Corto viaggio sentimentale e altri racconti inediti/Appendice prima

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Appendice prima

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Un contratto Appendice seconda
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APPENDICE PRIMA

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LA RICCHEZZA


Il vecchio Teretti era avviato a casa con una quantità di pacchi sotto le braccia. Aveva cambiati gli stivali della signora, era stato fino in via di Romagna a prendere pel padrone un pacco di semi da un giardiniere che pretendeva di aver coltivato un nuovo frutto, era stato per la signorina dalla sarta che lo aveva caricato di uno scatolone leggero, leggero, ma mastodontico, ed ora s’arrampicava per via Navali, la pipa eternamente in bocca perché non aveva mani libere per levarsela. «Dio santissimo! Che vita!» mormorava egli per dare un’occupazione di piú alla bocca. Era un vecchio ancora vegeto, la faccia tutta rughe e barba; la pelle un po’ incartapecorita stentava a lasciar posto agli occhi divenuti piú piccoli, ma lucenti, spesso di vino, sempre di bontà e di furberia. Aveva navigato per molti anni e visto che amava di predire il tempo e di raccontare avventure marinaresche lo chiamavano: “Il Capitanio”. Erano per la maggior parte avventure inventate tant’è vero che variavano con l’andar degli anni. A sentirlo a lui aveva naufragato una quindicina mentre c’era di vero che aveva naufragato una sola ed unica volta. Dopo di aver visto da vicino l’impotenza dell’uomo negli elementi ciechi infuriati aveva detto al mare: «Ah! vecchio traditore! Porti via il timone prima, poi l’elica, poi mandi sugli scogli chi s’affidò a te, e non basta ancora? Tendi proprio a strapparci addirittura la pelle?». In quel primo e ultimo naufragio fece il voto solenne di non abbandonare mai piú la solida, sicura terra. «Tardi, ma a tempo!» E parlando del suo mutamento di vita aveva pel mare delle ironie e delle derisioni che se le avesse intese lo avrebbero, certo, offeso. «È troppo umido!» diceva. «Quando è morto è piú agitato che non quando è vivo; ritornerò a lui quando sarà morto davvero. E gli occhi gli lucevano piú dell’usato quando pensava che il mare lo aveva lasciato invecchiare pensando di essere [p. 414 modifica]sempre a tempo di mangiarselo, ma che lui gliel’aveva fatta scappando a tempo.

La terra era solida davvero e Teretti vi aveva preso piede fermo. Era divenuto l’uomo di fiducia del signor Bansi, un vecchio signore ricchissimo che amministrava da sé i suoi beni ed aveva bisogno – abitando una villa lontana dalla città – di persona di fiducia che corresse per lui il giorno intero. A Teretti pareva d’essere divenuto uno di quei piccoli battelli che fanno il servizio interno dei porti e corrono tutto il giorno sú e giú e non gli dispiaceva. Sarebbe stato difficile a lui di trovare altra occupazione e poi era sempre meglio movere le gambe che faticare con le braccia: Almeno si poteva discorrere, pensare ai fatti propri e — sopratutto — fumare.

Il momento piú cattivo della giornata era il famoso quarto d’ora, quello dei conti. Il vecchio signor Bansi era un uomo molto esatto, capace di regalare una lira ma non di dimenticare un centesimo. Voleva che ogni posta portasse il suo vero nome e il povero Teretti usciva ogni giorno con tre bollettini di carta che portavano con la bella, chiara scrittura del Bansi la designazione Famiglia, Campagna e Case. Bisognava che ogni spesa e incasso fossero notati sul bollettino competente e il saldo di tutt’e tre i foglietti dovevano essere identici alla somma di denaro che il Teretti aveva nell’unica tasca in cui si fidava di mettere del denaro. Dapprincipio non v’era giorno in cui non ci fossero delle differenze ma poi il Teretti si abituò anche ai conti e restarono solo gli errori per cui egli metteva nel bollettino Campagna le spese di famiglia o per la casa (un casone in Corso). Adesso fumando e correndo il Teretti si faceva rimprovero di aver messo quella spesa dei semi nel bollettino Campagna mentre gli pareva di aver capito che quei semi erano destinati alla signora che voleva metterli nel suo orticello per provarli e allora erano sprecati e dovevano andare nelle spese Famiglia. È vero che per un errore simile egli non perdeva nulla perché il signor Bansi gli avrebbe dato dell’imbecille per un quarto d’ora dedicato intiero a spiegazioni di contabilità ma poi gli avrebbe stretta la mano con l’antica stima. Ma lo amareggiava. Ecco che lo [p. 415 modifica]avrebbero sgridato dopo ch’egli con le sue vecchie gambe aveva percorso per lungo e per largo la non piccola città. «Dio santissimo! Perché non se la fa lui tale distribuzione! Se guadagnassi la lotteria...!»

