de’ fanciulli che ne è necessario effetto. Già abbiam mostrato di sopra che in uno Stato in cui gli uomini abbiano sciolto il freno alle sregolate loro inclinazioni, troppo è difficile che fioriscan gli studj. Un uom molle e libertino sfugge tutto ciò che gli può dar noia, e che il distoglie dai suoi piaceri. Ma il secol di Augusto non era egli vizioso? e non ne abbiam noi in prova tante oscene poesie allor composte e divulgate? Sì certo; ma si rifletta. Que’ che fiorirono al secol d’Augusto , eran per lo più nati a’ tempi della repubblica, quando [p. 32 modifica]il costume non era ancor così guasto; essi si eran allora formati agli studj, e potevano agevolmente proseguirli senza che i loro piaceri ne fossero impediti; e i poeti ancor rimiravano la loro arte come mezzo a goderne più dolcemente Ma nel decorso de’ tempi il costume venne ognor peggiorando; la sfacciata impudenza di Tiberio, di Caligola, di Nerone, di Caracalla, di Eliogabalo condusse il libertinaggio di Roma al più mostruoso eccesso a cui forse arrivasse giammai. Quindi, poichè cominciò a rattepidirsi quel fervore eli’ erasi acceso ne’ bei tempi della romana letteratura, e che continuò a mantenere per alcun tempo gli studj anche in mezzo al libertinaggio, questi cominciarono ad essere abbandonati, e crescendo sempre più il vizio, ebbero sempre più pochi coltivatori. Quasi niuno tra gli imperadori de’ primi tre secoli pensò alla riformazion de’ costumi, perchè quasi niuno di essi fu uomo a darne in se stesso l’esempio; e se qualcheduno pur vi si accinse, troppo alte radici avea gittato il vizio, perchè potesse sì facilmente sradicarsi; molto più che i pochi che vi ebbero , imperadori ben costumati, ebbero la sventura di aver pessimi successori. Quindi i fanciulli assai più profittavano degli esempj de’ loro padri, che delle istruzioni de’ retori e de’ grammatici; e la dissolutezza a cui presto si abbandonavano, estingueva in loro quel qualunque buon seme di letteratura che avesser potuto ricevere; e se alcuno vi ebbe tra gl’imperadori , come alcuni veramente ve n’ebbe nel secondo secolo singolarmente^ che si studiasse [p. 33 modifica]con onori e con premj a far rifiorire le lettere , egli trovò uomini troppo ammolliti dal piacere e dal vizio , perchè si volessero soggettare a quella fatica che a coltivare gli studj è necessaria. XXIV. Le calamità de’ tempi sono esse pur dannosissime alla letteratura, singolarmente le intestine discordie e le guerre civili, quando esse durino lungo tempo. Nello spazio di circa un secolo, cioè dopo la morte di M. Aurelio seguita l’anno 180 fino al principio di Diocleziano che salì sul trono l’anno 285, vidersi circa settanta aver nome e corona d’imperadori , quasi tutti uccisi dopo breve impero o da’ soldati medesimi che gli aveano eletti, o da que’ del partito de’ loro rivali; quasi tutti crudeli nell’infierire contra coloro cui sapessero, o credessero lor nemici. Quindi ogni cosa piena di timori, di sedizioni, di stragi. Come potevano allora le lettere e le arti venir coltivate? Carlo Magno, Federigo secondo, e alcuni altri imperadori dell’età di mezzo usaron di ogni arte per richiamar la buona letteratura che da tanto tempo sembrava sbandita dalla nostra Italia. E se i tempi dopo Carlo Magno fossero stati felici, forse assai prima si sarebbe questa riscossa, e avrebbe preso a coltivare le scienze. Ma non molto dopo ebber principio le guerre civili tra l’una e l’altra città, che per più secoli furono continuate; guerre in cui non andavano già gli uomini d’arme a combattere pe’ loro concittadini, lasciando questi a vivere in riposo fra gli agi delle paterne lor case; ma guerre in cui quasi ogni cittadino Tiraboschi, Voi. II. 3 [p. 34 modifica]era soldato, e dovea continuamente stare colle armi alla mano o ad assaltare, o a rispingere i vicini nimici; e spesso ancora gli abitanti di una stessa città divisi tra loro in sanguinose discordie appena eran sicuri nelle loro medesime case. Ognun vede se tempi erano questi in cui si potessero coltivare gli studj, ancorchè della più splendida munificenza si fosse usato per fomentarli. Egli è vero che nel maggior furore di queste guerre civili sorsero i primi ristoratori dell’italiana letteratura, Dante, il Petrarca, il Boccaccio, ed altri; ma egli è vero ancora che a cagione appunto delle stesse guerre civili gli sforzi ch’essi fecero a far rifiorire le lettere, non ebbero felice successo, o certo assai meno di quello che in più lieti tempi avrebbono avuto. XXV. Nulla meno è dannosa alla letteratura, e rende inutil l’impegno e la munificenza de’ principi pel coltivamento degli studj, la mancanza de’ mezzi necessarii per coltivarli. Parlo