Sí! Dacché era stabilito in terra al Teretti era venuto il desiderio della ricchezza. In mare si pensa alla pelle, in terra alla proprietà. Vedere tutti quei denari che passavano per la sua tasca e sopratutto vederli registrare con tanta cura, gliene era venuto desiderio. In mare non aveva mai pensato ai denari. Eppure anche allora gli era piaciuto il buon bicchiere di vino e ci aveva avuta la sua vecchia moglie a casa cui bisognava ad ogni stazione mandare del denaro. Alla moglie egli diceva ogni sera stendendosi nel letto in luogo della buona notte: «Ah! Se guadagnassi la lotteria». E poi prima di chiudere gli occhi egli sognava di aver vinta la lotteria e si vedeva andare dal signor Bansi a dirgli: «Se vi tocca correre per la città, correteci voi stesso». La grande differenza fra mare e terra è che quando il mare infuria fa ballare tutti insieme mentre in terra v’è chi balla e chi fa ballare. Al signor Bansi egli non voleva male ma trovava che avendo tanto denaro avrebbe potuto essere meno spilorcio. «S’arrabbia per dieci centesimi! Io — se avessi il povero Capitano al mio servizio – gli regalerei non dieci centesimi ma ogni qualvolta me le avesse domandate dieci lire.» La moglie di Teretti diceva al [p. 416 modifica]


DIARIO DI BORDO


17 - 3 - 900 Fa un freddo cane. Ecco già che comincio a sentire qualche cosa e che per me il viaggio non sarà stato vano. La nave balla sulle onde in modo da farmi pensare che sia stata male ideata o male eseguita. Mi trovai sul ponte di comando col Navigatore e lo guardai nella faccia seria e dura di monomane. La tenue espressione che vi si può leggere mi parve d’inquietudine. Gli occhi seguivano con grande attenzione la cavalcata nel vero senso della parola del suo guscio strano e poco estetico. «Comandante» gli dissi molto serio «non le sembra che quella linea fosca all’orizzonte sia l’annunzio di un banco di ghiaccio?» Riottison puntò nella direzione della prora il canocchiale e lo riabbassò subito: «È della nebbia!» disse brevemente. Guardò una seconda volta e guardò piú a lungo: «È della nebbia!» ripeté. Austero e calmo diede un’indicazione al secondo ma io ebbi la soddisfazione di constatare la sua preoccupazione come se me l’avesse confessata. Riottison non soffriva certo di follia del dubbio. Usava guardare una volta sola ed essere certo come una macchina fotografica. Guardare due significava ch’egli sperava tanto nel ghiaccio da indursi a dubitare. Diavolo! Egli ha fabbricato il suo guscio per il ghiaccio e non vi sa giungere. Sarebbe bellissimo che questa nave fatta per giungere proprio al polo (non mica il magnetico, veh!, ma proprio il punto dove termina l’asse della terra) naufragasse a pochi chilometri dalla costa della Norvegia. Tanto avrebbe valso di ammazzarmi, come ne avevo fatto divisamento a Cristiania.

22 - 3 - 1900 Come sono pudorato! L’impedimento massimo alla continuazione di tale diario consiste nella mia paura che altri s’accorga di questa mia occupazione ch’è alquanto strana a tale grado d’altitudine. Bisogna però vedere chi sieno questi altri. Intanto Riottison un ambizioso implacabile, una complicazione di scienziato (scienze molto esatte) e di avven[p. 417 modifica]turiero. Fece tutta la sua vita tale mestiere e fino a un certo grado conosce tutto il mare glaciale. Mai però fece un viaggio dell’importanza di questo con tanti preparativi, dall’Albatros, la nave destinata a navigare nel ghiaccio ad ogni singolo uomo. Io lo conobbi durante questo viaggio soltanto e non posso fare confronti ma ritengo che alla partenza pel polo questa volta si pose definitivamente sulla sua dura fisonomia una linea dura di piú, un proposito violento. È di una famiglia di navigatori ma nessuno dei suoi predecessori ebbe il supremo comando in tale una spedizione. Egli vinse il pallio come carriera. Adesso vuole vincerlo come risultato. Parla del polo come sua meta ma io, che conosco meglio di lui l’animo suo dirò questo che annoto per vedere, se ne avrò il tempo, di confrontarlo con l’esito: Riottison probabilmente non giungerà al polo. Molti altri che avevano altrettanto duro metallo sulla fisonomia, tentarono e non arrivarono al polo. Riottison però è vera natura di combattente e tornerà vivo ad una condizione: Di avere cioè sorpassato di una frazione di grado tutti i suoi predecessori. Io, certo, mi troverò con lui. Come e perché due nature tanto dissimili come la mia e la sua si trovino unite è facile dire: Io mi legai a lui per vedere se vivere una vita come è la sua sia piú divertente che vegetare la mia. Egli poi non mi conosce. M’accettò a bordo in qualità di secondo medico per una certa sua idea di frazionare a un dato punto la spedizione. Se ora mi conoscesse, mi getterebbe in mare quale un peso inutile alla sua spedizione. La persona ch’è piú simile a me fra tutti costoro, è il medico Persich. Forse a lui potrei fare capire come il polo m’interessi mediocremente, le osservazioni scientifiche nulla affatto. È chiacchierino però e potrebbe riportare nei lunghi ozî cui è costretto le mie parole al Riottison. Ora io non so divertire me ma non voglio guastare i divertimenti agli altri e sarebbe un guastarli quello di confessare che fra loro, ragazzoni che credono d’essere dei grandi uomini perché arrischiano la vita ad uno scopo ideale solo perché manca di qualsiasi pretesto pratico, si trovi un Tizio come son io il quale non sa ammirare né chi vive né chi muore. Il medico Persich potrebbe forse comprendermi [p. 418 modifica]ma certo non approvarmi. Anche lui è qui per ambizione. Anzi quando con abilissime truffe riuscii a farmi ingaggiare, mi parve che non ne fosse molto soddisfatto. Fece qualche obbiezione motivata sulla mia forza fisica che non gli pareva sufficiente. Io indovinai però il movente segreto delle sue osservazioni e mentre un altro avrebbe spinto in fuori il petto per dimostrarne la gagliardia, io lo guardai col mio sguardo che non conosce la lotta, supplice, e fui subito accolto. La mia gioventú mi destina al primo posto in tale impresa ed è evidente che se una spedizione in slitte dovesse essere accompagnata da un medico, sarei io quello. Ma intanto, per quanto posso, mi caccio in disparte a bordo. Il primo posto lo lascio al Persich. È del resto uomo dalle maniere distinte, piccolo, tarchiato, ben conservato pei suoi quarantacinque anni, ma del resto canuto del tutto nella barba soffice e larga e nei capelli folti ma ritiratisi dalla fronte nata stretta e divenuta per tal modo larga. Persich è uno slavo prussificato di Posnania e parla tanto di spesso della sua piccola città che io credo corra un tale rischio perché a Posnania si parli di lui. Il secondo di bordo è un cugino di Riottison, certo Mayer, un giovinetto di 25 anni. Fu senza dubbio sedotto dal cugino piú anziano a correre un simile rischio ma ora è convinto marcio. Imita un po’ la serietà [p. 419 modifica]


UNA BELLA GIORNATA D’INVERNO


Il professore dalla mattina in poi s’era dedicato alla lettura di un’opera latina del Petrarca. A mezzodí scorgendo dalla sua villa il pallido verde dell’erba non ancora ben appassita nel mitissimo inverno lasciò le sue carte e imprese una passeggiatina. Respirando l’aria fresca pensò in faccia al sole abbagliante: Vengo dal Medio Evo ed eccomi qui in un balzo. L’aria, il sole sono veramente moderni perché nessun’arte antica seppe tramandarceli né col pennello che non sa la luce né con la parola che non sa neppure le linee. E questo sole e quest’aria morranno con me.