singolarmente de’ libri, i quali non solamente sono occasioni che invitano a coltivare le scienze, ma spianano ancora a tutti gli studj la strada, o col proporne eccellenti esemplari, o coll’offerire raccolte insieme quelle notizie che difficilmente e a grande stento potremmo rinvenire disperse altrove. Quando gli studj fiorivano tra’ Romani , erano assai moltiplicati i libri. Oltre le pubbliche biblioteche, oltre più altre private , ognuno potea facilmente trovar de’ codici e valersene a suoi studj. Ma col raffreddarsi l’ardor per le lettere, si scemò ancor la premura di aver de’ libri, nè furono più i [p. 35 modifica]Romani tanto solleciti per moltiplicarli. Le irruzioni de’ popoli barbari, le rovine, i saccheggiamenti, gV incendii a cui Roma e l’Italia tutta fu per più secoli miseramente soggetta, dovetter distruggerne e consumarne gran parte. Le guerre civili che sopravvennero dopo, distrussero ciò che si era potuto sottrarre al furore de’ Barbari. Il seguito di questa Storia ci farà vedere quale scarsezza di libri vi avesse ne’ bassi secoli; quanto si avesse a penare per aver copia de’ migliori; e come i buoni autori venissero poscia a poco a poco disotterrati o dalle polverose biblioteche di qualche antico monastero, o da’ più nascosti angoli delle case ove giacevansi da molti secoli abbandonati. Or come può essere allettato agli studj chi non abbia libri che ad essi lo invitino? o come, bramandolo ancora, può coltivarli, se un tal mezzo gli manchi non solo utile, ma necessario? In fatti allora singolarmente si accese il fervor per gli studj, quando introdotta la stampa furono in maggior copia e più agevoli a ritrovarsi i libri. XXVI. Per queste ragioni adunque e in questi maniera decadon gli studj in ciò che è fervore e moltitudine d’uomini che ad essi si volgano. Ma mal si apporrebbe chi pensasse che queste bastassero a spiegare ogni rivoluzione della letteratura. Benchè i principi non si mostrino splendidi protettori de’ letterati; benchè il costume sia guasto, infelici i tempi, scarso il numero de’ libri; pur vi ha in ogni tempo qualche numero d’uomini che si volgono con impegno agli studi, ed a cui non mancano [p. 36 modifica]libri per coltivarli; ed ogni secolo, per quanto sia stato barbaro e rozzo, ha avuti poeti, storici, filosofi ed oratori. E nondimeno questi non sono in ogni secolo ugualmente buoni j anzi per molti secoli non vi è quasi stato scrittore alcuno, le cui opere per forza di eloquenza, per grazia’ d’immaginazione, per eleganza di stile, per finezza di critica degne fossero della stima comune e della immortalità. Or questo non potrà certo attribuirsi ad alcuna delle mentovate ragioni; ed altre convien trovarne per rinvenire l’origine di questo nuovo genere di decadimento, che consiste nell’allontanarsi dal buon gusto, e nel voler battere una strada diversa da quella che per l’addietro battevasi. A questo luogo convien richiamare ciò che nel tomo precedente si è da noi trattato diffusamente , ove abbiam ricercata l’origine del decadimento dell’eloquenza, che avvenne fin da’ tempi d’Augusto. Abbiamo ivi osservato che è questo destino comune a tutte le arti che hanno per loro primario oggetto il bello, quali sono l’eloquenza, la poesia, la storia, in quanto è sposizione delle cose avvenute, e le tre arti sorelle, che quando sian giunte alla lor perfezione, dicadano di bel nuovo, e tornino a discendere onde eran salite. L’ambizione conduce gli uomini a voler superare coloro che gli han preceduti. Or quando uno sia giunto a quel segno in cui propriamente consiste il bello, chi voglia ancora avanzarsi più oltre, verrà a ricader ne’ difetti i quali eran comuni a coloro che non vi erano ancor giunti. Così abbiam veduto che accadde nell’eloquenza dopo la [p. 37 modifica]morte di Cicerone. Asinio Pollione, come si è dimostrato, riprese l’eloquenza di Cicerone come languida, debole ed incolta; e un nuovo genere di eloquenza introdusse così arida e digiuna , e di uno stile sì affettato, che parve richiamar la rozzezza de’ secoli trapassati I due Seneca, il retore e il filosofo, gli venner dietro, e col raffinar sempre più il ragionamento e lo stile renderono l’eloquenza sempre peggiore. Ma essi eran uomini avuti in grande stima, e credevasi cosa onorevole il premere le lor vestigia. il lor gusto dunque, la maniera lor di pensare e il loro stile divenner comuni alla più parte degli scrittori. Lo stesso dicasi degli storici e de’ poeti. Velleio Patercolo e Tacito vogliono superare in forza di espressione, in precision di stile, in finezza di sentimenti Cesare, Livio e lo stesso Sallustio; e cadon perciò in una oscurità che spesso ci fa arrestare nel leggere i