Il professore era stato reso moderno dalla guerra cui aveva brevemente partecipato fino ad una lieve ferita seguita da una grave malattia. Poi dal letto e anche quando l’aveva lasciato era ritornato ai suoi cari studii ma non seppe piú dimenticare il mondo nel quale viveva e che con tanta energia l’aveva richiamato a sé. Appassionatamente l’aveva vissuto. Dapprima seguí tutte le esperienze del dopo-guerra. Guardò fra un libro latino e l’altro con piena speranza alla Russia; poi sempre nell’intervallo che l’antichità gli lasciava fu tutto decisamente conservatore. Non aveva mai domandato niente né ai bolscevichi né ai fascisti ma sentiva e ricordava di aver rinnegato e abiurato piú volte in brevissimo tempo. Dio mio! Non si può mica pretendere che un uomo che viene direttamente se non dal Medio Evo almeno dal Rinascimento si ravvisi cosí presto ed occupi definitivamente un posto a questo mondo come chi vi è nato. Ma moderno rimase perché egli aveva oramai appreso quanti treni al giorno occorressero per approvvigionare una città. Anzi di piú: Con quell’istinto alla matematica dell’uomo moderno egli aveva anche calcolato quanti vagoni avessero dovuto viaggiare per nutrire lui fino all’età di trent’anni. È un calcolo presto fatto questo quando si sono pesati per un giorno solo i proprii cibi (eliminazione [p. 420 modifica]dei liquidi che arrivano per tubi) e si è provato il peso dei proprii stivali e vestiti. Non sono mica pochi i vagoni che camminano per nutrire e coprire per trent’anni cosí un omino lungo 1 m. e 75 cent. E quanta gente intorno a quei vagoni, ridotti alla schiavitú secondo i bolscevichi e invece, secondo i Manchesteriani forniti del pretesto alla vita. Ed ora che il professore s’era fatto Manchesteriano vedeva con dolce soddisfazione tutta quella gente portargli ogni tanto tempo il suo vagone traverso una campagna fiorita sulle rotaie che risparmiano tanta fatica. [p. 421 modifica]


IL GIOVINE MEDICO


Il giovine medico si avviava di sera accompagnato dalla sua fidanzata verso l’ospedale. Erano ambedue giovini e belli e si sentivano associati dal loro amore e dalla loro speranza. Incombeva la notte e la giovinetta sentiva meglio il pericolo a cui il suo caro si esponeva. «Sí!» sospirava «devi fare il tuo dovere, ma fa attenzione. Non hai bisogno di toccare l’ammalato. Per studiarlo ti basta guardarlo.» Il giovine medico uso già da tanto tempo a considerarsi immune dalle infezioni cui si esponeva sorrise. Il mestiere dev’essere fatto e la malattia cui ora si esponeva gli sembrava la meno pericolosa. Veniva dall’India ed era di decorso breve. Una febbre intensa che doveva essere dolorosissima perché induceva il malato al suicidio. Se si arrivava ad impedirgli l’autodistruzione in breve la febbre spariva, subentrava un’improvvisa euforia e il malato era salvo. Poteva anche essere avvicinato poi perché non v’era caso in cui il morbo si fosse propagato da chi lo aveva superato. Queste le notizie che si erano avute delle esperienze fatte all’India. Nella nostra città questo era il primo caso toccato ad un marinaio giuntovi da poco ed i medici lo assistevano con interesse scientifico piú che umano.

«Capirai» disse il giovine «che se seppi sfuggire al tifo e al colera saprò anche fuggire a una malattia che per compire il suo ciclo deve invocare anche il mio aiuto. Non lo compirà dunque.» Le strinse affettuosamente il braccio che aveva afferrato. Poi rise: «Il suicidio! Pensa se saprei rinunziare a te». Guardò la piccola fronte di marmo, gli occhi dalle linee precise su cui le ciglia lunghe gettavano un’ombra che ne compiva il disegno delizioso, la boccuccia breve ed alta per l’arricciamento ancora infantile delle labbra. «Rinunziare a te e alla vita!» E pensò anche alla vita che gli si avvicinava bella comoda col successo nella sua professione cui era giunto con tanto sacrifizio, con tanto sforzo. Ora i colleghi lo stimavano. [p. 422 modifica]Presto anche il pubblico avrebbe saputo com’egli sapeva udire, vedere e ricordare in modo da piazzare ogni sintomo al suo posto e assegnargli la sua vera importanza. Tante volte già aveva indovinato delle diagnosi difficili. Quel giorno stesso aveva guidato il coltello di un operatore che non voleva convincersi dell’esattezza di una sua diagnosi. E non ricordò che la sua gioia circondava una tragedia. Perché l’operazione aveva provato l’inanità di ogni sforzo per salvare il malato. Ma egli rise lungamente al ricordo. Egli aveva spiato quell’organismo che si disfaceva senza produrre dolori, febbri, grandi reazioni. Lo aveva scoperto e rivelato. Ora poteva disfarsi senza rimpianto. Era servito al suo trionfo.