loro libri, e in un raffinamento che togliendo la naturalezza al racconto , lo rende stentato, e a lungo andare noioso ed insoffribile. Lucano, Seneca il tragico, Marziale, Stazio, Persio e Giovenale vogliono, come chiaramente si vede da’ loro versi , andare innanzi a Virgilio, a Catullo, ad Orazio. Or che ne avviene? Divengono declamatori importuni, verseggiatori ampollosi, tronfi senza maestà, ingegnosi senza naturalezza. Ma essi erano gli storici migliori e i migliori poeti che allor vivessero; e perciò il loro esempio fu ciecamente seguito. Quintiliano, uno degli uomini di miglior gusto che fossero mai, usò, come vedremo, ogni sforzo per ricondurre sul [p. 38 modifica]diritto sentiero i travianti Romani. Ma troppo era già sul pendio il buon gusto, perchè se ne potesse così facilmente impedir la rovina; e si credette che fosse invidia e non ragione quella che inducesse Quintiliano a riprendere una tale eloquenza, come a suo luogo diremo. XXVII. Nè diversa fu l’origine dell’altro dicadimento che ebbero a soffrire le belle lettere nello scorso secolo, anzi al fine del secolo xvi. L’Ariosto, il Sannazzaro, il Tasso e tanti altri poeti del secol d’oro, per così dire, della italiana letteratura, sembravano aver condotta la poesia alla sua perfezione. Si volle andar più oltre, ed essendo troppo malagevole superarli in grazia, in leggiadria, in tutte le altre doti che tanto più adornano la poesia, quanto più sembrano naturali e non ricercate, si ebbe ricorso alle allegorie, alle metafore, ai concetti. Il Marini, uno de’ primi autori del gusto corrotto, era uom d’ingegno grande, e per esso avuto in grande stima; e quindi il suo esempio infettò gli altri. Le cose nuove piacciono; e una strada che sia stata di fresco aperta, sembra più bella a battersi che le antiche. La corruzione della poesia passò all’eloquenza. Gli oratori precedenti sembravano , e forse con qualche ragione, languidi e snervati; ma invece di render l’eloquenza più nervosa e più forte, si rendette più capricciosa. Quelli parvero i migliori oratori che usar sapevano di più strane metafore; e la verità tanto pareva più bella, quanto più era esposta sotto apparenza di falsità. A ciò concorse ancora, come osserva un colto e ingegnoso [p. 39 modifica]moderno scrittore {Entusiasmo p. 3o4), il dominio che gli Spagnuoli avevano allora in Italia (1). Questa ingegnosa nazione che sembra, (*) Ecco Porribil delitto da me commesso, per cui pah. Lampillas mi ha tratto in giudizio, e mi ha cou un lungo processo di più. volumi accusato come dichiaralo nemico del nome e della gloria spagnuola. L’avere io scritto che al decadimento del buon gusto concorse ancora il dominio che gli Spagnuoli avevano allora in Italia, colle parole che seguono, è stata l’origine della guerra eh’ei mi ha dichiarata; e per questo breve tratto (giacche altro non nc ha in tutti i dodici tomi della mia Storia, in cui io parli generalmente degli Spagnuoli) egli ha asserito che tutta la mia Storia io ho diretta a screditare la Spagna. Prima però di lui era sorto a difesa della sua nazione Pah. D. Giovanni Andrés , il quale in una lettera al sig. commendatore Valenti, stampata in Cremona nel 1776, avea preso a mostrare che non poleansi incolpar gli Spagnuoli della decadenza del buon gusto in Italia. Nella qual conlesa però egli ha usata quella saggia moderazione e quelle pulite maniere nelle quali sarebbe stato a bramare che altri l’aiessero imitato, lo non voglio rientrar qui sull’esame di questo punto, in ciò che appartiene alla proposizion generale da me qui stabilita, la quale nc è necessariamente connessa col sistema da me proposto in questa Dissertazione, ed è stata da me toccala sì in breve e come di passaggio, che non è conveniente che per sostenerla io im|-r*ghi molte pagine, quante si ricliiederebbono a esaminare ogni cosa che mi è stata opposta. Si legga la lettera dell ab. Andrés, e si esaminino diligentemente i fatti c le epo. he da lui stabilite: e si legga ciò che scrii e in conlutazione di questa generai proposizione P ah. Lampillas, si confrontino le sue citazioni, si pesi maturamente ogni cosa. Se sembrerà a’ dotti imparziali eh’essi abbian ragione, e eh’io ini sia ingannato, o , a dir meglio , eh’io abbia incautamente seguito P errore di tanti altri che prima di me hanno scritto lo stesso, io volentieri mi [p. 40 modifica]direi quasi, per effetto di clima portata naturalmente alle sottigliezze, e che perciò ha avuti tanti famosi scolastici, e sì pochi celebri

arrendo, e mi confesso vinto. Se al contrario ad essi parrà che la proposizione da me stabilita sia ben fondata, io, pago del lor giudizio, lascerò che si moltiplichino i volumi contro la mia Storia, e che gli impugnatori di essa si vantino quanto lor piace de’ lor trionfi. Solo in alcune quistioni particolari che nulla hanno a fare colla proposizion generale, benchè l’ab. Lampillas le creda da me maliziosamente dirette a pruova di essa, io esaminerò a’ luoghi opportuni le sue obbiezioni. Una cosa sola toccherò a questo luogo, in cui avrei bramato nell’ab. Lampillas o miglior fede nel riferire il mio sentimento, o miglior discernimento in intenderlo. Egli vuol combattere ciò che qui io ho detto, cioè che il clima sotto cui eran nati (Seneca, Lucano e Marziale) potè contribuire assai a condurgli al cattivo gusto che in essi veggiamo. Or ecco come ei mi rimprovera (t. 2, p. 210): Non so come mai sia fuggito dalla penna all’ab. Tiraboschi quel terribil decreto contro il clima di Spagna, dopo aver dottamente provato contro l'ab. du Bos che il buono o cattivo gusto nelle arti e scienze non può essere affare di clima. Or che ho io detto contro l’ab. du Bos? Ecco le mie parole riportate qui dal medesimo ab. Lampillas: Tutto il decadimento adunque (del secolo x vii) si ristringe a questo cattivo gusto che allor T introdusse, il la potrà egli l’ab. du Bos affermar seriamente che debbasi ciò attribuire alla mutazion di clima? Ma dove è mai qui la menoma ombra di contraddizione? Io dico che il clima può render naturalmente gli uomini di un paese più inclinati alle sottigliezze, che quei di un altro. Questa è la mia prima proporzione. Dico in secondo luogo che la mutazione del gnsto, che s’introduce talvolta in una nazione da un secolo all’altro, non può essere ellètto di mutazione di clima, perchè da un secolo all’altro non può darsi gran cambiamento di clima nella stessa provincia. Questa è la seconda [p. 41 modifica]oratori e poeti, signoreggiavane allora una gran parte: i loro libri si spargevano facilmente, il loro gusto si comunicava; e come sembra che i sudditi facilmente si vestano delle inclinazioni e de’ costumi de’ loro signori, gli Italiani divennero, per così dire, Spagnuoli. A confermare un tal sentimento io aggiugnerò una riflessione che parrà forse aver alquanto di sottigliezza, ma che è certamente fondata su un vero fatto. La Toscana, ch’era più lontana dagli Stati di Napoli e di Lombardia da essi dominati, fu la men soggetta a queste alterazioni; come se il contagio andasse perdendo la sua forza, quanto più allontanavasi dalla sorgente onde traeva l’origine. Non potrebbesi egli ancor dire che ciò concorresse non meno al primo dicadimento delle lettere dopo la morte di Augusto? Marziale , Lucano e i Seneca furon certamente quelli che all’eloquenza e alla poesia recarono maggior danno; ed essi ancora erano spagnuoli; e il clima sotto cui eran nati, congiunto alle cagioni morali che abbiam recate, potè contribuire assai a condurli al cattivo gusto che in essi veggiamo.. XXVIII Ma il cattivo gusto del secolo scorso non è durato che circa un secolo; al contrario quando si introdusse in Roma dopo la morte di Augusto, vi si mantenne assai più lungamente , e per tanti secoli i buoni studi proposizione; ed araendue le vedrà il sig. ab. LamjuIIas da ine lungamente provate in questa mia Dissertazione. Or io sfido il più sottile dialettico a trovare in queste due proposizioni la piìi lieve idea di contraddizione [p. 42 modifica]andarono ognor più decadendo, non solo scemandosi sempre più il fervore nel coltivarli, di che già si è favellato, ma guastandosi ognor più ancora il buon gusto e lo stile. Fatto degno d’osservazione, e di cui conviene esaminare attentamente l’origine e le cagioni. Quando nello scorso secolo era sì infelice il gusto della letteratura che dominava in Italia, si coltivavano nondimeno le lettere con impegno nulla minore di quello che si fosse fatto nel secolo precedente, come già si è detto; e le stesse cagioni a un dipresso che aveano allora acceso un tale ardore, proseguivano a mantenerlo vivo ed ardente. Correvano gli uomini la via degli studj, ma la correvano per un falso sentiero, o perchè per amore di novità e di gloria si erano distolti dal buon cammino, o perchè avean preso a seguire cattive guide. Ma pur la correvano, e solo sarebbe stato d’uopo che o da se medesimi conoscessero il mal sentiero su cui si erano messi, o che alcuno amichevolmente li facesse avvedere del loro errore. Le buone guide lor non mancavano; autori ottimi di ogni maniera, su’ quali studiando si sarebbon fors’anche renduti loro uguali: ma questi erano dimenticati; e benchè, direi quasi per umano rispetto, si dicesse ancora che Cicerone, Livio, Catullo, Virgilio erano i migliori autori, davasi però una segreta preferenza, e con più piacer si leggevano