Procedettero lenti nella penombra della via ancora affollata. Ad ambedue sembrava che tutti gli altri che si movevano dinanzi a loro avessero una vita meno importante e meno sicura della loro. La fanciulla pensò: “Chi altri è amata come me da persona tanto importante che dispone della vita del prossimo e premendo sulla loro vita ne estraggono delle rimunerazioni tanto elevate che rendono la vita tanto facile?”. E pensò ancora: “I nostri figliuoli saranno belli e forti come son io ed è lui ma entreranno nella vita con maggior facilità e vi si svilupperanno con maggior ampiezza dati i mezzi che troveranno al loro nascere. Anche le fidanzate dei medici adorano la medicina”.

E lui pensò: “Cara! Io infiorerò la tua via. Sarai la mia regina e perciò anche superiore a tutte le altre. Ed io poi [p. 423 modifica]


COME NON SI DEVE GUIDARE


A quarant’anni il signor Refossi ebbe finalmente i mezzi di acquistare una macchina. Spese circa ventimila lire e, a calcoli fatti, prevedendo anche il consumo delle gomme con la sua macchina leggera avrebbe speso tanto di benzina che giornalmente avrebbe avuto un vantaggio di qualche poco in confronto alla spesa del tranvai di Opcina ch’è tanto elevata. Naturalmente quando sarebbe sceso in città suo figlio che quel giorno era lievemente indisposto. Il suo maestro gli aveva spiegato ed egli aveva fatto anche la sua praticaccia su una pista. La legge della via era facile. La destra, in certi casi la sinistra. Niente di piú facile. Si pensa alle proprie braccia e si scopre la parte debole ch’è la sinistra, la parte meno abile meno pronta, la parte dell’organismo un po’ paralizzata. L’altra è la destra.

Uscí dal garage con attenzione e piena decisione. Era un po’ stretta l’uscita ma il signor Refossi aveva già una pratica dei passaggi stretti. Bisognava abbandonarsi alla propria ispirazione. Lavorando troppo sul volante lasciandosi guidare dai dubbî si poteva finire male. Dove passavano i parafanghi passava tutta la macchina. La piccola deviazione che si doveva fare dapprima e che rendeva difficile l’uscita doveva essere dimenticata. Tutto il resto era rigidamente diritto.

Ma quale sollievo arrivare alla via larga! Non tenere troppo la destra perché il prossimo è tanto pazzo che poteva seguire la parte non sua e allora bisognava essere pronto di correggere con rapida decisione l’errore altrui e passare a sinistra (la parte debole, quella quasi paralizzata, forse da un errore d’educazione che si poteva rimpiangere) perché qui l’errore altrui diveniva il danno proprio. Bisognava essere pronti a tutto per non uccidere e non essere uccisi. Anche il primo caso era carico di lungo dolore. Pensare ai propri defunti (come il signor Refossi aveva sentito dire che un assassino chiamava [p. 424 modifica]quelli ch’egli aveva mandati al di là) doveva essere una cosa greve anche quando non c’era stato malanimo: Uccisione preterintenzionale la dicevano i legali. Curiosi uomini costoro! Avevano saputo qualificare ogni accidente ed ogni colpa, le due catastrofi che interrompevano (o facevano?) la vita.

La via bella è il chiaro indizio della ricchezza della nazione. Ma la polvere annebbia le nostre vie e – dicesi – che in Inghilterra paese ricco non ce ne sia. Quei ladroni! Svaligiarono l’India ed allora è facile scopare le proprie strade coi soldi altrui. Opcina da alcuni anni ha la strada maestra asfaltata e quasi priva di polvere. Non ce n’è che quella che viene portata dalle altre strade. Veicoli e uomini prima di aver l’accesso a questa strada dovrebbero essere sottoposti ad accurata pulitura.