Seneca, Tacito, Marziale, Lucano ed altri somiglianti scrittori. Si cominciò finalmente ad aprire gli occhi. Alcuni non temerono di andar incontro a’ pregiudizi volgari; gridarono ad alta voce che non [p. 43 modifica]era quello il buon sentiero; additarono l’antico ch’era stato abbandonato; presero a batterlo essi stessi; ebbero a contrastare, e a soffrir ancora il dispregio di coloro che, non volendo confessare di aver errato, volean convincere di errore tutti gli altri; ma finalmente prevalsero. L’impegno usato in seguire il cattivo gusto si volse al buono. Si antepose a Seneca Cicerone, Catullo a Marziale, il Petrarca al Marini; il buon gusto si ristabilì; e durerà tra noi finchè l’amore di novità e di gloria non ci conduca a voler di nuovo lasciare il ripreso sentiero, e a tentarne un altro che ci conduca a rovina. Ma non così accadde, nè così poteva accadere nel decadimento seguito dopo la morte d’Augusto. XXIX. Se quando fu cessato quel primo impetuoso amore di novità che entrò allor tra’ toma ni, l’Italia si fosse trovata nelle circostanze medesime in cui si è trovata dopo la decadenza dello scorso secolo, io penso che le lettere sarebbon risorte all’antico onore. Ma i tempi non eran punto a ciò opportuni. Vuolsi qui ricordare ciò che abbiam detto di sopra, delle cagioni per cui poco furono coltivati gli studj in queste età, e tanto meno, quanto più si venne innanzi fino a Carlo Magno. Le guerre civili, la noncuranza di quasi tutti gli imperadori, l’invasione de’ popoli barbari, la cessazion dei motivi e degli stimoli, fecero illanguidire f impegno nel coltivare gli studj. Vi ebbe de’ poeti, degli storici, degli oratori; ma o eran letti da pochi, o se eran uditi da molti , questi non erano per lo più uomini che o sapessero, o si curassero di giudicarne. QuimU [p. 44 modifica]quello stimolo che suole spingere gli uomini ad appigliarsi a quel gusto che vede esser più accetto alla moltitudine, più non vi era, perchè la moltitudine pensava a tutt’altro che a buon gusto. Aggiungasi la scarsezza de’ libri, che andò sempre crescendo, e vedremo a qual segno ella fosse ne’ secoli barbari. Quindi que’ tanti storici di que’ tempi, che scrivono in uno stile che or ci muove alle risa, ma che allora era il solo usato , perchè niun altro se ne sapeva , per mancanza de’ buoni autori da cui apprenderlo; quindi que’ racconti favolosi e ridicoli che pur veggiamo farsi da quegli scrittori con una serietà e sicurezza maravigliosa , perchè non aveano le guide degli antichi autori che gli scorgessero. La barbarie de’ popoli dominanti si comunicava a’ sudditi ancora; quelli si arrogavano il diritto di volger l’armi ove loro paresse meglio, questi di scrivere qualunque cosa e in qualunque modo loro piacesse. Il tempo in cui le città d’Italia eran divise tra loro in sanguinose guerre, fu il tempo in cui nacquero le tante favole intorno alla loro origine; e mentre esse combattevan tra loro per avere l’una sull’altra l’autorità del comando , i loro storici combattevan tra loro per acquistare alla lor patria sopra le altre città il vanto dell’antichità più rimota e dell’origine più portentosa. Chi sapeva scrivere, era un prodigio di sapere; e non era perciò lecito il rivocare in dubbio ciò che da un tal oracolo si pronunciava. XXX. Io confesso nondimeno che tutto ciò ancora non basta a spiegare gli effetti e le [p. 45 modifica]mreostaiize lutte di questo decadimento. Per quanto barbari e incolti siano stati alcuni secoli , per quanto grande in essi sia stata la mancanza de’ libri, alcuni uomini dotti sono però stati in ogni secolo, e alcuni che hanno pur avuto ottimi libri, e che han potuto formare il loro stile su i buoni autori, delle cui opere aveano qualche esemplare. Ma donde è egli mai avvenuto che per tanti secoli non vi sia quasi stato autore di pura e tersa latinità; e che anzi questa sia venuta dopo la morte d’Augusto ognor più decadendo, fino a giugnere a quella barbarie a cui veggiamo che giunse negli scrittori del secolo undecimo e del duodecimo? È egli possibile che a niuno sia riuscito di formarsi sul modello di Cicerone, e di imitarne lo stile, benchè pure alcuni abbian cercato e studiato di farlo? Rechiamone qualche esempio particolare. Non vi è mai forse stato scrittore che sì altamente abbia sentito di Cicerone, quanto Quintiliano. Questi, come abbiam detto, ardì di far fronte all’autorità di Seneca e degli altri di lui imitatori; si sforzò di distogliere i Romani dal reo gusto che si era introdotto. Cicerone per lui è l’unico modello su cui formarsi: Hunc spectemus, dice egli, (l. i o, c. 1), hoc propositum nobis sit exemplum; e in ogni occasione sempre ne parla come del vero specchio