Ecco l’obelisco. Bella pietra e bel ricordo. Costituzione, l’imperat. Franz: Chi lo sa? Ora si va in giú per una lunga via tortuosa composta da due braccia: Una che conduce fino ad una fabbrica munita di alto camino, lunga lunga e che porta a 150 metri d’altezza dal mare. L’altra riconduce alla città da cui con la prima ci si allontanò.

Il volante mangia il paesaggio e il signor Refossi non osò guardare quella vista che, secondo il Humboldt, dovrebbe essere in fatto di bellezza la sesta di questo mondo. Eppure il Humboldt aveva conosciuto Rio de Janeiro.

Ma vide invece il paesaggio. Le linee gliene erano note. Arrivò – senz’accorgersene – ad aggiungervi il colore di quel giorno. Netta la città (da lontano appariva tale) linee precise, col bosco dirimpetto verde ad onta della lunga siccità denso di querce, una derisione del Carso. E il mare? A Trieste è bello quando soffia il borino. Una sorpresa. Un colore azzurro verdeggiante. Il mare è crudo, pensò il signor Refossi e rimase stupito della propria idea. Perché crudo? Esiste un colore di cosa cruda: La vita è cruda. Il colore della cosa cruda è molto vivo, un po’ stridente. Il fuoco lo muta e l’attenua. Quel giorno il mare stonava [p. 425 modifica]


LIVIA


Dopo di essersi convinta ch’Ettore era ben morto (diamine! da sei mesi non lo si vedeva piú) Livia si lasciò convincere di accettare un altro sposo. Lo accolse onestamente convinta di volergli bene. Era un bell’uomo, alto, diritto, forte, con bellissimi denti e un paio di mustacchi tutt’altro che fin de siècle; last but least era ricco. Prima dell’intervista Olga le tenne una predica. Dubitava ella stessa del novello amore della figliuola e voleva spiegarle per bene che quello che nella relazione non venisse dettato dal cuore doveva essere suggerito dall’interesse. «Comportati bene e pensa che per noi è forse una fortuna ch’Ettore sia morto. Questo qui ha...» e fece con la bocca una smorfia che significava denaro. Livia non protestò: Era troppo evidente e sarebbe stato una mancanza di buon senso di voler protestare. Emise un sospiro pensando all’assente ch’era morto, rammentò che l’unica raccomandazione ch’egli le avesse lasciata era stata d’essere felice e... si rassegnò. Disse al nuovo venuto di volergli bene da lungo tempo; lo aveva conosciuto quando Ettore era ancora vivo e se non gli aveva voluto bene subito, era stato causa il destino che l’aveva fatta fidanzare prima. L’altro ascoltava molto convinto della propria buona fortuna e lisciandosi i bei mustacchi neri disse con calma e un sorriso che non significava certo sorpresa: «Lo so, lo so! Me ne ero accorto». Livia ne restò sorpresa. Cosí ella non l’intendeva e nei panni dello sposo ella veramente avrebbe dubitato. Come era facile ingannare costui! Ettore cacciava il dubbio da per tutto, il nuovo sposo era subito convinto di qualunque dichiarazione. Olga uscí per lasciar tempo ai due di conoscersi meglio. Egli se la prese subito fra le braccia e le cacciò sulla bocca un bacio da conquistatore; a lei la cosa sembrava un po’ dura ma si rammentò delle raccomandazioni della madre e rispose con un gesto di contentezza all’abbraccio subito cessato per un rumore alla porta (l’anima di Et[p. 426 modifica]tore che buligava). 1. Cosí erano d’accordo! Soltanto dopo egli cominciò una lunga chiacchierata evidentemente da parecchio tempo preparata in cui le spiegò per lungo e per largo che cosa fosse per lui l’ideale delle mogli. In qualche parte disse anche delle parole già dette da Ettore. Anch’egli sposava una donna per tenersela tutta per sé. Soltanto con la differenza ch’Ettore non aveva detto che la moglie di Cesare non dovesse dar occasione neppure a parole, la moglie d’Ettore non era la moglie di Cesare. «Il passato ti appartiene!» aggiunse. «Ma» e s’arricciò i mustacchi con un gesto imperativo «voglio conoscerlo.» Ella glielo raccontò con qualche esitazione. Gli parlò di K. ed egli non fiatò. Gli parlò di M. ed egli la derise. Finalmente ella volle parlare di Ettore ma egli la interruppe: «Il ricordo di quello lí non mi fa paura» disse con una superiorità calma che fece scricchiare dolorosamente la porta. «Tua madre m’ha già detto che lo prendevi per compassione.» Ella lo guardò stupefatta ma la cosa era troppo comoda ed ella non protestò. Ettore era ben morto eppure moriva una seconda volta. [p. 427 modifica]

LA BORA


...in mare. Ma la signora continuava a sbadigliare e Emilio alla disperazione si gettò di nuovo a fare della fisiologia della bora.

«Non è traditrice la bora e se appare cosí è perché si ha il torto di considerarla come una cosa sola mentre si compone di migliaia di soffi che i naturalisti sanno poiché coincidono in tempo e spazio ma dei quali, garantisco, uno non sa dell’altro. Indisciplinati, a casaccio, uno segue l’altro, ora immediatamente quasi fondendosi con esso, ora con piú secondi d’intervallo, e passano via infuriando sugli ostacoli, non tutti col medesimo suono, alcuni urlando con grande voce di bestia arrabbiata ma sana, altri cantando in falsetto, altri finalmente fischiando, ma sinistramente. Non mi pare che in nessuno dei loro suoni si possa sentire l’ironia che i poeti vi sentono. Chi prenderebbero in giro? Se non conoscono nessuno, quei nomadi, non conoscendosi neppure fra di loro?»

La signora sorrise e Emilio credendo di aver trovato il modo di divertirla continuò a personificare il suo oggetto: «Se si volesse personificare la bora si dovrebbe attribuirle una faccia molto seria. Anche stando a udirla da un luogo riparato non si sa goderne e non perché si pensi a propri simili i quali corrono il rischio di fare qualche brutto viaggio involontario ma perché quei suoni metà gemito e metà minaccia, circondano la casa di tale malevolenza che anche trovandosi al sicuro turba o almeno disturba».

La signora lo interruppe: «Lo so. La bora non può avere una faccia allegra; come scherzo dura troppo».

Emilio comprese e tacque ma si vendicò. La dimane la condusse al castelliere del Montebello; le fece cioè fare due ore di cammino per vedere pochi sassi, vera pietra bianca d’Istria. [p. 428 modifica]


LE CONFESSIONI DEL VEGLIARDO


Il 2 Gennaio 1927 il signor Giovanni Respiro scriveva in un libro che aveva acquistato per dedicarlo alle proprie memorie: “Io nacqui il 19 dicembre 1861. Ma quando nacqui in modo tanto chiaro da poterlo ricordare? Io credo che ciò sia avvenuto nel 1866. Avevo tanto desiderato di andare alla scuola e finalmente vi andai. Giunto alla scuola devo però essere stato offeso, seccato o minacciato da qualche conscolaro o dal maestro perché ricordo che m’attaccai alla porta che conduceva alla scala d’uscita e perciò al posto piú vicino alla mia casa ed a mamma mia. Vi restai per delle ore perché non mi permisero di uscire dalla scuola ma neppure seppero strapparmi di là. Non volevano degli scandali e mi lasciarono piangere a quel posto di un pianto dapprima violento che poi si mitigò perché mi lasciarono solo, solo, attaccato a quella maniglia. Nella solitudine il pianto s’affievolí. Forse io lo continuavo soltanto per essere piú pronto a riprenderlo quando fosse capitato qualcuno. Cosí il mio chauffeur lascia camminare il motore quando ci fermiamo per breve tempo onde risparmiarsi la pena di rimetterlo in movimento”.

Ma il giorno appresso ebbe il desiderio di correggere questo primo breve squarcio. Intanto era vero che qualcuno alla scuola lo aveva offeso: Gli parve invece di ricordare che dopo di aver tanto desiderato di andare a scuola, una volta che fu costretto di allontanarsi dalla mamma, il soddisfacimento del suo desiderio gli parve un’avventura atroce. “Ma posso raccontare questo?” si chiese il vecchio. “Non crederanno che io dalla nascita in poi sia stato uno stupido?" Avendo tanti anni era molto difficile di ricordare la propria nascita.

E dopo alcuni giorni fu anche peggio. Egli cominciò a dubitare di essere proprio nato con quel pianto. Prima c’erano

Note

  1. Espressione dialettale per dire si agitava.