di eloquenza e di stile. E nondimeno quanto è diverso lo stile di Quintiliano da quello di Cicerone? Qual piacere non provava S. Girolamo nel legger le Opere di questo oratore? Basta leggere ciò eh* ei narra di se medesimo [p. 46 modifica]e dello studio eli1 egli ne fece. E nondimeno, benchè S. Girolamo sia stato detto il Tullio Cristiano, può egli il suo stile venire a confronto con quel di Tullio? E per discendere a’ tempi ancora più recenti, il Petrarca uomo di sì colto ingegno era egli pure amantissimo di Cicerone, di cui leggeva e studiava attentamente i libri. E nondimeno il Petrarca che scrive in latino, sembra egli quel medesimo che scrive nel volgar nostro linguaggio? In somma per quattordici secoli non vi è stato quasi scrittore a cui sia riuscito di imitar felicemente lo stile di Cicerone, cui pur veggiamo in questi tre ultimi secoli da non pochi felicemente imitato. Egli è questo, il confesso, il punto più difficile a rischiararsi, e di cui per lungo tempo io ho quasi disperato di poter trovare una probabile spiegazione. Dopo molte riflessioni nondimeno mi lusingo di aver finalmente scoperta qualche non inverisimil ragione di questo, per così dire, letterario fenomeno. XXXI. Io dunque rifletto che dopo la morte d’Augusto cominciò Roma ad essere più assai che prima inondata da popoli stranieri. Questi eran sudditi a Roma; e chiunque tra essi avea talenti, da cui sperare o nelle scienze, o nelle armi, o nella magistratura onorevole avanzamento, venivasene alla capitale ove solamente poteva lusingarsi di conseguirlo. Vedremo in fatti che una gran parte dei poeti, degli oratori, de’ retori, de’ gramatici che fiorirono a questi tempi in Roma , furono stranieri, singolarmente Francesi e Spagnuoli. Molto più crebbe il numero de’ forestieri quando forastieri [p. 47 modifica]cominciarono ad essere gli imperadori. Nerva i"u il primo, e dopo lui la più parte dei suoi successori fino alla caduta del romano impero. Allora i Barbari e gli stranieri a guisa di rovinoso torrente più volte inondaron l’Italia, e vi fissarono stanza. Or tutti questi non potendo sperare che gli Italiani volessero apprendere gli strani loro linguaggi, e volendo pur essere intesi, si diedero essi ancora ad usar del latino; ma come appunto soglion fare coloro che voglion parlare una lingua cui non hanno appresa per regole e per principj, ma solo coll’addomesticarsi e ragionare con quelli a’ quali è natia. Usavano quelle parole che vedevano usarsi in Italia; ma spesso ancora eran paghi di dare una terminazione latina alle parole del lor proprio linguaggio; e purchè le parole fossero in alcun modo latine, credevano di parlare e di scrivere latinamente, usando la sintassi, l’ordine, la costruzione medesima delle lor lingue. Quindi noi veggiamo tanto più nuove voci di origine barbara accrescersi alla lingua latina, quanto più scendiamo abbasso ne’ tempi; quindi ancora veggiamo un nuovo suono, una nuova maniera di trasposizioni, una diversa sintassi essere in uso ne’ diversi secoli, secondo che diversi erano i popoli che dominavano in Italia. Con ciò a me pare che probabilmente si spieghi non solo la rozzezza dello stile di quelli tra gli scrittori che erano stranieri, ma di quelli ancora a’ quali il parlar latino era natio. Questi frammischiati co’ Barbari, che erano forse in numero maggiore di essi, ne apprendevano la maniera di favellare, ne adottavano le parole, [p. 48 modifica]vestivano i difetti del loro stile, e quindi a poco a poco si venne formando quello stil latino barbaro che per tanto tempo fu in uso. Eranvi, a dir vero, alcuni pochi che attentamente leggevano i buoni autori, e cercavano di formarsi sul loro stile. Ma che? Essi vivevano in mezzo ad altri uomini che o non potendo per mancanza di libri, o non curando per negligenza di fare lo stesso studio, parlavano e scrivevano di uno stil rozzo ed incolto. Essi conversavan con loro, udivano continuamente le loro espressioni, leggevano i loro libri; e avveniva perciò ad essi ciò che avviene ad uomo sano e robusto, che addomesticandosi con un infermo di mal contagioso, a poco a poco ne bee il veleno. Il che ancora più facilmente dovette avvenire, perchè non era stata ancora la lingua latina ordinatamente ridotta a regole ed a principj determinati. I libri degli antichi gramatici per lo più contenevano anzi varie e separate osservazioni di lingua, che una ben disposta introduzione a scrivere latinamente. Quindi la lingua apprendevasi più per esercizio che per precetti; e quindi usandosi nell’ordinario favellare espressioni, o parole men colte, queste introducevansi ancora ne’ libri che si scrivevano. Aggiungasi che essendo lo stil barbaro il più usato tra’ Barbari, e forse anche il solo da essi inteso, se gli uomini colti bramavano che i loro libri fossero letti, conveniva lor secondare il costume de’ tempi, e scrivere in quello stile che sol poteva piacere. XXXII. A comprovare questo mio sentimento aggiugnerò qui una riflessione che non so che [p. 49 modifica]da altri finora sia stata fatta. Quando è che gli scrittori latini han cominciato a svestire quella rozzezza che per più secoli era stata universale? Allora appunto quando formandosi e perfezionandosi la lingua italiana, la latina cominciò a non esser più la volgare, ma propria solo di chi sapeva. Fino al secolo XIII, come osserva il ch. Muratori (Antichità Ital. Dissert. 32), trovansi bensì nelle carte e ne’ monumenti i primi rozzi principj di questa lingua, e parole e espressioni di suono affatto italiano; ma cosa alcuna che si possa dire scritta in italiano, non si ritrova. Il linguaggio allora usato era un latino misto di voci e di frasi straniere, poche dapprima e rare, poi più frequenti, e per ultimo tante che oppressero, per così dire, e distrussero la lingua latina , e una nuova ne formarono di principj e di leggi molto diversa. Nel secolo XIII si cominciò a scrivere da alcuni in idioma che si poteva dire italiano, e questo poi assai più perfetto si fece nel secol seguente per opera di Dante, del Petrarca, del Boccaccio, e di altri colti scrittori che giustamente si posson chiamare i padri dell’italiana favella. Allora adunque cominciò la lingua latina a non essere più così famigliare, come era stata finallora, e a sminuirsi perciò, per tenere la già usata similitudine, la forza di quel contagio che infettava prima coloro che pure avrebbon voluto parlar coltamente. Veggiamo infatti che gli scrittori latini di quel tempo sono comunemente assai meno incolti che que’ de’ secoli precedenti; e i tre suddetti scrittori nelle cose Tiraboschi, Voi. II. 4 [p. 50 modifica]che hanno scritte latinamente, se non sono eleganti, sono però ancora lontani assai da quella barbarie che prima era usata. XXXIII. E nondimeno essi ancora non furono colti abbastanza. Uomini di fino ingegno e di grande studio fatto ancora su’ buoni autori , pure troppo furon lungi dall1 arrivare a quello stile elegante e terso a cui giunsero gli scrittori de’ secoli susseguenti. E donde ciò? Non altronde, a mio credere, che dalla stessa condizione de’ tempi. Il secolo del Petrarca dicesi a ragione il secolo del primo risorgimento della letteratura. I libri che finallora erano stati dimenticati nelle polverose biblioteche d’alcuni monasteri , cominciarono finalmente a cercarsi e a disotterrarsi. Le prime scoperte aggiunser coraggio a tentarne altre; e le lodi che si diedero a’ primi ritrovatori de’ codici antichi, animarono altri ad imitarne l’esempio. Ma a me pare che avvenisse allora ciò che suole avvenire allorquando una città travagliata da lunga fame per ostinato assedio si vede libera finalmente, e il popol tutto esce furiosamente dalle porte a cercare di che satollarsi. Qualunque cibo venga loro alle mani,, delicato o grossolano , amaro o dolce, tutto si afferra e si divora avidamente; e la fame sofferta rende soavi anche le più disgustose vivande. Così avvenne anche de’ libri. L’impazienza e l’avidità di trovarli faceva che qualunque libro si discoprisse , purchè fosse antico, se ne facesse gran festa, e si leggesse dagli amanti della letteratura con incredibil piacere. Cicerone e Seneca, Virgilio e Lucano, Marziale e Catullo tutti eran [p. 51 modifica]ricevuti con plauso , tutti erano letti con ammirazione, perchè tutti erano autori che per lunghissimo tempo erano stati quasi interamente dimenticati. Quindi il leggersi, direi quasi. tumultuariamente e alla rinfusa gli autori antichi senza abbastanza discernere i più e i meno perfetti, era cagione che si usasse uno stile che non fosse simile ad alcun di essi in particolare, ma un informe composto di molti stili, or elegante, or incolto, or dolce, or aspro, secondo i diversi autori sui quali uno si era promiscuamente formato.

XXXIV. Inoltre le copie che si avevano de’ buoni autori, erano comunemente guaste e scorrette per negligenza e per ignoranza de’ copiatori; e poteva perciò di leggeri accadere che gli error de’ copisti si credessero eleganze degli autori, e che si avessero in conto di grazie , onde ornare lo stile. In fatti le prime edizioni ancora che si hanno per la lor rarità in sì gran pregio, sono spesso piene di errori; e non si potè avere puro e sincero il testo di molti autori, se non dappoichè ripescando da ogni parte codici manoscritti si confrontaron tra loro, e si conobbe, o almeno s’indovinò, ciò che gli autori avessero detto. Per ultimo la lingua latina non era ancora stata ridotta, come già si è osservato, a regole fisse e a determinati generali principii, come poscia da molti gramatici si è fatto lodevolmente. Quindi, come avviene a chi ha bensì fatto lungo ed attento studio su’ buoni scrittori italiani, ma non sulle generali leggi della lingua medesima, ch’egli scrivendo sparga qua e là parole e frasi da

xxxiv. Altre cugio11 i del medesimo l’alto. [p. 52 modifica]essi raccolte, ma spesso inciampi in errori, ed usi tali maniere che della lingua italiana non sono proprie; così avveniva allora a chi leggendo semplicemente gli autori latini, cercava di conformare al loro stile il suo. E vuolsi aggiugnere ancora la mancanza de’ lessici; libri che poco giovano a chi crede di potersi con essi soli addestrare a scrivere coltamente; ma senza i quali troppo è malagevole che ad uno scrittore vengano sempre alla mente parole ed espressioni acconce a spiegare i suoi sentimenti, e che egli possa sempre conoscere quali sian le voci usate dai buoni autori, e quali no. XXXV. Ma poichè la stampa dopo la metà del secolo xv moltiplicò gli esemplari de’ libri, e fu perciò più agevole il provvedersi de’ buoni; e poichè la lingua latina da molti eruditi gramatici di quella età fu ridotta a certi principj e a generali precetti, e i lessici ancora verso il tempo medesimo si cominciarono a usare; allora una maggior purità ed eleganza nello scrivere latinamente si vide con piacere ne’ libri a quel tempo venuti a luce; ed ora le cose sono a tale stato, che uno, purchè il voglia , può agevolmente scrivere con eleganza così in latino come in italiano. Amendue le lingue hanno le certe e determinate lor leggi; in amendue abbiamo egregi scrittori al cui esempio ci possiam conformare; sappiamo che a scriver bene ci convien seguir le vestigia da essi segnate, e quindi, ancorchè ci troviamo fra uomini (come accade nelle provincie d’Italia fuori della Toscana) che parlino, e talvolta ancora scrivano rozzamente, possiam [p. 53 modifica]nondimeno, se così ci piaccia, attenendoci alle leggi grammaticali che da ciascheduno si apprendono facilmente, e valendoci de’ buoni libri de’ quali abbiamo gran copia; possiam, dico, scrivendo con eleganza acquistarci lode o uguale, o inferiore di poco a quella de’ migliori autori che ci prendiamo a modello. XXXVI. Un’altra riflessione per ultimo gioverà , a mio credere, a mostrare sempre più chiara la verità di questo mio sentimento. Ne-, gli scrittori che fiorirono al fine del secolo xv [ e al principio del secolo xvi, noi veggiamo una scrupolosa, e direi quasi superstiziosa riflessione a tenersi lungi da qualunque menoma ombra dell’antica rozzezza, e a sfuggire qualunque parola, o qualunque espressione non fosse secondo i più perfetti esemplari dell’età di Augusto; affettazione graziosamente derisa da Erasmo nel suo Dialogo intitolato Ciceronianus. I misteri della religione, a spiegazione dei quali non potevano essi certo trovare negli antichi autori del secol d’oro le opportune espressioni , spiegavansi o con termini greci, o con lunghe perifrasi, e talvolta ancora con parole che troppo sapevano di gentilesimo per essere adattate a’ cristiani misteri. Una tale superstizione giunse perfino a far cambiare ad alcuni i natii lor nomi in altri presi da’ Latini o da’ Greci, come fecero il Parrasio, il Sannazzaro, il Paleario ed altri. E più oltre ancor giunse il P. Giampietro Maffei gesuita, se vero è ciò che di lui si racconta, cioè che per non contrarre punto di quella poco latina semplicità con cui sono scritte le preci ecclesiastiche, [p. 54 modifica]ottenesse di usar nella Messa e nel Divino Ufficio la lingua greca. Questo fu certamente un portare oltre i confini la premura di scrivere con eleganza. Ma da questo appunto noi conosciamo che que’ valent’uomini erano persuasi che la rozzezza dei tempi addietro era nata dall’uso promiscuo di libri scritti men coltamente; e che crederon perciò di non poter conseguire quella singolar purezza di stile , a cui aspiravano, se non allontanandosi da qualunque fonte men pura. XXXVII. Tutte queste circostanze diligentemente esaminate io penso che bastino a spiegare per qual ragione per tanti secoli appena vi sia stato un colto e pulito scrittor latino. Ed io mi lusingo di avere con ciò svolte e sviluppate le diverse origini e le diverse maniere dal decadimento degli studj. Il seguito della Storia ci darà successivamente le prove di ciò che finora si è detto ¡ e l’averne qui disputato con qualche esattezza gioverà a non arrestarci troppo per via per intendere le cagioni delle vicende che spesso ci avverrà di osservare nell’italiana letteratura.